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Note a caldo sull’ordine di esame - Judicium

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Academic year: 2022

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MICHELE FORNACIARI

Note a caldo sull’ordine di esame

(a margine del convegno, organizzato a Firenze il 12.5.16, dal Centro Studi Fabbrini)

1. – In principio era von Bülow, ed i presupposti processuali erano i presupposti del proces- so.

Ben presto, però, si comprese che si trattava di una visione non corretta, in quanto – a parte alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali non si può proprio parlare di processo (banalmente, la lettera, una volta cartacea, ora tendenzialmente elettronica, con la quale la parte soccombente chie- de al giudice di ripensarci, di certo non rappresenta l’atto introduttivo di un’impugnazione ex artt.

395 ss. cpc) – è tale (vale a dire processo) anche quello che si svolge in assenza di un qualche pre- supposto processuale.

Sulla base di questa consapevolezza, si è da allora cominciato a sostenere che quelli in que- stione, più che quali presupposti processuali, dovrebbero essere definiti quali presupposti della pro- nuncia di merito. Questo, nell’ottica per la quale il loro esame, per quanto all’interno del processo, dovrebbe nondimeno avvenire prima dell’esame della fondatezza o meno della domanda.

Con riferimento a tale visione, peraltro, pur dato atto del fatto che, in taluni casi, essa è sicu- ramente il prodotto di una riflessione attenta ed argomentata, in generale ho invece la sensazione che non sia così. Più specificamente, ho la sensazione che il rapporto fra la definizione ed il feno- meno, da essa connotato, sia ribaltato. Che la prima, anziché la conseguenza del secondo, ne rap- presenti cioè la causa. Che, per dirla ancora più chiaramente, l’idea che l’esame dei presupposti processuali debba sempre e comunque precedere quello del merito, più che il frutto di una ricostru- zione autonomamente maturata e poi tradotta nella predetta definizione, rappresenti viceversa il co- rollario di quest’ultima, pregiudizialmente ed acriticamente recepita come esprimente l’ontologica essenza dei presupposti processuali. O che comunque tale definizione, magari inconsapevolmente, condizioni l’approccio degli interpreti, determinandone un atteggiamento non equidistante fra la prospettiva dell’esistenza di un ordine di esame rito-merito e quella della sua inesistenza; tale, in particolare, che, mentre con riferimento alla seconda prospettiva viene istintivo interrogarsi sulle sue ragioni, con riferimento alla prima un altrettale interrogativo viceversa non si pone.

Per dirla in breve, credo insomma che quello della scontata anteriorità del rito rispetto al me- rito sia, in linea di massima, un preconcetto. E, come tutti i preconcetti, il suo superamento passa, a mio modo di vedere, prima e più che dall’analisi degli argomenti in contrario, da un cambio di at- teggiamento mentale. Ciò di cui c’è bisogno è cioè di riuscire a guardare al problema in termini dif- ferenti, rispetto a quelli consueti.

2. – In tale direzione, due sono, a mio avviso, i mutamenti necessari.

a) Da un primo punto di vista, viene in considerazione il modo di pensare al rapporto fra il diritto sostanziale ed il processo.

In genere, quando si riflette su tale rapporto, ed in particolare sul processo quale strumento di secondo grado, che interviene a seguito di una crisi del diritto sostanziale, per risolvere tale crisi e per ristabilire il diritto oggettivo, viene spontaneo guardare allo stesso come ad un meccanismo riparatorio, il quale in tanto può svolgere efficacemente la sua funzione, in quanto esso stesso fun- zioni correttamente. In tale prospettiva, è dunque ovvio pensare che il processo, prima di preoccu- parsi del diritto sostanziale, debba innanzitutto preoccuparsi di se stesso. Vale a dire di verificare il proprio corretto funzionamento.

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Tale prospettiva, sia chiaro, è non solo lecita, ma senz’altro corretta, ed anzi mette in luce un’esigenza fondamentale, qual è quella, per la quale solo un processo che funzioni bene può ragio- nevolmente aspirare a fornire una risposta valida all’esigenza di tutela delle parti. Essa diventa però fuorviante, laddove si sostenga, o, più spesso, si dia per scontato, che i presupposti processuali, in genere, sarebbero tutti requisiti necessari per il corretto funzionamento del processo.

Per evitare tale, come detto, fuorviante, deriva, risulta utile, a mio avviso, considerare che, senza nulla togliere all’importanza della riferita prospettiva, il rapporto fra diritto sostanziale e pro- cesso può essere visto anche in un modo differente, se non opposto tout court. Vale a dire nel senso che, per avere ragione, o, detto meglio, per ottenere tutela, non basta avere il diritto: occorre anche farlo valere bene. Non, sia chiaro, che tale diversa prospettiva pretenda, da sola, di fornire la dimo- strazione dell’inesistenza di un ordine di esame rito-merito. E del resto anche questa impostazione risulterebbe a sua volta fuorviante, laddove, sulla base di essa, si sostenesse, o si desse per scontato, che i presupposti processuali, in genere, non sono mai requisiti necessari per il corretto funziona- mento del processo, ma sempre e solo requisiti attinenti alla correttezza del modo nel quale si fa va- lere il diritto.

