L'ETICA NELLA PROFESSIONE FORENSE di
Tullio Padovani*
L'argomento dell'etica nella professione forense è un argomento che è del tutto estraneo alle mie competenze specifiche di studioso, anche se non è estraneo alla mia attività di avvocato.
Ma come avvocato necessariamente interessato alla soluzione di problemi etici, debbo dire che mi ritrovo (o, forse, mi ritrovavo) un po’ come la massaia che confeziona piatti non disprezzabili, ma quando le si chiede la ricetta risponde che non saprebbe ripeterla con una formula gastronomica. In effetti è così: come avvocato mi lusingo (o, quanto meno, mi sforzo) di ispirare la mia attività alle regole etiche solidamente fondate; però cucino anch'io senza ricetta. E se qualcuno me la chiedesse risponderei non lo so esattamente; dovrei pensarci. Questo argomento mi ha costretto a riflettere; diversamente non avrei forse avuto un'altra occasione per meditare su quelli che sono aspetti certamente di grande importanza per l'attività di ogni avvocato.
L'etica nella professione forense. Chi si accosta al tema compie una prima scoperta relativamente sconcertante, e cioè che l'espressione stessa "etica professionale" è contestata, perché si dice riferirsi ad una normativa etica, quel "foro" dove la sanzione è pronunciata dalla stessa coscienza. Ma le norme che disciplinano l'attività forense come attività professionale ed impongono doveri di lealtà, di probità, di decoro e di diligenza, queste non sono norme la cui sanzione sia affidata alla mera coscienza del singolo professionista. Sono vere norme giuridiche che trovano, in caso di inosservanza, una precisa sanzione di carattere disciplinare.
Da questo punto di vista le norme che regolano l'esercizio dell'attività forense, non possono essere assimilate alle norme etiche, che per l'appunto, di regola, sono sanzionate nel “foro”
interno dell'individuo. Dall'altra parte ancora, si rileva, non tutte le norme che regolano l'attività forense, assumendo rilevanza disciplinare, possono essere ricondotte ad un canone etico. Spesso esse presentano un contenuto che con la morale non sembra strettamente imparentato. Così, per esempio, l'avvocato soggiace al divieto del patto di quota lite: non può' convenire il proprio onorario in una percentuale del valore della lite in caso di vittoria. Lo vietava già il diritto romano, lo vieta il nostro codice civile, lo vietano tassativamente le norme disciplinari. Tuttavia un divieto così fatto se ha certamente una sua ragion d'essere, perché sottolinea la necessità che l'avvocato non sia partecipe alle sorti della lite e si mantenga in qualche modo da essa distante, non ha una connotazione morale identificabile in modo immediato. In definitiva pattuire in questo modo gli onorari non sembra violare un canone etico.
Analogamente, anche il divieto di pubblicità è rigorosamente sancito in sede disciplinare per gli avvocati. Addirittura il Consiglio Nazionale Forense considera rilevante sotto il profilo disciplinare il fatto che un avvocato abbia fatto riprodurre in grassetto il proprio nome sull'elenco telefonico (quindi una forma molto blanda di pubblicità se di pubblicità si può parlare).
Anche in questo caso il divieto non sembra trovare un preciso referente etico: interrogando la coscienza di ciascuno è difficile ricavare un divieto di pubblicità, perché, in sé la pubblicità può essere onestissima e presentare qualità che l'individuo possiede effettivamente (per esempio specializzazioni, attitudini comprovate, relazioni altrettanto solidamente certe che possano qualificarlo in termini professionali in modo significativo). Naturalmente può anche
*Ordinario di Diritto Penale
trattarsi di una pubblicità menzognera ma questa sarebbe semmai rilevante per la menzogna che contiene. Il divieto non riguarda il contenuto; riguarda qualsiasi forma di pubblicità, con una comprensività che sembra, appunto, eticamente indifferente.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi per un gran numero di divieti che insistono sull'esercizio dell'attività professionale e non trovano un preciso referente etico.
Quindi la specificità della sanzione che è una sanzione giuridica vera e propria, una sanzione disciplinare, a volte pesante ed incisiva, e la specificità del contenuto che la regola molto spesso assume, inducono a ritenere che quel complesso di norme che regolano l'esercizio dell'attività professionale, prescrivendo quali sono i modi corretti di comportamento, non possa qualificarsi propriamente "etica professionale", ma piuttosto
"deontologia".
