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credo che sia lo sbraitare di papà

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Academic year: 2021

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1. Gatto e Kate

Mio padre parla sempre di quanto un cane possa essere educativo per un ragazzo; questo è il motivo per cui ho preso un gatto.

Mio padre parla comunque un sacco. Forse perché è un avvocato. Inoltre, non essendo molto alto e con pochissimi capelli grigi ricciuti, pensa di dover gridare a squarciagola per rimediare al fatto di non essere un omaccione con tanti capelli. La mamma è magra e tranquilla e quando qualcosa la disturba, le viene l’asma. Nell’appartamento dove viviamo, nel centro di New York, non abbiamo tende o tappeti pesanti. Mamma non frigge mai il cibo perché i medici pensano che la polvere e il fumo le peggiorino l’asma. Io non credo sia per la polvere; credo che sia lo sbraitare di papà.

Il grande litigio che mi ha spinse a prendere Gatto, avvenne quando avevo guadagnato dei soldi extra facendo da baby-sitter a un bambino all’angolo di Gramercy Park. Con quei soldi mi ero comprato un disco di Belafonte in cui c’è una canzone su un padre che parla a suo figlio di uccelli e api. Per me è divertente. Papà va su tutte le furie.

«Non metterai quella musica in questa casa!», urla. «Perché non sei fuori comunque? Baby-sitter! Dischi da poppanti! Quando io avevo la tua età, facevo soldi distribuendo giornali e assieme al mio cane Jeff ero solito andare a caccia di conigli per kilometri nelle belle giornate di fine settimana».

«Papà», gli dico con pazienza. «Non ci sono conigli sulla terza strada.

Davvero, non ci sono».

«Non essere insolente!». Papà bruscamente stacca la spina del giradischi con una tale forza da far scappare la puntina e probabilmente anche rovinare il disco. Questo mi fa infuriare e comincio a gridare anch’io. Tra il trambusto entrambi ci accorgiamo che la mamma in cucina sta iniziando ad ansimare.

Papà sussurra: «Ecco, hai visto! Sei riuscito a far star male tua madre!».

Chiudo con forza il giradischi, prendo una mazza e una palla e corro giù per le tre rampe di scale in strada.

Questa non è la prima volta che io e papà facciamo queste scenate, anzi sta diventando un’abitudine. Quando esco di casa arrabbiato vado da zia Kate.

Non è veramente mia zia e i ragazzi del quartiere la chiamano Kate, la

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gattara pazza, perché mentre cammina per strada, con indosso strani vestiti e scarpe da ginnastica, parla da sola e a volte ha più di mezza dozzina di gatti che vivono con lei. Credo che in effetti sembri un po’ stramba, ma è solo perché fa le cose a modo suo, fregandosene di quello che pensano gli altri. Ė sana di mente, ok. In effetti, è molto più sensata lei di mio papà.

Avevo incontrato Kate tre o quattro anni fa, quando ero un bambino, mentre, disperato dopo una lite con papà, avevo sceso di corsa le scale. Mi ero precipitato fuori dalla porta e poi in strada senza nemmeno guardare. In quell’istante avevo sentito una macchina frenare di botto e qualcuno che mi tirava all’indietro agguantandomi per la collottola e mi scaraventava con forza sul marciapiede.

Avevo alzato lo sguardo e visto una lucida macchina nera targata M.D. e Kate agitare l’ombrello all’autista gridando: «Ascoltami bene, dottor pezzo grosso, a chi stai salvando la vita? Non riesci nemmeno a fare attenzione a un marmocchio che attraversa la strada?».

Il medico era sembrato imbarazzato, e anch’io; delle persone sul marciapiede si erano fermate a guardare e ridacchiavano. Il nostro custode Butch era lì e stava agitando il dito. Kate, dopo avergli fatto un cenno col capo, gli aveva detto che mi avrebbe portato a casa sua per darmi una ripulita.

«Sì, signora» aveva risposto Butch. Lui dice “Sì, signora” a tutte.

Kate mi aveva trascinato al suo appartamento tenendomi per mano. Non aveva detto nulla quando eravamo arrivati, mi aveva solo mollato su una sedia con un paio di gattini. Poi, mi aveva offerto una tazza di tè e una scodella di fiocchi di latte.

Avevo smesso di tirare su col naso per chiederle: «Cosa metto sopra i fiocchi di latte?».

«Non metterci niente. Mangia. Mangiane una ciotola ogni giorno. Ecco, prendi anche un'arancia, ma niente biscotti o caramelle, niente di quella roba dolciastra e piena di amido. E niente fagiolini, non ti fanno bene».

Dovevo aver strabuzzato gli occhi, ma immagino che proprio da quel primo incontro avevo capito che non si discute con Kate. Avevo mangiato i fiocchi di latte, che comunque non sanno di niente; ero di certo sempre stato d’accordo con lei sui fagiolini.

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Di tanto in tanto da quel giorno avevo visto molto Kate. La vedevo passare per strada chiamando qualche vecchio gatto malconcio da sotto le macchine, che veniva sempre fuori per farsi accarezzare. A volte intorno a lei si radunavano un gruppo di ragazzini che, girandogli intorno, la prendevano in giro chiamandola strega. Mi faceva sentire bene e importante scacciarli.

Piuttosto spesso andavo con lei al supermercato e l’aiutavo a portare a casa il cibo per gatti, i fiocchi di latte e la frutta. Nel negozio parla da sola tutto il tempo e, se pensa che le pesche o i meloni non abbiano un bel aspetto quel giorno, impreca per tutto il negozio contro il direttore, che arriva e gliene prende uno delizioso, giusto per evitare inconvenienti.

Avevo presentato Kate alla mamma e insieme andavano d’accordo. Kate è molto diffidente nei confronti delle persone perché credo abbia paura che la prendano in giro. La mamma non è diffidente, ma è timida e, un po’ per l’asma un po’ perché si preoccupa di tenere me e papà calmi, non esce spesso e non frequenta molta gente. Lei e Kate si mettevano a chiacchierare nei negozi o sulle scalinate di casa nelle giornate soleggiate. Kate scuoteva la testa all’asma della mamma e le diceva che sarebbe guarita mangiando fiocchi di latte tutti i giorni. Mamma per un po’ li aveva mangiati, ma con sopra la maionese, che per Kate è come un veleno.

Il giorno della lite con papà per il disco di Belafonte, giorno freddo e ventoso, senza ragazzi in giro, faccio rimbalzare avanti e indietro la palla contro il muro dove c’è scritto “non giocare a palla”, giusto per riscaldarmi e sfogare un po’ di cattiveria. Poi vado a trovare Kate.

L’unico gatto fisso di Kate è Susan, nonostante le sue numerose cucciolate.

È strano, di solito c’è qualche altro gattino randagio di passaggio nel suo appartamento, ma non ho mai visto un gatto maschio in casa prima d’ora.

Oggi Susan e i suoi gattini sono sotto il mobile della cucina e Susan continua a soffiare al grosso gatto a strisce accovacciato sotto il divano. Lui si gira dall’altra parte come se non volesse essere coinvolto nella vita familiare. Per essere un gatto randagio ha un bel aspetto e il pelo lucido.

Ogni volta che muove un baffo, Susan gli soffia di nuovo ammonendolo.

Lei non crede che i padri debbano far visita ai figli.

Kate mi versa del tè e mi chiede come vanno le cose.

«Mio padre parla a vanvera, come al solito», le dico.

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«Senti chi parla», dice Kate cogliendomi di sorpresa, allora cambio argomento.

«Come mai il papà dei gattini è in giro per casa? Non ho mai visto un gatto adulto qui prima d’ora».

«Mi ha visto comprare delle scatolette di cibo per gatti e così mi ha seguito.

Susan non ammette di averlo mai conosciuto o di volerlo conoscere. Credo che gli darò ancora un po’ da mangiare e poi lo manderò via. È un bel gattone». Kate lo accarezza tra le orecchie e lui muove la testa. Susan gli soffia.

Lui comincia ad allontanarsi sotto il divano. Senza pensarci troppo o dargli il tempo di farlo, lo prendo. Susan inarca la schiena e sputa. Riesco a sentire i muscoli nel suo corpo tendersi mentre si prepara a saltare giù. Poi cambia idea e decide di approfittarne. Socchiude gli occhi, lancia uno sguardo annoiato a Susan e gira la testa per guardarmi. Dopo avermi squadrato fa finta di essersi girato solo per leccarsi il dorso.

«Gatto», gli dico. «Che ne dici di venire a casa con me?».

«Ah ah!», ride Kate. «Tuo papà lo sbatterà fuori prima che tu possa dire “ caro vecchio Jeff”».

«Di-ci?», sillabo lentamente riflettendo. Portare Gatto a casa era stata solo una idea passeggera, ma ora decido di combattere con papà per questo. Può tenersi i suoi ricordi del caro vecchio Jeff e cacce di conigli, io mi prenderò una tigre.

