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Micropermanenti: valutazione percentualistica o risarcimento equitativo?

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Academic year: 2022

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Micropermanenti:

valutazione percentualistica o risarcimento equitativo?

Prof. Alessandro Chini*

Decisamente importanti sono le problematiche insite in una C.T.U. disposta per accertare se microlesioni abbiano o meno causato pregiudizi permanenti, data la delicatezza delle implicazioni cliniche e medico-legali che le stesse comportano ed in considerazione dell’enorme percentuale (intorno al 70%) di questo tipo di casistica nel contenzioso giudiziario.

Nella specie si ritiene opportuno far oggi riferimento al cosiddetti “colpo di frusta” il quale ne rappresenta oltre il 90%.

In questi casi bisogna, in primo luogo, accertare che nel sinistro di cui si discute ed in rapporto causale con lo stesso, si sia effettivamente verificata una lesione.

E’ noto infatti come, in assenza di una precisa diagnosi o di una descritta obiettività distrettuale, un referto o certificato “colpo di frusta cervicale” non sia sufficiente ad ammettere che lo stesso abbia comportato anche il verificarsi di una lesione posto che tale dizione non è sinonimo di lesione ma sta soltanto ad indicare una modalità dinamica alla quale non sempre e non necessariamente segue, non dico un interessamento osteoarticolare ma, spesso, neppure una lesione muscolo-legamentosa.

L’ammissione dell’esistenza di una teoricamente possibile lesione, ovviamente quando la stessa, come già detto, non è diagnosticata e/o comunque desumibile da una obiettività distrettuale, in rapporto con il predetto meccanismo lesivo, necessita anche della soddisfazione di precisi parametri di biomeccanica deducibili dalla conoscenza della massa e velocità delle vetture interessante dalla collisione, velocità e massa condizionanti l’accelerazione dell’abitacolo e naturalmente del corpo ospite della vettura tamponata (idoneità lesiva del momento traumatico).

A prescindere che una perizia tecnica di esperto in biomeccanica non è in genere disponibile, è evidente, oltre che ampiamente noto, come un giudizio clinico e medico-legale sull’esistenza o meno di un tal tipo di rapporto non possa essere legato soltanto ai citati parametri in quanto lo stesso deve tener conto, ed in misura praticamente paritetica, di tutti i fattori nella specie ricorrenti e legati all’occupante la vettura (in particolare la prevedibilità e/o l’attesa dell’evento, la posizione ed atteggiamento del capo e del corpo sul sedile nel momento dell’evento stesso, ecc.).

Una corretta risposta al quesito comporta, pertanto, inevitabilmente, una ricostruzione del meccanismo ed una tale ricostruzione è possibile, appunto, proprio sulla base di quelle conoscenze, anche sulle lesività medico legali, note esclusivamente alla nostra disciplina.

E’ di aiuto, per questa ricostruzione, la conoscenza del tipo entità del danno macchina, fotograficamente documentati, che può, anche se soltanto in parte, sostituire la perizia tecnica e consentire una sommaria ma sufficientemente attendibile ricostruzione delle modalità del momento traumatico.

Non riteniamo invece, come peraltro spesso accade, che il giudizio sull’attendibilità post-traumatica di una microlesione possa, anche se soltanto marginalmente, basarsi sulla conoscenza del danno economico, preventivato o fatturato, che la riparazione del mezzo comporta posto che tale importo è condizionato da tutta una serie di fattori di ordine commerciale di norma sconosciuti ai medici-legali.

Ammessa, anche se, ripeto, non chiaramente diagnosticata o desunta da una descritta obiettività distrettuale, una lesione del tratto cervicale della colonna vertebrale causata dal ricostruito, pur se soltanto sommariamente, meccanismo, meccanismo lesivo, deve, a questo punto, essere valutato il danno temporaneo ed il giudizio sullo stesso non può prescindere da una analisi critica sia del riferito anamnestico sia della certificazione in atti e/o esibita, se non redatta da strutture pubbliche.

Invece, con una certa frequenza, il C.T.U. pone semplicisticamente, a fondamento della sua risposta, proprio le dichiarazioni resegli dalla persona periziata senza aver compiuto alcun riscontro oggettivo.

* Medico Legale, Roma

Tagete n. 1-1999 Ed. Acomep

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Non va invece dimenticato che nel processo civile il periziando si trova nella particolarissima situazione di essere sì oggetto della perizia, ma di essere altresì soggetto del processo e portatore di interessi economicamente apprezzabili nel processo stesso. L’ausiliario non può perciò arrestarsi a quanto riferito dal periziando ed accettarlo acriticamente, ma deve verificarlo scientificamente, controllarlo obiettivamente, giustificarlo medicolegalmente.

