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IL DANNO DA MENOMAZIONE PSICHICA

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Academic year: 2022

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IL DANNO DA MENOMAZIONE PSICHICA

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Antonio Marigliano** e Walter Brondolo***

Con la sentenza 184/86, a Roma, è stata scoperta la psiche.

Da quel momento l’uomo ha cominciato ad esistere in quanto tale, privato, si potrebbe dire liberato, dagli aggettivi che, sempre, lo qualificavano: sapiens, faber ecc.

La sua integrità non è stata più considerata solo fisica, ma psico-fisica ed essa ha cominciato a costituire di per sé un valore che, se viene ingiustamente leso, deve essere risarcito, non essendo ovviamente possibile la sua reintegrazione.

In realtà qualcosa di psichico aleggiava, a volte, nell’area del danno a persona. Le sindromi psico-organiche, le nevrosi post-traumatiche e qualche altra sfumata voce.

Oppure compariva di soppiatto durante una CTU nella quale il consulente di parte attrice, con opposizione più o meno violenta di quello della parte convenuta, avanzava l’ipotesi dell’esistenza di una componente psichica di un danno.

Spesso si sentiva dire: era già matto per conto suo; son tutte ... folie; diamogli qualcosa in più, così chiudiamo il discorso.

Ovviamente bisogna ricordare che tutto ciò si riferiva alla cosiddetta capacità lavorativa generica della quale si valutava la riduzione persino in ragione di mezzo punto!

Si dirà: ma era una convenzione. - E’ vero, ma saltava per aria il criterio dell’obiettività.

La scoperta della componente psichica del danno a persona ha poi prodotto molteplici e necessari cambiamenti. Innanzitutto essa costituisce una componente del danno biologico, come danno evento, rispetto alle componenti patrimoniale e morale, come danno-conseguenza.

Ciò ha richiesto l’instaurarsi di un nuovo atteggiamento rispetto all’intero processo di accertamento e valutazione di un danno a persona, a cominciare dalla formulazione dei quesiti.

A volte essi devono contenere domande che si riferiscono esclusivamente alla componente psichica di un fatto lesivo e/o di una menomazione.

Le parti hanno potuto ampliare ed approfondire la materia del contendere ed i soggetti lesi hanno spazi e modi ben più articolati per chiedere e richiedere un risarcimento.

Gli enti assicurativi sono giustamente preoccupati per il rischio di un cospicuo innalzamento dei costi.

* Articolo estratto dal libro “Le nuove frontiere del danno risarcibile”

** Psichiatra, Istituto di Clinica Psichiatrica, Università di Milano

*** Medico legale, Milano

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Il CTU, di fronte alla richiesta di valutare un danno da menomazione psichica, o deve rivolgersi allo psichiatra per chiederne la consulenza o ne chiede l’associazione, perché partecipi già alla formulazione del quesito.

Infine le stesso Magistrato si rivolge direttamente allo specialista in caso di necessità di una specifica competenza tecnica.

Naturalmente la fervida ricchezza dell’italica fantasia ha trovato nuovi spazi per esprimere la propria creatività.

Le richieste di risarcimento si moltiplicano per danno da menomazione psichica connessi ad eventi naturali ed accidentali, con descrizioni che a volte potrebbero costituire una traccia di copione della commedia dell’arte.

Per cui tutti gli addetti ai lavori si ritrovano in una specie di spazio virtuale dove sembra tutto possibile, per la mancanza di certezze precostituite e dove, pertanto, trova facile motivo di collocarsi un’atmosfera di dubbio e di diffidenza.

La prima domanda che il tecnico si pone, di fronte alla descrizione di sintomi psichici è, infatti:

sarà vero? Poi, con tale presupposto psicologico, si inizia il processo di accertamento diagnostico che, a differenza di quanto avviene in caso di lesioni fisiche e di loro reliquari, non tende solo alla valutazione clinica dei sintomi, ma, prima di tutto, se essi sussistono o se siano intenzionalmente descritti dal soggetto. Dubbio e diffidenza di fronte all’intangibile, che a volte è persino ineffabile.

Per decenni è stata seguita una prassi, ormai consolidata di accertamento medico legale di un danno. Tutto era codificato, stabilito, tabellato, convenuto. I progressi degli strumenti diagnostici aiutavano a perfezionare ed a rendere sempre più certe le diagnosi, invece, all’improvviso, è comparsa una nuova voce (di danno) che comprende perfino una categoria, prima sempre respinta dalla medicina legale: la soggettività. E’ ben vero che per altrettanti anni una voce clinica aveva mostrato una crepa nell’assoluta e presunta oggettività della medicina legale, ma ora, appunto, una voce, per giunta piccola nei suoi effetti, anche se la sua convenzionale moltiplicazione e quasi automatica accettazione ha comportato costi non indifferenti.