Nondimeno, la prospettiva in discorso, in quanto propone una visione del problema ribaltata, rispetto all’altra (non prima la verifica circa la correttezza del processo e poi quella circa la sussi- stenza o meno del diritto, ma prima l’esistenza del diritto e poi la correttezza del modo nel quale questo viene fatto valere), riequilibra, per così dire, il quadro problematico, depontenziando la sug- gestione dell’impostazione più tradizionale ed aprendo all’idea che la verifica di diritto sostanziale possa anche precedere quella di diritto processuale; o comunque che i presupposti processuali non siano per definizione requisiti necessari per poter pronunciare nel merito, ma possano anche essere, più neutramente, requisiti per ottenere tutela, senza, dunque, un’ontologica priorità rispetto ai requi- siti di merito.

b) Da un secondo punto di vista, viene in considerazione il modo abituale di porre il pro- blema circa l’esistenza o meno di un ordine di esame rito-merito.

In genere, quando ci si interroga su tale problema, la domanda che viene formulata è se sia possibile che il giudice pronunci nel merito, senza avere prima verificato l’esistenza o meno dei presupposti processuali. Se, per esemplificare, sia possibile che il giudice respinga la domanda nel merito senza avere verificato di avere giurisdizione o di essere competente; o, detto altrimenti, se il giudice possa affermare che, impregiudicata la questione circa la giurisdizione o la competenza, il diritto fatto valere non esiste.

Ecco, questo modo di porre il problema, per quanto apparentemente neutro, in realtà è il sin- tomo evidente di una già scontata contrapposizione fra rito e merito. Di un’approccio, cioè, tale che, pur prendendosi in considerazione la possibilità della non necessaria pregiudizialità del rito rispetto al merito, quelle che vengono in considerazione sono comunque due distinte categorie di requisiti, che si rapportano fra loro appunto in quanto categorie. Ed invece proprio questo occorre a mio avvi- so riuscire a fare: dismettere questa precategorizzazione e porsi nell’ottica per la quale ciò di cui si tratta è, più in generale, una serie di requisiti, che devono sussistere perché la domanda possa essere accolta; o, se si preferisca – si tratta del rovescio della medesima medaglia – di singole questioni, ciascuna autonoma dall’altra, e non di categorie di questioni.

Questo cambio di atteggiamento è a mio avviso necessario per un duplice motivo. Per un verso, in quanto il raggruppare i requisiti in discorso in due categorie e poi il ragionare di essi in quanto appartenenti a queste ultime, dà per scontato che tale appartenenza sia rilevante ai fini dell’ordine di esame, mentre questo che è proprio ciò che si tratta di appurare. Per altro verso, per- ché non è questo il modo nel quale opera il giudice. Questi, quando deve decidere una causa, non si pone il problema in termini di rito e di merito. Se lo pone in termini di giurisdizione, di competenza,

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di fatto costitutivo a, di fatto costitutivo b, di fatto impeditivo/modificativo/estintivo c. Ragiona, cioè, in relazione ai singoli requisiti, non alle categorie del rito e del merito. E quando, avendo in ipotesi riscontrato la carenza di uno o più di tali requisiti, respinge la domanda, lo fa appunto non, genericamente, perché il processo sia mal instaurato o perché il diritto non esista, ma, specificamen- te, perché manca la giurisdizione, la competenza, il fatto costitutivo a, il fatto costitutivo b o perché sussiste il fatto impeditivo/modificativo/estintivo c.

Fra il pensare per categorie ed il pensare con riferimento ai singoli requisiti, sussiste insom- ma, mutatis mutandis, la stessa differenza che c’è fra la pregiudizialità-dipendenza e due fattispecie, la seconda delle quali sia composta di tutti i fatti costitutivi e impeditivi/modificativi/estintivi della prima più altri. Quando si ragiona di rito e di merito, ci si muove già in un’ottica analoga a quella della pregiudizialità-dipendenza. In considerazione non vengono cioè i requisiti in quanto tali, ma la categoria, alla quale essi appartengono. Solo che qui, per rimanere nella metafora, se vi sia o meno pregiudizialità-dipendenza è proprio quello che si tratta di appurare.

