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Proposte per la Cassazione - Judicium

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Academic year: 2022

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GIOVANNI VERDE

Proposte per la Cassazione

(Testo dell’intervento all’incontro sulla funzione di nomofilachia svolto presso la Corte di cassazione il 1.3.2016)

Sul finire degli anni Ottanta l'associazione dei processualisti incaricò Fabbrini, Proto Pisani e me di redigere un progetto di riforma del codice di rito civile. Il progetto fu a base della legge del '90 che è stata, se mi è consentita la presunzione, l'ultima legge processuale civile di qualche pregio. In quella occasione ci chiedemmo se si potesse intervenire sul giudizio di cassazione.

Concludemmo che non c'era intervento da suggerire in quanto il processo dinanzi alla Corte di cassazione è estremamente semplificato, è una sorta di non processo, di tal che i tempi per concluderlo sono soltanto i tempi morti derivanti da problemi di personale e di organizzazione.

In questi ultimi quindici anni è ripreso il furore riformatore non solo da parte del legislatore, ma da parte della stessa magistratura, dettato, oltre che dalla esaltazione del ruolo cd.

nomofilattico delle Corti superiori, dalla esigenza di contenere i flussi di ricorsi che si vanno accumulando dinanzi al giudice di legittimità e di ridurre i tempi processuali. In disparte che la Corte è appesantita dalla estrema facilità con cui è possibile ricorrere alla stessa in materia penale per pronunce che non riguardano la condanna o l'assoluzione (così che è da auspicare che possa non trarsi benefici da qualche modifica al nostro complessivo sistema di diritto e processo penale) e dall'enorme contenzioso in materia tributaria (riguardo al quale la funzione nomofilattica della Corte e sopraffatta dall'esigenza di esercitare un doveroso controllo sull'operato delle Commissioni tributarie), sta di fatto che gli interventi finora operati non solo non hanno risolto il problema, ma, se vogliamo, l'hanno aggravato.

Vorrei sbagliare. Temo che se taluno fra qualche decennio volesse scrivere una storia della Corte di cassazione di questi anni, non potrebbe non rilevare che è stata intessuta di vicende non esaltanti. Non è stata tale la gestione dell'introduzione del quesito di diritto, nata dall'idea, rilevatasi fallace, che in tal modo si sarebbero resi i difensori più consapevoli delle caratteristiche proprie del giudizio di cassazione e che i giudici sarebbero stati facilitati nel loro compito di giudicare. Come sappiamo la riforma è stata abrogata a furor di popolo. Non lo è stata l'escogitazione dei giudici di pretendere che il ricorso contenga, a pena di inammissibilità, tutte le indicazioni necessarie per decidere (quasi che il giudice non debba aprire il fascicolo processuale). L'autosufficienza, nei termini in cui è stata praticata, si è risolta in un boomerang, al punto tale che si sono sanzionati ricorsi per troppa sufficienza. E oggi è in atto una rimeditazione da parte degli stessi giudici della Corte per attenuare gli eccessi di

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formalismo che hanno caratterizzato la vicenda. E non sono state vicende indolori, perchè costellate di pronunce che spesso si sono risolte in vera e propria denegata giustizia.

Le altre strade, che si stanno percorrendo, sono quelle di una drastica riduzione dei motivi di ricorso in maniera da ricondurre il controllo della Cassazione alla mera legalità e di una preliminare opera di decimazione, che, come tutte le opere di decimazione, sono condotte in base a valutazioni non affidabili o che, comunque, all'utente non appaiono tali. Fa male -e lo dico con dolore avendo a cuore le sorti della magistratura, della quale ho fatto parte e alla quale continuo ad essere sentimentalmente legato- sentire parlare della sesta Sezione civile della Cassazione come di un plotone di esecuzione. E, di conseguenza, non è possibile sottovalutare l'impatto negativo sull'immaginario collettivo di un giudice, quello di legittimità, preoccupato più dell'esigenza di contenere i numeri che di quella dell'esercizio della giurisdizione o, se si preferisce, dell'esercizio della giurisdizione in funzione del contenimento dei numeri. La perdita secca in termini di credibilità dell'istituzione è evidente.

