3.5. TRA VITA E LETTERATURA: I CONTENUTI
DELLA PAROLA CHE POGGIA SUL VERO
Finché Manzoni, entro i limiti che si è visto, si affidò al giansenismo, alcune domande non poterono mai trovare risposte. Fu infatti l’agostinismo di Rosmini a risolvere quei crucci che assillavano l’autore da diverso tempo, l’esistenza del male, per esempio, una pecca troppo grande e ingiusta, in un creato che avrebbe dovuto essere perfetto 1; tra i problemi che l’agostinismo di Rosmini riuscì a risolvere vi era la paura di peccare di ipocrisia, di cui l’autore aveva parlato alla Saluzzo di Roero:
“un tale convincimento (= l’evidenza della Religione cattolica) dee trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro perciocché, scrivendo, si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si trova che nella propria persuasione”.
Dalla volontà di persuasione, dalla propria fiducia in Dio, Manzoni trae la forza necessaria per fare apologia del cristianesimo; questa però non può essere l’unica fonte del proprio operare poetico: vi è anche il genio poetico che moltiplica le suggestioni della realtà creando un finto gioco d’ombre, come un potente caleidoscopio; l’estro poetico racchiude da sempre in sé stesso un impulso superbo, la tentazione all’onnipotenza; il calamaio dà allo scrittore quel non so ché di Pigmalione, o peggio, trasforma l’uomo in Dio di fronte all’opera messa su carta e di fronte a suoi “burattini”.
1 Rosmini teorizzava in sintonia con l’innatismo di origine neoplatonica che il male fosse
corruzione del mondo causata del peccato adamitico e quindi, privatio boni dediti, sostanziale assenza di bene. Come scrive Di Sacco (op. cit. (1985), p. 76) riprendendo Rosmini: “La nostra mente riconosce in sostanza Dio come suo bene assoluto e le cose create come beni limitati”. In questo vi è S. Agostino; Rosmini, proprio come Manzoni sosteneva che la sventura ricaduta su Giobbe e sul giusto racchiuda comunque in sé stessa una qualche fecondità, perché “non v'ha un solo male nell'universo, onde una sapienza infinita non cavi dei beni” (Teodicea, n. 611). La risoluzione in chiave filosofica del problema del male poté forse persuadere anche Manzoni: prima del 1827 una tale soluzione non era per lui possibile e il male continuava a costituire per lo scrittore un grandissimo problema teoretico ed esistenziale.
Ma se davvero scrivere significa mentire e, addirittura, subire l’influenza di un “orgoglio demiurgico” 2, come può un autore cristiano definirsi scrittore senza provare un brivido di coscienza, e come può farlo, nello specifico, un autore legato alla severità giansenistica? L’errore che Manzoni rimprovera a sé stesso nella famosa lettera è quindi a ben vedere doppio: da un lato quello di mentire esagerando una fede più volte “ripudiata, contraddetta col pensiero, coi discorsi, colla condotta”; dall’altro rimprovera a sé la superbia di paragonarsi a Dio, il peccato che i giansenisti consideravano capitale.
Nel Dialogo Dell’Invenzione questo doppio problema appare risolto e il merito è, in certo senso, di Rosmini 3. Come scrive Di Sacco: “la filosofia rosminiana, che postulava una Causa prima della realtà, offre a Manzoni la soluzione lungamente cercata al problema della moralità dell’arte”; “l’approdo al rosminianesimo 4, così come si esprimerà nel dialogo Dell’invenzione, segnerà insieme il vertice e non è altro che un vero trovare; perché il frutto dell’invenzione è un’idea, o un complesso di idee; e le idee non si fanno, ma sono, e sono in un modo loro” 5. L’idea è oggetto del pensiero ed essa, in quanto modello per la creazione del mondo, proprio come insegnava la tradizione platonico-agostiniana 6, è tassello del mondo archetipico contemplato da Dio 7.
2 È una bella espressione di Di Sacco (op. cit. (1986), p. 13). 3 Come Scrive Merlo, a proposito dell’autunno del 1850, durante il quale Manzoni si dedicava al Dialogo Dell’Invenzione, “s’occupava di scriver dialoghi di filosofia rosminiana, esponendola così chiaramente che bastava leggere per capire” (dal Diario di Don Domenico Merlo, Carteggio a cura di Bonola, p. 444) citato da Carlo Carena, Tra amici filosofi, in Dell’Invenzione e altri scritti
filosofici, Premessa di Carlo Carena, Introduzione di Umberto Muratore, Testi a cura di Massimo Castoldi, Edizione Nazionale ed Europea delle opere di Alessandro Manzoni, 16, Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2004, p. XXI. 4 La teoria circa l’origine innata delle idee fu appresa da Manzoni grazie alla lettura dei Principi della scienza morale, volume che l’autore Rosmini inviò all’amico. Nella lettera del 10 luglio 1831 Manzoni scrive a proposito di questo: “La vo studiando quest’opera, e mi trovo ad ogni istante istruito, illuminato da importanti recondite e non meno evidenti verità speciali”. Questa teoria suscitò però inizialmente in lui molte perplessità e fu causa di varie discussioni tra i due. Come scrive lo Stampa (cit. in Carteggio, I, pp. 309‐310.): “le discussioni durarono quasi una decina d’anni: ci fu anche un imbarazzante silenzio durato dal 1831 al 1836”. Di tutto questo si deve tener conto qualora si affronti lo studio di Agostino in Manzoni: lo scrittore apprese mediante i giansenisti “l’altro Agostino”, quello cioè della severa dottrina della Grazia; con Rosmini invece egli si avvicina all’Agostino origeniano, ovvero quello che faceva particolare affidamento alla teoria della “Revelatio per signa”: il convergere tra agostinismo giansenistico e agostinismo rosminiano può essere apprezzato nel Natale del 1833. Cfr. Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 69‐71. 5 Dialogo dell’Invenzione, p. 168. 6 Cfr. con Zama, op. cit. (2013), p. 65. 7 Manzoni poté apprendere il platonismo anche dall’opera di Paganini Pagano, Della natura delle
idee secondo Platone che Manzoni custodiva nella Biblioteca di via Morone. Pestoni, op. cit.
Scrive Manzoni:
“l’idea non può essere se non in una mente; e (…) quanto è assurdo il dire che il pensato sia niente, altrettanto assurdo e contraddittorio in terminis, sarebbe il dire che il pensato sia da sé, senza un pensante” 8.
Scrive ancora Manzoni:
“un’idea qualunque, prima di venire in mente a un uomo qualunque, era ab
aeterno in mente di Dio” 9; “Per trovare dove l’idea era, prima di venire in
mente a uno di noi, che siamo, e una volta non eravamo, e potevamo non esser mai, bisogna risalire a Quello che era, che è, che sarà” 10.
