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Brevità, concentrazione, non-ripetizione - Judicium

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Academic year: 2022

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BRUNO CAPPONI

Brevità, concentrazione, non-ripetizione

È noto che Stendhal fondava la sua teoria dello stile letterario sulla precisione e concisione del Code Napoléon; mentre Pascal, dovendosi scusare di qualcosa, era solito ripetere: Je ai fait cette lettre plus longue d’habitude parceque je n’ai pas de temps pour faire la plus courte.

Esistono, in tempi più recenti, veri e propri mostri di concisione: si pensi a Einstein, che ha saputo sintetizzare la sua teoria della relatività generale in una formula la cui riproduzione impegna pochi tratti di penna (o tre digitazioni sulla tastiera).

E si pensi al vero universo di conoscenza che si nasconde dietro la semplice frase: «so di non sapere» (A.CAMPANILE, Vita di Socrate, in Vite degli uomini illustri, Rizzoli, Milano, 1975, p. 11 e ss.), massima che consacrò un’intera scuola filosofica («Dove siamo arrivati. Oggigiorno montano in cattedra persino quelli che confessano di non sapere»: così CAMPANILE, op. cit., p. 15).

La più nota poesia di Ungaretti è di solo tre parole (secondo alcuni due), e la si capisce soltanto leggendone il titolo.

Un po’ dappertutto, la concisione è un valore.

*

Non deve quindi sorprendere se il Primo Presidente della Suprema Corte abbia invitato il Presidente del CNF a “collaborare” perché gli atti che si scambiano nel giudizio di legittimità siano sintetici e chiari.

Piuttosto, sorprende il fatto che la lettera è dello scorso giugno, e se ne parli soltanto ora; tra qualche mese, forse, potremo conoscere la risposta del Presidente del CNF. Salvo che, accogliendo l’invito alla sinteticità, questi non abbia scelto la risposta più sintetica in assoluto, che a volte è anche la più gravida di significati.

*

Credo che il Presidente Santacroce, che è uomo di ottima penna e ottime letture, abbia perfettamente ragione; e la Corte, come altre Corti, dovrebbe avere il potere di dare indicazioni vincolanti sulle caratteristiche degli atti che è destinata a ricevere; un po’ come fanno gli ospedali – parlo di un servizio pubblico di livello omologabile – quando consigliano “venga digiuno”, “venga accompagnato”, “sospenda la terapia farmacologica”. Ben vengano i formulari, le schede, i motivi pre-stampati, i modelli di doglianze, i limiti – derogabili solo in eccezionali casi – di estensione degli atti.

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Un giudice dovrebbe poter dire: se, nelle prime venti pagine del tuo atto, ancora non mi hai fatto chiaramente capire cosa vuoi, il resto non lo leggo. Dedico il mio tempo, che è risorsa preziosa, a chi sa meglio spiegarsi, o che ha bisogno di più parole per spiegarsi al meglio. Del resto, non da oggi degli atti processuali è diffusa la c.d. lettura “trasversale”, che insegue i paragrafi in apertura e chiusura per verificare se presentino qualche novità rispetto a quelli degli atti che precedono. Per verificare se l’avvocato o il magistrato stiano facendo la lettura trasversale basta osservare i movimenti del capo: da sinistra verso destra, la lettura è orizzontale; dall’alto verso il basso, è trasversale. E molto più veloce.

L’esempio chiarisce che non soltanto i giudici sono vittime dell’abolizione del bollo sul formato protocollo e del sistema del contributo unificato. Le prime vittime sono anzi gli stessi avvocati, che sin dai gradi di merito (in questo mi permetto di dissentire dall’amico Beppe Miccolis) vengono invogliati a contribuire alla deforestazione del pianeta: sfido chiunque, sulla base dell’esperienza, a dimostrare che, dopo gli atti introduttivi, servono tre memorie prima di aver accesso all’udienza istruttoria. È quindi sin dall’inizio del giudizio che l’avvocato viene condotto a ri-scrivere il già scritto e, fatalmente, a ri-leggere il già letto. Carnefice e vittima, come in ogni farsa che si rispetti.

