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I MONUMENTI DEL PRIMO DOPOGUERRA

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Academic year: 2022

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I MONUMENTI DEL PRIMO DOPOGUERRA

Guerra e memoria

All’esigenza di ricordare l’evento della guerra - consacrando ai posteri la memoria dei caduti e creando un’aura di sacralità attorno ai luoghi delle battaglie - diedero risposta tutti i governi degli stati che avevano partecipato al conflitto mondiale, vincitori e vinti. L’evocazione della guerra aveva avuto i propri spazi sacri già nel passato. Dopo la grande conflagrazione il ricordo assunse significati, rituali e potere evocativo del tutto nuovi, rapportati alla formazione di uno spirito e di un’identità nazionale e militare, alle forme della nazionalizzazione delle masse, alla creazione dei miti fondanti dei regimi totalitari (Mosse, 1990). Gli anni Venti e Trenta si nutrirono del ricordo della Grande Guerra.

I luoghi delle grandi battaglie, da Verdun alla Somme, dal monte Grappa a Redipuglia ed Oslavia vennero immortalati da mausolei e sacrari.

Parchi, targhe, titolazioni di vie, cippi, sacelli e monumenti furono dedicati, nei luoghi pubblici di ogni paese o città, al ricordo di morti eroiche od oscure. Ordinati cimiteri, monumentali o di campagna, raccolsero le spoglie dei caduti.

Nel Paese e nell’Isontino

L’Italia liberale aveva edificato attraverso i segni monumentali una memoria risorgimentale e garibaldina.

L’ondata postbellica di costruzione dei

luoghi del ricordo e dell’eroismo ebbe ben altra portata e suggestione, proporzionate alla durata della guerra, ai sacrifici da essa imposti alla nazione, alle lacerazioni politiche e sociali che essa aveva aperto nel corpo del paese, all’enormità delle perdite. Soprattutto, la creazione di una memoria del conflitto procedette, almeno dalla metà degli anni Venti, all’interno di un progetto autoritario in cui, con le finalità dell’educazione nazionale, veniva celebrata la continuità tra la grande guerra e la “rivoluzione”

fascista.

Inoltre, nel teatro di guerra dell’Isonzo, i temi universali del ricordo dei caduti lasciarono spazio a tratti originali, che rimandavano al tema della “vittoria mutilata”, alla difesa e proiezione della

“Porta Orientale”, all’uso politico del reducismo e del turismo di guerra. I segni monumentali poterono così rimarcare lungo la fascia dell’Isonzo, zona mistilingue e complessa, antemurale al confine nazionale, l’inappellabilità della sovranità italiana.

Carso e Isonzo divennero le sentinelle avanzate dell’Italia. L’orografia del Carso, peraltro, si prestò, con la sua brulla e aspra conformazione, ad offrire una materiale simbologia di sacrificio e sofferenza.

L’eclettismo del primo dopoguerra Nell’immediato dopoguerra, grosso modo sino al primo fascismo, le opere del ricordo mostrano una grande varietà di modelli ed espressioni, una distribuzione territoriale ampia, interventi e committenze spontanei di

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enti, associazioni d’arma e istituzioni (Isnenghi, 1989 e 2005), anche se è esplicito il tentativo da parte dello stato di una stabilizzazione monumentale dell’esperienza bellica, contributo all’opera di sacralizzazione e interiorizzazione della guerra appena conclusa nella mentalità collettiva.

Infatti, nel 1920 è costituito l’Ufficio centrale cura e onoranze salme caduti in guerra. Alla fine dell’ottobre 1922 risalgono invece i decreti istitutivi delle Zone Sacre del monte San Michele e del Sabotino. Dello stesso periodo è la circolare ministeriale con la quale il governo invita i comuni del Regno a dedicare strade e parchi al tema della Rimembranza.

In questo periodo predomina la monumentalità minore: l’unica significativa eccezione è infatti rappresentata dal cimitero di Redipuglia. Il gusto delle opere varia dall’ellenismo calligrafico delle vittorie alate, alle formulazioni in aggraziato stile floreale delle Madonne del Soldato, alle linee di un freddo neoclassicismo degli obelischi, delle are, delle metope decorative, delle colonne spezzate o dei tempietti. È un eclettismo che rivela la multiformità dei progetti.