Il porsi dall’uno oppure dall’altro punto di vista non è, si noti, irrilevante. Provo a spiegarmi con un esempio, relativo al problema della possibilità o meno di un rigetto fondato su più ragioni, a cavallo fra il rito ed il merito, sul quale torneremo anche più avanti (§ 7). Immaginiamo il caso del giudice, il quale ritenga sia di essere incompetente (per territorio: l’incompetenza per materia o per valore, come vedremo, ha una ratio, e dunque un rilevanza, differente), sia che il diritto fatto valere non esista. Premesso che il piano, sul quale ci stiamo muovendo, è quello delle suggestioni e dei condizionamenti, indotti dal fatto di porre il problema in un modo oppure in un altro, di fronte all’interrogativo se egli possa dire “sono incompetente e la domanda è infondata”, non c’è dubbio che qualche perplessità insorge, venendo istintivamente da pensare che, se il giudice è incompeten- te, non può decidere nel merito. Il discorso suona però diversamente, o almeno così mi pare, laddo- ve, anziché nei riferiti termini, l’interrogativo venga posto nel senso se il giudice possa dire “re- spingo la domanda perché per un verso manca la competenza, per altro verso manca il fatto costitu- tivo a”; o, se si preferisca, “respingo la domanda perché l’attore: - ha adito il giudice sbagliato; - non ha fornito la prova del fatto costitutivo a”. A maggior ragione ciò vale poi ipotizzando che il difetto di competenza sia insanabile (o se, anziché con riferimento all’incompetenza, si ragioni con riferimento ad un diverso presupposto processuale, appunto insanabile). Qualora l’incompetenza implicasse il rigetto tout court della domanda, è infatti evidente – o almeno così mi pare – che fra l’ipotesi del rigetto per la mancanza (insanabile) della competenza e del fatto costitutivo a e quella del rigetto per la mancanza del fatto costitutivo a e del fatto costitutivo b le differenze tenderebbero decisamente ad attenuarsi: in entrambi i casi, il giudice, che per accogliere la domanda deve riscon- trare la presenza di una serie di requisiti (di rito come di merito), dà atto della già maturata convin- zione circa l’assenza di due di essi.

Questo, si noti bene, non significa che non possa mai darsi il caso, nel quale la verifica di un requisito di rito debba precedere quella dei requisiti di merito. Ed anzi, in realtà non significa nep- pure che non esista un generalizzato ordine di esame rito-merito. Di questo ci occuperemo sotto (per quanto in particolare concerne la pronuncia ipotizzata, su di essa, come detto, torneremo più avanti, nel § 7). Significa però – e questo è ciò a cui mirano le presenti considerazioni – che il modo nel quale viene generalmente posto il problema tradisce in realtà la preadesione alla soluzione nel senso dell’esistenza del suddetto, generalizzato, ordine di esame; o se non altro, una, magari incon- sapevole, inclinazione in tal senso.

3. – Se, alla luce delle considerazioni svolte, si sia disposti, intanto a non dare per pregiudi- zialmente scontata – o anche solo per presunta – l’anteriorità del rito rispetto al merito, e poi da un lato a non ragionare per categorie, ma con riferimento ai singoli requisiti, necessari, per

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l’accoglimento della domanda, dall’altro, per quanto in particolare concerne i presupposti proces- suali, a non attribuire a tutti, indistintamente e per così dire di default, un’unica ragion d’essere, non si può a mio avviso non riconoscere che quella, da essi rappresentata, tutto è fuorché una categoria unitaria; che, in particolare, al di là del minimo comune denominatore, consistente nel fatto di esse- re requisiti di accoglimento della domanda ulteriori, rispetto a quelli che integrano la fattispecie del diritto azionato, essi rispondono ad una pluralità di rationes, profondamente differenti l’una dall’altra.

Esemplificando, senza pretesa di completezza e chiarito, a scanso di equivoci, che i singoli presupposti processuali hanno, a volte, a più di una ragion d’essere, alcuni sono richiesti perché, in loro assenza, il legislatore ritiene che la decisione, che il giudice renderà, abbia meno probabilità di essere corretta (così la giurisdizione, la competenza per materia e quella per valore); altri sono ri- chiesti per garantire l’imparzialità del giudice, che, a sua volta, si riflette poi nella tendenzialmente maggior correttezza della decisione (così la capacità del giudice, sotto il profilo dell’assenza di mo- tivi di astensione/ricusazione); altri sono richiesti per far sì che l’individuazione del giudice rispon- da a criteri oggettivi e scongiurare dunque la possibilità che la parte si scelga il giudice (così, di nuovo, la giurisdizione, nonché la competenza in genere, vale a dire anche quella per territorio); al- tri sono richiesti, nella prospettiva, di carattere generale, di un’efficiente amministrazione del giu- stizia, per far sì che le cause abbiano una distribuzione fra i vari uffici giudiziari più o meno uni- forme e comunque tendenzialmente coincidente con il luogo nel quale si verifica il conflitto di inte- ressi (così la competenza per territorio); altri sono richiesti perché si vogliono evitare pronunce con- trastanti (così il giudicato); altri sono richiesti per evitare di perdere tempo e di disperdere energie processuali inutilmente (così l’interesse ad agire e, di nuovo, il giudicato); altri sono richiesti per garantire che il soggetto, nei cui confronti verrà resa la pronuncia, possa prima dire la sua (così il contraddittorio); altri sono richiesti per l’esigenza, strettamente collegata alla precedente, di riserva- re al titolare del diritto la decisione di farlo valere in giudizio (così la legittimazione ad agire); altri sono richiesti perché, in loro assenza, non è dato comprendere su cosa verte il processo (così la va- lidità della domanda, per ciò che concerne l’identificazione del diritto fatto valere).