Se nel mondo odierno del decadentismo è possibile usare la parola come contenitore vuoto e sola forma, questo è inammissibile nell’ottocento di Manzoni e in particolare per un autore che credeva nella potenza creatrice del verbo divino: proprio come avrebbe voluto il Platone del Cratilo, il linguaggio non è convenzione 11, i verba contengono res 12.
La teorizzazione di questi concetti è di molto posteriore agli anni della conversione e deriva a Manzoni da un agostinismo diverso da quello giansenistico: l’agostinismo di Rosmini 13. È molto probabile che Rosmini abbia 8 Dialogo dell’Invenzione, p. 210. 9 Ibidem 10 Ibidem. 11
In realtà il discorso è molto più complicato di così; Manzoni riconosceva l’esistenza di un arbitrio nelle lingue: questo ne spiega le differenze in fatto di grammatica e di lessico; come scrive Bolelli per Manzoni l’arbitrio si limita alla “facoltà di fare una scelta tra due o più cose possibili all’uomo”. Egli era in disaccordo con De Tracy secondo cui il linguaggio è stato inventato dagli uomini e le lingue originate da gesti, e scrive “Ci era indispensabile far qui questa specie di protesta; perché cercando noi di dimostrare che tutto il positivo di qualunque lingua è arbitrario e di convenzione, qualcheduno potrebbe credere esser noi di quella opinione che il linguaggio sia opera di convenzioni umane” (Scritti linguistici, a cura di L. Poma e A. Stella, Milano, Mondadori, 1974, p. 403). Tristano Bolelli, Alessandro Manzoni: la teoria linguistica in Manzoni, l’eterno
lavoro – Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto negli studi del Manzoni , Milano 6/7/8/9 Novembre 1985, Milano: Casa del Manzoni – Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 1987, pp. 75‐79. 12 Cfr. Zama, op. cit. (2013), passim 13
A questo proposito, discostandosi dalla visione unitaria di Zama, si può vedere come nel Natale del 1833 Manzoni abbia veramente fatto convergere l’agostinismo giansenistico con
trasformato in Manzoni il modo di pensare alla parola trasformato definitivamente in oggetto dotato di autonomo potere rivelativo: se per il Manzoni segnato dall’impronta giansenistica, la parola è tendenzialmente strumento della Grazia, segno debole, se privato della potenza divina e vivificatrice 14, per il Manzoni lontano dal giansenismo è la parola stessa che tende ad assumere potenza da sé: grazie a Rosmini avviene in Manzoni il passaggio dalla dottrina agostiniana della
Gratia ad Rem per signa 15 a quella della Res per signa 16.
Per fare uno degli esempi più evidenti, nella Pentecoste del 17, quando si dice che la legge di Dio è servitù a meno che non venga vivificata dalla Grazia, si è di fronte ad un concetto che, astratto dalla letteratura, corrisponde all’agostiniana dottrina della Gratia ad rem per signa, condivisa da Degola in quanto giansenista: la parola, non dotata di per sé di valore rivelativo, per quanto giusta giunge, muta alle orecchie dell’uomo lapso, e, a meno che Dio non lo voglia, non si trasforma in “admonitio”, ovvero in luce di fede ed in chiamata rivelativa.
Nel Romanzo la faccenda rimane complessa da dirimere: vi è una diversità di fondo tra il Fermo e Lucia e i Promessi Sposi perché la questione, come notava già Langella, viene impostata in maniera completamente diversa in una versione e nell’altra. In entrambe le versioni, è la stessa realizzazione del Romanzo ad ostacolare la visione giansenistica dei signa come meri contenitori della straripante potenza della Grazia: è infatti innegabile che la potente affermazione del genio poetico manzoniano poggi sulla radicata convinzione che la parola appartenga innanzitutto alla letteratura e sia strumento libero dello scrittore; l’opposizione tra fede e Genio appare per la prima volta nella Vaccina, dove lo scrittore indica già una via di risoluzione, seguendo Dante: la parola si priva
quello nuovo di Rosmini: infatti, parlando in quell’opera della praescientia Dei ristabilisce quello che in S. Agostino era l’originario punto di partenza per negare il libero arbitrio.
14 Questa concezione è ovviamente contraddittoria nel caso di uno scrittore, ma essa sussiste
nella Pentecoste del 1817.
15
Secondo questa concezione agostiniana, la Gratia permette l’illuminazione quando vivifica i
signa e solo tramite essa si giunge alla comprensione dell’oggetto da rivelare (Dio).
16 Secondo quest’altra concezione, sempre agostiniana, sono i signa stessi ad avere potere
rivelativo: tale concezione è precedente alla prima enunciata, ed è quella di Ddch‐A (cfr. II, 6,7; 8;) De, di cui parla diffusamente Lettieri: “suasio” o “admonitio ad res per signa”. In realtà, nell’ultimo Agostino questa concezione finisce per incastrarsi con la prima inserendosi nella visione più ampia della della celebre e difficile dottrina della Gratia, per come essa fu impostata dal filosofo dopo De diversis quaestionibus ad Simplicianum. 1,2, pp. 24‐56. Cfr. Lettieri, op. cit. (2001), pp. 23‐111.
dell’orgoglio, connaturato all’onnipotenza del talento poetico, se viene espressa da un intelletto che sa raggiungere la sua prima fonte (il Verbum).
Nel racconto della conversione del Conte del Sagrato la parola ha un valore ridimensionato: dalle analisi compiute emerge in questa prima versione lo strapotere della Gratia sulla volontà dell’individuo; i signa - e non soltanto le parole, ma anche le visioni, il turbinio improvviso di ricordi - appaiono realmente solo come strumenti della Grazia a cui l’io oppone una blanda resistenza: la
Gratia non ha insomma assoluto bisogno dell’aiuto delle parole ma se ne serve; ci
si muove perciò in una concezione molto simile a quella dell’ ultimo Agostino (Gratia ad rem per signa) 17, ovvero dell’Agostino dei giansenisti.
Nella vicenda dell’Innominato (1827) le parole sono invece indispensabili per la conversione: Manzoni, pur rimanendo ancorato alla concezione giansenistica che vede la Grazia come unico elemento vivificante della parola, come unica causa
efficiens della fede, decide di liberare i signa: la parola sboccia, sembra a tratti
assumere valore autonomo, spicca il volo liberata e, nutrita della forza irresistibile della Gratia, vince la mente; in questo modo la teoria della “Revelatio per signa”, propria dell’agostinismo origeniano, emerge assumendo importanza.
Manzoni arrivava a questo già prima dell’incontro con Rosmini (1826), secondo un “iter” che lo porta a scoprire col tempo alcune importanti sfaccettature di quel particolare giansenismo che egli aveva conosciuto con Degola: il giansenismo illuminato.