Zia Kate mi dà una scatoletta di cibo e una lettiera, così Gatto può stare nella mia stanza, perché mi ricordo che a mamma viene l’asma anche con gli animali. Gatto ed io andiamo a casa.

Papà urla e borbotta quando arriviamo, ma io metto Gatto nella mia stanza e cerco di non discutere con lui, così da non perdere il controllo. Prometto che lo terrò nella mia stanza e spazzerò via i peli di gatto, così mamma non dovrà farlo.

Da ultimo attaccandomi mi dice: «Suppongo che ora ti allenerai ad andare a caccia di topi. Come chiamerai il nobile animale?».

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«Senti, papà», gli spiego. «So che è un gatto, lui sa di essere un gatto e il suo nome è Gatto. Anche se lo chiami onorevole John Fitzgerald Kennedy, lui non verrà quando lo chiami e non ti leccherà la mano, vedi?».

«Che non si azzardi! E non è la mia mano che sta per essere leccata tra un attimo». Papà reagisce bruscamente.

«Va bene, va bene».

A dire il vero, mio papà a volte ciarla così tanto che sarebbe meglio se all’improvviso mi attaccasse e mi colpisse, ma non lo fa mai.

Per quel giorno eravamo pari e io avevo Gatto.

2. Gatto e la criminalità

Gatto si è ambientato abbastanza facilmente nella mia stanza. Di solito gli piace stare sopra a qualcosa, così ho messo un vecchio maglione sul cassettone di fianco al mio letto e lui dorme lì. Quando vuole svegliarmi la mattina, salta atterrando direttamente sul mio stomaco. Credetemi i gatti non atterrano sempre delicatamente, solo quando vogliono. Qualsiasi cosa fa un gatto, la fa solo quando ha voglia. Mi piace.

Mentre mi pettino i capelli la mattina, a volte sta seduto là sopra e guarda con disprezzo al mio riflesso nello specchio. Sembra faccia l’inventario:

«Mmmh, denti da cavallo, capelli color biondo rossiccio, fronte liscia, ciuffo ribelle dietro, occhi castani che non vedono nel buio, buoni a nulla, brufoli sul collo. Malissimo».

Lo guardo allo specchio e dico: «Ok, faccia nera, occhi gialli e un baffo bianco. Dove hai preso quel baffo bianco?».

Lui si intravede allo specchio e contorce la coda di tanto in tanto. Sembra capire che non si tratta veramente di un altro gatto, ma fa uscire gli artigli e picchietta delicatamente lo specchio, giusto per esserne sicuro.

Quando sto sdraiato sul letto a leggere, a volte si raggomitola tra le mie ginocchia e il libro. Dopo un paio di giorni, però, vedo che sta diventando sempre più agitato, così tanto che non riesco nemmeno a sentire la musica

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perché lui graffia il tappeto. Non posso lasciarlo libero per l’appartamento, almeno finché non siamo sicuri che a mamma non venga l’asma. Così immagino sia meglio reintrodurlo nei grandi spazi esterni della città. Una bella domenica di aprile scendiamo e ci sediamo sulla scalinata dell’ingresso.

Gatto si siede molto eretto, curato, con la sagoma di una pera e socchiude gli occhi. Getta uno sguardo alla strada come se non fosse abbastanza per lui. Dopo un po’, con superiorità, scende i gradini con cautela e si sdraia in mezzo al marciapiede in un posto soleggiato e sudicio. Le persone devono schivarlo e lui li guarda storto.

Poi si alza, velocemente, e volge lo sguardo indietro nel vuoto e si fionda giù per le scale in cantina. Controllo per vedere dove sta andando e lentamente si sta avviando verso il cortile dietro casa, a testa bassa, aggirandosi furtivamente come una tigre. Credo che mi siederò al sole per finire la mia rivista di fantascienza prima di seguirlo.

Quando lo cerco, non lo vedo da nessuna parte, e il custode mi dice che l’ha visto saltare sul muro e che probabilmente è andato in qualche altro cortile.

Guardo un po’ intorno e lo chiamo, ma non è nei paraggi, così vado a mangiare. Verso sera Gatto graffia alla porta e viene dentro, come se l’avesse fatto da una vita.

Diventerà un’abitudine. A volte non torna nemmeno a casa di notte e la mattina, quando gli porto il latte, lo trovo seduto sullo zerbino che mi guarda offeso.

«Ė colpa mia se sei stato fuori tutta la notte?», gli chiedo.

Raddrizza la coda e avanza nell’ingresso verso la cucina, dove mi aspetta per aprirgli il latte e servirgli la scatoletta di cibo. Poi va a letto.

Una mattina, quando apro la porta, lui non c’è e continua a non farsi vedere quando torno da scuola. Così mi preoccupo e vado giù per parlare con Butch.

«Beh-h», dice Butch. «A volte quel gatto si siede e un po’ mi parla, ma la maggior parte delle volte va sulla ventunesima strada, dove si siede e parla alla sua amichetta. Faceva freddo l’altra sera, quindi molti edifici hanno acceso il riscaldamento e chiuso i seminterrati. Forse è rimasto chiuso da qualche parte.»

«In quale edificio sta la sua amica?», gli chiedo.

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«Quarantasei, quello grosso. La sua amica è un piccolo gatto bianco e nero, che sembra appartenere al guardiano del palazzo. Lui le dà da mangiare».

Vado sulla ventunesima strada e ispeziono il numero quarantasei che è un palazzo piuttosto bello con un tendone a righe e un portiere che passeggia di fronte al portone guardando intorno ogni quindici minuti.

Mentre guardo, arriva un ragazzo delle consegne spingendo il carrello e scende le scale verso il seminterrato con uno scatolone di alimentari.

Questo mi fa venire un’idea: darò al ragazzo il tempo di salire in ascensore e poi scenderò giù a cercare Gatto. Se qualcuno arriva e si arrabbia, posso sempre far finta di niente.

Scendo giù e via libera; l’ascensore è salito e io attraverso silenziosamente una grande stanza dove gli inquilini lasciano i passeggini e le biciclette.

Dopo il seminterrato si divide in molti corridoi illuminati da lampadine da venti watt che penzolano dal soffitto. Si vede a malapena qualcosa. I corridoi si snodano tra container di filo metallo, dove gli inquilini tengono cose tipo bauli, vecchi lettini e gabbie per pappagalli, tutti chiusi a chiave.

«Mi-ao, miao, mi-ao!». Senza dubbio è Gatto ed è anche arrabbiato.

Il suono proviene dalla fine di un corridoio e io cammino a tentoni, scrutando in ogni gabbia per cercare di vedere un gatto tigre in un buco nella penombra. Fortunatamente i suoi occhi brillano e vedo che apre la bocca per miagolare di nuovo, così, prima di arrivare alla fine del corridoio, lo vedo chiuso in una delle gabbie. Non so come ci sia arrivato o come lo tirerò fuori.

Mentre sto pensando a come fare, gli occhi di Gatto si spostano di colpo da me verso destra e poi dietro di me. Gatto sta immobile e così anch’io, ma qualcosa si sta muovendo. È solo un leggero fruscio, o un respiro, ma io ho un terribile presentimento che qualcuno si trovi vicino a noi. Giù in fondo al corridoio del seminterrato un’ombra si muove e riesco a vedere che ha una macchia bianca, un volto. È un uomo e sta venendo verso di me.

Non so perché qualcuno degli uomini del palazzo dovrebbe trovarsi lì, ma visto che c’è comincio a dargli una spiegazione.

«Stavo solo cercando il mio gatto… Cioè, è rimasto chiuso in una delle gabbie. Volevo solo farlo uscire».

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Il tipo espira, lentamente, come se avesse trattenuto il respiro per un po’. Mi rendo conto che non è uno degli inquilini del palazzo e che lo avevo spaventato.

Viene avanti dicendo «Sh-h-h» molto silenziosamente. È più alto di me, ma non riesco a vedere bene il suo aspetto, ma sono sicuro che sia un ragazzo, forse di diciotto anni o giù di lì.

Guarda il lucchetto della gabbia e dice: «Hmm, da quattro soldi!» Prende una graffetta dalla tasca e la apre, credo che abbia anche un coltellino tascabile, e senza accorgermene il lucchetto si apre.

«Cavolo, come hai fatto?».

«Sh-h-h. Un tipo me l’ha insegnato. È meglio che prendi il tuo gatto e fili via».

Accidenti, mi chiedo se questo ragazzo non sia un ladro e questo mi fa venire un brutto presentimento. Ma un ladro sprecherebbe il suo tempo per liberare il gatto di un ragazzo?

«Beh, grazie per il gatto. Ci vediamo!», dico.

«Sh-h-h. Non vivo qui vicino. Sbrigati, prima che ci scoprano».

Forse è un vero ladro con perfino una pistola, penso, e, mentre scanso gli ascensori per uscire nel freddo vento di aprile, il sudore mi si congela lungo la schiena. Faccio una bella ramanzina a Gatto avvertendolo di stare lontano dai seminterrati. Dopo tutto non posso sempre sperare di avere un ladro a portata di mano per liberarlo ogni volta.