Ebbene, se quanto precede è vero (e francamente mi riesce difficile pensare che possa essere negato), mi sembra evidente che la generalizzata pregiudizialità del rito sul merito non abbia alcun fondamento.

Né, si noti, tale fondamento potrebbe essere rinvenuto in ciò, che in assenza dei presupposti processuali mancherebbe il potere di decidere nel merito. Il “potere di decidere nel merito” è infatti, abbastanza manifestamente, un ente artificioso e sovrannumerario, privo di alcuna ragion d’essere, che non sia proprio quella di fungere da supporto argomentativo alla pregiudizialità del rito sul me- rito. Un ente, detto altrimenti, che lungi dal giustificarsi autonomamente e poi fornire argomento a tale pregiudizialità, rappresenta in realtà, nella più classica delle petizioni di principio, il precipitato strutturale della medesima, della quale continua dunque a mancare la giustificazione.

4. – Non, sia chiaro, che, alla luce delle predette rationes, non emergano delle priorità nell’esame dei vari requisiti, necessari per l’accoglimento della domanda. Solo che tali priorità non si pongono, monoliticamente, fra rito e merito. Vale a dire fra tutti i presupposti processuali, da un lato, e l’intero complesso delle valutazioni di merito, dall’altro. In realtà, il discorso è più articolato e variabile. Intanto vi è almeno un presupposto processuale, vale a dire l’interesse ad agire, che non è pregiudiziale rispetto ad alcuna decisione di merito (ed in realtà ad alcun’altra decisione, anche di rito) di qualunque segno essa sia. Per il resto, da un lato alcuni presupposti processuali sono bensì pregiudiziali, ma rispetto non solo al merito, bensì a tutto un complesso di valutazioni ulteriori, tan-

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to di merito quanto di rito. Dall’altro tale pregiudizialità non sempre è generalizzata, ma dipende dal segno della pronuncia; dal fatto cioè che questa sia favorevole all’attore oppure al convenuto.

Iniziando dalla prima affermazione, posto che la ratio dell’interesse ad agire consiste uni- camente nell’evitare il dispendio inutile di attività processuale, a me pare che perdere tempo ad ac- certarne la presenza o meno, quando la causa sia già matura per la decisione nel merito (o anche in rito), non avrebbe alcun senso. E questo, si noti, vuoi che tale decisione sia nel senso del rigetto del- la domanda, vuoi che essa sia nel senso del suo accoglimento. Se la ratio è quella detta, l’accoglimento della domanda in possibile assenza di interesse ad agire darà infatti vita, tutt’al più, ad una sentenza inutile, che certo avrà comportato uno spreco di attività processuale, ma che, pro- prio da questo punto di vista, avrà certamente recato meno danni di quelli che recherebbe, anziché decidere senz’altro la causa nel merito (o in rito), attardarsi ulteriormente ad istruire la questione dell’esistenza o meno dell’interesse ad agire.

Quest’ultimo è cioè un presupposto processuale che potremmo definire a rilevanza eventua- le. Nel senso che in tanto rileva, in quanto sia liquido prima di un qualunque altro motivo di chiusu- ra della causa (nel merito o in rito). In caso contrario, esso può essere tranquillamente tralasciato.

Passando alla seconda ed alla terza affermazione, premesso che le (poche) considerazioni che seguiranno sono da intendere in senso meramente indicativo e di massima, a me pare che la va- lidità della domanda, relativamente all’identificazione del diritto fatto valere, sia tendenzialmente pregiudiziale a qualunque altra questione, di rito come di merito, di un segno come dell’altro. Fin- ché non si sa cosa vuole l’attore, difficilmente, infatti, è possibile valutare qualunque altra cosa.

Parimenti pregiudiziale a quasi tutte le altre valutazioni, tanto di rito quanto di merito, di qualsivoglia segno, sono poi, a mio avviso, nell’ordine, la competenza per materia o valore e la giu- risdizione (nell’ordine, perché credo che altrimenti si corra il rischio che l’attore si scelga il giudice che deciderà sulla giurisdizione). Se, come detto, la ratio di tali presupposti processuali consiste nella maggiore probabilità di correttezza della decisione resa dal giudice competente per materia o valore e munito di giurisdizione, e se, come credo occorra ritenere, esiste un interesse pubblico a ta- le correttezza, non v’è dubbio, infatti, che occorra evitare pronunce, su qualunque altro requisito e di qualunque segno, rese da un giudice, del quale non sia stata previamente verificata appunto la competenza per materia o valore e la giurisdizione.