Cattolicesimo giansenistico e illuminismo si incontrano proprio lì, dove la parola diviene un signum potente, dove essa, pur vivificata dalla Grazia, mira a persuadere, a convincere in nome del proprio buon senso e diventa insomma assolutamente necessaria alla conversione: in altre parole, si ha a che fare a proposito dell’Innominato con una Grazia che parla anche e soprattutto alla ragione. Se quindi l’ispirazione giansenistica rimane 18, ecco, però, che Manzoni
17 Forse semplificando un po’ troppo, Langella ritiene che nel Fermo e Lucia Manzoni faccia il
tentativo di introdurre la conversione fulminea, specialmente a proposito del Conte (Op. cit. (1986), p. 196).
18 È vero che “se Dio opera direttamente nella volontà umana, ricreandola e convertendola, la
rivelazione per signa assume, inevitabilmente, un ruolo secondario, meramente strumentale”. Cfr. Lettieri, op. cit (1999), p. 117. Questo scrive Lettieri commentando S. Agostino e in qualche modo vale anche per Manzoni, nel senso che la concezione della Revelatio per signa si integra
necessariamente con la dottrina della Grazia giansenisticamente intesa e diviene funzionale ad essa. La vocazione di scrittore lo induce però a dare grandissimo valore alla parola come
nel secondo Romanzo si allontana leggermente dalla dottrina giansenistica della Grazia, dando maggior valore al potere rivelativo della parola, che, pur vivificata dalla Grazia, sembra diventare autonoma e prendere il volo. Lettieri chiama questa idea“Res per signa”.
Grazie all’incontro con Rosmini, Manzoni acquisisce piena consapevolezza dell’iter compiuto, e si convince della teoria di matrice agostiniana (Res per signa), secondo cui si arriva alla verità (Res) tramite l’autonomo potere dei signa 19
, ovvero delle parole che semplicemente acquisiscono potenza rivelatrice dal
fondo della propria natura e origine divina 20.
In rapporto proprio alla parola, vi è però una cosa che nel pensiero manzoniano non cambiò mai: secondo uno schema di impostazione illuministica, la parola
deve sempre essere veridica 21. Per Manzoni, sin da subito, già dal tempo del
carme In morte di Carlo Imbonati, il santo vero doveva essere l’oggetto privilegiato della sua poesia 22 e, perciò, fare letteratura dovette sempre per lui coincidere con la ricerca della verosimiglianza: trasformare l’idea in arte è per Manzoni renderne palese l’oggettività, la verità 23.
Tutta l’opera di Manzoni è tesa a questo, perché egli, come scrive nella prima stesura del 1823 della Lettera sul romanticismo era convinto che “La poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo” 24. E tale convinzione fu quella di una vita, perché essa rimane identica anche nell’ultima tarda stesura della lettera a Cesare d’Azzeglio percorso che si è visto e che inizia lentamente dall’Adelchi, coincida anche con la consapevole rivalutazione della parola come strumento potente in virtù della sua origine divina. L’idea che Dio operi dall’interno della volontà, molto forte in Agostino, tende invece ad inabissarsi in Manzoni fino a scomparire del tutto dalla sua produzione scritta, facendo emergere a tutto tondo i personaggi, e permettendo alla parola di raccontarne l’autonomia e la loro peculiare volontà. Cfr. Zama, op. cit. (2013), passim.
19 Si tratta veramente di una vocatio suasiva”, cfr. Lettieri, op. cit. (2001), pp. 30‐31.
20 In questo senso Manzoni fa un percorso al contrario rispetto a quello di Agostino che dalla
dottrina della Res per signa, accompagnata dalla vocatio suasiva, approda alla teorizzazione della dottrina che teorizza l’onnipotenza della Grazia (nello specifico Gratia ad Rem per signa). Cfr. Lettieri, op. cit. (2002), pp. 116‐117. 21 Anche per questo credo sia giusto avvalersi di un approccio unitario come quello utilizzato da Zama nel considerare la valenza del potere rivelativo della parola, in maniera giustamente anche trasversale. 22 Acerboni, op. cit. (2012), pp. 59‐62. 23 Zama, op. cit. (2013), pp. 68‐69. Cfr. Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 15; 24.
24 Lettera sul romanticismo, p. 114. Citato sempre da Sul romanticismo: lettera al marchese
Cesare d’Azeglio. Premessa di Pietro Gibellini, a cura di Massimo Castoldi (fa parte di Edizione nalzionale ed europea delle Opere di Alessandro Manzoni. Testi riveduti e corretti. Diretta da Gianfranco Vigorelli: 13), Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2008.
25: “La poesia deva proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole; giacché il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla né elevarla” 26. La scoperta del vero in Dio fa perciò sì che il “Santo Vero” finisca per convergere nella fede, e che Dio sia il punto dell’estetica e della morale manzoniana 27.
Il messaggio etico fu sempre, sin dal momento dei Sermoni, fondamentale per la letteratura di Manzoni 28 ed esso trovò la giusta teorizzazione proprio nell’ambito della conversione, divenendo il fulcro dell’opera manzoniana. Sin dalla prima lettera del febbraio 1806 al Fauriel, Manzoni sognava un’Italia simile alla Francia dove il messaggio dello scrittore potesse arrivare a tutti indistintamente senza dover superare l’ostacolo fondamentale costituito dall’assenza di una lingua viva conosciuta da tutti 29.
La costruzione del suo Romanzo e la risciacquatura in Arno corrispondevano alla volontà romantica 30 di dare il proprio apporto alla creazione di una lingua nazionale necessaria ad una Nazione che egli sognava unita 31: ma la lingua di un popolo, che ne è anche elemento identificatore, non è fatta per essere asservita alla retorica dei sofismi, è fatta “per servire a tutto a e a tutti”: essa ha un ruolo universale di comunicazione 32, e deve essere utilizzata dallo scrittore per rivelare il vero, attraverso il verosimile. Il vero è per Manzoni l’ultimo fine della parola. Nell’Autoritratto, composto nel 1801 si legge: “Lingua or spedita or tarda, e non mai vile, / che il ver favella apertamente o tace” 33. Nei famosissimi versi all’Imbonati è suo proposito “il santo Vero mai non tradir” e nei versi
25 Acerboni, op. cit. (2012), pp. 73‐76.
26 Lettera sul Romanticismo, p. 69. Cfr. con Zama, op. cit. (2013), p. 69. 27
Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 37‐38.
28 Cfr. Acerbone, op. cit. (2012), p. 64: “il bene morale” è uno “degli scopi irrinunciabili del
poeta”.