Ma si sa, qualche punto non lo si nega a nessuno, specie se ha subito un trauma cranico. Ecco che la soggettività ha ricevuto un riconoscimento ufficiale, sia pure limitato, nell’ineffabile sindrome soggettiva, del traumatizzato cranico: una diagnosi tra il filosofico, l’antropologico ed il mistico.

Praticamente in assenza di qualunque segno clinico significativo sono stati elargiti risarcimenti complessivamente elevati.

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Questa sindrome soggettiva, a pensarci bene, è stata come una testa di ponte della soggettività nella cittadella dell’obiettività medico legale, attestandosi tra il tre ed il cinque per cento, in attesa di tempi migliori. E questi sono finalmente arrivati.

Nel luglio 1986 c’è stata una nuova presa della Bastiglia e la soggettività ha esteso il suo spazio nella componente psichica del danno biologico ottenendo diritto di cittadinanza dalla Suprema Corte.

Poi, cessato il suo compito, ha cominciato a defilarsi ed oggi può quasi dirsi un può fuori moda giacché il personaggio clinico e medico legale che, sempre per consuetudine, viene unanimemente accettato e riconosciuto: il trauma, variamente descritto, del rachide cervicale. Anche qui, in assenza di sicuri segni clinici, qualche punto non lo si nega a nessuno.

E succede che tre professionisti si incontrano, ritualmente esaminano il soggetto, guardano lastre radiografiche o altri referti di laboratorio, e poi discutono, a volte a lungo ed animatamente, sul quantum da concedere, sempre nell’ambito dei tre-quattro punti di danno biologico.

Un profano potrebbe chiedersi come sia possibile calcolare una percentuale così minima dell’integrità psico-fisica della persona, come si possa stabilire che si tratti di una menomazione vera e propria e che, inoltre, sia inemendabile, ma egli, appunto, è un profano e quindi ...

In questo spazio aleatorio e insidioso, pieno di dubbio e di diffidenza, si colloca, anzi viene collocato, il danno da menomazione psichica.

Ciò appare persino nel sottotitolo, in particolare nell’ipotesi sottesa che tra la medicina legale, per sua natura obbiettiva, e la psichiatria, che tale non sembra essere, possano incontrarsi o scontarsi.

Questa ipotesi trae la sua origine dalle concezioni scientifiche, o meglio scientiste, secondo il modello sorto all’interno del positivismo francese, nella seconda metà dell’ottocento.

A parte le competenze tecniche, soggettività, dubbio e qualità della relazione interpersonale rappresentano gli aspetti principali della dottrina e della prassi psichiatrica che non sono scindibili tra loro e che proseguono in una continua reciproca verifica.

Ma il dubbio e la soggettività sono stati espunti dalla medicina legale. Lo scopo di ogni accertamento diagnostico-valutativo è quello di raggiungere uno stato di certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio: d’altra parte è ciò che il magistrato chiede al tecnico.

E se questo scopo non è raggiungibile con la dottrina e con la prassi, si ricorre alle convenzioni che regolano, per tutti, le condotte operative e le decisioni valutative.

Per quanto riguarda la soggettività, essa viene considerata in antitesi e non in rapporto dialettico con l’oggettività. E, nella scelta unilaterale della oggettività, scelta operata secondo la soggettività

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di colui che sceglie, si stabilisce, con una arbitrio scientifico, che si tratta di una scelta di verità; e tutto il resto è silenzio!

Ma dubbio e soggettività sono i punti di partenza di ogni ricerca, in tutti i campi del sapere e dell’essere, beninteso purché si tratti di dubbio epistemofilico o di soggettività intrisa di onestà intellettuale. Da questi punti sono iniziati i cambiamenti, anche profondi, che si sono verificati, negli ultimi decenni, nella dottrina e nella prassi psichiatrica ed in quelle giuridiche.

Non altrettanto sembra che sia avvenuto per la medicina legale che non ha mai inteso sinora, occuparsi di questo specifico settore.

D’altra parte anche la psichiatria non ha dedicato particolare attenzione alla valutazione del danno alla salute mentale.