L'esclusione del controllo sulla motivazione non mi ha mai convinto nella misura in cui un errore nella costruzione degli enunciati fattuali non può non influire sulla corretta soluzione della controversia per ciò che riguarda la questione di diritto e che la configurazione dell'enunciato fattuale è condizionata dalla corretta enucleazione della regola applicabile. Si tratta di un rapporto biunivoco indissolubile che si risolve soltanto a patto di un'operazione arbitraria. Ma tutto ciò è dottrina e la presente sede non si presta alla speculazione dottrinaria. In questa sede è da chiedersi se in questo modo si risolva il problema di un numero di ricorsi eccessivo e contraddittorio con la funzione della Corte che deve, sì, rendere giustizia, ma deve anche assicurare che sia erogata in maniera omogenea. Francamente non lo ritengo e le alterne vicende collegate alla scrittura e riscrittura del n. 5 dell'art. 360 c,p,c, confermano la mia convinzione. Mi sembra che, in questo modo, non si tratti di numeri, ma si abbia a cuore, soprattutto o soltanto, la vocazione della Corte a potenziare il suo ruolo nomofilattico. Ma la nomofilachia è un mito, in cui dobbiamo credere; una religione, nella quale dobbiamo avere fede, se assumiamo come stella polare l'esigenza dell'eguale trattamento dinanzi ai giudici fissato nell'art. 3 Cost., nella consapevolezza, tuttavia, che abbiamo a che fare con una nobile aspirazione, con un obiettivo da perseguire, anche se non è e non può essere compiutamente realizzato.

Per controllare in maniera adeguata il flusso dei ricorsi vedo, piuttosto, tre strade: a) ripristinare l'istituto della cauzione in funzione di un'eventuale condanna a pagare non solo le spese all'altra parte, ma anche una somma all'erario a titolo di penale nel caso di ricorso inammissibile o manifestamente infondato; b) incidere sulla specifica competenza dei difensori, prendendo come termine di riferimento i sistemi di altri paesi (penso alla Francia o alla

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Germania) e in qualche modo tornando all'antico; c) stabilire limiti oggettivi, nel senso che (quanto meno per le cd. controversie bagatellari) il ricorso per cassazione sia ammissibile soltanto se la questione proposta abbia ripercussioni su casi analoghi e, quindi, comporti l'applicazione di principi di diritto utilizzabili altrove.

La prima via propone problemi di legittimità costituzionale in quanto negli anni Sessanta la Consulta ebbe a ritenere incompatibili con il diritto di azione e difesa istituti quali la cautio pro expensis. Erano tempi di vacche grasse in cui coltivavamo il sogno di una giustizia non oppressa dall'incubo della compatibilità con le esigenze di bilancio dello Stato. Oggi il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Si parla sempre più spesso dell'abuso del processo come di un criterio per valutare l'ammissibilità dello stesso esercizio dell'attività di azione e di difesa nel processo. Non è da escludere che il metro di giudizio della Consulta possa essere cambiato o possa cambiare.

La seconda strada, francamente, mi appare impraticabile. Si è costruita nel tempo un'organizzazione della professione forense che ha così tante incrostazioni e che è praticata da un numero così alto di avvocati abituati all'attuale assetto da fare ritenere impossibile un qualsiasi intervento riformatore che incida in maniera significativa sullo stato attuale. Una riforma potrà avere luogo soltanto per un fenomeno di naturale consumazione. Ma, considerato che oggi gli avvocati iscritti nell'albo di coloro che sono abilitati a patrocinare dinanzi alle magistrature superiori sono più di cinquantamila, una progressiva riduzione del numero avrebbe tempi troppo lunghi. E ciò anche se la stessa Avvocatura avverte la gravità del problema e sembra disponibile a cooperare per razionalizzare il sistema.

La terza strada sarebbe quella più semplice ed immediata. Anch'essa, però, è impopolare.