Con un involontario effetto comico, insito nella stessa tecnica della ripetizione.

L’avvocato è la prima vittima in ordine di tempo: perché legge, di norma, prima del giudice, del quale diviene poi in pari misura carnefice.

L’opera di affastellamento indiscriminato e irrazionale, che è alla base della produzione degli atti giudiziari, s’aggrava inevitabilmente col passaggio dei gradi, perché la preoccupazione che prevale è quella di dar conto di tutto, e di non cadere in errori di omissione.

L’atto conosce, nel processo, un vero e proprio effetto-valanga: da quello introduttivo (citazione, comparsa) figliano tre memorie (art. 183 c.p.c.), e tutto poi si cumula in conclusionale e repliche, incorporando istanze e altre memorie di passaggio, se ve ne siano state. Questi atti finali (una volta pomposamente definiti “difese collegiali”) costituiscono l’architrave dell’atto introduttivo nel giudizio di appello.

Prima della cassazione, vogliamo allora brevemente parlare dell’appello?

*

Dopo la riforma “estiva” delle impugnazioni, di cui tanto s’è detto anche su Judicium, leggere le difese nei giudizi di appello è diventata occasione di indicibile tristezza. Anche gli avvocati tradizionalmente meno portati a cincischiare con l’esoterica procedura prendono coraggio, si attrezzano a metter su eccezioni legate alla tecnica di redazione dell’atto di appello, che sarà sempre carente. È lo stesso legislatore che li spinge a farlo, non possono sottrarsi. È la spietata logica dell’advocatus advocati lupus. Manca la ricostruzione del fatto alternativa, manca l’indicazione della norma violata, la lettura corretta che se ne dovrebbe dare e le conseguenze sul decisum di

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primo grado, manca l’indicazione del punto che si intende gravare, manca la citazione della frase principale che regge la prima formula del dispositivo, manca la visione alternativa del giudizio nella combinazione fatto-diritto o, peggio, il “progetto di sentenza” che al giudice d’appello si chiede più o meno di coonestare. I motivi non sono mai abbastanza specifici, non si spiega perché la sentenza è ingiusta; il processo, prima che sulla causa, è sul processo stesso.

Anziani avvocati ti telefonano per lamentarsi: “Pensa te, dopo quarant’anni di professione non so più come si fa un atto d’appello, un ricorso per cassazione. Mi hanno già dichiarato inammissibili quattro appelli e cinque ricorsi. Ma secondo te, il nuovo 342 cosa ha voluto dire?”. Molti si ritirano, per lasciar spazio alle giovani generazioni che ne sanno ancor meno.

In conseguenza, gli atti lievitano. Chi volesse premunirsi rispetto a simili eccezioni, che orecchiano di precedenti rimbalzati da siti e da mailing-list ove la procedura è in mani tutt’altro che sicure, dovrebbe concepire un’elaborata premessa dell’atto di appello dedicata soltanto alla sua ammissibilità, con la trattazione ordinata delle questioni relative al come l’impugnazione viene introdotta ed al perché possa essere decisa nel merito. Una decina di pagine almeno.

Il tutto viene poi di conseguenza. Ultimamente, un vecchio avvocato mi ha confidato: «pensa te, avevo fatto un atto d’appello di cinquanta pagine. Potevo mai fare un ricorso per cassazione che fosse meno di cento?».

La maggiore importanza del giudice si traduce in maggiore lunghezza degli atti, non solo per ossequio alla magistratura superiore ma anche perché nelle fasi di impugnazione c’è tutto un fertile repertorio di inammissibilità (a volte occulto) in cui è quasi fatale incappare, anche perché i ricorsi vengono decisi a anni di distanza dalla loro introduzione e, nel frattempo, tante cose potranno cambiare. Ecco che gli atti diventano dei veri repertori, in cui à la carte il giudice potrà reperire, secondo le necessità del momento, quanto gli occorra. Per decidere o non decidere.

*

Il più alto magistrato d’Italia chiede che gli atti, in cassazione, siano più sintetici. Ed anche più chiari, sebbene l’accoppiata sintesi-chiarezza sia patrimonio esclusivo dei più grandi.