Le moderne dottrine psichiatriche affermano che non si può ricercare nella genesi dei disturbati psichici, una causalità lineare. Parimenti insegnano che, nella valutazione del danno a persona, non si può seguire una metodologia unitaria e costante, ma questa deve adattarsi ai mutamenti dei principi del diritto nei diversi settori nei quali può verificarsi l’evento del danno alla persona e la sua valutazione.

L’obiettivo, pertanto, dev’essere quello dell’integrazione tra le dottrine e le prassi della psichiatria e della medicina legale, in un insieme multidisciplinare ed interdisciplinare per un proficuo rapporto tra scienza e diritto, pur conservando ognuna la propria specificità.

A proposito della soggettività ricordo che Ippocrate, certamente al di sopra di ogni sospetto, descriveva, nella lettera 17 dei suoi scritti a Democrito, le cose psichiche con diversi aggettivi:

acido, freddo, ecc., con ciò lasciando intuire la sempre presente risonanza emotiva.

Per quanto ci riguarda è opportuno ricordare che Democrito era considerato pazzo perché rideva dei guai altrui.

Venne allora consultato Ippocrate che si recò da lui portando con sé l’elleboro.

Dopo lunghissimi discorsi, però, fu Democrito che convinse Ippocrate al punto che quest’ultimo affermò: “Egli è saggio”! E, rivolgendoglisi, aggiunse: “Mi hai lasciato pieno di ammirazione per la tua saggezza. Hai esplorato la natura umana e mi hai fornito un rimedio per curare la mia intelligenza.”

Evitando di cadere nell’elogio alla follia, questa storia metaforica ci dice due cose fondamentali per il nostro lavoro di psichiatri, anche nell’ambito di un processo di accertamento di un danno alla persona: la prima è l’importanza della soggettività. Ciò, in ultima analisi ci ricorda che, per qualunque ragione clinica e medico legale incontriamo un individuo, noi incontriamo sempre una persona nella sua interezza e relativa integrità psicosomatica.

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La sua frantumazione in tanto parti per studiarle, descriverle e valutarne la funzionalità appare arbitraria e contro naturam e, al contrario di quanto possa sembrare, allontana da una conoscenza possibile.

La seconda, non meno importante, è la qualità della relazione che si stabilisce tra medico e paziente.

Se ciò è vero in assoluto, lo è specificamente nell’ambito della prassi medica e diventa addirittura prezioso strumento conoscitivo per lo psichiatra.

Perché ciò possa avvenire, quest’ultimo, oltre che di dottrina ed esperienza clinica, deve essere privo di pregiudizi che potrebbero derivargli dalla sua stessa formazione se essere capace, per propria struttura psichica e per un profondo e prolungato addestramento, di accettare l’ansia e la frustrazione del dubbio, del non sapere, con un’autentica disponibilità personale ed onestà intellettuale.

Ciò premesso passiamo a descrivere come la psichiatria giunge a stabilire una diagnosi, come la connette con un momento eziologico specifico, come possa indicare una prognosi, una conseguenza menomante e, tentando di integrarsi con i principi di base della medicina legale, possa suggerire, con infinita prudenza e con “spirito di servizio”, qualche indicazione metodologica di valutazione del danno da menomazione psichica.

La psicopatologia è la descrizione degli aspetti, delle rappresentazioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti, dal punto di vista di colui che osserva e che ha modelli più o meno precisi di riferimento. Da parte di colui che è osservato è costituito della sofferenza.

Il fatto che i fenomeni psicopatologici siano in un continuo divenire, richiede allo psichiatra la capacità di vivere sia il rapporto col paziente che quello con la dottrina, in modo dinamico.

Teoria e prassi non sono scindibili ed in verità vien da chiedersi ove mai ciò ossa verificarsi, senza cadere in cristallizzazioni concettuali ed operative del tutto ascientifiche.

La continua tensione di ricerca deriva non solo dalle incertezze sull’eziologia delle patologia psichiatriche, ma anche dal fatto che l’oggetto della ricerca, la psiche, è in continuo trasformazione e la prassi, in ogni sua espressione operativa, costituisce, come si è già detto, una continua verifica sperimentale sia dei concetti che dell’operare dello psichiatra.

La psiche non può essere fermata per osservarla, conoscerla e descriverla. Infatti se essa, nel suo continuo divenire, si ferma e si avvolge su se stessa, indica uno stato di sofferenza, di patologia.

Diventa fotografabile, cioè diagnosticabile.