Tornati a casa mettiamo su della musica blues e entrambi ci stendiamo sul letto a pensare. Quel tipo non sembrava veramente un ladro e non parlava con l’accento di Chicago. Forse i veri ladri non parlano tutti alla stessa maniera, solo quelli in tv. Comunque ha aperto quel lucchetto velocemente, e doveva essere lì per qualche motivo.

Forse avrei dovuto dirlo a qualcuno e suppongo che proverò con papà, per esempio. «Dei tipi strani si aggirano per il quartiere», dico a cena. «Ho visto uno strano tipo gironzolare intorno al numero quarantasei questa mattina, avrebbe potuto essere persino un ladro».

Immagino che papà mi chiederà almeno cosa stava facendo e forse gli potrei raccontare tutto di Gatto e della gabbia. Ma papà mi dice: «In caso

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non lo sapessi, i ladri non hanno tutti l’aspetto di Humphrey Bogart e non vanno in giro con dei cartelli».

«Grazie per l’informazione», gli dico e continuo a mangiare. Anche se papà mi fa arrabbiare, non intendo rinunciare alla bistecca con cipolle, che non mangiamo spesso.

Comunque, il giorno dopo, mentre sto camminando sulla ventunesima strada, vedo l’amministratore del numero quarantasei in piedi davanti all’entrata posteriore, così ci riprovo e gli dico: «Stavamo giocando a palla qui ieri e abbiamo visto uno strano tipo intrufolarsi nel vostro seminterrato e non era il ragazzo delle consegne».

«Davvero? Sei sicuro che non fossi tu o uno dei tuoi amici che cercava di sgraffignare una bicicletta? Come mai giocate a palla qui?».

«Io non rubo biciclette. Ne ho già una nuova, una Raleigh, migliore di tutte la paccottiglia/ciarpame che avete qui».

«Cosa ne sai tu di quello che ho qui, saputello?».

«Oh! Niente». Mi rendo conto che comincia a sospettare di me. Questo è quello che succede quando si cerca di essere un bravo cittadino dal senso civico. Decido che il mio ladro, chiunque sia, è molto più gentile dell’amministratore e spero abbia preso un ricco bottino.

Il giorno dopo sembra proprio che l’abbia fatto. Il giornale locale, Town and Village, ha come titolo: “ Seminterrato di Gramercy Park derubato” e leggo nell’articolo:

“L’amministratore, Fred Snood, ha controllato i container del seminterrato, dopo che un giovane passando, gli aveva accennato che c’era stata una rapina. Ha, così, trovato una gabbia aperta e una valigia mancante. La polizia ipotizza che il giovane potesse essere stato il ladro o un complice rancoroso con la coscienza sporca e lo stanno cercando per interrogarlo. Il Sr. Snood l’ha descritto come un ragazzo di poco più di sedici anni, di media altezza, con un taglio alla teddy boy1 e con indosso un pesante maglione scuro. Stanno, inoltre, controllando i negozi di seconda mano per la valigia rubata”.

1 I teddy boy portavano i capelli lunghi, tenuti alzati sulla fronte con la brillantina, mentre nei lati erano spostati a formare la coda d’anatra.

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Il ladro ha rubato una valigia con documenti di valore, dell’argento e dei gioielli. Il ragazzo, però, che stavano cercando; rileggo il paragrafo e mi sento male. Quello sono io. Mi alzo e mi guardo allo specchio. In altre circostanze mi sarebbe piaciuto essere preso per un sedicenne invece che per un quattordicenne, che è poi la mia età. Mi risistemo i capelli e li controllo. Il ciuffo è a posto.

Lentamente mi tolgo il maglione nero, che metto praticamente sempre, e lo infilo in fondo al cassetto, sotto il costume da bagno. Ma se voglio camminare per strada senza preoccuparmi di ogni poliziotto, devo fare di più di questo. Mi metto una camicia, una cravatta e una giacca e mi ficco in testa un berretto. Mi dirigo verso la parte superiore della città con la metro.

Alla sessantottesima strada scendo e trovo un barbiere.

«Taglio da macho», dico al tizio.

«Proprio così. Ti farò un bel taglio ordinato e mi sbarazzerò di tutta questa roba».

Mentre chiacchiera come un idiota, sono costretto a guardare tre mesi di lavoro tagliuzzati sul pavimento e devo anche pagarlo. A casa la solita routine: papà guarda il mio travestimento da universitario e dice: «Bene, forse un giorno potrai avere un aspetto decente!»

Due giorni più tardi, mi rendo conto che avrei potuto evitare di tagliarmi i capelli. Il giornale Town and Village ha una nuova storia: “Acciuffato ladro, bottino restituito. “Solo una scommessa” dichiara”.

La storia è piuttosto interessante. Il tipo che avevo incontrato nel seminterrato si chiama Tom Ransom, un ragazzo di diciannove anni che stava solo gironzolando per la città. Sembra che non abbia una famiglia. La polizia aveva messo un detective a sorvegliare il numero quarantasei e, abbastanza presto, avevano visto Tom camminare con in mano la valigia rubata. Tom l’aveva lasciata cadere nella fessura delle consegne continuando a camminare, ma il poliziotto lo aveva acchiappato. Credo che se avessi tenuto la mia boccaccia chiusa con l’amministratore, la polizia non si sarebbe messa a sorvegliare il quartiere. Mi sento un po’

responsabile.

La storia nel giornale continua dicendo che questo ragazzo era squattrinato e in cerca di un lavoro e qualcuno, scommettendo dieci dollari, l’aveva sfidato ad arraffare qualcosa dal seminterrato e così aveva fatto. Quando era uscito, si era accorto che la valigia conteneva molti titoli, documenti legali e

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argenteria e si era spaventato a morte. Decise allora che l’avrebbe riportata al suo posto. Inoltre, sul giornale c’è scritto che è in stato di fermo e dovrà apparire davanti al magistrato del tribunale dei minori.

Mi chiedo, manderanno un ragazzo in galera per questo? E se lo lasciano libero, cosa farà? Non deve essere piacevole stare in questa città senza famiglia o amici.

A questo punto ho un’idea: gli scriverò una lettera. Dopo tutto Gatto e io lo abbiamo messo in questa brutta situazione. Così, cerco il numero del magistrato e ci metto quasi mezz’ora a scrutare attentamente l’elenco telefonico sotto la voce “New York, City of” per trovare un indirizzo. Mi chiedo come dovrei chiamarlo se “Tom” o “ Sr. Ransom”. Alla fine scrivo:

Caro Tom Ransom:

Sono il ragazzo che hai incontrato nel seminterrato del numero quarantasei di Gramercy. Senz’altro ti ringrazio per aver aperto quella gabbia e liberato il mio gatto. Gatto sta bene. Mi dispiace che tu sia nei guai con la polizia. A me sembra che tu stessi solo cercando di riportare indietro quella roba e fare la cosa giusta. Mio padre è un avvocato, se ne volessi uno.

Credo che sia piuttosto bravo. Oppure se volessi scrivermi in ogni caso, questo è il mio indirizzo: ventiduesima strada, 150 Est. Ho letto sul giornale che la tua famiglia non vive a New York, per questo ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere qualcuno a cui scrivere.

Cordiali saluti, Dave Mitchell

Ora che sono di nuovo un libero cittadino, ritiro fuori il mio maglione nero, guardo disgustato al taglio da macho ed esco a spedire la lettera.

Più tardi mi rimetto a giocare a stickball2 sulla ventunesima strada. Gatto arriva e si siede in alto su una scalinata dall’altra parte della strada, da dove può guardare il gioco e i cani al guinzaglio. Quel cervellone, l’amministratore del numero quarantasei, è davanti all’entrata riservata alle consegne, guardando in modo acido come al solito.

«Avete avuto ladri nei seminterrati in questi giorni?», gli grido mentre sto correndo tra le basi durante un lungo tiro.

2 Variante del baseball.

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Mi guarda scrutando il mio nuovo taglio di capelli e si gratta la zucca pelata. «Dove ti ho visto?», mi chiede in modo sospetto.

«Oh, Gatto ed io, giriamo qui intorno», gli dico.

3. Gatto e Coney

Per quanto ne so, Nick ed io siamo sempre stati buoni amici. Le nostre mamme facevano a turno per venirci a prendere all’asilo. Nick vive all’angolo della terza strada, sopra il negozio di alimentari di suo padre. Se qualcuno mi chiedesse come mai siamo amici, non saprei proprio rispondere. Siamo solo sempre insieme la maggior parte del tempo.

Nessuno di noi due è un vero asso negli sport, ma eravamo soliti andare sui pattini a rotelle e giocare un po’ a king3, a stickball e andare ad esplorare in bici. Una volta quando avevamo dieci anni, eravamo andati in bici verso la dodicesima strada al fiume Hudson, dove è ormeggiata la Queen Mary.

Questa è l’unica volta che mi ricordo di aver visto mia madre arrabbiata.