Non altrettanto vale invece per la competenza per territorio. In questo, caso, la ratio consiste infatti, come detto, da un lato nell’ordinata distribuzione delle cause sul territorio nazionale, dall’altro nell’evitare che la parte si scelga il giudice. Su tale base, è dunque evidente che, mentre il presupposto processuale in questione è senz’altro pregiudiziale a quasi qualunque altro requisito, di merito come di rito, nella prospettiva della decisione favorevole all’attore (occorre evitare che l’attore si scelga il giudice che pronuncerà anche solo su una parte delle questioni controverse), al- trettanto non vale in quella della decisione favorevole al convenuto. Esso non è, cioè, un requisito per decidere tout court, ma un requisito per decidere favorevolmente all’attore. Laddove, dovendosi ancora istruire il profilo della competenza, sia già liquido un altro motivo di rigetto della domanda, nel merito o in rito, ben si può dunque chiudere senz’altro il processo su tale questione, senza preoccuparsi della prima. In questa prospettiva, infatti, da un lato l’eventuale strategia sleale dell’attore non ha evidentemente sortito alcun effetto (non ha cioè arrecato alcun danno al convenu- to), dall’altro non avrebbe senso porsi il problema del rispetto della corretta distribuzione delle cau- se sul territorio nazionale. Una siffatta preoccupazione, implicando un maggiore dispendio di attivi- tà processuale, non potrebbe infatti che nuocere, a livello generale, all’efficienza dell’amministrazione della giustizia, alla quale, come detto (§ 3), è finalizzata la predetta distribu- zione.

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Il giudicato, dal canto suo, se ovviamente osta ad una pronuncia di merito (o anche di rito, per chi ritenga che anche le decisioni di rito passino in giudicato) contrastante con il proprio conte- nuto, non v’è viceversa ragione per la quale dovrebbe impedire una pronuncia in linea con quest’ultimo. Posto che la sussistenza o meno del giudicato (ad esempio sotto il profilo soggettivo) fosse ancora da istruire, mentre per il resto la causa fosse già matura per la decisione in senso con- forme al precedente, ostinarsi a chiarire prima la questione del giudicato servirebbe solo a ritardare la decisione, in contrato palese con una delle due rationes del presupposto processuale in questione (evitare la perdita di tempo e l’inutile dispendio di energie processuali) e senza alcun vantaggio con riferimento all’altra (evitare pronunce contrastanti).

Parimenti secundum eventum valgono poi tanto il contraddittorio quanto la capacità della parte. Trattandosi di presupposti processuali volti a garantire il consapevole apporto delle proprie ragioni ad opera della parte, non vedo infatti cosa osti a che essi possano rimanere irrisolti, nella prospettiva di una decisione incondizionatamente favorevole alla parte medesima. E’ vero che, in assenza di tale consapevole apporto, non è dato sapere quale sia il reale interesse di quest’ultima e che dunque il principio rischia di risultare più teorico che pratico. Questo non è però sempre vero.

Si immagini infatti che, avendo l’attore visto completamente accolta la propria domanda, il conve- nuto proponga appello e che l’attore non si costituisca. Ebbene: posto che sussista un dubbio in me- rito alla regolarità della notifica dell’impugnazione, e dunque alla regolare instaurazione del con- traddittorio nei confronti dell’attore-appellato, che per risolvere tale dubbio sia necessaria un’istruttoria e che però il giudice di appello sia già convinto della totale infondatezza dell’impugnazione, in nome di cosa dovrebbe imporsi la previa istruzione in merito alla regolarità della notifica e non si potrebbe invece far luogo all’immediato rigetto dell’impugnazione medesi- ma?

Il discorso potrebbe continuare, ma non mi pare che sia necessario. Ciò che qui interessa non è, infatti, stilare un elenco completo del regime di priorità nell’esame dei vari requisiti necessari per l’accoglimento della domanda. Più modestamente, si vuole soltanto mostrare come tale regime non possa essere irrigidito nella schematica contrapposizione rito-merito, dovendo viceversa essere mo- dulato volta per volta, in base alle circostanze concrete. E quanto detto mi pare sufficiente a dimo- strare tale assunto.

5. – Un altro aspetto, sul quale occorre invece soffermarsi, è quello relativo alla rilevanza o meno, in materia di ordine di esame, della rilevabilità ufficiosa delle questioni.

In particolare, gli interrogativi che si pongono in proposito sono due: a) se l’essere il difetto di un presupposto processuale rilevabile d’ufficio implichi la priorità del suo esame rispetto al meri- to; b) se la medesima caratteristica implichi l’impossibilità, per la parte, di incidere, con la propria volontà, sull’ordine di esame; problema questo, si noti, che si pone non solo nei rapporti fra rito e merito, ma più in generale.