Ciò comunque non vuol dire che si determini un arresto del suo funzionamento, che infatti non avviene neanche nelle più gravi forme di catatonia, e la fotografia che lo si può fare è sempre un’istantanea.

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Il fiume del suo svolgersi, a causa di un evento che si è verificato in quel preciso modo, in quel preciso momento ed in quel preciso contesto, ha, può o meno bruscamente, dovuto abbandonare il proprio alveo naturale, per scorrere in altri modi e luoghi.

Metaforicamente esso può arrestare il suo corso, come se avesse incontrato una diga apparentemente insormontabile, con l’insorgenza di autentici blocchi psichici, messi in essere per evitare di vivere un’angoscia insopportabile. In tal caso il corpo, nel suo immobilizzarsi catatonico, interprete icasticamente questa condizione che però esprime anche la sua precarietà giacché, se non si risolve con un progressivo abbassamento dell’accumulo, può superare violentemente l’ostacolo, col rischio di rovinose inondazioni, espresse, dai pazienti, con violente crisi pantoclastiche. Oppure può infilarsi in un percorso sotterraneo sottraendosi alla vista ed alla luce del giorni, in una condizione di buio esperienziale che il paziente esprime col ritiro emotivo ed affettivo della depressione.

E così via, il linguaggio metaforico potrebbe aiutarci a descrivere l’ininterrotto fluire della psiche e le sue vicissitudini nelle varie forme psicopatologiche che costituiscono le sindromi ed i disturbi psichici.

Ma proprio questa è la funzione della psicopatologia ed essa può esistere come scienza fin dove si è sviluppato. Ciò, del resto costituisce lo specifico della scienza e, per quanto riguarda la psicopatologia, costituisce lo specifico del suo compito di descrivere non la patologia dello psicologico, bensì la psicologia del patologico. Infatti, eliminando tutti i tratti patologici, ove fosse possibile, non rimarrebbe uno psicologico normale, ma il nulla.

La psichiatria, da parte sua, secondo il concetto medico, studia solo l’accadere patologico. Essa punta ad una diagnosi e ad una terapia e quindi alla guarigione che, per il paziente, è rappresentata dalla scomparsa dei sintomi, per il collettivo dall’adattamento o riadattamento.

Lo studio e la conoscenza dei fenomeni psichici, ed in particolare di quelli patologici, richiede un approccio empatico, cioè la capacità di immedesimarsi nell’altro con scarsa partecipazione emotiva. Questo modo risulta fondamentale specie per coloro che sono addestrati ed abituati ad osservare, registrare e raccogliere dati obbiettivabili per elaborarli e ricavarne conoscenze che poi trasformano in teoria.

Ma, proprio in questa modalità operativa, si manifestano alcune difficoltà di relazione con le metodologie di ricerca e di studio della psichiatria dove i dati sfuggono alla oggettività ed a prima vista possono apparire incerti ed inaffidabili, se non addirittura determinati dalla soggettività dell’osservatore, dell’ambiente di ricerca o di quello socio-culturale.

In sostanza i contenuti del dubbio di poter conoscere i fenomeni psichici e quindi di poterli studiare e descrivere e , nel nostro caso, di poterlo fare allo scopo di accertare l’esistenza di una

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patologia psichica menomante che costituisce un danno valutabile e risarcibile, sono rappresentati in gran parte dal convincimento che i fenomeni psichici non siano di per sé studiabili e conoscibili.

Essi non costituirebbero dati sicuri perché non sembrano obbiettivabili ed inoltre sono troppo fugaci.

In verità è un atteggiamento scientifico piuttosto insolito: si vuole che l’oggetto di ricerca sia fatto a misura dell’osservatore, dei suoi mezzi e delle sue preferenze e che esso si mostri per un tempo sufficientemente lungo da consentire una comoda osservazione.

L’idea opposta, che sia il ricercatore ad adeguare se stesso ed i suoi strumenti alla natura dell’oggetto, sembra poco accettabile ed ancor meno lo sembra il fatto che l’oggetto possa non essere conoscibile di per sé, ma per come si manifesta e per gli effetti che conseguono al suo manifestarsi.

La menomazione psichica esprime lo stato di peggioramento del modo di essere di una persona a causa di un disturbo psichico determinato da una lesione psichica, cioè da un’ingiusta turbativa del suo equilibrio psichico.

In quanto conseguita ad un’ingiusta turbativa, essa costituisce un danno-evento, cioè un danno biologico di natura psichica che, pertanto, va risarcito.