Disse che papà mi avrebbe dovuto togliere la bici, e lo fece, ma solo per circa una settimana. Nick ed io andiamo ancora molto in bici, altrimenti ci sediamo e facciamo i compiti oppure giochiamo a scacchi ascoltando della musica.

Un’altra ragione per cui siamo amici è per il fastidioso poppante che vive in fondo all’angolo, tra me e Nick. Ci stava sempre dietro, voleva giocare con noi e alla fine naturalmente incasinava il gioco o cadeva a terra e cominciava a piangere. Poi, veniva il suo fratello maggiore uscendo di corsa, di solito assieme ad un altro ragazzone, credendo di essere in diritto di picchiarci per aver fatto male al piccolo Joey.

Dopo un po’ mi sembrava che Joey fosse di vedetta e nel momento in cui io e Nick arrivavamo in strada, uno dei due ragazzoni veniva da noi per scacciarci. Facevano stupidaggini del tipo tirare legnetti nei raggi delle nostre bici, fingendo che fosse uno scherzo. Nick ed io eravamo soliti tramare in ogni modo come vendicarci, ma alla fine quasi sempre decidevamo che era meglio camminare intorno all’isolato facendo la strada più lunga per arrivare a casa. Non sono un tipo da rissa e nemmeno Nick, specialmente con i ragazzi più grandi di noi.

3 King: gioco di carte simile al bridge.

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D’estate, in campagna, sembra che i ragazzi stiano continuamente a fare la lotta o prendersi a cazzotti, un po’ per gioco e un po’ no. Se passo davanti a qualche strano ragazzo della mia età lassù, cerca quasi di coinvolgermi in una rissa. Io non capisco. Forse è perché i marciapiedi non sono comodi per azzuffarsi, ma noi non ci mettiamo a litigare per divertirci. Ho fatto solo qualche rissa, ma perché ero davvero furioso.

Quando arriva la primavera io e Nick girovaghiamo per le strade irrequieti senza nulla da fare, se non giocare a stickball e stuzzicare l’amministratore del numero quarantasei. Era così facile farlo infuriare che non era più divertente. Gatto stava lontano dal seminterrato, ma volevo portarlo fuori all’aria aperta, dove poteva inseguire gli scoiattoli o qualcos’altro.

Un giorno siamo andati in bici a Central Park. Sistemai Gatto in un cestino di vimini legato dietro alla bici. Miagolava un sacco e le persone per strada mi guardavano e poi si rigiravano quando lo sentivano.

Arrivammo a Central Park in un posto chiamato il “Ferro di cavallo”, perché l’area del parcheggio è di quella forma. Aprì un po’ il coperchio per dare un’occhiata a Gatto. Mi soffiò, era la prima volta che lo faceva.

Guardai intorno e pensai, caspita, se lo lascio libero, potrebbe andare ovunque, persino oltre nei boschi, e non riuscirei più a prenderlo. C’erano lì intorno un sacco di ragazzi dall’aspetto minaccioso ed ero sicuro che se avessi lasciato la bici un secondo per inseguire Gatto, l’avrebbero rubata.

Così non lasciai uscire Gatto, divorai il mio panino e andammo a casa. Nick era piuttosto scocciato.

Becchiamo, poi, il primo sabato caldo di maggio e mi viene un’idea. Trovo Nick e gli dico: «Mettiamo Gatto e qualche panino nel cestino e saltiamo sulla prima metro per Coney».

Nick dice: «Perché dobbiamo portare Gatto? Ha rovinato la nostra ultima gita».

«Mi piace portarlo in giro, e non succederà come a Central Park. Non c’è nessuno a Coney in questo periodo dell’anno. Può andare in giro per la spiaggia a cacciare granchi».

«Perché ho come amico uno svitato?». Nick si lamenta. «Beh, in ogni caso, Mi terrò il panino in tasca e non in un vecchio cestino per il gatto».

«A chi importa dove tieni il tuo panino schifoso?».

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Così andammo. È possibile che molti pensino che Coney Island sia brutta, con tutti quei chioschi e cartelloni di pessimo gusto, ma quando ti giri e guardi l’oceano, è come trovarsi su una spiaggia deserta. Mi tolgo le scarpe e metto i piedi nell’acqua ghiacciata mentre il sole mi riscalda il petto.

All’orizzonte vedo qualche nave, dei gabbiani e degli aeri in cielo e penso:

Ė mio, tutto mio. Potrei andare dovunque, potrei davvero e forse lo farò.

Nick mi schizza l’acqua giù per il collo. Lui capisce solo l’infinito in matematica. Lascio uscire Gatto dal cestino e mi tolgo la maglietta fradicia e rincorro Nick a riva. Non c’è da preoccuparsi per Gatto, anche lui sta correndo con noi e ogni volta che un’onda gli bagna le zampe, soffia e se la squaglia verso la spiaggia. Si rotola, poi, nella sabbia calda e asciutta, si alza e si scrolla. C’è qualche altro gruppo di persone sparsi sulla spiaggia.

Un grosso meticcio arriva e annusa Gatto, ricevendo un graffio a sinistra e a destra sul naso. Guaisce e scappa verso casa. Gatto scopre i granchi. Nick ed io ci rotoliamo nella sabbia facendo la lotta, e dopo un po’ ci viene fame, allora torniamo indietro dove avevamo lasciato il cestino. Gatto è contento di farsi portare in braccio.

Tre ragazze stanno facendo un picnic proprio vicino al nostro cestino. Una grida alle altre: «Ehi, guardate! Quel tipo ha fatto il bagno con il suo gatto!».

Gatto salta giù, gli volta le spalle e si raggomitola sul mio maglione finché non si è sistemato per fare un sonnellino. Mi volto anch’io per guardare il mare.

Eppure, non è la stessa cosa rispetto a un anno fa: Nick ed io, allora, ci saremmo allontanati dalle ragazze o gli avremmo tirato la sabbia.

Stiamo solo seduti a mangiare i nostri panini. Nick le guarda spesso e sussurrando mi chiede secondo me quanti anni hanno. Non so dirlo delle ragazze. Alcune nella nostra classe a scuola sembra abbiano venticinque anni, ma poi vedi delle mamme con i passeggini per strada che sembrano quindicenni.

Una delle ragazze attrae l’attenzione di Nick e ridacchia. «Ehilà cosa guardi?».

«Guardo gli uccelli», dice Nick. «Ne hai visto qualcuno?»

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Le ragazze si dirigono dalla nostra parte. La prima a parlare ha i capelli rossi. Quella che sembra essere il capo è una biondona con una gonna molto corta e i capelli raccolti in un nido d’uccello. Forse per questo Nick aveva iniziato a guardare gli uccelli. La terza ragazza ha un aspetto abbastanza tranquillo e i capelli castani, credo.

«Volete dei cupcake? Potete mangiare i miei. Sono a dieta», dice la bionda.

«Grazie», dice Nick. «Pensavo di andare a prendere della coca cola».

«Perché perdere tempo a pensarci? Ti si potrebbe fondere il cervello», dice la rossa.

La terza ragazza si china per accarezzare Gatto tra le orecchie dolcemente e dice: «Come si chiama?».

Le spiego perché Gatto si chiama Gatto. Si siede e prende un pezzo d’alga che fa penzolare sopra il suo naso. Gatto gli dà due leggere zampate e poi si allunga in modo spettacolare mentre lo accarezza. Gli altri si mettono a chiacchierare e ci presentiamo dicendo dove andiamo a scuola eccetera, eccetera.

Poi Nick torna sull’argomento di andare a prendere della coca cola. Non voglio proprio restare da solo con le ragazze, così mi propongo. Dico a Nick di guardare Gatto e la ragazza che lo sta accarezzando dice: «Non ti preoccupare, non lo lascerò scappare».

Meno male che c’è lei, perché quando torno con le bibite, per cui nessuno si è offerto di darmi i soldi, Nick e le altre due ragazze si erano avvicinati alla riva. Mary, così si chiama, dice: «Non avevo mai visto un gatto in spiaggia, ma sembra che gli piaccia. Dove lo hai preso?».

«Ė un randagio. L’ho preso da una vecchia signora ossessionata dai gatti.

Dai, vedo se riesco a fargli rincorrere le onde per te. Prima lo stava facendo».

Stiamo correndo in mezzo alle onde quando tornano gli altri. La biondona schizza l’acqua col piede e grida: «Ti sfido!».

Così la inseguo e, quando sto per raggiungerla, si ferma di colpo e così le vado addosso e entrambi cadiamo per terra. Sembrava fosse ciò che aveva in mente, ma scommetto che gli altri ci stanno guardando e mi sento ridicolo. Mi rigiro e mi alzo in piedi e torno da Gatto.

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Mentre beviamo la coca cola, la bionda e la rossa dicono di voler andare al cinema.

«Cosa danno?», chiede Nick.

«C’è una roba di Sinatra al cinema della zona», gli risponde la bionda e lui sembra interessato.