Di fronte a questi rilievi vi è da osservare che la disputa ha in parte carattere nominalistico.
E' ovvio che l'etica professionale, se vogliamo continuare ad usare questo nome, non può non essere un'etica giuridificata (o giuridificabile), cioè suscettibile di essere trasformata in precetti giuridici vincolanti assistiti da una sanzione; altrimenti non avrebbe senso il porre regole di comportamento. Se poi preferiamo chiamare l'etica professionale deontologia sarà una questione di etichetta.
Anche per ciò che si riferisce ai contenuti delle regole il rilievo che nella deontologia sarebbero presenti regole a contenuto morale neutro, come il divieto di pubblicità, o il divieto di patto di quota lite, che ricordavo poc'anzi, non tiene conto a mio giudizio di una caratteristica importante dell'etica professionale, di una sua peculiarità.
L'etica professionale ha due facce, o meglio due contenuti, due aspetti, due profili; è per un verso etica dell'attività e per un altro etica dello status. Come etica dell'attività è un'etica del comportamento connesso all'esercizio di un mandato professionale; cioè è un'etica legata ad un rapporto specifico e quindi al modo con cui questo rapporto viene in concreto attuato. Ma non è solo questo, non è un complesso di regole destinate a disciplinare l'attività, essa e' anche quella che io definirei un'etica di status, cioè legata alla posizione ricoperta dal soggetto nell'ambito dell'ordine professionale, e cioè un'etica connessa al ruolo dell'avvocato in quanto membro di una corporazione. E questo naturalmente vale non solo per l'avvocato, ma per tutti i professionisti, in quanto membri delle rispettive corporazioni.
Questi due profili dell'etica professionale sono molto importanti per caratterizzare il tipo delle regole rispettivamente riconducibili all'etica dell'attività e all'etica dello status. L'etica dell'attività, cioè l'insieme delle regole che disciplinano il modo con cui l'avvocato gestisce il proprio rapporto con il cliente, con il giudice e così via è per lo più un'etica che risulta dall'adattamento o dal ripensamento di precetti etici comuni correlati all'attività professionale. Si tratta di una forma di "specializzazione", se così vogliamo chiamarla, dell'etica comune.
Si pensi al dovere di competenza, che è quel dovere per il quale il professionista non deve assumere incarichi in rapporto ai quali non disponga delle conoscenze necessarie. Esso è l'adattamento di un dovere generico comune, non assumere compiti che non sei in grado di portare a termine, la cui inosservanza porta addirittura, in ambito penalistico, a quella specifica forma di colpa che è detta colpa "per assunzione", quella colpa che deriva dal fatto di aver assunto un compito per il quale non si disponeva delle conoscenze necessarie.
Il dovere di segretezza e di riservatezza è l'adattamento di un obbligo che inerisce a tutti i rapporti fiduciari non solo a quello professionale. Qualunque rapporto fiduciario reca in sé un obbligo morale di segretezza e riservatezza che nel caso del professionista assume contenuti di più pregnante significato. Così per il dovere di fedeltà, rispetto alla posizione assegnata, nel senso che non le deve essere recato alcun pregiudizio, anche questo è un dovere tipico di ogni prestazione di attività nell'interesse altrui, perché chi presta una attività nell'interesse altrui è sempre vincolato eticamente alla fedeltà. Questo vale per il lavoratore subordinato ed il professionista, anche se nei due casi l'obbligo assume connotazioni diverse. Il discorso
potrebbe ripetersi per i doveri correlati alla diligenza, alla gestione di somme ricevute a vario titolo in deposito. L'etica dell'attività è un'etica comune "specializzata".
L'etica dello status è invece un'etica specifica, è un'etica che può non avere (e spesso non ha) un riscontro comune, perché normalmente gli individui non sono membri di alcuna corporazione. L'etica dello status ha due obiettivi complementari: il primo mira a tutelare la corporazione in quanto tale nei suoi aspetti istituzionali salvaguardandone l'immagine sociale e la reputazione: sei membro di una corporazione non devi tenere una attività che possa recare discredito alla corporazione di cui fai parte.
Il secondo obiettivo mira a rafforzare i vincoli solidaristici di appartenenza del singolo al gruppo; ciò che rappresenta un altro modo di tutelare l'istituzione. Debbono in questo senso evitarsi rapporti conflittuali che superino il livello del contrasto "istituzionale" che può esserci fra due avvocati che difendono posizioni contrapposte. Al di là di tale contrasto "istituzionale"
bisogna ridurre al minimo il conflitto fra i membri della stessa corporazione perché questo finirebbe con il danneggiare la corporazione stessa.