Ad entrambi gli interrogativi deve essere fornita, a mio avviso, risposta negativa.

a) Quanto al primo, il punto è di nuovo quello della ratio del presupposto processuale. Dire che il difetto di un presupposto processuale è rilevabile d’ufficio non significa infatti che l’ordinamento vuole, generalizzatamente ed incondizionatamente, che non venga resa una qualsivo- glia decisione di merito, senza che ne sia stata verificata la presenza. Significa, più specificamente, che non vuole che, senza che sia stata effettuata tale verifica, si realizzi quello specifico esito pro- cessuale, che il presupposto processuale è finalizzato a scongiurare. Vuole evitare, detto altrimenti, di rimettere alle scelte, consapevoli o inconsapevoli, delle parti la possibilità di tale esito senza la previa verifica di quel presupposto processuale. Questo, però, non incide in alcun modo sull’esito in discorso. Non modifica, cioè, la finalità del presupposto processuale, vale a dire la sua ratio. Se un

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presupposto processuale è volto ad evitare che, senza la propria previa verifica, sia emessa una de- cisione favorevole all’attore, il fatto che il suo difetto sia rilevabile solo dalla parte oppure anche dal giudice significa solo che mentre nel primo caso (rilevabilità solo su eccezione di parte) il legislato- re rimette al convenuto la valutazione se conferire concreta rilevanza a quel presupposto processua- le e dunque se condizionare realmente la pronuncia a sé sfavorevole alla previa verifica di esso, nel secondo (rilevabilità anche d’ufficio) in parallelo al potere del convenuto sussiste anche quello del giudice e dunque il condizionamento in discorso non dipende più solo dalle scelte del primo. Ciò non toglie però che il presupposto processuale rimane volto ad evitare solo la pronuncia favorevole all’attore e non anche quella favorevole al convenuto. Dunque, non impedisce che quest’ultima venga resa a prescindere dall’esistenza del presupposto processuale medesimo.

La rilevabilità d’ufficio non modifica, insomma, quanto detto sopra. Determinante, al fine di stabilire se esista o meno un ordine di esame e quali ne siano le articolazioni, rimane cioè la ratio del presupposto processuale. Ciò che cambia, a seconda che quest’ultimo sia rilevabile d’ufficio oppure solo su eccezione di parte, è il fatto che il condizionamento di quella certa decisione alla previa verifica del presupposto processuale in questione all’ordinamento in un caso preme di più, nell’altro meno. Ma in entrambi i casi il condizionamento, rimesso alle parti o meno, riguarda uni- camente quel certo esito processuale, vale a dire quella certa decisione, con quello specifico conte- nuto e quello specifico segno, non qualunque decisione di merito.

b) Quanto poi al secondo interrogativo, la risposta negativa si impone per un duplice ordine di considerazioni.

Da un lato, essa discende da quanto appena detto. Se la rilevabilità ufficiosa, rispetto a que- sto problema, è neutra, se essa non implica, cioè, un generalizzato ordine di esame, rispetto a qua- lunque decisione, ma solo che non sia rimesso alla parte un certo, specifico, ordine di esame – vale a dire l’ordine di esame, imposto per altre, autonome, ragioni, rispetto a quella decisione, con quel contenuto e quel segno – ciò significa che, con riferimento a decisioni di diverso contenuto e di di- verso segno non sussiste alcun ordine di esame. Con riferimento a tali decisioni (che sono quelle, in relazione alle quali si pone il problema), dunque, la possibilità, per la parte, di imporre un ordine di esame in base alle proprie valutazioni di convenienza sussisterà o meno in base a ciò che vale in generale in proposito. La rilevabilità d’ufficio non riveste, cioè, a questo riguardo, alcuna rilevanza.

Dall’altro lato, occorre considerare che il problema circa la rilevabilità ufficiosa oppure ri- messa alla parte di una certa questione è diverso da quello circa la possibilità o meno di imporre un ordine nell’esame delle varie questioni rilevanti ai fini della decisione. In questione sono cioè due diverse disponibilità del materiale processuale: da un lato si tratta della determinazione delle que- stioni concretamente rilevanti per la decisione; dall’altro della instaurazione, fra queste ultime, di un rapporto di priorità. Né, si aggiunga, fra le due aree sussiste alcuna correlazione necessaria: così come l’essere un presupposto processuale, e più in generale un requisito, rimesso all’eccezione del- la parte di per sé non implica che la parte medesima possa senz’altro imporre, con riferimento ad esso, un ordine di esame, parimenti, e specularmente, il fatto che esso sia rilevabile d’ufficio non esclude tale possibilità.

Per non portare, sotto entrambi i profili, che un unico esempio, relativo ad una valutazione di merito, si pensi all’eccezione di pagamento. Il fatto che tale eccezione sia rilevabile anche d’ufficio significa che l’ordinamento non vuole lasciare alla disponibilità della parte il far sì che il processo si occupi o meno di quel fatto estintivo; e non vuole, in particolare, che possa venire rico- nosciuta l’esistenza di quel certo credito, senza avere valutato se, in relazione ad esso, si sia verifi- cato tale fatto estintivo. Quanto alla prima preoccupazione (non lasciare alla disponibilità della par- te che il processo si occupi o meno di quel fatto estintivo), è però evidente – o almeno così mi pare – che essa non incide in alcun modo sul problema dell’ordine di esame: che il processo debba