«Non posso», dico. «Ho Gatto. Inoltre, è troppo tardi. Mamma penserà che sono cascato nella metropolitana».

«Te lo avevo detto di non portarlo», dice Nick.

«Mettilo nel cestino e chiama tua madre dicendole che ti si è fermato l’orologio», dice la rossa.

Viene avanti e mi fa scivolare la sabbia nel collo. «Dai, sarà divertente. Non dobbiamo sederci nella zona dei bambini. Sembriamo tutti sedicenni».

«No, non posso». Mi alzo e scrollo la sabbia di dosso.

Nick ha l’aria seccata, ma non vuole rimanere da solo. Dice alla bionda:

«Scrivimi il tuo numero di telefono così ci mettiamo d’accordo per un’altra volta, quando questo svitato non ha appresso il gatto».

Le scrive il numero di telefono e la rossa storce la bocca perché io non le chiedo il suo. Le ragazze si preparano per andare e Mary saluta Gatto con una pacca e mi fa ciao con la mano. Mi dice: «Riportalo, è carino».

Saliamo sulla metro e Gatto arrabbiato miagola per essere stato chiuso nel cestino. Nick dà dei colpetti al cestino con la punta del piede.

«Sta zitto, rompiscatole», dice.

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4. Zuffa

Curiosamente ricevo una risposta da Tom Ransom. La lettera dice: “Grazie per la tua lettera. Il dipartimento per la gioventù mi ha trovato una stanza all’associazione giovanile maschile cristiana4 sulla ventitreesima strada.

Forse verrò a salutarti un giorno. Mi aiuteranno a trovare un lavoro quest’estate, quindi non mi serve un avvocato. Grazie comunque. Di’ miao a Gatto. Saluti. Tom.”

Vado a casa di Nick per fargli vedere la lettera. Gli avevo raccontato di Tom, di come aveva liberato Gatto dal seminterrato e come era stato arrestato, ma Nick non ci aveva mai creduto del tutto. Quindi quando vede la lettera è costretto ad ammettere che era successo qualcosa. Non è da tutti ricevere lettere da ragazzi che sono stati arrestati.

C’è una cosa di Nick che mi irrita. Deve pensare a tutto lui. Qualsiasi cosa abbia fatto di cui lui non sia a conoscenza, la trova irrilevante. Inoltre, devo sempre io andare a casa sua, lui non viene mai da me, ad eccezione di una volta, un bel po’ di tempo fa, quando avevo comprato un nuovo disco e non volevo portarlo a casa sua perché il suo giradischi fa schifo e non vuole mai comprare una nuova puntina.

Non è che non mi piaccia casa sua. Sua mamma è molto gentile e caspita come cucina bene! In un comune sabato per pranzo prepara la pizza o degli spaghetti veramente buoni e dopo scuola si trovano in giro biscotti fatti in casa e torta alla nocciola. Lei parla e gesticola e ci dà degli ordini a noi ragazzi, ma tutto bonariamente, così ci scherziamo un po’ su e continuiamo quello che stavamo facendo.

È l’esatto opposto di mia mamma. Papà è quello che urla in casa nostra e, a parte quella controversia sul giro in bicicletta sulla dodicesima strada, mamma non mi dice nemmeno cosa fare. Lei è tranquilla e il più delle volte non si sente bene, così, forse, devo pensare più di quanto faccia la maggior parte dei ragazzi, perché dovrei fare le cose come vuole lei senza che nulla mi venga detto.

Inoltre, mia mamma è sempre a casa e sempre pronta ad ascoltarti se qualcosa ti disturba, come quando un insegnante ti rimprovera per qualcosa che non hai fatto.

4 La YMCA, acronimo di Young Men Christian Association.

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Alcuni ragazzi che conosco devono fare una serie di telefonate per ritracciare le loro mamme, poi lei li rimprovera per l’interruzione.

A mamma piace cucinare e per le feste prepara dei piatti gustosi, ma non lo fa sempre come la madre di Nick. Forse Nick, allora, non viene a casa mia perché non abbiamo in giro tutta quella roba buona. Sebbene non credo sia proprio per questo. Gli piace solamente essere il capo.

Un giorno, un paio di settimane dopo che eravamo stati a Coney, andiamo a fare un giro. Prendiamo un paio di coca cole e di pere al negozio di suo papà.

Gatto è seduto sulla scalinata del mio ingresso, salta giù e si strofina tra le mie gambe e sale le scale prima di noi.

«Vedi? Sa che quando torno da scuola è ora di mangiare. Per questo mi piace tornare a casa» dico a Nick.

Diciamo “ciao” alla mamma e tiro fuori il cibo per gatti mentre Nick apre la sua coca. «Sai quelle ragazze che abbiamo incontrato per caso là a Coney Island?», dice.

«Sì».

«Beh, la bionda mi aveva dato il suo numero, così sabato, non avendo niente da fare, ho deciso di chiamarla».

«Sì? Per cosa?».

«Sei stupido o cosa? Per parlare. Allora ha chiacchierato per un bel po’ e alla fine le ho chiesto se le andava di venire il prossimo sabato, potremmo andare al cinema o fare qualcos’altro».

«Sì». Ero intento a sbucciarmi una pera, una molto succosa.

«Ė tutto quello che sai dire? Allora lei mi dice, beh, potrebbe se riesce a far venire anche la sua amica, ma non vuole venire da sola, e sua madre comunque non ce la lascerebbe».

«Quale?».

«Quale cosa?».

«Quale amica?».

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«Ah. Ricordi, l’altra con cui stavamo scherzando sulla spiaggia, la rossa.

Così le ho detto, va bene, vedevo se riuscivo a fare venire anche te. Le ho detto che l’avrei richiamata».

«Ehm, non so».

«Che intendi con non lo so?».

«Come so se mi piace quella ragazza? Le ho parlato a malapena e comunque sembra un appuntamento. Non voglio un appuntamento. Se vengono per caso, allora va bene».

«Allora posso dirgli che va bene per sabato?».

«Mmmh».

«Ė bello che tu abbia imparato una nuova parola».

«Devo pagare io il cinema alla ragazza?».

«Tirchio. Forse se stai solo lì a dire “mmmh”, lei se lo comprerà da sola. Va bene?».

«Va bene. Ma questa è una tua idea e se va male, sarà colpa tua».

«Accidenti, che entusiasmo! Dai, mettiamo su un disco e facciamo matematica».

Nick è più bravo di me a matematica, così accetto.

Sabato mattina alle dieci Nick arriva a casa mia con indosso una maglietta bianca e i capelli impomatati. Papà fa un fischio. «Sabato, già! Hai una ragazza o cosa?».

«Sì, signore!», dice Nick e schifato guarda la mia maglietta. Vado a metterci sopra un maglione e corro a pettinarmi i capelli, ma sono spacciato perché se esco così vuol dire che è una cosa seria.

«Andiamo al cinema all’accademia», dico alla mia famiglia.

«Cosa danno?», chiede Papà.

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«Un nuovo spettacolo horror», dice Nick. «E un classico Disney».

«Ė davvero un nuovo spettacolo horror?», chiedo a Nick, perché credo di aver visto tutti quelli che sono stati in città.

«Sì. Appena aperto. L’Insetto d’Oro. L’ha scritto un tizio, in un libro una volta intendo, ma deve essere bello. Comunque fa urlare le ragazze. Lo adoro».

«Mmmh». Mi piacciono comunque gli spettacoli horror, sia che le ragazze strillino o no.

«Sarai l’anima della festa con la tua abitudine a dire “mmmh”».

«Ė la tua festa», dissi contrariato.

«Beh, potresti almeno tentare».

Restammo ad aspettare all’edicola della metropolitana sulla quattordicesima strada, dove Nick disse che le avremmo incontrate. Dopo mezz’ora alla fine arrivarono.

Il tempo è bello e soleggiato. Vediamo una folla che si era radunata a Union Square, così ci dirigiamo lì. Un tipo barbuto e dai capelli arruffati sta tenendo un discorso su “Quelli”, i cattivi. Molti barboni addormentati gli stanno seduti intorno facendosi entrare le sue parole da una parte e uscire dall’altra.

«Chi è, uno svitato o cosa?», chiede la bionda.

«Un comunista, forse», dico. «Tengono sempre discorsi quaggiù. Willie Sutton, il ladro di banche stava anche lui qui seduto ad ascoltare. Ė qui che qualcuno l’ha riconosciuto».

Le ragazze si guardano e cominciano a ridere a squarciagola, come se avessi detto qualcosa di davvero esilarante. Attraggo l’attenzione di Nick e gli lancio un’occhiataccia. Va bene. Ci ho provato. Dopo questa mi limiterò a “mmmh”.

Un barbone che sta ascoltando il discorso si gira e con uno sguardo truce ci dice: «Ssh!».

«Oh, ma vai a farti la barba!», dice Nick e le ragazze se ne vanno continuando a ridere. Nick comincia a radunarle verso la quattordicesima strada e io li seguo.