Questi due obiettivi di fondo che caratterizzano l'etica dello status, giustificano l'ingresso nell'etica professionale di divieti che diversamente non avrebbero significato, giustificano in particolare per ciò che si riferisce alla tutela della istituzione corporativa, la rilevanza attribuita a fatti della vita privata che siano idonei ad incidere sull'immagine della corporazione. Così è illecito disciplinare l'emissione di assegni a vuoto, di effetti cambiari rimasti insoluti, l'ospitalità offerta nello studio ad un mediatore commerciale, il coinvolgimento in operazioni finanziarie poco pulite.
Tutto questo può anche non significare nulla in ordine al modo in cui il professionista esercita poi la sua attività, tuttavia reca un danno o rischia di recare un danno all'immagine della corporazione che può essere in qualche modo coinvolta in questa attività. Il pubblico può pensare che gli avvocati si dedicano anche alla finanza d'assalto, si occupano di mediazioni commerciali, comunque inquinano la loro attività con attività collaterali del tutto estranee e non pertinenti al tipo di professione che hanno assunto.
Per quanto riguarda poi il rafforzamento dei vincoli solidaristici di appartenenza di ciascun professionista al gruppo, numerosi sono i divieti che traggono origine da questa esigenza, primo fra tutti il divieto di propaganda pubblicitaria, che in questo trova il suo fondamento.
Accaparrarsi la clientela significa in sostanza introdurre nella corporazione un fattore di concorrenza visibile che è di per sé disgregatore. In una corporazione la concorrenza è distruttiva, perché essa è un'istituzione di tipo medioevale che non conosce il mercato e non lo può conoscere; essa persegue la gestione del privilegio e dell'esclusività professionale che cementi i legami fra i vari membri. Così per es. l'obbligo sancito a carico dell'avvocato di corrispondere con il collega e non direttamente con la controparte (ciò che -come si vede - non incide affatto sulla gestione della attività anzi, per questo fine potrebbe essere più opportuno corrispondere con la controparte, perché l'avvocato che la tutela può' essere poco ragionevole) si giustifica nella prospettiva di un'etica di status. Cosi' è per il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza scambiata con il collega, altra prescrizione deontologica che non ha un fondamento etico. Anzi la produzione della corrispondenza scambiata con il collega potrebbe giovare alla parte assistita, ma costituisce un illecito disciplinare ed è contrario all'etica professionale perché introduce un fattore conflittuale di tipo personale con l'avvocato avversario. Lo stesso può dirsi di molti obblighi che si correlano ai rapporti con l'avvocato di controparte e con il collega che a qualsiasi titolo sia interessato alla medesima vicenda.
A questo punto si apre per l'etica professionale lo spinoso capitolo della determinazione delle regole e cioè della esatta rilevazione del divieto e dei suoi limiti.
Quando si parla di doveri sanzionati disciplinarmente si fa riferimento a un fatto giuridico che è molto determinato, la sanzione. Si va dall'avvertimento, si sale alla censura, si passa alla sospensione, si arriva alla cancellazione e poi alla radiazione, tutte conseguenze che hanno
una disciplina ben puntualizzata. Quando si dice invece "dovere etico", ci si riferisce in sostanza ad un precetto di fonte non scritta che deriverà dalla consuetudine, dalla coscienza, dalla prassi, non ha importanza stabilire da che cosa deriva, ma non dalla fonte scritta. Il che comporta una ovvia incertezza nella individuazione del dovere e nella determinazione dei suoi contenuti e dei suoi limiti. In effetti se scorriamo le norme della legge professionale che si riferiscono all'ambito precettivo, notiamo formule di carattere generico: dignità e decoro, abusi e mancanze, fatti non conformi alla dignità ed al decoro: questi sono i richiami, richiami generici che si sostanziano in quelle che tecnicamente vengono definite "clausole generali".
C'è in realtà un unico esempio di illecito disciplinare per gli avvocati determinato tassativamente: l'abbandono della difesa ed il rifiuto della difesa d'ufficio, in quanto è un illecito disciplinare determinato dal codice di procedura penale, all'art. 105, il quale stabilisce ai fini della determinazione di una competenza esclusiva degli ordini professionali che l'abbandono della difesa e il rifiuto della difesa d'ufficio costituiscono illecito disciplinare sottoposto alle sanzioni disciplinari. E' l'unico caso ed è un caso che si giustifica storicamente perché in passato esisteva una competenza giurisdizionale in ordine a questo illecito disciplinare. Tutti gli altri doveri etici sono rimessi alla consuetudine.