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senz’altro occuparsi di quella certa questione non dice nulla circa il fatto che essa debba essere esaminata prima o dopo un’altra. Dunque, nulla esclude che la parte possa incidere su tale gerar- chia. Quanto poi alla seconda preoccupazione (evitare il riconoscimento dell’esistenza del credito senza avere valutato se esso sia stato estinto per pagamento), è altrettanto evidente – sempre a quan- to mi pare – che essa, in quanto relativa alla prospettiva dell’accoglimento, non incide in alcun mo- do su quella del rigetto: che non debba essere riconosciuta l’esistenza di un credito senza avere veri- ficato se esso sia stato pagato, non significa che non si possa dichiararne l’inesistenza per un motivo differente. Dunque, di nuovo, nulla esclude che, in relazione alla seconda prospettiva, la parte possa incidere sull’ordine di esame.

6. – Sempre in tema di rapporto fra ordine di esame e volontà della parte, un altro problema che si pone, per certi versi opposto rispetto a quello appena esaminato, è se, posto che la parte possa imporre un ordine di esame, in base alle proprie valutazioni di convenienza in merito alla vittoria della causa per un motivo oppure per un altro (in questione vengono, a quanto mi pare, fondamen- talmente due parametri: quello della maggiore o minore preclusività della decisione e quello dei possibili riflessi su altri rapporti, a seconda delle ragioni della pronuncia), laddove egli non lo faccia possa farlo il giudice; se, detto altrimenti, laddove la parte non esprima preferenze, possa essere il giudice a dare la precedenza ad un requisito rispetto ad un altro.

La domanda, laddove venga intesa nel senso della possibilità di una supplenza del giudice all’inerzia della parte, ha, scontatamente, risposta negativa: arbitro di cosa è più o meno convenien- te per la parte non può ovviamente che essere la parte medesima e, se essa non ha espresso prefe- renze, non si vede in nome di cosa potrebbe essere consentito imporgliene una.

Le cose stanno però diversamente, se la domanda venga intesa nel senso se il giudice possa (non sostituirsi alla parte, valutando cosa sia meglio per lei, ma) operare un’autonoma valutazione in merito a cosa sia meglio dal punto di vista pubblicistico. Posta in questi termini, non v’è infatti dubbio che essa debba ricevere risposta positiva e questo per la semplice ragione che il processo non è affare privato delle parti e, come in generale esistono poteri ufficiosi, non si vede per quale motivo, in punto di ordine di esame, lo stato non dovrebbe avere voce in capitolo. Certo, la valuta- zione del giudice, proprio in quanto non si pone in termini di supplenza di quella della parte, non può parametrarsi sulla maggiore o minore convenienza per quest’ultima: essa deve ovviamente col- locarsi sul piano dell’interesse pubblico. Che un siffatto interesse esista e quale esso sia è peraltro evidente: si tratta dell’interesse alla maggiore preclusività possibile della decisione; la quale indub- biamente rappresenta anche uno dei parametri della valutazione di convenienza della parte, ma che non per questo non possiede un’autonoma rilevanza anche per lo Stato. In relazione a tale obiettivo, sussiste cioè una coincidenza di interessi, tanto privato quanto pubblico e, come sempre succede in casi di questo tipo, l’inerzia di un soggetto non impedisce all’altro di attivarsi.

Né, si aggiunga, in contrario potrebbe addursi il fatto che, se la parte non ha espresso la pro- pria preferenza, ciò significa che essa ha implicitamente manifestato di volere la decisione in base al motivo che per primo fosse per risultare liquido ed il giudice non può dunque imporgli la mag- giore durata del processo, in ipotesi derivante dalla sua scelta per il motivo più preclusivo, ancora da istruire. Che alla parte debba essere riconosciuto il diritto di optare per un certo motivo di deci- sione invece che per un altro e dunque di imporre un ordine di esame, non significa, infatti, che essa sia per ciò solo arbitra assoluta di quest’ultimo: in materia, come detto, sussiste anche un interesse pubblico, e, come sempre accade, in casi di questo genere, ben può essere che, a fronte di tale inte- resse, quello privato debba cedere.

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7. – Un ultimo aspetto, sul quale mette conto soffermarsi, è quello, del quale ci siamo del re- sto già occupati (§ 2), della possibilità di un rigetto della domanda fondato su una pluralità di moti- vi.

Premesso che, in generale, la cosa è senz’altro possibile (ben può, ad esempio, il giudice re- spingere una domanda risarcitoria, in quanto manca la prova tanto dell’elemento psicologico quanto del nesso di causalità), cosa accade in presenza di un ordine di esame? In particolare, può ad esem- pio il giudice negare la propria competenza per territorio e ciononostante respingere nel merito?

Istintivamente, come detto (§ 2) la prospettiva suscita perplessità. A mio avviso, tuttavia, la risposta deve essere affermativa, e ciò per le ragioni che seguono.