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All’accademia Nick va al chiosco dei biglietti e le ragazze scompaiono per andare a leggere le locandine e ridacchiare. Capisco che non hanno intenzione di pagare il biglietto, così tiro fuori i soldi per due.

Nick ed io cerchiamo di fare un giro su in galleria come facciamo sempre, ma le ragazze ridacchiano e versano tutti i popcorn, così la caposala ci becca e ci fa dei segni. «Qui giù!», dice, sparandoci la luce della torcia negli occhi, e io mi sento come un detenuto mentre veniamo spinti con tutti gli altri nella zona per minori di sedici anni.

Nick va avanti per primo, poi la bionda, poi la rossa ed io. Il momento in cui il film comincia a diventare pauroso, lei tenta di afferrarmi, ma io rimango con le mani in tasca e dico: «Oh, è solo un film». Lei ci rimane di sasso.

Al successivo pezzo pauroso, cerca di aggrapparsi alla sua amica, ma la bionda è già incollata a Nick. La rossa emette un forte singhiozzo e io desidero non essere mai finito in questa situazione. Non riesco nemmeno a godermi il film.

Soffriamo durante tutti e due i film. I bambini piccoli fanno un tale fracasso che si sente a malapena e la caposala continua a puntarci la luce negli occhi tanto da accecarci. La punta sulla bionda, che è praticamente seduta sul grembo di Nick e le intima a bassa voce di tornare a posto. Non lo rifarò mai più.

Usciamo e Nick dice: «Prendiamo una coca cola». Lui cammina di fianco alla bionda e, invece di camminare vicino a me, la rossa tenta di afferrare l’altro braccio di Nick. Questo mi fa infuriare. Cioè, non mi piace per niente, ma le ho pagato il biglietto e tutto il resto.

Nick se la scrolla di dosso e si gira per chiamarmi: «Dai, pivellino, datti da fare!».

Le ragazze ridono alle battute come al solito, e comincio veramente ad arrabbiarmi. Nick mi ha messo in questa situazione, potrebbe almeno star zitto.

Entriamo in un bar e io schiaffo giù trenta centesimi e dico: «Due coca cole, per favore».

«Ehi, ehi! L’ultimo dei grandi spendaccioni!», dice Nick. Ancora risate.

Preferirei colpirlo ora, ma prendo i miei soldi e dico: «Va bene, saputello,

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offri tu». Nick alza le spalle e lancia un dollaro come se ne avesse a centinaia.

Le due ragazze bevono le bibite parlano con Nick. Finisco la mia in due o tre sorsi e finalmente possiamo riaccompagnarle alla metro. Nick sta farfugliando sul come raggiungerle a Coney un fine settimana ed io me ne sto lì con le mani in tasca.

«Ciao, timidone!», mi dice la rossa con voce tenera e le due ragazze spariscono, ridendo sonoramente, giù per i gradini. Non appena la luce cambia, mi avvio dall’altra parte della quattordicesima, senza preoccuparmi di guardare se Nick sta venendo. Può andare all’inferno.

Lungo Union Square è di fianco a me, comportandosi come se tutto andasse alla grande. «Ė stato un bello spettacolo. Gran bel divertimento, eh?».

Io continuo a camminare.

«Sei arrabbiato o cosa?», chiede, come se non lo sapesse.

Continuo a camminare.

«Va bene, sii arrabbiato!», reagisce bruscamente. Poi intona di colpo un falsetto: «Ciao, timidone!».

Gli ho tirato un pugno prima che potesse chiudere la bocca. Lui mi colpisce a sua volta nello stomaco, ma incastra la sua caviglia nella mia e entrambi cadiamo. Va di male in peggio. Mi prende per i capelli e mi sbatte la testa sul marciapiedi, così mi giro e gli mordo la mano. Ci stiamo cavando gli occhi, graffiando, mordendo e dando calci, perché siamo entrambi così infuriati che riusciamo a malapena a vedere, e comunque nessuno ci ha mai insegnato quelle regole del Marchese di Queensberry. Non c’è motivo di raccontare tutti i dettagli violenti. Alla fine due tizi ci dividono. Afferro la maglietta di Nick che si strappa. Bene. Sta quasi piangendo e si dimena dal tizio che lo aveva preso, urlandomi delle cose prima di lanciarsi dall’altra parte del viale.

Me ne sto lì ansimante e singhiozzante e il tizio che mi tiene dice:

«Dovresti vergognarti. Ora va a casa».

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«Accidenti, tu e la tua boccaccia!», dico, ancora abbastanza arrabbiato da agire in modo sconsiderato. Finge di tirarmi un pugno, ma non ne vale la pena. Lui se ne va per la sua strada e anch’io.

Devo avere un aspetto terribile perché molte persone per strada scuotono la testa. Varco la soglia di casa, aspettandomi il peggio, ma per fortuna mamma non c’è. Papà fischietta.

«Deve essere stato proprio un bel film horror!», dice.

5. In giro per Manhattan

Per il weekend non ho più l’aspetto di uno che è uscito da una rissa. Per tutta la settimana a me e Nick chiedono se siamo stati colpiti da una porta da saloon; poi i compagni si accorgono che non ci parliamo e cercano di evitare l’argomento. Arriva sabato, sto seduto sulla scalinata e mi chiedo, e adesso? Ci sono un sacco di altri ragazzi a scuola che mi stanno simpatici, ma, cioè, la maggior parte vive nelle case popolari di Stuyvesant Town5. Non mi sono mai preoccupato di cercarli nei fine settimana, perché Nick abita molto più vicino.

L’estate sta arrivando e io devo trovare qualcuno con cui andare in giro.

Questo è l’ultimo sabato prima del Giorno della Memoria6 e per organizzarsi per la spiaggia e cose simili. Credo che io e Nick potremmo tornare amici, ma non se continuerà a essere fissato con le ragazze.

Un tipo si ferma davanti alla scalinata, Gatto cerca di aprire gli occhi per guardarlo, ma a causa del sole li socchiude. Il tipo dice: «Sei tu Dave Mitchell?».

«Hmm? Sì», rispondo guardando in su con aria sorpresa. Non so chi sia, non l’avevo mai visto per bene, ma dalla voce capisco che si tratta di Tom.

5 Stuyvesant Town—Peter Cooper Village è una grande area residenziale di Manhattan, New York City. Il quartiere, che rappresenta una delle più fortunate imprese edilizie realizzate a New York dopo la seconda guerra mondiale, deve il suo nome a Peter Stuyvesant, il primo governatore della colonia olandese di New Amsterdam. Il quartiere è chiamato comunemente Stuvy Town dai suoi abitanti. L'area denominata Peter Cooper Village deve invece il suo nome a Peter Cooper, industriale, inventore e filantropo fondatore della Cooper Union.

6 Memorial Day, si rende omaggio e si commemorano i soldati americani caduti di tutte le guerre.

Cade normalmente nell'ultimo lunedì di maggio.

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«Oh, ciao!», dico. «Questo è Gatto. È molto bello alla luce del giorno».

«Sì, sembra stia bene, ma cosa ti è successo?».

«Io e un mio amico abbiamo fatto a botte».

«Con altri ragazzi o cosa?».

«No, tra di noi».

«Hmm, brutto affare». Tom si siede e capisce che è meglio lasciar perdere l’argomento. «Comincio a lavorare il Giorno della Memoria quando aprono le spiagge. Lavorerò in una stazione di servizio sull’autostrada panoramica a Brooklyn».

«Caspita, è davvero lontano. Andrai a vivere laggiù?».

«Sì, mi daranno una stanza all’associazione giovanile a Brooklyn». Tom si distende irrequieto e va avanti: «Credo che tu ne abbia abbastanza con la scuola e tutto il resto, ma è terribile non avere niente da fare. Sarei diventato pazzo se non avessi trovato un lavoro. Non vedo l’ora di iniziare».

Penso di chiedergli se non abbia una casa o qualcuno da cui tornare, ma per qualche ragione non mi va molto di farlo.

«Come oggi», dice Tom. «Mi piacerebbe andare da qualche parte. Fare qualcosa. Hai qualche idea?».

«Hmm, Stavo giusto tentando di trovare qualcosa da fare anch’io. Film?».

Tom scuotendo la testa dice: «No. Voglio camminare, o correre, o tirare qualcosa».

«C’è un grande parco, tipo bosco, su vicino al Bronx. Un ragazzo me ne ha parlato. Mi ha detto di aver trovato la punta di una freccia indiana là, ma scommetto che non è vero. Si chiama Inwood Park».

«Come ci si arriva?».

«Con la metro, credo».

«Andiamoci!». Tom si alza e dimena le spalle come fosse Superman pronto a decollare.

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«Va bene. Aspetta un minuto. Lo dico a mamma. Prendo dei panini?».

Tom sorpreso dice: «Certo, va bene, se non la disturba».

Non sono preoccupato di chiedere a mamma di fare dei panini, perché le piace sempre prepararmi degli spuntini. Il fatto è che, dalla mia zuffa con Nick, ha assunto nei miei confronti un atteggiamento da mamma chioccia.