Nelle zone della linea del combattimento è rilevante, in questa fase, la correlazione tra la naturalità montana e carsica e la fisicità dell’esperienza di guerra. La vicinanza del conflitto e gli indirizzi ancora incerti di organizzazione della memoria andavano infatti incontro ad una soluzione costruttiva che ricordasse,

favorita dalla scabra superficie dei monti o degli altipiani, la dimensione quotidiana della sofferenza e del sacrificio, l’aspetto naturalistico della guerra. Le lapidi, i cippi, le steli che ricordano gli uomini e le gesta sono disperse nelle aride pietraie, signum artificiale in un territorio ancora sconvolto dalla guerra.

Redipuglia e il San Michele

La necropoli di Redipuglia, il Cimitero

“Invitti della Terza Armata”, concentra alla massima espressione questa tipologia del ricordo. La struttura, che raccoglieva oltre trentamila salme riesumate dai piccoli cimiteri di guerra o disseppellite nell’altopiano, venne terminata e consacrata nel 1923. Il colle Sant’Elia, di fronte allo spalto carsico, era stato modellato sino a formare dei gironi concentrici, divisi da sette settori circolari discendenti a raggiera. Sulla sommità del poggio era collocato un obelisco-faro. Le sepolture erano confuse nella paesaggistica carsica e sembravano riprodurre la casualità della morte, circondate com’erano da cimeli, oggetti, suppellettili, armi.

Targhe ed epigrafi, con semplici rime, ricordavano le esperienze più umili del vissuto bellico, la funzione degli oggetti più modesti.

La Zona Sacra del monte San Michele fu invece interpretata in una chiave diversa, in cui dovevano apparire dominanti i caratteri, più impersonali, dell’eroismo e del titanismo, portati sulla scena dalla mole massiccia dell’altura, dalla sua prominenza sulla pianura, dalla ricchezza delle sue difese

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ed opere. Già nel 1919 il Comitato nazionale per la glorificazione del Fante aveva proposto l’innalzamento sull’altura di una grandiosa statua del fante italiano, che nelle intenzioni si sarebbe dovuta vedere da ogni parte della pianura friulana. Il progetto non fu portato a realizzazione, ma l’acquisto da parte dello stato della sommità del monte consentì, nel corso degli anni, il riattamento delle caverne, l’edificazione di un piccolo museo, la costruzione di un belvedere, la disposizione di cippi vari in un contesto di ordine-disordine che costituisce il carattere di questa prima fase monumentale.

Redipuglia rappresentò la vena interiore del ricordo dell’evento bellico;

la Zona Sacra del San Michele, invece, l’aspetto della grandiosità e dell’operosità eroica, seppure in una veste depurata ad uso del turismo di guerra.

[Angelo Visintin]

DURANTE IL REGIME FASCISTA

La “fascistizzazione” della memoria Un reale mutamento di tendenza nella trasmissione della memoria e dei valori eroici del conflitto mondiale ebbe luogo durante il regime fascista. Impegnato a permeare la società con le sue istituzioni e ad edificare il consenso, il governo fascista fece propria la progettazione di grandi spazi sacri. I luoghi “Santi alla Patria”, espressione di una religiosità laica fondata

sull’eroismo e il sacrificio (più che sulla sofferenza o sulla pietà), entrarono a buon titolo nella ritualità del regime, che si riferiva abbastanza scopertamente alla continuità esistente fra la generazione del Carso e l’Italia fascista.

Le istituzioni locali del regime avevano cominciato a inserirsi, in una logica già istituzionale, ma non ancora di uniformità, nella promozione della costruzione di opere atte a celebrare il ricordo della guerra trascorsa. Ad esempio, su iniziativa dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti era stato eretto poco distante da San Martino un cippo alla memoria di Filippo Corridoni, sindacalista e interventista morto nel 1915. Un punto di sutura fra la tradizione locale dei monumenti isolati nel contesto carsico e l’ipoteca fascista, attraverso stilemi ideologici, della guerra italiana.

Il progetto fascista attinente l’edificazione di aree sacre si inserisce razionalmente nella politica di massa del regime, volta a militarizzare la nazione, a permeare di aggressività e forza il sistema dell’educazione della gioventù. Al confine orientale, poi, la sacralizzazione del territorio alludeva alla politica di esasperata italianizzazione delle terre orientali, di ostentazione di forza, di imperialismo nazionalista. Cambiava anche la tipologia dei pellegrinaggi verso i luoghi sacri. Il turismo bellico di ex ufficiali, alunni meritevoli o vincitori di borse di studio, comitive legate ad associazioni ricreative o ad organizzazioni di reduci lasciava il

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posto, pur senza estinguersi, a manifestazioni collettive e istituzionalizzate delle strutture associative ed educative del regime. Gli ampi piazzali e le scalinate dei mausolei costruiti a partire dai primi anni trenta ben si prestavano ad accogliere reparti in armi, gioventù irreggimentata, concentramenti di gruppi organizzati.