Il Primo Presidente è il leader non solo della S.C., ma dell’intera magistratura ordinaria.

È ovvio che la sua raccomandazione valga in primo luogo per la cassazione, ma non possa restare del tutto inascoltata negli uffici di merito.

Ne va però estrapolato un contenuto implicito.

Nel c.p.c. non c’è una norma a garanzia del fatto che gli atti processuali, oltre ad essere scritti, debbano anche esser letti. La cosa viene data per implicita, un po’ come la garanzia dell’imparzialità prima della riforma dell’art. 111 Cost. Ma la raccomandazione del Primo

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Presidente presuppone, secondo la tecnica dell’ordine logico, che gli atti processuali li si debba leggere.

Certi uffici di merito dovrebbero far tesoro anzitutto di questa autorevolissima indicazione.

*

Veniamo alla cassazione, ancora con qualche breve digressione. Non voglio ripetere quanto da altri già detto circa il perché gli atti in sede di legittimità siano spesso di dimensioni sproporzionate. Ci sono, ovviamente, ragioni specifiche, interne al giudizio di legittimità. Vorrei soltanto aggiungere che è stata la Corte stessa a perdere, in una brutta pagina della sua recente storia, l’occasione dei quesiti di diritto; che, ben interpretati per quel che erano (non, cioè, un regolatore impietoso del contenzioso), avrebbero potuto cambiare il volto del giudizio di cassazione.

I giudici di legittimità hanno preferito non capirlo, ed hanno interpretato il quesito come un filtro;

operazione che ha lasciato sul campo tante vittime incolpevoli (tuttora ne cadono grazie al folle regime transitorio della legge del 2009, che ha lasciato in vita il sistema dei quesiti nei giudizi pendenti: l’atto di giustizia sarebbe stato, al contrario, la revoca delle tante inammissibilità con cui sono stati archiviati ricorsi fondati, e la loro fissazione a nuovo ruolo).

In questo anche l’avvocatura ha le sue gravi responsabilità; dopo il 2006, non mi è capitato di leggere un solo controricorso in cui non venisse sollevata la questione dell’inammissibilità del ricorso per come il quesito era stato redatto. L’inammissibilità, da eccezione che era, è diventata la regola. Mors tua vita mea, si dirà, ed è vero: ma morti di questo tipo portano male, perché tutti rischiano di venire travolti dalla furia dell’uragano.

L’impressione è che, prima o poi, il conto lo si presenti agli avvocati.

Esistono infatti comportamenti dell’avvocatura che, pur conformi alla lettera del c.p.c., sono stati riconosciuti sanzionabili in sede disciplinare: l’avvocato che, in possesso di tre cambiali, notifichi tre atti di precetto in luogo di uno solo è sanzionabile; l’avvocato in possesso di titolo esecutivo giudiziale che non richieda al collega di controparte il pagamento spontaneo prima di notificare l’atto di precetto è sanzionabile; e così via.

Prima o poi, si arriverà alla denunzia disciplinare nei confronti dell’avvocato che scrive troppo. O che scrive male (ma non si può pretendere che l’avvocato debba avere la penna di Satta o di Cordero).

Prima di arrivare a questo rimedio estremo, esistono soluzioni meno cruente?

Premesso che il ritorno al sistema della bollatura degli atti avrebbe, nell’attuale contesto di crisi economica, un effetto davvero miracoloso, un altro mito andrebbe sfatato, sempre in tema di dovere di lettura degli atti processuali.

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Molti avvocati, infatti, sono intimamente convinti di dover scrivere la comparsa conclusionale in modo tale che il giudice potrà esimersi dalla lettura di tutti gli atti anteriori, e addirittura anche da quelli di controparte; temo che questa idea si sia fortemente consolidata nell’attuale sistema, per il numero insopportabile di scritti inutili (le memorie ex art. 183 c.p.c.) che ci si vede costretti a vergare, e a leggere, prima ancora che il giudizio abbia inizio.

La conclusionale di primo grado sarà, come abbiamo accennato, il modello dell’atto introduttivo del giudizio di appello. Di qui un effetto di rotolamento sugli atti successivi, fino alla cassazione.