Forse si immagina che sia finito in una rissa tra bande, quindi continua a chiedermi dove vado e con chi. Inoltre, credo si sia accorta che non vado più da Nick dopo scuola. Vado subito a casa. Allora mi chiede se mi sento bene. È una battaglia persa. Proprio adesso, immagino che comincerà a chiedermi chi è Tom e dove l’ho incontrato. Mi viene in mente che c’è un modo più semplice per risolvere la situazione.

Mi giro di nuovo verso Tom. «Dimmi, che ne dici di venire su e di conoscere mia mamma? Così non comincerà a farmi un milione di domande».

«Credi che abbia un aspetto presentabile almeno?».

«Certo».

Saliamo nell’appartamento e mamma ci chiede se vogliamo di fresco da bere o altro. Le dico che avevo incontrato per caso Nick quando mi aveva aiutato a cercare Gatto nei pressi di Gramercy Park, il che è anche quasi vero, e che a volte gioca con noi a stickball, cosa che non è vera ma potrebbe esserla. Mamma ci porta dell’aranciata. Tiene di solito roba del genere nel congelatore d’estate, perché crede che la coca cola faccia male.

«Vivi qui nei paraggi?», chiede a Tom.

«No, signora», risponde Tom in modo deciso. «Sto all’associazione giovanile e per l’estate lavorerò in una stazione di servizio a Brooklyn, inizio subito dopo il Giorno della Memoria».

«Questa è una bella cosa», dice mamma. «Vorrei che anche David trovasse un lavoro. Diventa irrequieto d’estate senza niente da fare».

«Oh, mamma, scordatelo! Devi riempire tipo seicento moduli per lavorare se hai meno di sedici anni».

«Ascolta, mamma, ero venuto su per, cioè, pensavamo che potevamo farci dei panini e andare a Inwood Park».

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«Inwood? E dov’è?». Così, le spiego della freccia dell’indiano e tiriamo fuori l’elenco telefonico per guardare la cartina della metro, che mostra un treno che ci arriva direttamente.

«Divento anch’io irrequieto senza niente da fare», dice Tom. «Pensavamo solo di andare a esplorare un pochino in giro per i boschi e fare un po’ di moto».

«Perché no, va bene, sembra una buona idea». Mamma lo guarda e annuisce. Sembra aver deciso che è un tipo affidabile, e anche rispettabile.

Vedo che ci sono nel congelatore degli spaghetti avanzati e chiedo alla mamma di metterli nei panini. Lei crede che io sia matto, ma l’ho già fatto una volta ed è buono, soprattutto se c’è tanta carne e sugo negli spaghetti.

Portiamo con noi anche una busta di ciliegie.

«Grazie mamma. Ciao. Sarò di ritorno prima di cena».

«Fai attenzione», mi dice. «Niente risse».

«Non ti preoccupare. Ne staremo alla larga», dice Tom con tono piuttosto serio.

Scendiamo le scale e Tom dice: «Tua madre è proprio gentile».

Sono in qualche modo sorpreso, di solito i ragazzi non dicono molto dei genitori degli altri. «Sì, mamma è ok. Credo che si preoccupi molto di me e papà».

«Deve essere proprio bello avere tua mamma a casa», dice.

Anche quest’altra affermazione mi fa pensare. Mi chiedo dove siano sua madre e suo padre, se siano ancori vivi o cosa; ma di nuovo non sono in vena di chiederglielo.

A Tom non è facile fare delle domande. È come fosse un’isola, sperduta nell’oceano.

Camminiamo verso la quattordicesima strada e proseguiamo per l’ottava, più o meno dodici isolati. Dopo tutto, volevamo fare un po’ di moto. Questo tipo di treno è veloce e ci mette solo mezz’ora ad arrivare a Inwood, sulla 206esima strada.

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Il parco è proprio lì vicino, ed è pieno di boschi, nonostante in mezzo ci siano sentieri asfaltati qua e là. Ci spingiamo in alto e arriviamo in un prato, da dove si può vedere oltre il fiume Hudson verso le palizzate del Jersey. Il tempo è bello e fa caldo e ci spaparanziamo al sole. Non ci sono molte altre persone in giro, il che è raro a New York.

«Mangiamo», dice Tom. «Così, poi, possiamo andare alla ricerca di frecce senza portarci dietro il cibo».

È d’accordo con me sul fatto che il panino agli spaghetti sia una grande invenzione.

Vorrei che il tempo rimanesse così la maggior parte dell’anno, bello e caldo da sudare nel pomeriggio, così puoi andare a fare una nuotata, ma fresco abbastanza da dormire la notte. Ce ne stiamo sdraiati al sole per un po’

dopo pranzo e sono d’accordo che sia un peccato non avere un oceano nelle vicinanze in cui tuffarsi, ma non c’è e le mosche ci stanno mordendo dietro al collo, così ci alziamo e iniziamo ad esplorare.

Troviamo dei posti che, probabilmente, si potrebbero chiamare grotte, ma erano già state ben esaminate per le frecce, se ce ne fosse mai stata una.

Questo è il problema in questa città: ogni volta che hai un’idea, trovi che un milione di altre persone ha avuto la stessa idea prima di te. Nel bel mezzo del pomeriggio, ci dirigiamo giù verso la metropolitana e prendiamo delle coca cole e un gelato prima di ripartire.

Non mi va proprio di andare già a casa, così penso qualche minuto a dove possiamo andare studiando la cartina della metro sul treno. «Ehi, fintanto che siamo nella metropolitana in ogni caso, possiamo proseguire per Cortlandt Street e andare al negozio dell’usato dell’esercito e della marina militare. Devo prendermi uno zaino di tela prima dell’estate».

«Va bene», dice Tom alzando le spalle. Sta fissando fuori dal finestrino e non sembra importargli dove sia diretto.

«Ho qui un fantastico kit di pronto soccorso: disinfettante, pomata per scottature, repellente per insetti e bende. Tutto in una scatola di metallo color cachi resistente all’acqua che ho pagato solo sessantacinque centesimi».

«Mmmh. Giusto quello che mi serve per sopravvivere sulle strade di New York», dice Tom. Credo stia scherzando, anche se con tono ironico.

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Se non hai una famiglia, tuttavia, per sopravvivere ti serve di più di un kit da sessantacinque centesimi.

Il negozio non è tanto lontano dalla fermata della metro e camminiamo senza dire molto. Tom, comunque, si riprende quando entra nel negozio.

Perché è davvero un gran bel posto. Hanno completi da esploratori per le regioni artiche, vecchie bombe a mano, conchiglie, ogni tipo di fucile, e anche degli utili vestiti a buon mercato. Non importa loro quanto tempo ci impieghi a dare un’occhiata. Alla fine compro un marsupio e una borraccia, Tom prende delle magliette a collo alto e dei calzini che costano solo dieci centesimi ognuno. Sono usati, credo, ma sembra che siano a posto.

Camminiamo verso la metro dell’East Side, che si trova solo a pochi isolati da qui, perché la strada si restringe. Tom dice di non avere mai visto Wall Street, dove tutti i magnati azionano le loro macchine da soldi. Il posto ora è praticamente deserto, essendo sabato pomeriggio, ed è come camminare in una cattedrale vuota. Puoi sentire l’eco della tua voce.

Prendiamo la metro e Tom cammina verso casa con me. È un peccato che la giornata sia già finita. È stata una bella giornata dopotutto.

«Ciao, amico», dice Tom. «Ti manderò una cartolina dalla bellissima Brooklyn!».

«Ciao», lo saluto e va via. Vorrei che non dovesse andare a vivere a Brooklyn.

6. … E Brooklyn

Non puoi davvero rimanere in collera con qualcuno che conosci da una vita, specialmente se vive proprio dietro l’angolo e va alla tua stessa scuola. In ogni caso, un’afosa mattina di sabato Nick passa a trovarmi come se non fosse successo niente e mi chiede se mi va di andare a nuotare, perché la piscina sulla ventitreesima strada ora è aperta nei fine settimana.

Dopo riprendiamo a giocare a palla per strada la sera e qualche volta andiamo a nuotare nei fine settimana. Un sabato sua madre mi dice che è andato a Coney Island. Non mi aveva chiesto di andare con lui, meglio così, perché non ci sarei andato. Non vado nemmeno più molto a casa sua dopo scuola. La scuola è finita e nel fine settimana del quattro luglio andiamo nel

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Connecticut, subito dopo Nick se ne va in un campeggio gestito dalla sua parrocchia. Papà mi chiede se voglio andare in un campeggio un paio di settimane, ma non mi va. Le giornate a casa procedono a rilento, ma non sono in vena di prendermi quell’impegno.

Immagino che Tom si sia dimenticato di me e abbia trovato una compagnia della sua età, quando ricevo una sua cartolina: “Caro Dave, il tizio per cui lavoro è un verme, così come tutte le persone che vengono a fare benzina qui, è così bello vivere nella bellissima Brooklyn! Vorrei che tu fossi qui, ma per fortuna non ci sei. Saluti. Tom”.