Ciò premesso, consegue, come punto basilare, la necessità di stabilire una diagnosi del disturbo psichico secondo i criteri, i metodi e gli strumenti diagnostici della clinica psichiatrica.

Questo processo conoscitivo-descrittivo non può prescindere dai presupposti eziologici che lo sottendono, di fondamentale importanza anche dal punto di vista medico legale.

E’ esattamente quanto avviene nell’accertamento e nella valutazione di un danno da menomazione fisica.

A parte tale confluenze di intenti, dove, però, subito sottolinearsi come le metodologie seguite nei due processi accertative e valutative possano risultare differenti tra loro, in particolare rispetto ai principi di base della medicina legale.

Queste differenze si ritrovano già nella valutazione della dinamica dell’evento lesivo.

Infatti la grandissima maggioranza delle lesioni fisiche è determinante da eventi traumatici anch’essi di natura fisica che, secondo il principio della causazione, possono essere valutati sia rispetto alla loro specificità che alla loro efficienza.

Si tratta di un principio di causalità lineare che risponde ai criteri del determinismo scientifico.

La psichiatria, invece, ha ormai abbandonato il principio della causalità lineare giacché, nell’eziopatogenesi dei disturbi mentali, intervengono più fattori di diversa natura: organici, costituzionali, ereditari, tossici, ambientali, economici, sociali, familiari, ecc. Inoltre non è più accettata la distinzione netta tra fattori eziologici esogeni ed endogeni. Ogni espressione,

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psicopatologica o non, appare sempre come il risultato del rapporto dinamico e reciprocamente trasformativo tra l’individuo e l’ambiente.

L’eziologia del disturbo psichico è, pertanto, considerata come il prodotto di un’integrazione, unica ed irripetibile per ogni individuo, di un insieme di fattori che si intersecano e si influenzano tra loro.

La plurifattorialità dell’eziologia di un disturbo psichico richiede, ovviamente, un’accurata ed estesa indagine che tocchi il maggior numero possibile di aspetti della vita e della storia personale del soggetto. Quindi già dal primo momento di incontro e dalla raccolta anamnestica, il processo conoscitivo si caratterizza specificamente, a cominciare dall’approccio empatico dinanzi descritto.

A questo primo momento dove seguire una pausa di riflessione per noi decidere se e quali strumenti i diagnostici debbano essere utilizzati per precisare e dare un senso ai dati già raccolti.

Essi vanno confrontati con quelli forniti dagli altri strumenti di accertamento diagnostico, da quelli neuro-psicologici e quelli psicodiagnostici.

I primi, con accertamenti clinico-strumentali specifici, tendono a stabilire se vi siano danno organici e/o funzionali del sistema nervoso nella sua integrità anatomo-funzionale.

In tal modo si connota un primo livello conoscitivo ed una prima piattaforma clinica per poter giungere ad una diagnosi definitiva ed orientativa.

Nel processo clinico-diagnostico sarà, pertanto, necessario accertare:

- la presenza di deficit neuro-psicologici che possano spiegare i sintomi osservati o riferiti nella vita quotidiana del paziente, malgrado la negatività (e spesse succede!) degli esami neurologici di base;

- una diagnosi particolare;

- le aree di funzionamento alterate;

- la gravità del deficit di ogni funzione esaminata e dell’insieme funzionale cognitivo-espressiva.

A livello nosografico si dovranno inoltre valutare le conseguenze della lesione del sistema nervoso centrale nel loro evidenziarsi cronologico: immediate (es. commozione cerebrale, coma, ecc.), intermedia (es. amnesia retro- e anterogrado post-traumatica, anossica, tossica, ecc.) e a lungo termine, sulle funzioni cognitive (permanenza effettiva di una invalidità funzionale).

I secondi, cioè gli strumenti psicodiagnostici specifici della psicopatologia, consentono di accertare come e quanto le funzioni psichiche, nelle loro espressioni cognitive, affettive, emotive e comportamentali, risultino inficiate o chiaramente danneggiate, temporaneamente e

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permanentemente, sia in relazione a lesioni organiche che abbiano o meno intercessato anche il sistema nervoso centrale, sia in assenza di tali lesioni (trauma fisico, psichico o fisico-psichico).

Ne discende che il riconoscimento e la quantificazione dal “danno da menomazione psichica”

richiede - quale elemento focale - la accurata valutazione psicopatologica del soggetto.