29
Cfr. Giovanni Nencioni, Manzoni e il problema della lingua tra due centenari in Manzoni
l’eterno lavoro, Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 1985, pp. 15‐56. 30 Cfr. Albert Maquet, alienazione ed estraneità nel travaglio linguistico di Manzoni, in Manzoni. “l’eterno lavoro”, pp. 443‐453. 31 Scrive Jemolo: “Non giovò, direi alla popolarità di Manzoni, l’aver dato tanto di sé, l’avere tanto meditato sulla questione della lingua. Lo sentiva come un problema politico, più che letterario: corollario del profondo senso di unità nazionale. Dare a tutti gli Italiani la medesima lingua, che si collegasse ai capolavori della letteratura, al momento in cui il volgare aveva preso il posto del latino ed era divenuto anche la lingua degli storici, dei filosofi, degli uomini di scienza.” Jemolo, op. cit. (1973), pp. 5‐6.
32
Zama, op. cit. (2013), pp. 44‐45.
programmatici di Aprile 14 lo stesso motivo ritorna mostrandosi una costante che non abbandonerà mai la poetica manzoniana:
“Fin che il ver fu delitto, e la menzogna / corse gridando minacciosa il ciglio: / “Io son parola che parlo, io sono il vero”, “tacque il mio verso, e non fu vergogna, … /or che il superbo morso / ad onesta parola è tolto alfine” 34.
Conoscere il vero serve per Manzoni, a teorizzare i precetti dell’etica e, in ambito schiettamente umano, conoscere il vero significa innanzitutto dare la priorità all’indagine antropologica: qualsiasi riflessione sull’etica non può che partire dallo scandaglio profondo dell’animo umano, dall’attenzione a quell’equilibrio che nasce nell’anima umana dal contrappeso tra la volontà, il desiderio degli istinti e il senso del giusto 35. Questa indagine, che porta Manzoni a contemplare senza filtri il guazzabuglio del cuore umano, emerge con assoluta evidenza alla lettura del Romanzo, e si mostra con altrettanta chiarezza nella Storia della
colonna infame, dove si sottopone all’accurata analisi psicologica la natura della
colpa, la credulità della gente, la spinta data ad un’opinione dalla paura e dal desiderio 36. Questa indagine deve aver avuto come primo oggetto di studio se stesso, il proprio animo. Il dato reale viene sottoposto alla riflessione, e dalla comparazione tra esso e l’idea di giustizia e di bene nasce l’istanza artistica, che per essere espressa ha bisogno di affidarsi al sentire. Il binomio “meditare e sentire” funge da imperativo categorico nella dimensione letteraria di Manzoni: la visione schietta e disincantata del vero deve sempre per Manzoni condurre alla riflessione sul bene e sulla morale 37. È compito poi del sentire mettere in luce il sentimento con cui la letteratura deve esprimere il vero e in ultima analisi il messaggio morale: questo è il nobilissimo compito della parola 38.
34 Aprile 14, vv. 8‐9, p. 467. 35
Scrive Jemolo, in un contesto diverso ma qui utile: “Manzoni scrittore non è legato particolarmente all’Italia. Le sue analisi hanno un valore universale: i don Rodrigo ed i don Abbondio, i Renzo e Lucia sono vissuti sotto tutti i cieli.” Jemolo, op. cit. (1973), p. 3. 36 Rita Zama ha messo in luce lo studio attento che Manzoni porta avanti sul cuore umano e sulle circostanze in cui l’uomo agisce contro l’uomo. Cfr. Zama, op. cit. (2013), pp. 169‐194. 37 D’Alessandro, op. cit. (2010), pp. 715‐751. 38 Nel Saggio sulla Rivoluzione francese Manzoni scrive “Il linguaggio è stato lavorato dagli uomini per intendersi tra di loro, non per ingannarsi a vicenda” e come commenta Rita Zama, in questa frase “risiede la cifra di tutto l’impegno artistico e speculativo di Manzoni: gli aspetti retorici,
L’osservazione del vero non può che partire da sé e dalla propria esperienza di vita. Lo scrittore è portato a concepire la scrittura come coessenziale alla vita. Vita e letteratura comunicano incessantemente perché il flusso della parola è sempre in ascolto del dato biografico, lo trascina con sé per scomporlo e rimodellarlo secondo le esigenze misteriose del genio dello scrittore. Aver compreso queste istanze della poetica di Manzoni è fondamentale per interpretare la vicenda di conversione dell’Innominato alla luce della biografia.
3.6. MANZONI E DEGOLA: LO STESSO PARADIGMA
DI CONVERSIONE
Quando la critica indaga il toccarsi tra biografia e letteratura, si impelaga di necessità in un terreno molto rischioso, affidandosi a suggestioni che rimangono sempre fallibili. Pur con la consapevolezza di questo limite, sembra però giusto identificare nella storia dell’Innominato un’invenzione, a cui Manzoni è approdato passando sotto setaccio la propria esperienza 39, e con lo scopo ultimo di mostrare al lettore un percorso di conversione verosimile, e, soprattutto, quanto di buono esista in un simile percorso.
Alla luce del lavoro svolto sinora, si può ricordare che Degola aveva raccontato la conversione di Enrichetta nell’Exhortation à une nouvelle Catholique alla luce di un forte provvidenzialismo e scandendo il suo iter in almeno tre fasi: la crisi psicologica (si pensi al dolore di Enrichetta nel giorno del battesimo della figlia); l’intervento di persone care (Somis e i Manzoni stessi) che offriron sostegno ad Enrichetta con i loro discorsi; l’intervento finale di Degola stesso in qualità di catechista. Come si è detto inoltre, nell’Exhortation l’esperienza di conversione di Enrichetta ha carattere universale: è il viaggio di qualsiasi persona, che emergendo dalle tenebre dell’eresia o dell’ateismo raggiunge la luce della fede. A logici e morali del linguaggio, pur discernibili formano un “unicum” indissolubile. Cfr. Zama, op. cit. (2013), p. 90.
39
Come scrisse Momigliano, la conversione “dominò non soltanto il pensiero, ma anche la fantasia del Manzoni: è perciò il fatto capitale della sua vita, il centro della vicenda del Manzoni uomo, critico, artista” A. Momigliano, Alessandro Manzoni, Messina: Principato, 19453 p. 23.
dimostrare tale carattere universale concorrono molti complessi concetti teologici, tra cui quello della “personalità corporativa”.
Possibile che Manzoni non si sia ispirato per nulla a queste idee e alla visione dell’abate genovese, quando scrisse le sue conversioni nel Romanzo? Si tratta pur sempre di concetti che egli visse e sentì sulla sua pelle; la sua conoscenza dell’Exhortation à una nouvelle Catholique doveva inoltre essere molto profonda: era un’opera che Manzoni aveva sicuramente letto più volte e che custodiva con grande gelosia.
Il racconto della conversione dell’Innominato 40 non lascia dubbi; Manzoni tenne conto della propria esperienza nel raccontare la conversione dell’Innominato e soprattutto non dimenticò gli insegnamenti di Degola 41. Pare giusto, perciò ritenere che quel racconto sia frutto di lunga riflessione e della rielaborazione di un vissuto: come sottolinea Zama, riflessione e poetica per Manzoni sono inscindibili, perché la letteratura deve esemplificare il vero 42. Ezio Raimondi scrisse giustamente: l’Innominato ha un nome: Alessandro Manzoni 43.