Ciò vale anche per le memorie ex art. 378 c.p.c., che spesso sono di lunghezza pari al ricorso (o al controricorso), senza dal canto loro aggiungere nulla. Ma, si pensa, gli altri membri del collegio, magari in camera di consiglio, alla conclusionale potranno pur dare un’occhiata.

Nell’eventuale giudizio disciplinare, l’avvocato prolisso si difenderà dicendo di aver scritto di più perché aveva l’impressione che il giudice non leggesse; ovvero per fargli leggere meno, favorendone il delicato compito.

Più scrivo, meno leggerai; il paradosso è solo apparente.

Le condanne fioccheranno, se qualche solerte consigliere dell’ordine avrà cura di qualificarle

“politicamente corrette”.

*

Di norma, in cassazione non succede nulla, dal deposito del ricorso all’udienza; ma, spesso, quel poco che succede va troppo di fretta.

Prendiamo il caso della produzione di nuovi documenti dopo la costituzione in giudizio (art. 372 c.p.c.); secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, una volta notificato l’elenco, il deposito dei documenti potrà avvenire anche in udienza, prima che sia iniziata la relazione della causa. Ha senso, in un processo dove non succede nulla, non imporre la produzione dei documenti

“annunziati” almeno prima del deposito della memoria? Non si dovrebbe imporre il deposito in cancelleria ancor prima della notificazione dell’elenco alle controparti?

C’è poi l’eterno problema delle conclusioni del PM, che è l’ultimo a parlare e che, dal suo privilegiato osservatorio, vede spesso cose che altri non vedono. Ed a cui è difficilissimo replicare, non capendosi perché la replica non possa aver luogo in udienza. Dopo aver atteso per anni la fissazione dell’udienza, il povero difensore deve replicare su fogli di fortuna sul banchetto dinanzi all’aula, coi curiosi tutt’intorno, con la penna che non si trova mai, col collega più anziano che dice:

“attento, ché se si chiude l’udienza sti quattro fogli non se li prendono più”.

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Sono rarissime le questioni nuove che possono essere dedotte con la memoria, confinate tra jus superveniens, giudicato sopravvenuto, pronunce di illegittimità costituzionale (nei limiti dei motivi proposti).

Tenuto conto che la comunicazione della fissazione della pubblica udienza avviene sempre a ridosso di quella data, forse sarebbe possibile assegnare al relatore il compito di concedere il termine per la memoria o, in alternativa, di ammettere la sola discussione orale. O di scegliere tra l’una e l’altra.

In fondo, il giudice di merito nella decisione a seguito di trattazione orale fa la stessa cosa: non scrivete più – parafrasando l’ermetico poeta – cessate di uccidere i morti.

È avvilente assistere a quelle tante udienze in cui i domiciliatari, che ignorano la causa, dichiarano semplicemente di riportarsi alla memoria che, personalmente, non hanno scritto, e che forse manco hanno letto. Non c’è dubbio che tante apparizioni in toga non servono proprio a nulla e, tuttavia, se il cliente saprà che hai disertato l’udienza pubblica mediterà una denunzia al consiglio dell’ordine, per violazione del mandato ovvero per oltraggio alla Corte: senza sapere che proprio l’austero collegio sarà il primo ad essertene profondamente grato. Sebbene debba, nel contempo, darsi atto ai giudici ordinari di essere molto più educati e pazienti di quelli amministrativi.

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Prima delle denunzie disciplinari, c’è un’altra leva che esiste da sempre e che non viene utilizzata:

quella delle spese processuali e della responsabilità processuale aggravata.

La Corte dovrebbe fare maggiore attenzione al profilo delle spese di lite. A volte proprio in sede di legittimità le liquidazioni sono talmente basse (parliamo dell’abrogato sistema tariffario, che ancora si capiva) da non giustificare, con il cliente, neppure il pagamento dell’acconto. Chi vince, perde comunque nel regolamento delle spese, perché gli onorari al suo avvocato dovrà pur sempre pagarli.