Questa deve essere perciò finalizzata:

a) ad accertare la presenza e il tipo di disturbi delle funzioni psichiche del soggetto;

b) ad identificare la presenza di eventuali “sindromi” psichiatriche in senso stretto;

c) a precisare i rapporti esistenti tra l’evento lesivo e le alterazioni psicopatologiche osservate.

Ciascuna delle funzioni psichiche può risultare alterata e quindi richiedere indagini separate (coscienza, percezione, ideazione, affettività, psicomotricità, comportamento).

Non note inoltre innumerevoli sindromi psichiatriche direttamente innescate da episodi traumatici.

Si pensi da un lato alle conseguenze dei traumatismi cranici, quali le psicosi e le demenze post- traumatiche, le nevrosi, la sindrome soggettiva dei traumatizzati cranici; dall’altro ai disturbi post- traumatici da stress o alle reazioni di adattamento conseguenti all’evento “traumatico”.

E’ altresì fondamentale riconoscere il ruolo giocato dall’evento nella genesi del disturbo: è infatti possibile che questo preesista all’evento, che rappresenti la manifestazione conclamata di una predisposizione già presente e “rivelata” dell’evento, ovvero una reale conseguenza dell’evento stesso, sia in senso temporale che patogenetico.

E’ chiaro che la discriminazione tra queste varie possibilità è requisito indispensabile per la definizione e quantificazione del “danno da menomazione psichica” attribuibile all’evento.

Per una ponderata considerazione dei fattori che concorrono a concretare la menomazione psichica, va tenuto presente che il tempo “oggettivo”, strumento di misura stabilito dall’uomo, non pertiene alla natura e quindi ai processi naturali. In natura il “tempo” non esiste, nel senso che la natura trascende il tempo-misura.

In questo insieme codificato, comunicabile e comprensibile, il giudice pone al tecnico una serie di domande e gli stabilisce anche dei termini temporali nei quali si deve far rientrare necessariamente l’identificazione del danno come tale.

Quindi la descrizione e la sua valutazione sono riferite ad un momento (ad un’istantanea), nel quale, per convenzione clinica ed epidemiologica, si “ferma” il processo evolutivo della malattia.

In tal caso si parla, infatti, di “stabilizzazione di una menomazione fisica o psichica e di una persistenza della stessa”.

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L’uomo ha stabilito, per convenzione, la necessità di misurare i fenomeni naturali con valori di spazio e di tempo.

Queste convenzioni trovano riscontro ad applicazione in medicina legale con riferimento al nesso cronologico ed a quello topografico, ma, nel misurare la “forza” della causa, anche all’efficienza lesiva di questa.

La misura delle “cose” serve all’uomo per orientarsi e per stabilire codici di comunicazione comuni, al di là delle differenze culturali.

L’alterazione della capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo costituisce, infatti, un importante segnale dell’esistenza di uno stato psicopatologico. Si tratta di una condizione psichica che interferisce, anche pesantemente, con la possibilità di un soggetto di comunicare, di esprimersi, di stabilire relazioni interpersonali e di raggiungere e conservare un adeguato esame di realtà.

Del resto tutte le convenzioni hanno almeno tre scopi principali:

1) inscrivere la realtà naturale, nelle sue multiformi ed infinite variabili, in un contesto definito e coordinato nel quale le operazioni mentali e logiche possano svolgersi senza, o quasi, impreviste od imprevedibili “sorprese” conoscitive ed operative.

2) Rendere tali assunti metodologici, ed i risultati che ne conseguono, descrivibili e comunicabili, con un linguaggio transculturale che giunge a semplificarsi fino ad assumere caratteristiche gergali, specifiche per ogni ambito conoscitivo.

3) Giungere a stabilire modelli di riferimento comuni e standardizzati che rappresentino il centro di una distribuzione gaussiana di variazioni che, a secondo della loro posizione più o meno vicina al modello centrale, vengono considerate modalità più o meno “sane”, accettabili e consentite di essere.

Ricordo che il procedimento diagnostico per giungere ad una diagnosi psichiatrica di rilevanza medico legale consiste nei seguenti punti fondamentali:

- Raccolta dell’anamnesi senza escludere alcun elemento, anche apparentemente insignificante;

- Esame obbiettivo psichico;

- Accertamenti neuropsicologici;

- Accertamenti psicodiagnostici (Tests di livello o Tests proiettivi);

- Valutazione epidemiologica;

- Integrazione dei dati raccolti;

- Uso di uno strumento diagnostico standardizzato per stabilire una diagnosi ripetibile e comunicabile, sia rispetto ai sintomi che alla valutazione dell’evento traumatico e del

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funzionamento psicologico, sociale ed occupazionale del soggetto in esame (DSM-III-R; DSM-IV;

ICD 10 dell’OMS);

- Indicazione dell’entità della menomazione psichica;

- Connessione eziologica del disturbo con la preesistente struttura di base della personalità del soggetto (preesistenza);

- Definizione dell’inemendabilità della menomazione accertata;

- Inserimento dei risultati diagnostici acquisiti in un processo di valutazione secondo i principi di base della medicina legale.