Perciò, da più tempo si è avanzata, in ambito deontologico, l'esigenza di una codificazione:
l'appello alla codificazione è ormai divenuto ricorrente.
A favore di questo appello si ricordano due argomenti centrali: il primo è rappresentato da una istanza di natura costituzionale, l'art. 25 II comma della Costituzione per cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nel principio di legalità si include, per comune interpretazione, l'esigenza che la legge determini il contenuto dell'illecito da sanzionare, mentre il riferimento letterale "punito" fa si che la portata della disposizione non possa considerarsi circoscritta ai soli illeciti penali, in quanto si è "puniti" anche in sede disciplinare e con sanzioni che per lo più, a parte le sanzioni morali, hanno contenuto pratico più consistente delle stesse sanzioni penali. Per la verità, la Corte Costituzionale e quella di Cassazione resistono all'interpretazione che l'art. 25 della Costituzione debba intendersi riferito agli illeciti disciplinari; sostengono che in realtà gli illeciti disciplinari possono essere determinati in questo modo vago e generico, e quindi possono essere indeterminati dato che non hanno una caratteristica penale. Ma si tratta di un'interpretazione che lascia assai perplessi. Basti dire che, con condizioni normative analoghe al nostro sistema, in Germania la Corte Costituzionale tedesca ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'apparato disciplinare dei professionisti forensi in quanto non sorretto sulla previa determinazione degli illeciti da parte della legge.
Vi è poi comunque al di là di questa esigenza costituzionale una esigenza di certezza. Le sanzioni disciplinari incidono sui momenti essenziali della vita del professionista, ed allora sorge la necessità preliminare che il professionista sia posto in condizioni di conoscere esattamente, o con la maggiore esattezza possibile quali sono i limiti consentiti nell'esercizio della sua attività.
D'altro canto va detto che alle voci che propugnano la codificazione, si contrappongono voci che invece la contestano, voci autorevoli che rilevano come una codificazione non sarebbe mai esaustiva: non si può codificare l'infinita varietà delle situazioni professionali e non sarebbe comunque aggiornata, perché essa, in sostanza, in quanto espressione di una legge scritta finirebbe per cristallizzare certe regole che il costume può far evolvere con contenuti via diversi. Si ricorda in proposito un esempio vistoso: quello delle regole deontologiche correlate ai rapporti con i testimoni che hanno subito, con l'attuale codice di procedura penale, un capovolgimento radicale, perché, in precedenza, vigeva il divieto disciplinare di corrispondere con i testi, stante il regime processuale del codice del '30;
mentre, con il codice dell'89, il contatto con i testi è addirittura doveroso, perché il difensore ha il diritto dovere di ricercare le prove favorevoli al suo assistito. Il dovere deontologico si è
addirittura capovolto, è diventato il suo esatto contrario. Quindi non codifichiamo - si dice - perché codificare significa irrigidire, sclerotizzare la regola.
In realtà a me sembra che fra le due situazioni contrapposte una mediazione dovrebbe essere possibile, perché in linea di principio la codificazione è auspicabile; ma si tratta di stabilire chi debba codificare.
Una codificazione rimessa al legislatore sarebbe, oltre che poco rispettosa della autonomia professionale, anche una codificazione veramente sclerotizzante. Una codificazione rimessa, come sarebbe doveroso agli ordini professionali, avrebbe tutte le possibilità di seguire agilmente l'evolversi delle regole etico professionali e quindi di mantenere il necessario aggiornamento.
L'esaustività, poi, non è di questo mondo e non è forse neanche auspicabile. Il difetto di completezza è un argomento che è stato rivolto contro tutte le codificazioni: quando Napoleone faceva il suo Code Napolèon, i cultori delle pandette gridavano: come si pretende di esaurire il mondo in un codice ? Ma si rispondeva: non si esaurirà; solo ci si prova. E lo stesso criterio si dovrebbe seguire anche in questo caso.