Naturalmente Manzoni, come anche Degola, era ben consapevole del fatto che ogni conversione è intima e unica perché segue modalità proprie e deriva dall’esperienza personale che è sempre irripetibile ed inviduale. Nonostante la Grazia sia, giansenisticamente, unica protagonista operante in ogni percorso, nonostante la maturazione psicologica abbia luogo puntualmente, Ludovico si converte in un modo proprio, attraverso un iter che non è paragonabile a quello del Conte del Sagrato.
Come scrisse Ugo Benson, i percorsi di conversione sono moltissimi:
“ci sono mille e mille strade che conducono alla Città. Uno sarà guidato dal suono dell’organo, l’altro dal profumo dell’incenso; uno se ne andrà tenendo una Bibbia in mano; questi è uno storico, quegli un mistico, il terzo è filantropo; questi è peccatore che implora il perdono; quell’altro un uomo semplice che vuol essere illuminato; quello infine è un santo che reclama 40 Più quest’ultimo che quello della conversione del Conte del Sagrato. 41 Jemolo, op. cit. (1973), 57‐58. 42 Rita Zama, op. cit. (2013), p. 64‐65. 43
Padre Onofrio Gianaroli, Presentazione in Per la conversione di A. Manzoni (1810‐2010) – Il
tema della conversione fra l’antico e il moderno. Atti a cura di Giuseppe Chili, Bologna:
l’unione con Dio: uno è condotto dalla mano di sua madre, l’altro si strappa agli amici per seguire Cristo. Così se ne vanno questi mille e mille, seguendo ciascuno la propria strada, ciascuno mosso da una potenza che gli resta misteriosa, ma tutti finiscono con l’incontrarsi davanti alla stessa porta, quella porta di cui si parla nell’Apocalisse, che tutti devono varcare (..)” 44. Quando però si tratta di parlare della conversione dell’Innominato e del suo autore è possibile trovare dal confronto un percorso comune 45. La conversione di quest’ultimo personaggio spicca per la sua unicità: le altre storie di conversione raccontate da Manzoni, pur rappresentando nel complesso una frantumazione della sua esperienza biografica, rimangono sempre particolari e individuali, strettamente legate al nome del personaggio che le ha vissute.
Inoltre Manzoni sembra che sia stato particolarmente attento a conferire alla conversione dell’Innominato carattere di universalità con tutto ciò che nei termini di un confronto con Degola questo comporta: Manzoni porta sotto gli occhi del lettore, tramite l’arte della verosimiglianza, il dramma universalmente umano della morte, degli interrogativi su ciò che ad essa segue, e, quindi, la tragedia del dubbio che divide ogni anima tra la negazione e l’affermazione di Dio.
L’intreccio è anche il risultato di quelle riflessioni sull’arte drammatica che Manzoni mise per iscritto nella Lettre à M. Chauvet 46, dove, dando la palma della vittoria a Shakespeare 47, egli riconobbe alla finzione letteraria il compito importantissimo di rappresentare, senza costrizione, le passioni degli uomini e l’universale umano 48. Tutto questo sembra favorire un’immedesimarsi maggiore: il senso tragico ed universale fa della conversione dell’Innominato un paradigma 44 Cfr. Luigi Colombo, Della Conversione di Alessandro Manzoni, in IV Congresso nazionale di studi manzoniani, Lecco: Annone, 1964, pp. 9‐22. Luigi Colombo cita da Enciclopedia Apologetica, Alba: Edizioni paoline, 1955, p. 773. 45 Come scrive Adolfo Jenni, nelle opere di Manzoni “la conversione riflette una vicenda della sua vita.” Jenni, op. cit. (1964), p. 59. 46 Acerboni, op. cit., pp. 73‐76. 47 In Materiali Estetici si legge: “Toccare questo punto che la perfezione morale è la perfezione
dell’arte e che perciò Shakespear sui tragici sovrasta gli altri perché è più morale. Più si va in fondo al cuore, più si trovano i principi eterni della virtù”. Alessandro Manzoni, Scritti letterari, a cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi, Milano: Mondadori, 1991, p. 14.
48
“C’est de l’histoire que le poète tragique peut faire ressortir sans contrainte des sentiments humains; ce sont les plus nobles, et nous en avons tant besoin ! C’est à la vue des passions qui ont tourmenté les hommes qu’il peut nous faire sentir ce fond commun de misère et de faiblesse qui dispose à une indulgence, non de lassitude ou de mépris, mais de raisons d’amour.” Lettre à
M. Chauvet. Cfr. Christesco, op. cit. (1943), pp. 28‐49; cfr. Ezio Raimondi, il dramma, il comico, il tragico in Il romanzo senza idillio, Torino: Einaudi, 1974, 79‐123.
per ogni convertito ed essa ha valore persuasivo di exemplum perché trova le proprie radici in una storia vera, che, oltre a quella raccontata dal Ripamonti, è la vita di Manzoni stesso. La crisi morale e psicologica dell’Innominato è, perciò, la fondamentale rielaborazione fantastica di quella vissuta realmente dal suo autore 49; l’importanza data alla parola, usata come mezzo rivelativo, che si osserva nelle pagine dedicate all’Innominato, è specchio della forza che le parole stesse, sia scritte che pronunciate, poterono avere su Manzoni stesso; l’incalzare degli eventi voluti dalla Provvidenza, l’incontro con persone divenute strumento della Grazia sono nella vicenda fittizia dell’Innominato allusione velata a quelle persone e quegli eventi, che secondo un’ottica giansenistica e degoliana, condussero Manzoni alla decisiva risoluzione; infine, la conversione biografica e quella di fantasia vengono entrambe portate a compimento dall’intervento della Chiesa. Questo è, anche, sostanzialmente lo schema degoliano di conversione che si articola in tre momenti distinti: la crisi psicologico-morale; la meditazione stimolata dalla parola in tutte le sue forme (lettura, discorsi, conversazioni con persone care divenute strumento della Grazia divina); l’intervento della Chiesa che chiude il percorso e lo ufficializza. Ma, cosa ancora più importante, perché valida sia per Degola che per Manzoni, questo schema così strutturato comunica con il prototipo di conversione offerto dalle Confessiones di Agostino.
a) LA CRISI PSICOLOGICA E MORALE.