In particolare va considerato che nella genesi di un disturbo psichico, a parte alcune sindromi quali il Disturbo Post-Traumatico da Stress, il Disturbo dell’Adattamento e la Psicosi Reattiva Breve le quali, di per sé, sono sempre causate da un evento traumatico, non è possibile indicare una sicura e specifica eziologia.

Ne consegue che risulta indispensabile acclarare la qualità dell’evento lesivo e come questo,

“incontrandosi” con un determinato soggetto in un particolare modo ed in un preciso momento, abbia determinato l’insorgenza di un disturbo psichico.

Eziologicamente risulta molto più frequente il riscontro di un nesso concausale che andrà accuratamente valutato anche nelle sue componenti rappresentate dalla struttura della personalità del soggetto e dalla qualità intensità e durata dell’evento lesivo.

Infine sembra opportuno sottolineare che la valutazione di una menomazione psichica permanente non può essere effettuata che dopo un congruo periodo di tempo che non dovrà mai essere inferiore ad un anno i può richiedere un accertamento della sua persistenza anche dopo due- tre anni dalla data dell’evento.

A conclusione e unicamente come modesto e prudente suggerimento, che contiene anche una richiesta di aiuto a tutti gli addetti ai lavori, si prospetta qualche indicazione su un’ipotesi di criteriologia valutativa.

Orientamenti valutativi

Va subito precisato che nella valutazione del danno da menomazione psichica la scala convenzionale utilizzata per il danno da menomazione fisica non appare adeguata. Parimenti non è pensabile di seguire, per la valutazione del danno da menomazione psichica, delle scansioni valutative ridotte al valore del punto percentuale, procedimento d’altra parte che appare assai discutibile anche nella convenzionale valutazione del danno da menomazione fisica.

Secondo noi è pertanto consigliabile che la scala di valutazione percentuale del danno da menomazione psichica segua una scansione di almeno cinque punti.

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Prima di tutto è clinicamente e scientificamente improponibile una percentuale di danno inferiore al dieci per cento dell’integrità psichica della persona.

In tale quota, infatti, rientrano, a nostro avviso, i “normali” modi di essere di ogni individuo con le oscillazioni “naturali”, in momenti diversi e nelle differenti esperienze della vita quotidiana, dei propri stati d’animo e dei propri comportamenti.

Tale modo di essere rappresenta una costante di ogni individuo, che nel processo valutativo costituisce una preesistenza comune a tutti i soggetti e che, in quanto tale, non può costituire concausa di lesione e/o di menomazione. Riteniamo ragionevole di poter indicare, in attesa di verifiche ulteriori sull’argomento, tale voce in ragione del 10% da cui partono le indicazioni valutative che seguono.

Tale quota percentuale, a nostro parere non deve costituire voce di danno da menomazione psichica; pertanto le indicazioni valutative, di seguito suggerite, sono da ritenersi “al netto” della percentuale indicata.

Questi modi di essere rappresentano la carta di identità psichica di ogni soggetto le cui caratteristiche risultano ben note al suo gruppo di appartenenza sociale che, in genere, li zecca e li tollera.

I criteri di valutazione sono due: clinico, rispetto ai sintomi, e medico legale, rispetto alla menomazione conseguente.

Per quanto riguarda la valutazione clinica, essa, di esclusiva pertinenza dello specialista della materia, altro non è che la descrizione dei sintomi riscontati e della loro gravità ed inemendabilità;

quella medico legale valuterà l’influenza negativa dei descritti sintomi sull’integrità psico-fisica della persona.

Per esempio un grave stato fobico, con il soggetto incapace di lasciare la propria abitazione, costituisce di per sé uno stato menomante di estrema gravità, anche se la “malattia” che lo affligge non pertiene ad una diagnosi clinica altrettanto grave, quale può essere un Disturbo da attacchi di panico con agorafobia.