In primo luogo, occorre intanto considerare che, ammessa la correttezza di quanto detto so- pra (§ 4), l’ordine di esame competenza per territorio-merito sussiste unicamente nella prospettiva della decisione di accoglimento e non anche in quella del rigetto. Se è cioè senz’altro vero che il giudice non potrebbe emettere una non definitiva di merito (come tale per definizione favorevole all’attore) accantonando la questione circa la propria competenza per territorio, in ipotesi eccepita dal convenuto, nulla osta invece a che egli respinga senz’altro nel merito, “saltando” la questione di competenza. Detto questo, ed in secondo luogo, si tratta a tal punto semplicemente di considerare che, se il giudice può dire “sia o meno competente, la domanda è infondata”, egli può anche dire

“sono incompetente e la domanda è infondata”. Il rigetto nel merito, impregiudicata la competenza, implica infatti la liceità della pronuncia nel merito anche nell’ipotesi dell’incompetenza ed allora non si vede cosa dovrebbe cambiare per il fatto che il giudice espliciti la propria convinzione sul punto.

A maggior ragione ciò vale poi se si considera, secondo quanto già evidenziato sopra (§ 2), che, in una prospettiva di non preconcetta contrapposizione fra rito e merito, la pronuncia in que- stione deve essere intesa come riferita non già alla (in)competenza ed alla (in)fondatezza nel merito, bensì, più specificamente, ai singoli requisiti, necessari per l’accoglimento della domanda e ritenuti assenti dal giudice. In questione non è, cioè, la statuizione “sono incompetente e la domanda è in- fondata”, bensì quella – tanto più convincente ipotizzando, secondo quanto già prospettato (§ 2), che il difetto di competenza sia insanabile (e ribadito, secondo quanto appena ricordato, che la competenza per territorio, data la sua ratio, non è un requisito per decidere tout court, ma un requi- sito per decidere favorevolmente all’attore) – “la domanda deve essere respinta in quanto: - hai adi- to il giudice sbagliato; - manca la prova del fatto costitutivo a; - vi è la prova del fatto impediti- vo/modificativo/estintivo b”; o, magari, nell’ottica del ribaltamento di prospettiva, del quale si dice- va sopra (§ 2): “- manca la prova del fatto costitutivo a; - vi è la prova del fatto impediti- vo/modificativo/estintivo b; - hai adito il giudice sbagliato”.

Ebbene, solo che si riesca a dismettere la preconcetta idea di un ordine di esame rito-merito sempre e comunque, non mi pare, francamente, che una pronuncia di così strutturata dovrebbe de- stare alcuna perplessità.

Certo, il fatto che l’incompetenza sia un vizio sanabile complica le cose. Mettendo in conto tale sanabilità, si potrebbe infatti obiettare che, se il giudice si ferma alla declaratoria di incompe- tenza, l’attore può riassumere il processo davanti al giudice indicato come incompetente, il quale potrebbe pensarla diversamente. Questo modo di ragionare non è però corretto, e ciò per un duplice motivo.

Per un verso bisogna infatti considerare che la mancata decisione sui profili ulteriori, rispet- to alla competenza, non è una cosa che l’attore possa pretendere, dato che la scelta di quel giudice proviene da lui.

Per altro verso, e decisivamente, occorre poi mettere in conto che, quand’anche il giudice si limitasse alla declaratoria di incompetenza, l’attore potrebbe non sanare il vizio, riassumendo il

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processo davanti al medesimo giudice, ed a tal punto nulla osterebbe più ad una pronuncia del tipo di quella sopra ipotizzata. Per carità, l’esempio è sicuramente di scuola, ma esso serve per chiarire che l’incompetenza (e più in generale il vizio di un presupposto processuale), per quanto sanabile, di per sé è motivo di rigetto della domanda. Non vi è dunque nulla di strano in una pronuncia che respinga la domanda per una pluralità di motivi, fra i quali l’incompetenza. Semplicemente, laddove una siffatta pronuncia venga resa in prima battuta, è come se il giudice, enunciate le ragioni del ri- getto, aggiungesse: “né, a fronte della già acclarata – e dichiarata – presenza degli altri motivi, ha senso procedere alla sanatoria dell’incompetenza”.

Tutto questo ha peraltro una rilevanza marginale. Ciò che qui interessa, infatti, è non l’incompetenza in particolare, ma, più in generale, la possibilità di un rigetto della domanda fondato su una pluralità di motivi, fra i quali sussiste un ordine di esame, ed in particolare su motivi sia di rito che di merito. Anche in ipotesi ammesso che, con riferimento all’incompetenza, tale possibilità dovesse risultare esclusa in razione della sanabilità di tale vizio, ciò varrebbe appunto solo per l’incompetenza e solo per tale ragione, e non anche per altri presupposti processuali, il cui vizio sia insanabile. Laddove le considerazioni appena svolte non convincano, è dunque sufficiente, come del resto già si disse (§ 2), ragionare con riferimento ad un diverso presupposto processuale, il cui vizio sia appunto insanabile (e la cui ratio non sia tale da ostare a qualunque pronuncia di merito).

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