Secondo Degola la crisi psicologica di Enrichetta ebbe inizio quando la donna si trovò a prendere parte in solitudine alla Cena Calvinista durante quella Pasqua che precedette il battesimo di Giulietta. Il culmine della crisi per Enrichetta va invece ravvisato nel giorno dolorosissimo per lei, in cui venne battezzata la prima figlia (23 agosto 1809). La crisi morale arrivò per lei quando, nel riconsiderare la propria vita passata cominciò a guardare alla propria fede protestante come ad un’eresia. Questo però accadde ad Enrichetta, probabilmente, solo durante le
49
La crisi psicologica, che coincide con l’esame di coscienza, è il primo passo verso la conversione. Cfr. Langella, op. cit. (1986), p. 182.
accese conferenze con il Degola. Nell’Innominato la crisi morale, che comunque ha un antefatto lontano 50, inizia nel segno del rimorso:
“Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, un cotal tedio delle sue scelleratezze. Quelle tante che erano accumulate, se non su la sua coscienza, almeno nella memoria, si risvegliavano ad ognuna ch’egli commettesse di nuovo, ed apparivano all’animo spiacevoli, e troppe: era come crescere e crescere un peso già incomodo” 51.
Per il personaggio la crisi si esplica nella sensazione di aver imboccato una strada di morte, condannata e senza futuro 52. A causarla fu la voce di Dio, “Prédicateur intérieur”, che da dentro gli gridò “Io sono però”, come fece con Mosé nell’Esodo 53, e ne agitò la coscienza.
Anche Manzoni dovette avere una sua crisi psicologica: l’ “ictus cordis” agostiniano, “il fischio del treno” dovette esserci. Lo lascia certo intendere, per quanto nebuolosa sia, la leggenda del miracolo di San Rocco. Langella, a differenza di molti altri studiosi, è scettico di fronte al resoconto offerto dall’aneddotica, e, seguendo la tesi di Bognetti, sostiene che la crisi improvvisa andrebbe anticipata al 1809: in questo caso la visita fatidica alla Chiesa di San Rocco dovrebbe essere riconnessa non all’aver smarrito la moglie ma alla paura di perdere la prima figlia, che a venti giorni dalla nascita fu assalita dalle afte e dalla rosolia 54. Come aveva già notato Trompeo, questo evento troverebbe fondamento nella natura neuropatica che accumunava Manzoni a Pascal.
Alla crisi psicologica seguì quella morale. Non si trattò certo di riconsiderare una vita di delitti, come nel caso dell’Innominato, ma si trattò di rivedere completamente i propri parametri di giudizio, e, quel che più conta, la propria visione della vita e della letteratura. Questa metanoia, attraverso cui riplasmare i
50
L’Innominato da ragazzo provava un misto di sentimento di sdegno e di invidia paziente di fronte allo spettacolo delle prepotenze (Promessi Sposi, cap. XIX). Lo “sdegno” consisteva in “una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto”. Cfr. Eurialo De Michelis, Sulla conversione dell’Innominato, in Atti del VI congresso nazionale di studi
manzoniani, Lecco: Annoni, 1964, p. 91‐96. 51 Promessi Sposi (1925‐27), XX, p. 784. 52 Barbi, op. cit. (1991), p. 151. 53 Dio disse a Mosè “Io sono colui che sono”. Barbi, op. cit. (1991), p. 151. 54 Bognetti, op. cit. (1977), p. 304.
propri credi per erigerne di nuovi 55, l’avvertire tale distruzione come necessaria e pian piano sempre più urgente, furono le cause della crisi psicologico-morale. L’origine della crisi morale ha tracce proprio nelle colte conversazioni con il Fauriel, dove il tema della morale si legava strettamente a quello letterario: stoicismo e idillio, proprio come l’Hortensius di Cicerone e molto tempo dopo i testi neoplatonici 56 per Sant’Agostino 57, inducevano Manzoni alla riflessione e, nel seno di quelle conversazioni, lo scrittore si avviava ad accogliere una visione nuova della moralità... La crisi psicologica nasce quando un evento o un discorso semina nuove intuizioni nel pensiero 58 ed essa si esplica in un dettagliato esame interiore, teso a riportare coerenza con quel che pian piano si impone alla ragione come cosa giusta. Nella famosa lettera del 6 febbraio del 1806 egli esprimeva al Fauriel il suo concetto del meditare e sentire, la sua ricerca di una poetica che nascesse da un’istanza morale, ovvero dal paragone tra quel che è e quel che dovrebbe essere 59. Ma per stabilire “quel che dovrebbe essere” è richiesto un metro di giudizio che si dimostri solido, una scala di valori universalmente validi in grado di sottrarsi al relativismo etico. Quel che un ateo trova nelle buone convenzioni e nella filosofia morale, Manzoni poté trovarlo nel Vangelo una volta che quella crisi si fu risolta, dopo aver trasformato il suo sguardo sulla vita e il suo modo di fare poesia: “quello che è e quello che dovrebbe essere (…) tutto conferma il Vangelo” 60. Quando la conversione sarà compiuta, la nuova severità morale e religiosa che egli acquisì, di matrice inequivocabilmente giansenistica, gli imporrà di rigettare il suo passato e la precedente poesia 61.
55
È un termine certamente più giusto a proposito di Manzoni. cfr. Cacciari, “metanoia” in La
Conversione di A. Manzoni (1810‐2010) Il tema della conversione fra l'antico e il moderno ‐ Atti a cura di Giuseppe Chili, Bologna: Fondazione del Monte Bologna e Ravenna, 2010, pp. 15‐20.
56
I testi neoplatonici di Porfirio e Plotino, letti nella traduzione latina fatta da Mario Vittorino, furono fondamentali per la conversione di Agostino, come egli stesso dimostra nel VII libro delle
Confessiones: essi infatti gli permisero di comprendere la difficilissima questione del male.
57
Sant’Agostino si era accostato alla Bibbia in seguito alla lettura dell’Hortensius di Cicerone nel 373; ma proprio come fu Cicerone ad avvicinarlo, fu lui stesso ad allontanarlo: il bello stile del celebre scrittore contrapposto a quello semplice e rozzo dei testi Sacri lo fece desistere da quella lettura. Sant’Agostino però dà molta importanza a quel momento, e definisce quel primo incontro con la fede la sua “prima conversione”.
58 Zama, op. cit. (2013), passim. 59
Scrive Manzoni al Fauriel: “Io credo che la meditazione di ciò che è, e di ciò che dovrebbe essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto, io credo che questo meditare e questo sentire sieno le sorgenti delle migliori opere si in verso che in prosa dei nostri tempi”.
Carteggio Manzoni‐Fauriel, p. 4.