Quando era in discussione la riforma dell'art. 111 Cost. suggerii a qualche amico di prendere in considerazione una riscrittura del comma che prevede come ineludibile la garanzia del ricorso per cassazione per violazione di legge contro qualsiasi sentenza, intesa come provvedimento decisorio. Mi diede ascolto, forse per la stima e l'amicizia che ci legava, soltanto Leopoldo Elia, che mi inviò il testo di una proposta che aveva presentata a titolo personale, in quanto nessuno aveva voluto firmarla.

Soltanto in questo modo, tuttavia, si potrebbe affrontare di petto la questione e trovare soluzioni non aleatorie. Ma per muoversi in questa direzione occorre superare lo scoglio dell'impopolarità e le reazioni corporative, in particolare, mi duole ammetterlo, dell'avvocatura.

I tempi, come a riconosciuto in questa sede l'on. Ferranti, non sono maturi. Tuttavia, qualcosa è cambiato nel nostro comune sentire. La dottrina sull'abuso del processo; le aperture dell'Avvocatura e la stessa maniera di intendere il rapporto tra l'art. 111, co. 3° Cost e l'art. 65 ord. giud. lasciano intravedere che si è a metà di un lungo percorso e che resta da percorrere

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l'ultimo tratto. Del resto, quando si insiste sulla funzione nomofilattica della Corte di cassazione, si finisce con l'interpretare l'art. 111 Cost. in funzione dell'art.65 ord. giud., e non viceversa (così come era stato nelle intenzioni dei Costituenti). Riprendendo il fine discorso del presidente Pajno, è come se l'art. 111 co. 3° sottintenda una clausola inespressa per la quale, se è vero che i provvedimenti decisori sono sindacabili dalla Corte di cassazione per violazione di legge, questo vizio è ammesso al sindacato della Corte soltanto se la soluzione del caso abbia ricadute sul sistema della nostra giustizia, in quanto soltanto in tal modo si rende possibile la funzione nomofilattica cui la Corte è chiamata. Una riforma dell'art. 111, co. 3° Cost. lungi dall'avere una portata fortemente innovativa, finirebbe con l'avallare un dato del diritto vivente e soprattutto libererebbe la Corte di cassazione da un compito improprio, quale finisce con l'essere quello di praticare maltusiane decimazioni. Ma una riforma del genere imporrebbe anche una rivisitazione dell'intero sistema che negli ultimi anni si è mosso e ancora si sta muovendo nel senso di una continua erosione delle garanzie all'interno del giudizio di merito. In altri termini, una drastica riduzione della possibilità di ricorrere in Cassazione potrà essere assorbita dalla collettività nella misura in cui ritenga che il giudizio dinanzi ai giudici di merito sia stato esaustivo sul piano delle garanzie e, a mio avviso, non le è, se non si ha cura che in primo grado il processo sia gestito e deciso da un giudice la cui affidabilità è stata provata e se il giudizio di appello sia trasformato, come è nei fatti e come sarà ancora di più se saranno approvate le ennesime riforme al varo, da rimedio giustiziale in meccanismo di controllo dell'operato del primo giudice.

Dovremo abituarci al piccolo cabotaggio, fino a quando non saremo in grado di percorrere l'ultimo tratto del cammino iniziato; ossia fino a quando non ci renderemo pienamente conto che, in questo modo, non abbiamo una giustizia migliore, in quanto lasceremo sostanzialmente irrisolti i problemi che ci affliggono, e che il mantenimento di un generalizzato ricorso per cassazione, che la Corte avrà il compito di stroncare con valutazioni necessariamente superficiali e approssimate, soltanto formalmente rispetta il principio fissato dall'art. 111 Cost.

Quella in atto, ne saranno convinti anche i giudici di legittimità, che anche in questa sede l'hanno patrocinata e difesa, è un'operazione di sostanziale elusione del principio mascherata dal rispetto soltanto formale della regola e giustificata da una sorta di legittima difesa di fronte ad un numero enorme di ricorsi, spesso per questioni bagatellari. Un ulteriore esempio di ipocrisia nei comportamenti che ci condanna anche di fronte all'Europa. Penso che verrà un tempo in cui di ciò acquisteremo coscienza e sarà il tempo in cui potremo mettere mano a una riforma efficace.