In questo caso, comunque, se si tratta di un soggetto che lavora al proprio domicilio, il danno patrimoniale che gli deriverebbe, come danno-conseguenza, potrebbe anche essere di non rilevante entità.

Invece, una sintomatologia fobica specifica verso una condizione od un’esperienza particolari, per esempio il non poter trattenere a lungo in piccoli o grandi spazi (moderni boxes-uffici, open spaces, ecc.), pur non costituendo di per sé una grave condizione menomante, può diventarlo nel tempo se il soggetto, per svolgere le proprie attività, continua ad essere sottoposto allo stesso stimolo per lui nocivo.

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L’approccio clinico e quello medico legale ritrovano, nella variabilità mostrata degli esempi proposti, il nucleo della difficoltà valutativa e la conferma della necessità di una accurata interpretazione specialistica.

Conclusioni valutative

Sempre con riferimento al DSM-IV, sembra proponibile la seguente scala di valutazioni del danno da menomazione psichica:

1) I sintomi psicopatologici rappresentano reazioni transitorie ed eventi lesivi costituenti uno stimolo psico-sociale stressante, qualche deficit della attenzione, una riduzione della capacità di concentrarsi a lungo in un compito, una lieve labilità emotiva, modeste alterazioni del ritmo del sonno anche episodiche, transitori stati depressivi, abbassamento delle prestazioni scolastiche e/o lavorative scaturite da futili motivi (discussioni in famiglia - tra amici), sintomi tutti che possono configurare un danno biologico temporaneo da menomazione psichica.

2) Intensificazione e permanenza, a distanza di almeno un anno, di sintomi nell’ambito delle funzioni cognitive e della vita affettiva: appiattimento della affettività, difficoltà espressive, occasionali attacchi di panico, abbandono delle amicizie, alterazioni dei rapporti interpersonali, con possibilità di interruzione di relazioni affettive stabili, e peggioramento globale del modo di essere.

Indicazione valutativa proposta 10-15%.

3) Presenza di sintomi psicopatologici più gravi quali: idee di suicidio, frequenti attacchi di panico, tendenza cleptomaniche ed altre anomalie della condotta (potus, assunzione incongrua ed arbitraria di psicofarmaci, trascorrere spesso la notte fuori casa), alterazioni significative del tono dell’umore, prendere decisioni avventate che coinvolgono altri componenti la famiglia, ripetute assenze non giustificate dal lavoro, ecc.

Indicazione valutativa proposta 20-30%.

4) Presenza di più gravi sintomi psicopatologici: diminuzione delle capacità critiche nell’esame di realtà, episodiche alterazioni dell’orientamento temporo-spaziale ed affettivo, diminuzione delle funzioni cognitive con significativo deficit delle prestazioni abituali sia nella vita di relazione che sul lavoro, significativa alterazione della capacità di entrare in rapporto con gli altri per la difficoltà di comunicazione, alterazioni anche gravi del comportamento (episodi di violenza, tendenze tossicofiliche, disordini affettivi e sessuali anche nell’ambito familiare), subentranti episodi depressivi, ecc.

Indicazione valutativa proposta 30-40%.

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5) Significativa, ma episodica alterazione della capacità di comunicare, di entrare e di essere in relazione con gli altri, diminuzione delle capacità critiche e di giudizio e saltuari deliri con deficit del funzionamento sociale ed occupazionale.

Indicazione valutativa proposta 40-50%.

6) Presenza di deliri e di allucinazioni che compromettono gravemente la vita quotidiana del soggetto.

Indicazione valutativa proposta 55-65%.

7) Diminuzione della capacità di avere cura della propria persona, rischio di atti violenti contro se stessi e contro gli altri, frequenti stati di eccitamento psicomotorio, perdita delle relazioni sociali ed affettive.

Indicazione valutativa proposta 65-75%.

8) Incapacità quasi completa di badare a se stessi ed inemendabile sintomatologia aggressiva con alto rischio suicidario e di violenze eterodirette.

Indicazione valutativa proposta 75-90%.

Concludendo, ci viene da esprimere il nostro dissenso, ed in particolare il mio, come psichiatra, di fronte all’ipotesi, recentemente avanzata, di delegare al magistrato la valutazione del danno da menomazione psichica, fornendogli solo i dati clinico-diagnostici, per quanto esposto e spiegato analiticamente.

I dati raccolti da un tecnico, di qualunque materia, non significano nulla di per sé, per un profano della materia, ma solo al tecnico “dicono” il loro senso ed il loro valore e quindi solo lui potrà interpretarli e valutarli.

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