È difficile capire quello che intende quando dice qualcosa. Comunque non ho niente da fare, tanto vale farci un salto. Ha detto che avrebbe lavorato in una stazione di servizio sull’autostrada panoramica, non ce ne potranno essere milioni.

Non spiego per bene a mamma dove sto andando, perché lei si preoccupa se vado troppo lontano, e inoltre non so veramente dove sono diretto.

Brooklyn, che scorcio. Non è come Manhattan, che si estende abbastanza regolarmente da nord a sud con strade piuttosto regolari. A Brooklyn potresti perdere chiunque, perché le strade formano anelli e gomiti e le persone ti danno indicazioni sbagliate. Visto che le bici non sono ammesse sulle autostrade panoramiche, ho dovuto girare per quartieri squallidi; mi ci è voluta almeno una settimana di perlustrazioni per trovare la parte giusta dell’autostrada e cominciare a controllare le stazioni di servizio.

Attraverso l’autostrada spingendo la bici, ma ciò nonostante un poliziotto, che non aveva niente di meglio da fare, mi richiama.

In un’umida giornata luglio, spingendo la bici, attraverso la strada verso una stazione di servizio sulla trentaquattresima per andare a gonfiare un po’ le gomme e nessuno mi richiama. Un’auto esce dopo aver fatto benzina ed ecco Tom.

«Ciao!», dico

Tom mi guarda un po’ storto e rapidamente si volta per vedere se il suo capo è in giro, credo, e poi viene verso il compressore.

«Come sei arrivato qui?», mi chiede.

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«In bici. Ho ricevuto la tua cartolina e pensavo di poter trovare la stazione di servizio».

Si rilassa e fa un gran sorriso. Mi sento meglio e mi dice: «Tu sei pazzo.

Come sta Gatto?».

Ma proprio allora arriva il capo arrabbiato. «Cosa vuoi, ragazzino? Le bici non sono ammesse sull’autostrada».

Comincio a spiegare che sto solo gonfiando un po’ le gomme, ma Tom prende la parola: «Ė tutto a posto. Lo conosco».

«Sì? Ti avevo detto di tenere alla larga i ragazzini!». Il tizio mi fa capire che i ragazzi che conosce Tom sono probabilmente i peggiori. Mi fa segno di andare via come un cane randagio. Non voglio mettere Tom nei guai, così comincio a andare. Sul ciglio della strada lo saluto. «Ciao. Mandami un’altra cartolina».

Tom mi saluta con la mano velocemente, ma il suo viso sembra impassibile, come se niente potesse entrare o uscire.

Pedalo lentamente ma deciso indietro verso la confusione di Brooklyn e penso, beh, una settimana di ricerche buttata. Ancora non so dove vive Tom, quindi non so come farò a rivederlo ancora. Ad ogni modo, come so che non lo disturbo? Sembrava veramente seccato.

Fintanto che non ho niente da fare, la settimana dopo penso di aiutare un po’ a casa. Pitturo la cucina per mamma, il che non mi dispiace, ma spostare tutti quegli insulsi piatti e pentole e quei piccoli barattoli di spezie messe alla rinfusa può farti uscire di cervello. Ho rotto solo un vaso e una bottiglia di olio. L’olio e i vetri rotti sono fantastici. Di pomeriggio vado in piscina e imparo a fare il tuffo carpiato e il salto all’indietro, così papà penserà che sto crescendo per diventare un vero ragazzo americano. Inoltre, devi praticamente imparare a tuffarti se vuoi usare la vasca dei tuffi, perché la piscina è così piena zeppa di sardine urlanti che non riesci nemmeno a muoverti.

La sera Gatto ed io ascoltiamo della musica oppure andiamo a trovare zia Kate e beviamo del tè freddo. Un fine settimana la mia vera zia viene a trovarci e dorme nella mia stanza, così vado a stare da zia Kate e quasi mi trasformo in fiocchi di latte.

Mi sono quasi abituato a questa noiosa routine, quando una mattina mamma mi sorprende portandomi una cartolina. È da parte di Tom: “Ho la giornata

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libera il prossimo martedì. Se ti va, incontriamoci all’acquario di Coney Island intorno alle nove di mattina, prima che diventi affollato”.

Così quella settimana non passa mai e finalmente arriva martedì; ed eccomi a Coney Island di primo mattino. È facile trovare Tom, visto che sta camminando avanti e indietro sul molo come una tigre. Ci salutiamo e così via e io sono pronto a fare una corsa al mare, ma lui continua a schioccare le dita e a guardare su e giù nella passeggiata.

Alla fine dice: «C’è una ragazza che conoscevo molto bene. Era un po’ che non la vedevo fino alla scorsa settimana, quando abbiamo avuto una discussione e credo che ora sia arrabbiata. Le ho scritto chiedendole se voleva venire a nuotare oggi, ma forse non verrà».

Capisco che sono mi ritrovo lì solo come garanzia in caso lei non venga, ma non mi importa. In ogni caso arriva. Non devono aver discusso poi tanto, perché lei è molto amichevole.

Tom ci presenta. Lei si chiama Hilda con un cognome difficile da pronunciare, forse svedese, ed ha una grande e sorridente bocca e una grossa spirale di capelli biondi raccolti in uno chignon in cima alla testa e un fisico molto bello. Mi chiede come ho conosciuto Tom e le raccontiamo di Gatto e del seminterrato al numero quarantasei, e gli racconto del mio taglio da universitario, di cui non avevo parlato con nessuno. Si fanno una risata e poi lei gli chiede del lavoro alla stazione di servizio e lui dice che fa schifo.

Penso che sia meglio lasciarli soli per un po’, così vado a fare un bagno e passeggio giù in spiaggia a dovuta distanza, mangio un hot dog e faccio un’altra nuotata. Quando torno, li vedo uscire dall’acqua, così mi unisco a loro. Hilda dice: «Vieni prendiamo una coca cola. Tom dice che deve provare a nuotare verso la Francia ancora una volta».

Non so cosa intenda. Prendiamo le bibite e quando ritorniamo, ci stendiamo al sole. Mi chiede se voglio una sigaretta e io le rispondo di no. È bello, comunque, che te la offrano. Vediamo Tom che sta nuotando supera tutti gli altri. Vorrei essere andato con lui. Dico: «Il bagnino gli fischierà presto, è lontano da tutti gli altri».

Hilda fa un sospiro e farfuglia: «Va avanti finché non fischia. Deve sempre andare più avanti degli altri».

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Non so cosa dirle dopo questa affermazione, quindi me ne sto zitto.

Hilda va avanti: «Una volta facevo la cameriera in un ristorante vicino a Square. Tom e molti dei ragazzi dell’università di New York venivano lì. A volte il giorno prima dell’esame si gingillava per ore, offrendo da bere a tutti e comportandosi come se non gliene fosse importato. Altre volte, non si sa perché, stava seduto in un angolo a mescolare il suo caffè come se avesse voluto fare un buco nella tazzina».

«Tom faceva l’università?», le chiedo. Non mi ero mai domandato che vita avesse fatto prima di incontrarlo nel seminterrato. Credo di non averci mai pensato.

«Certo», dice Hilda. «Ė stato all’università di Washington Square per circa un anno e mezzo. Viveva nel dormitorio nella parte superiore della città, ma io lo vedevo al ristorante e abbastanza regolarmente uscivamo insieme appena staccavo dal lavoro. Ha dei parenti da qualche parte nel Midwest, un padre e una matrigna. Non gli è mai piaciuto parlare di loro, anche prima di essere stato cacciato dall’università. Ora non da loro più sue notizie».

Queste sono un sacco di informazioni da ricevere tutte in una volta e lasciano ancora un sacco di dubbi. Il primo che mi viene in mente è: «Come mai è stato buttato fuori?».

«Beh, A Tom questa faccenda lo fa infuriare, non mi hai mai raccontato direttamente tutta la storia. È tutto collegato a suo padre. Credo che, per qualche ragione, suo padre gli avesse scritto di non tornare a casa per le vacanze di Natale. Tom e degli altri ragazzi, che erano rimasti nel dormitorio per le vacanze, si misero a fare gli scemi cominciando una battaglia con l’acqua. All’università questo scherzetto non piacque e scrisse avvisando i genitori che avrebbero dovuto pagare i danni. I genitori dei ragazzi si arrabbiarono molto ma tolsero dai guai i figli pagando. Tom non ha mai avuto notizie da sua padre, nemmeno una riga.

«A quel punto Tom cominciò a venire al ristorante furioso. L’università cominciò a tormentarlo per i danni della battaglia con l’acqua e per la retta del secondo semestre. Fece il primo esame, fisica, e prese una A. Ė molto intelligente.

«Non aveva ancora ricevuto notizie da casa. Fece il secondo esame, di francese, ma fu rimandato. Quello stesso pomeriggio andò nell’ufficio del rettore dicendogli che avrebbe lasciato, prese la sua roba e se andò. Non lo

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