Se ci dobbiamo accontentare del piccolo cabotaggio mi permetto di formulare qualche suggerimento. Gli artt. 377 e 379 stabiliscono che la conclusione del processo in cassazione avvenga in udienza, salvo che ricorrano i casi in cui si può decidere in camera di consiglio. La

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formula andrebbe rovesciata, così come già avviene dinanzi ai giudici di merito, nel senso che la decisione avviene in camera di consiglio e che si fa luogo alla pubblica udienza soltanto a seguito di motivata (e accolta) richiesta delle parti. Eviteremmo ciò che oramai si è ridotto a un simulacro, dal momento che, essendosi istituzionalizzato il sistema della precamera di consiglio, i difensori ben sanno che la causa è stata già decisa prima dell'udienza (e basta frequentare le aule della Corte per constatare che oramai gli avvocati hanno perso, almeno nel processo civile, l'abitudine di discutere, avendone constatata l'inutilità). In questo modo sarebbe possibile semplificare una disciplina (quella fissata dagli artt. 375, 376, 377, 380 bis, 380 ter) complicata e farraginosa.

L'art. 379, poi, prevede che il pubblico ministero concluda. E' un retaggio anacronistico, in contrasto, a me sembra, con il principio della paritaria difesa, in quanto le sue conclusioni non sono conosciute prima dalle parti così che possano adeguatamente replicare. E le parti, nell'attuale sistema, continuano – non dimentichiamolo – ad essere le protagoniste principali della vicenda processuale, perché il ricorso è azionato, ancora oggi, nel loro interesse, a loro rischio e pericolo, e non nell'interesse esclusivo della legge. Quanto meno dinanzi alle Sezioni semplici, si potrebbero sostituire le conclusioni del p.m. in udienza con conclusioni sinteticamente motivate che il p.m. potrebbe valutare se è il caso di depositare in maniera che le parti ne possano prendere visione; e ciò con un guadagno in termini di utilizzazione del personale e con un maggiore rispetto per le esigenze della difesa. Lascerei la pubblica udienza con la necessaria presenza del pubblico ministero soltanto dinanzi alle Sezioni Unite.

Credo che qualcosa si possa fare sul piano dell'organizzazione. Ci sono da sfruttare le potenzialità che offrono l'informatizzazione dei servizi e il processo telematico. E' possibile utilizzare meglio i magistrati addetti al Massimario e, se ci sono o ci saranno, gli addetti all'ufficio del giudice, a patto che, non essendo investiti della funzione del giudicare in concreto, non siano educati a scrivere relazioni che imitino i trattati di dottrina. Già abbiamo la iattura delle sentenze trattato, che andrebbero contrastate dal primo Presidente non meno dei ricorsi o dei controricorsi eccessivamente prolissi e, spesso, inconcludenti. Cerchiamo di contenere i difetti e di non creare occasioni per accrescerli.

Un'ultima considerazione. Leggo nelle note di presentazione dell'incontro che "il diritto non trova la propria fonte unicamente nella legge ma può essere di provenienza diversa, in primo luogo, giurisprudenziale" e che "la (relativa) responsabilità,... nella postmodernità grava sulla giurisdizione, ...in primo luogo, sulla Corte regolatrice". Il diritto vivente, insomma, ha scavalcato il disegno dei Costituenti, che avevano costruito la magistratura sul modello burocratico-autoreferenziale, pensando alla "soggezione" del giudice alla legge (art.101). Se questo è un dato incontrovertibile, il problema della selezione di un giudice che colloquia, da

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pari a pari, con il potere legislativo non potrà essere ulteriormente eluso. E' questa la madre di tutti i problemi, anche se i politici sembrano non accorgersene o non essersene accorti; almeno finora.

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