La “nuova Redipuglia”. Oslavia

Il sacrario militare di Redipuglia rientra pienamente in questo modello. Fu eretto tra il 1936 e il 1938 sulle falde dell’altopiano (monte Sei Busi), di fronte al vecchio cimitero del Sant’Elia, trasformato in silenzioso Parco della Rimembranza. La soluzione del restauro e del consolidamento del Cimitero degli Invitti, avviata nella prima metà degli anni Trenta, era stata abbandonata, in quanto non rispondente alle esigenze eroiche e monumentali del regime.

Una grandiosa scalinata di 22 gradoni di pietra sale sino alla cappella votiva sormontata da tre croci, partendo da un ampio piazzale in cui sono situate le tombe dei generali della 3ª armata e, in testa, più isolata, l’urna del comandante, il Duca D’Aosta. È chiara l’allegoria dell’esercito schierato con i suoi condottieri. L’egualitaria sepoltura di centomila caduti scandisce un’atmosfera ieratica e rarefatta, volutamente impersonale, priva di elementi differenzianti, sottolineata dal linguaggio razionalista dell’architettura.

L’altro grande sacrario del tardo fascismo venne edificato ad Oslavia, a

pochi chilometri da Gorizia, sopra un’altura posta sulla riva destra dell’Isonzo. L’ossario raccoglie le salme di sessantamila caduti italiani e in minima parte austroungarici del fronte del medio Isonzo. Un grande mastio centrale e tre torri laterali costituiscono il complesso monumentale. All’interno della struttura i caduti sono collocati in loculi disposti su più ordini lungo le pareti circolari o in cripte centrali. L’impronta di sobrietà, l’allusione ai canoni gerarchici e di massa, la ripetitività e gregarietà delle sepolture, il biancore della pietra e dei marmi ricordano Redipuglia e le altre necropoli del periodo fascista. Diversamente da Redipuglia, tutta spiegata nello spazio circostante, il mausoleo di Oslavia trasmette un’immagine diversa, di forza concentrata: un cimitero-fortilizio che, come gli antichi castellieri, sembra segnare il dominio del territorio, presidiare con i suoi caduti le terre orientali annesse all’Italia.

Dopo il secondo conflitto

Nel secondo dopoguerra i luoghi sacri del Carso e dell’Isonzo affermarono nuovamente, ma in un altro contesto civile e storico, il valore di testimonianza, ricordo, onoranza e patriottismo. La guerra era stata perduta. Lungo la linea del fronte dove trent’anni prima italiani austriaci e ungheresi avevano combattuto aspramente era calata la Cortina di Ferro. I luoghi del ricordo affiancarono alla funzione commemorativa, patriottica e di omaggio ai caduti

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l’esigenza di mantenere deste le rivendicazioni territoriali (di Trieste, sino al 1954, ma vagamente anche sugli altri territori ceduti alla Jugoslavia).

La guerra perduta, “guerra fascista”, con il corollario delle lacerazioni ideologiche e con gli strascichi emotivi della sconfitta, non poteva costituire una “zona del ricordo” adatta alla mobilitazione patriottica. La grande guerra invece appariva interiorizzata nella coscienza della nazione ed effigiata da luoghi sacri ora coincidenti con l’ultimo lembo di terra italiana. Un nuovo afflusso di reduci, quelli del secondo conflitto mondiale, si innestò su quello antico dei veterani della prima guerra. Negli anni Cinquanta e Sessanta la zona monumentale e gli itinerari del turismo bellico divennero oggetto di pellegrinaggi, di cerimonie pubbliche a livello nazionale (la celebrazione della Vittoria, il 4 novembre), di rassegne militari.

L’utilizzazione della memoria procedeva peraltro nella proposta di modelli esortativi, di un linguaggio, di una linea d’interpretazione storica che, escludendo i riferimenti al fascismo, riconducevano agli imperativi del patriottismo di vent’anni prima. Il tono retorico e il frasario delle guide ai campi di battaglia, ad esempio, sono gli stessi (gli autori, pure). Sono spariti soltanto i riferimenti encomiastici alla monarchia ed al regime.

Solo in tempi più vicini una nuova sensibilità sembra aver restituito la memoria della guerra ad accenti più umani e ad una minor strumentalità

nell’uso pubblico del ricordo di quegli avvenimenti.