Il C.T.U., poi, non può porre, a base del suo giudizio, in assenza di ulteriori riscontri oggettivi, esclusivamente la sola certificazione redatta dal medico curante; non che una simile certificazione sia priva di valore ma la stessa, non provenendo da un pubblico ufficiale, non è assistita da alcuna presunzione legale di veridicità (art. 2700 c.c.) e necessita pertanto delle stesse verifiche che vanno riservate al riferito dal periziando.

Ma, parlando del danno temporaneo, occorre, innanzi tutto, chiarire due premesse.

In primo luogo lo stesso non deve, necessariamente, coincidere con la prognosi postulata in sede ospedaliera avendo, quest’ultima, una finalità esclusivamente clinico-terapeutica ma non valutativa medico-legale che, come vedremo più avanti, è basata su ben altri presupposti.

Inoltre, non necessariamente in un soggetto che lavora, lo stesso è identificabile con il periodo dall’attività espletata (è noto, d’altra parte, come tale periodo è, nei lavoratori dipendenti, notevolmente più lungo, a parità di lesioni, rispetto agli artigiani e/o liberi professionisti) in quanto lo stesso è spesso condizionato anche da altri motivi non sempre e non tutti legati alle conseguenze temporanee della lesione subita.

A questo proposito vorrei mettere in evidenza che il quesito nella specie postulato dovrebbe essere più correttamente definito in quanto, quello appunto relativo al danno temporaneo, fa riferimento in genere, all’inabilità e/o all’incapacità termini che, comunque, hanno medicolegalmente il significato di una impossibilità totale o parziale di attendere ad un’attività lavorativa.

Orbene il quesito, così postulato, comporterebbe una visione del problema indubbiamente restrittiva rispetto a quel ben più vasto concetto di integrità biologica protetta, così come a suo tempo enunciato dalla Corte Costituzionale ed ormai definitivamente accettato dalla Dottrina medico-legale e giuridica e dalla Giurisprudenza sia di merito che di legittimazione e, sul quale, il medico-legale deve esprimere un motivato giudizio.

Ed allora non all’inabilità e/o all’incapacità si dovrebbe far riferimento ma all’invalidità, invalidità secondo il concetto del mio grande Maestro Cesare Gerin che, precorrendo i tempi ed anticipando l’evoluzione dottrinaria del concetto di fanno definì la validità come efficienza psicosomatica allo svolgimento di qualsiasi attività, anche non lavorativa, ponendo pertanto le basi di quello che dopo quarant’anni la Corte Costituzionale avrebbe definito come danno biologico ed alla salute del quale l’invalidità è praticamente sinonimo.

Di invalidità temporanea bisognerebbe pertanto parlare se non, addirittura di danno biologico temporaneo quando, indipendentemente da un eventuale pregiudizio lavorativo, sia più o meno preclusa al periziandola materiale capacità di poter autonomamente svolgere, in modo più o meno completo, le elementari funzioni indispensabili per compiere gli atti quotidiani della vita organica e di relazione.

A questo punto è chiaro come appaia arduo configurare una totale compromissione di queste funzioni a causa di lesioni così limitate come quelle che, di solito, comportano un “colpo di frusta” per cui si ritiene che valutazioni di detta invalidità temporanea, come assoluta, possano essere accettate solamente se prevedono tempi brevi mentre può essere consentito, il riconoscimento di un più o meno lungo periodo di invalidità temporanea parziale, ancora meglio, di quella minima.

Ma a proposito del danno temporaneo, sarebbe interessante poter introdurre, in modo chiaro e preciso, così come avviene per il danno biologico permanente, anche il quesito sul danno temporaneo reddituale nell’eventualità che quello biologico provochi anche un’attività lavorativa causata dalla lesione riportata e/o dall’iter clinico che l’ha contraddistinta.

Orbene, accertata una lesione del tratto cervicale della colonna vertebrale causata da un “colpo di frusta” conseguente a tamponamento ed un più o meno lungo periodo di invalidità totale, parziale e minima, è difficile non ammettere l’esistenza di quadri disfunzionali, pur se di non rilevante entità, ricollegabili causalmente con la predetta lesione.

Tagete n. 1-1999 Ed. Acomep

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A questo proposito, però, riteniamo opportuno ricordare, come siano spesso da considerare poco attendibili, come dimostrativi di tali quadri, gli esibiti riscontri radiografici, laddove viene attribuita un’importanza rilevante alla quasi sempre refertata scomparsa od appianamento della lordosi fisiologica cervicale nelle proiezioni standard ed alle limitazioni delle flesso-estensione del collo apprezzabili nelle proiezioni dinamiche del rachide cervicale.

Dovrebbe infatti essere a tutti noto come, nel primo caso, tale quadro può essere espressione di un corretto atteggiamento del capo che è leggermente flesso sul collo (la distanza dell’angolo postero- inferiore della mandibola rispetto alla colonna cervicale stessa non deve essere inferiore ai 2 cm e l’angolo che con la stessa forma la branca orizzontale della mandibola stessa non deve essere inferiore ai 60°) e, nel secondo, di movimenti di flesso-estensione incompleti.