60
Osservazioni sulla morale cattolica (1819), Al lettore, p. 4.
b) L’INFLUENZA DELLA PAROLA, DI PERSONE, EVENTI
DIVENUTI STRUMENTO DELLA GRAZIA:
Come si è già spiegato seguendo il brillante lavoro di Zama, grande importanza ebbero le parole di Lucia prima e quelle di Borromeo dopo per quanto riguarda la conversione dell’Innominato 62. L’animo colpito dalla Grazia è vulnerabile alla parola e si lascia trascinare da essa: la parola incanta i movimenti dell’Innominato, lo induce a pensare e compiere l’opera di misericordia 63. La Grazia agisce prima da dentro poi al di fuori attraverso le parole di Lucia. Come si è già visto, le parole “compassione” e “Dio” hanno potenza rivelativa e si piantano nella mente dell’Innominato raccogliendosi nell’orecchio 64. E quando, lasciata sola Lucia, quell’uomo terribile ritrova la propria tormentata solitudine, le parole della donna, “Dio perdona tante cose per un opera di misericordia” si impongono irresistibilmente sul turbine di pensieri e rimorsi con un’autorità nuova: è Dio che ha abitato quelle parole per servirsene; esse trasformano lo sguardo dell’Innominato inducendolo a vedere Lucia non più come prigioniera, ma come dispensatrice di “grazie e consolazioni” 65. I suoi occhi ora vedono
veramente perché le parole di Lucia sono animate dalla forza della Grazia 66,
proprio come quelle del Conte Somis lo furono per Enrichetta 67. Per l’Innominato il fatto che sulla sua strada sia capitata Lucia, il breve scambio di parole con il Nibbio mosso a compassione, l’aver udito il suono delle campane che lo porteranno nella festa del paese, l’incontro con Borromeo, sono tutti signa, eventi 62 Zama, op. cit. (2013), pp. 101‐113. 63 Ibidem, p. 103. 64 “Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio”, Promessi Sposi (1827), XXI, p. 795. 65 “Tutt’a un tratto gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima:
Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!: E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, è che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di un sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita”. Promessi Sposi (1827), XXI, 54‐56, p. 796.
66
Come ha mostrato Zama, sembrano essere le parole a trascinare la mente, ma a ben vedere l’operazione trascinante è impensabile senza la Grazia, giansenisticamente intesa: ed è proprio qui che la rivelazione per signa si integra con dottrina giansenistica della Grazia, che Manzoni interiorizza e rielabora. Anche Langella parla di prepotenza della Grazia citando Papini in un discorso che interessa anche Manzoni: op. cit (1986), pp. 181‐182.
di cui Dio si è servito per operare la sua conversione. Anche nella biografia di Manzoni è forse possibile identificare le parole, le persone e gli eventi che, come direbbe Degola, furono “strumenti della Grazia”.
Ovviamente, non è dato sapere quali furono le prime parole che portarono Manzoni a quel percorso. È probabile però che lo scrittore, all’interno di quel dialogo intimo e continuo che è conversione, abbia identificato in Dio il suo primo interlocutore, proprio come accadde all’Innominato. Se così avvenne, Manzoni poté riconoscere questa verità solo quando il processo fu compiuto: alla luce della nuova consapevolezza raggiunta (“Io mi conosco ora!”), egli poté dare a quell’esperienza intima del proprio “io” un’interpretazione cristiana, da credente, che dovette certo tener conto delle convinzioni di Degola. Vi sono alcuni indizi che guidano verso questa strada. Nell’epistolario con il Fauriel a partire dalla lettera del 7 marzo 1808, ovvero a distanza di solo un mese dal matrimonio protestante, si riscontra un interesse nuovo per i testi sacri 68.
All’inizio (“le temps approche, et qu’il faut vous mettre en chemin, ut
impleantur Scripturae”) e alla fine della lettera (venez, venez, veni veni et noli tardare) Manzoni mette insieme l’implicit e l’explicit del salmo 69. Come nota
Langella, la prima formula ricorre nei Vangeli per indicare la promessa dell’arrivo di Cristo. Questo interesse è certo emblematico indicatore di una ricerca che secondo Langella poté aver luogo inizialmente anche per sola curiosità di natura storica 69. Una nuova citazione nella lettera del 30 novembre 1808 allude invece alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi: “cum fustibus et lanternis” 70. È forse possibile rivedere nel Vangelo la prima parola che fece brillare l’animo dello scrittore, il primo passo verso il risveglio della coscienza. Su quelle parole Manzoni sarebbe poi tornato. Per Sant’Agostino e per San Paolo la conversione era innanzitutto un ritorno in Cristo, e di questo era convinto anche Degola che compone l’intera Instruction ai Réglements come un discorso necessario a far comprendere cosa la neofita debba fare, una volta convertita, per partecipare dello
68
Carteggio Manzoni‐Fauriel, pp. 72‐74.
69
Langella, op. cit. (2009), p. 58.
70 Come aveva già notato il Botta, l’espressione ritorna più o meno simile in tutti i Vangeli, in
riferimento alle armi e alle fiaccole tenute dalla folla che segue Giuda: “et cum eo turba multa cum gladiis et fustibus” (Matteo, XXVI 47); “venit illuc cum lanternis et facibus et armis (Giovanni XXVIII 3); “venit Iudas Iscarioth (…) et cum eo turba multa cum gladiis et lignis (Marco (XIV 43). Nel Vangelo di Luca invece Cristo si rivolge ai principi, ai sacerdoti e ai magistrati che erano sul punto di rapirlo in questo modo: “quasi ad latronem esisti cum gladiis et fustibus” (Luca, XXII 52). Cfr. Carteggio Manzoni – Fauriel, p. 86.
spirito di Cristo 71. Inoltre Degola chiamava le sue neofite “soeurs in Jesus Christ” 72 e viene difficile ipotizzare che non abbia spiegato loro l’allusione alla concezione paolina e agostiniana che questa formula racchiude. Se mai Degola parlò al Manzoni del concetto di conversione agostiniano, dell’importanza che il Santo dava al potere evocativo della parola, e in special modo a quella biblica, se questo accadde, lo scrittore non poté fare a meno di rivedersi in quell’esperienza antica di conversione. Se invece questo non avvenne, Manzoni poté comunque ritrovare somiglianze con la propria esperienza quando lesse le pagine delle
Confessiones 73, dove il Santo racconta il proprio accostarsi alla fede a più livelli:
la conversione è per S. Agostino un ritorno in sé stessi 74; un ritorno in Dio tramite Cristo 75; un progressivo accedere alla verità tramite la riflessione filosofica 76; infine per S. Agostino la conversione è la maturazione 77 di una decisione presa grazie all’Admonitio e al “contagio” della parola 78. Manzoni poté certo rivedersi in ciascuno di questi livelli: anche per lui la conversione è innanzitutto introspezione; anche per lui si arriva a Dio tramite Cristo: lo dimostrano quelle citazioni bibliche fatte al Fauriel, l’utilizzo della figura Christi e l’importanza data all’atto di umiltà nelle conversioni raccontate nel Romanzo. Per entrambi gli scrittori, poi, si arriva a Dio per mezzo della logica, perché la conversione è un
71 Degola, Instruction in Eustachio Degola, il clero costituzionale, pp. 438‐439. 72 Degola, ibidem, p. 438; cfr. Exhortation à une nouvelle catholique, p. 94 etc. 73 In particolare i libri VII e VIII.