[Angelo Visintin]

LA SCRITTURA

Della memoria della guerra abbiamo già riferito, direttamente o indirettamente, in varie parti della presente trattazione: molti hanno scritto della loro esperienza bellica, sia a livello dei soldati, sia da parte di scrittori, che volontariamente o per obbligo hanno partecipato a conflitto.

Molti di questi scritti sono famosi, basti citare le poesie di Ungaretti ispirate alla vita di trincea o ai paesaggi tragici e sconvolti dai bombardamenti del San Michele e di San Martino:

“Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura

così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata

Come questa pietra è il mio pianto che non si vede

La morte si sconta vivendo”.

Oppure i libri famosi che sono citati in altri passi come Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu o Niente di nuovo sul

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fronte occidentale di Erich Maria Remarque; ma in questa parte non cerchiamo di riferire ripetitivamente ciò che già si è detto, ma piuttosto di fare il punto, almeno parzialmente, sulla letteratura, che ha come argomento a Grande Guerra.

La guerra come esperienza centrale dell’esistenza dei combattenti

Possiamo dire che questa esperienza è stata certamente un momento centrale della vita di coloro che l’hanno vissuta e che gli atteggiamenti che ne sono seguiti hanno prodotto riflessioni diverse e addirittura antitetiche rispetto al significato e alle conseguenze di una tragedia di tali proporzioni.

Basta pensare che per molto tempo si è assistito a un processo di mitizzazione e di sacralizzazione di quegli avvenimenti e perciò scrivere intorno alle proprie esperienze doveva comunque fare i conti con la vulgata eroica che prima di tutto il regime fascista, ma poi anche in seguito le autorità avevano diffuso.

Fare emergere gli aspetti contraddittori e terribili del conflitto significava mettere in discussione non solo orientamenti personali, che in qualche caso avevano portato all’adesione volontaria all’intervento, ma anche, e soprattutto, un sentire comune che faceva di quella guerra un momento fondamentale dell’identità nazionale.

Quanti furono gli scrittori che in buona fede, per motivazioni che risalivano a sentimenti di tipo risorgimentale, rifuggendo da posizioni nazionaliste o imperialiste, videro come un dovere

l’arruolamento: pensiamo ai volontari triestini del gruppo della “Voce”, Slataper, Stuparich, ma anche ad altri che ritenevano che solo abbattendo gli ultimi resti dei regimi autoritari in Europa sarebbe stato possibile liberare i popoli dall’oppressione.

Inoltre per tutti coloro che erano partiti per il fronte questo avrebbe dovuto essere un conflitto breve e definitivo, dopo il quale le questioni da tanto tempo sul tappeto, che avevano contrapposto le nazioni, sarebbero state risolte una volta per sempre.

Sappiamo che le cose andarono ben diversamente e che non solo il conflitto si rivelò molto diverso e molto più lungo del previsto, ma ance che la sua conclusione, lungi da risolvere i problemi, ne aprì altri e che il dopoguerra fu foriero di altre tragedie e divisioni che sfociarono nell’ancor più terribile secondo conflitto mondiale.

Nuovi atteggiamenti verso la guerra Disillusione e revisione critica furono atteggiamenti che emersero ampiamente negli scritti sulla guerra, sia in quelli dal basso (diari, memorie ecc. di soldati), sia in quelli più strutturati degli intellettuali.

Citiamo Alessandro Galante Garrone nell’introduzione a Momenti della vita di guerra di Omodeo: “Se il fiore della gioventù borghese aveva desiderato la guerra per vari motivi - la continuità con il Risorgimento, il completamento dell’unità nazionale, una più alta giustizia fra i popoli, un rinvigorimento morale della nazione (…) - non sfugge tuttavia allo sguardo dello storico che a

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quella generazione era venuto meno il dominio degli eventi suscitati. Fu questa la vera catastrofe della guerra che non seppe giustificarsi con un

«suggello d’accresciuta civiltà» e vide il naufragio delle speranze e dei propositi migliori. Questi si smarrirono nella moltitudine immensa della guerra cronica, si spensero contro i reticolati.

La guerra apparve così come orrore e angoscia e infinito squallore. Moriva per sempre la guerra garibaldina, e appariva il volto della guerra reale. Fu un logorio lento di tutte le fibre, atonia, mutazione dell’intelligenza, distruzione cieca”.

Concludiamo con un giudizio di Benedetto Croce del 1918: “La nostra Italia esce da questa guerra, come da grave e mortale malattia,con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne che solo lo spirito pronto, l’animo cresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e volgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza”.

Purtroppo non sarà così.

[Massimo Palmieri]

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