Tutto ciò premesso, però, è evidente che, quando si tratta di obiettività ben individuabili come rigidità articolari, contratture del muscoli lunghi del collo, interessamenti labirintici e/o mieloradiocolari specialmente se strutturalmente accertati, ecc. non dovrebbero emergere particolari problematiche valutative che, invece si presentano nella loro piena evidenzia, quando ci si trovi di fronte soltanto ad una soggettività in genere disalgica.

Siamo in questi casi, infatti, di fronte a quadri condizionati dal soggettivismo caratteristico proprio del sintomo dolore ma il dolore è però, come noto, spesso componente degli esiti di una lesione costituendo l’aspetto talora più significativo e disturbante del danno biologico.

La sua percentualizzazione, però, è medicolegalmente improponibile per la mancanza di un quantificabile presupposto fisiopatologico.

In questi casi il C.T.U., però, può e deve comunque fornire precise indicazioni al giudicante, attraverso un chiaro messaggio tecnico, sull’attendibilità del quadro in discussione rifacendosi ai dati documentali, alla Dottrina, alla personale esperienza ed alla prassi clinica.

E, nel caso il C.T.U. abbia, attraverso gli elementi in suo possesso e desunti dalle fonti alle quali si è poc’anzi accennato, ritenuta attendibile la situazione clinico-difunzionale anche se solo soggettivamente riferita pur se in assenza di un identificabile riscontro obiettivo, non credo potrebbe essere condivisa un’eventuale decisione del Giudice di non riconoscere che da una lesione lieve possano essere derivati postumi permanenti risarcibili soltanto perché lo stesso ha posto a fondamento del suo giudizio, in base all’art. 115c.p.c., nozioni che riteniamo nella comune esperienza e cioè, nella specie, che “di norma” una lesione lieve guarisce senza lasciare alcun tipo di postumo, proprio perché quel “di norma” porta a generalizzare un giudizio che non può essere basato su presunzioni, ma deve trovare singola ed estremamente personale motivazione.

Tutto ciò premesso ribadisco però la mia personale convinzione che la percentualizzazione di un tal tipo di pregiudizio da parte di un C.T.U., è operazione non ammissibile né dal punto di vista clinico né dal punto di vista medico legale.

Ritengo pertanto doveroso richiamare l’attenzione dei C.T.U. perché non si prestino alla formulazione di precostituite percentuali di danno che non trovano giustificazione in nessun presupposto fisiopatologico anche se un tale procedere potrebbe trovare, come in realtà spesso effettivamente trova, una benevola accoglienza in base giudiziaria anche nei rappresentanti legali e nei consulenti tecnici delle Parti in causa.

Può accadere infatti che un C.T.U., in situazioni di questo tipo, talora nell’intento in sé non biasimevole di comporre la lite, “media” tra le posizioni delle Parti, fornendo un responso in grado di soddisfare al contempo attore e convenuto.

Questa sorta di “patteggiamento” non può essere ammesso perché un C.T.U. medico legale non dispone del potere di esperire il tentativo di conciliazione che nel diritto positivo è previsto soltanto nel caso della perizia contabile (art. 198 c.p.c.) e , pertanto, l’indicazione di un grado di invalidità permanente tale da “mediare” le posizioni delle Parti, quando non è espressione di una effettiva realtà clinico-disfunzionale, rappresenta un falso in perizia e, come tale, costituisce il reato previsto e punito dall’art. 373 c.p.

Meraviglia a questo proposito, per inciso, invece, richiamandosi all’art. 199 c.p.c., alcuni Giudici di Pace, nei loro quesiti, invitino il C.T.U. ad esprimere un tentativo di conciliazione e chiedono addirittura, di motivare l’eventuale fallimento di tale tentativo.

Tagete n. 1-1999 Ed. Acomep

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Ma il risarcimento, anche di minime disfunzionalità a prevalente carattere soggettivo (una sofferenza fisica può, da sola, compromettere la qualità della vita) è comunque, per concludere, moralmente necessario ma tale risarcimento non deve essere basato sulla valutazione di una micropermanente postulata da un C.T.U. che tecnicamente è impossibilitato a farlo, ma su di un suo giudizio, di difficile ma non impossibile formulazione, di attendibilità di un danno.

In presenza di un giudizio medico-legale di attendibilità, quindi, l’entità del risarcimento dovrebbe, a mio avviso, così come sostenuto anche quanto meno da una parte della Giurisprudenza di legittimazione, essere stabilita in via equitativa dal Magistrato trattandosi, di un danno biologico non patrimoniale, risarcibile, ma sprovvisto di elementi che ne consentono una sua giustificata e corretta valutazione percentualistica.

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