Quando poi, come capita spessissimo, si assiste a strategie processuali in cui la redazione degli atti è solo il tassello di un più ampio disegno criminoso, le condanne ex art. 96 dovrebbero fioccare.

Ma ciò non accade.

Di questo ha responsabilità soltanto la Corte.

Se gli avvocati si impegneranno a scrivere meno, la Corte si impegnerà ad applicare gli artt. 92 e ss., in modo da rispettare la dignità della professione forense?

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La lettera del Primo Presidente sembra dare per scontato che gli atti di parte siano lunghi e le sentenze brevi.

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Nonostante l’art. 132 c.p.c., opportunamente richiamato dal Primo Presidente, non sempre così è. Si tratta di argomento noto, e mi limito a segnalare un solo fenomeno.

In corrispondenza con l’ampliarsi dei casi di inammissibilità dell’impugnazione, si assiste sempre più spesso a sentenze di legittimità che dichiarano inammissibile il ricorso, per poi esaminarlo nel merito affermando principi di diritto anche d’una certa rilevanza. Queste prassi sembrano poco coerenti con l’idea che quella della giustizia è una risorsa limitata, che dovrebbe essere utilizzata solo quando serve.

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Un aspetto che non emerge chiaramente dalla lettera del Primo Presidente è quello del numero dei motivi. Nell’esperienza di qualsiasi avvocato cassazionista (e, quindi, di qualsiasi magistrato di legittimità) c’è il caso del ricorso o controricorso formato da decine di motivi, che spesso differiscono per un trascurabile dettaglio. Sarebbe possibile, con norma regolamentare (data dalla stessa Corte), limitarne il numero secondo ragionevolezza?

Lascio la risposta aperta, ma al tempo stesso noto che la riforma “estiva” del n. 5) prelude ad una moltiplicazione dei motivi, perché tutto ciò che veniva prima assorbito dal vizio di motivazione lo si spenderà con motivi fondati su altri numeri, all’esito di un sezionamento delle questioni che lascerà sul campo molte vittime: e in primo luogo chi, avvocato o magistrato, gli atti è chiamato a leggerli.

Pur lasciando la risposta aperta, noto poi che quanto non può escludersi a priori (per il rischio di recare attentato al caso isolato che dovesse meritare più dettagliata trattazione), può però sempre essere sanzionato a posteriori. La logica del giudice dovrebbe essere più o meno questa: nel regolamento delle spese, e eventualmente per la pronuncia di responsabilità processuale aggravata, considererò quanto mi hai fatto faticare per giungere alla giusta decisione e i tentativi compiuti per portarmi fuori strada. Se dietro il generico riferimento alla “natura e complessità delle questioni trattate” si potesse ricomprendere anche questo criterio, le conseguenze, nel breve periodo, potrebbero essere sorprendenti.

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Insomma: la concisione non è dote di tutti, e – per passare ad altro campo – capita anche di leggere monografie di 600 pagine che potrebbero essere sintetizzate egregiamente in un quarto della loro estensione. Non soltanto nell’attività forense si tende, quindi, a privilegiare il carattere contundente del proprio elaborato, nel tentativo non di convincere il lettore, ma di tramortirlo.

L’offensività degli scritti è forse un residuo di quando i contenziosi giudiziari si risolvevano con le armi, nel duello processuale. Una memoria di cento pagine è un colpo di mazza chiodata, che è sempre meglio di una ferita da gladio.

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L’arma che la S.C. ha in più, rispetto a qualsiasi altro lettore, è – nel contesto sociale in cui qualsiasi valore è perduto, salvo danaro e assimilati – quella delle spese processuali. L’onore è un canone desueto. Fate ampia leva sulle spese, sulla responsabilità processuale aggravata, Signor Primo Presidente, e non delegatene la liquidazione neppure al giudice di rinvio, che sarà portato all’ammasso: gli effetti, anche sugli atti, appariranno magicamente. È un’arma che avete già, da sempre, e di sicuro vi chiederete, a cose fatte, perché l’avrete tenuta per così tanto tempo inutilizzata. E, sorprendentemente, anche gli avvocati ve ne saranno grati.

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