L'esigenza della codificazione mi pare ineluttabile soprattutto in un'epoca in cui le attività dell'avvocato si sono diversificate. Non esiste più l'avvocato, ma esistono tanti tipi di avvocati legati ad attività particolari, sia giudiziali che stragiudiziali, ed è quindi in riferimento a questa complessità di compiti e di attività che si propone l'esigenza della codificazione. Ma di fronte a questa esigenza e cioè, nel momento in cui si tratta di trasferire sulla carta le regole professionali in termini più precisi, sorge una domanda di fondo che è iniziale, ma nello stesso tempo anche conclusiva. Una domanda che costringe chi affronta il problema dell'etica professionale ad improvvisarsi anche un po’ filosofo.
Che cosa è l'etica professionale? Quale è il parametro assiologico di fondo che regge l'etica professionale?
Non pretendo di affrontare un discorso filosofico per il quale non avrei la competenza, però mi pare di poter dire che, quando si parla di etica si parla di qualche cosa che ha a che vedere con il valore: con il regno dei fini, direbbe Kant. Il comportamento eticamente fondato è quello che corrisponde al valore: nel comportamento eticamente fondato il valore si traduce in regola di vita. E allora la domanda è: quale è il valore della professione forense? Perché è questo in definitiva il nucleo a cui bisogna risalire per acquisire una consapevolezza dell'etica professionale.
Si può procedere per antipodi e per esclusioni. Un antipode è rappresentato dall'idea che il valore della professione sia la collaborazione con la parte assistita, e cioè nell'appiattimento sugli interessi e sulle posizioni della parte assistita. Il che significa in sostanza che la professione finisce con l'essere quello che spregiativamente è stata talvolta definita cioè' una sorta di coscienza a noleggio. E' una prospettiva inaccettabile perché non può essere eticamente fondata. Essa infatti implica per il professionista una strumentalizzazione di sé, cioè un degrado di sé a ruolo di strumento, che non consente alcun tipo di fondazione etica, così come, per le stesse ragioni, non è possibile fondare eticamente la prostituzione. La strumentalizzazione di sé implica l'assenza di valore per definizione. Ma non per questo si può passare all'altro antipode, identificando il valore della professione nella giustizia come spesso viene ritenuto e come la stessa formula del giuramento degli avvocati sembrerebbe far credere: gli avvocati giurano di esercitare il loro mandato per fini di giustizia. Non può essere così perché non è possibile, e non è possibile perché nemmeno il giudice può operare per fini di giustizia.
Un tempo il giudice Holmes, grande giudice americano, nella sua corte sentiva un giovane avvocato che reclamava giustizia e insisteva su questa parola. Alla fine, il giudice, infastidito, lo interruppe e gli disse: "scusi avvocato in questa corte non si rende giustizia, si applica solo la legge" ed il giovane avvocato dovette zittirsi perché la giustizia è un valore che trascende il tipo di attività che il giudice svolge.
E' un valore al quale la legge potrà tendere più o meno, ma non è questo il valore al quale si può pensare di orientare una attività che è di per sé stessa, mi riferisco a quella del giudice, orientata alla legge.
D'altro canto, per l'avvocato il fine di giustizia è incompatibile con il fatto di essere un tutore della parte perché ciò implicherebbe eventualmente la strumentalizzazione della parte ad un fine che la parte può non trovare fondante per sé.
In realtà, io credo che il valore di fondo della professione forense consista nel fatto che essa rappresenta una forma di attuazione della legge nell'interesse della parte assistita. E' un'attuazione della legge nel senso che il professionista si sforza di far sì che la legge venga applicata nei confronti di colui che assiste nel modo più favorevole per questo stabilito.
Ciò implica che egli non ha doveri di collaborazione attiva con il giudice; non può averli, non può, per esempio avere l'obbligo di produrre un documento sfavorevole alle posizioni del suo assistito; ha solo obblighi di astensione: non può fare ciò che turberebbe l'applicazione della legge (non può, per esempio, presentare un documento conosciuto per falso). D'altro canto, questa attuazione della legge è nell'interesse della parte assistita, verso la quale egli ha doveri di tutela, ma non vincoli di subordinazione. Se si tratta di attuare la legge non è il cliente che decide in quale modo essa vada attuata. E' compito precipuo del professionista stabilire quale sia questa forma di attuazione.
Ed è in definitiva proprio in questa combinazione, talvolta amletica, sempre problematica, di aspetti apparentemente contraddittori, un'indipendenza che però deve essere finalizzata alla cura di un interesse, la cura di un interesse che è attraverso la legge e non contro di essa che risiede il fascino e per qualcuno, ed io mi pongo fra questi, anche la nobiltà della attività professionale.
In definitiva, il suo valore.