74 La conversione è innanzitutto introspezione: indagine di sé al fine di conoscere sé stessi.
Agostino infatti usa spesso la forma media convertor. Nelle Confessiones Agostino scrive: “Et inde admonitus (ammonito dai libri neoplatonici) redire ad memet ipsum intravi in intima mea duce te et potui, quoniam factus es adiutor meus”. Confessiones, VII, 10, 16, pp. 84‐85. Cfr. Ivano Dionigi, op. cit. p. 30‐31. 75 Guardarsi dentro guidati da Dio significa trovare al fondo del proprio cuore Dio stesso: “Intravi et vidi qualicumque oculo animae meae supra eundem oculum animae meae, supra mentem lucem incommutabilem, non hanc vulgarem et conspicuam omni carni nec quasi ex eodem genere grandior erat, tamquam si ista multo multoque clarius claresceret totumque occuparet magnitudine. Non hoc illa erat, sed aliud, aliud valde ab istis omnibus.” Conf. VII, 10, 16, pp. 103‐ 104. Agostino si riferisce, come spiega successivamente alla luce di Dio.
76
Luigi Franco Pizzolato, Una rigorosa ricerca intellettuale. La conversione di Sant'Agostino in Ermes Ronchi, Divina seduzione. Storie di conversione: Paolo, Pacomio, Agostino, Ignazio, Milano: Paoline Editoriale libri, 2004, pp. 47‐74.
77
Confronto tra Manzoni Papini e Agostino viene fatto in questo senso da Langella (op. cit. (1986), pp. 191‐193).
78 Ivano Dionigi, Per verba ad verbum: la Conversio di Agostino, in “Per la Conversione di A.
Manzoni. (1810‐2010) Il tema della Conversione fra l’Antico e il Moderno”, Atti della XXIX edizione delle Giornate dell’Osservanza, 22‐23 maggio 2010, Bologna: Fondazione del Monte di Bologna e
operazione intellettuale e oltre che religiosa 79 ed essa avviene a stretto contatto con i “verba”, pronunciati e scritti, e prende forma in un processo meditativo che si sostanzia di letture e di dialogo 80: proprio come Manzoni si era dato allo studio dello stoicismo e della filosofia tedesca, Agostino si dà allo studio della dottrina neoplatonica che, pur contenendo frammenti della verità cristiana ed evangelica, non la rappresenta completamente 81. Manzoni nella conversione dell’Innominato costruisce colloqui dove protagonista è la parola rivelatrice e allo stesso modo Agostino racconta propria conversione come scaturita dalla parola, ovvero da un continuo gioco di rimandi, dove il legere porta al narrare e il narrare a legere: nell’ottavo libro delle Confessiones, al fine di persuadere Agostino a convertirsi, Simpliciano racconta la storia di conversione di Vittorino, che da neoplatonico diventa cristiano leggendo assiduamente le Sacre Scritture, poi quella di Ponticiano che trovò la fede grazie alla lettura delle Epistole di Paolo, e, per ultima, quella di due funzionari dell’amministrazione imperiale che divennero cristiani dopo aver letto la biografia del monaco egiziano Antonio. Questo gioco si estende oltre la fine del libro fino a toccare il lettore: le stesse Confessiones sono state scritte per testimoniare (viene in mente il latino giuridico) di fronte a Dio e agli uomini i peccati compiuti e sopratutto la grazia ricevuta 82, al fine di scatenare in chi legge il desiderio di mimesi 83. La confessio ha perciò valore apologetico.Tutte le parole di fede sono importanti, ma alla fine solo la lettura delle Sacre Scritture potrà illuminare veramente la coscienza di Agostino e fargli
79 Il racconto delle conversioni di Vittorino e Ponticiano preparano quella di Agostino stesso.
Ibidem 80 Questo lo scrive Agostino stesso che sembra mostrare come i libri di filosofia neoplatonica letti in precedenza siano quasi propedeutici alla lettura della Bibbia, affinché la differenza tra parola divina e quella dei filosofi (anche i più vicini alla verità) si imprimesse nella memoria: “Ubi enim erat illa aedificans caritas a fundamento humilitatis, quod est Christus Iesus? Aut quando illi libri me docerent eam? In quos me propterea, priusquam scripturas tuas considerarem, credo voluisti incurrere, ut imprimeretur memoriae meae, quomodo ex eis affectus essem et curantibus digitis tuis contrectarentur vulnera mea (si tratta della metafora del cancro che porta la cecità e impedisce di vedere), discernerem atque distinguerem, quid interesset inter praesumptionem et confessionem, inter videntes, quo eundum sit, nec videntes, qua, et viam ducentem ad beatificam patriam non tantum cernendam sed et habitandam.” Confessiones, VII, 20, p. 110.
81
La teoria neoplatonica aiuta Sant’Agostino a teorizzare il male come privazione di bene, ed è quindi fondamentale per la sua filosofia, ma la teoria delle ipostasi non è comunque al livello della Verità evangelica. Confessiones VII, 20.
82
Jacques Fontaine, Introduzione generale, in Sant’Agostino, Confessioni, Volume I (Libri I‐III), Fondazione Lorenzo Valla, Milano: Mondadori, 20072, XXIII‐XXXIII.
83
Cfr. con quanto scrive Agostino nelle Confessioni: “ubi mihi homo tuus Simplicianus de Victorino ista narravit, exarsi ad imitandum: ad hoc enim ille narraverat.” Confessiones, VIII 5,10, p. 119.
vedere il Dio vero: alla fine del VII libro egli scrive che le parole del Vangelo lo penetrano sino alle viscere lasciandolo attonito 84. Anche per Manzoni il lungo percorso di conversione iniziò probabilmente con quell’interesse per la parola biblica, e, se si vuole, finirà in esso, persuadendo definitivamente lo scrittore di quel che anche Agostino sosteneva, cioè che la parola evangelica dona la vista, ha potere rivelativo. Ma si può forse anche dire che il percorso di Manzoni iniziato con la voce di Dio, fu portato a compimento da essa stessa. In questo senso diviene davvero importante la confessione che Manzoni fece ad Wynne 85, a proposito dell’illuminante omelia fatta dall’ignoto prete francese che fu ascoltata casualmente dallo scrittore durante un breve soggiorno a Lione:
“Durante un viaggio da Parigi in Italia con sua moglie si fermarono a Lione.
Da qualche tempo la grazia di Dio gli toccò il cuore ed egli andò a Messa.
Un religioso francese (…) in quell’occasione fece una predica che, parola
per parola, sembrava rivolta a lui personalmente. Disse che gli era parso che Dio onnipotente gli parlasse attraverso le parole di quel prete,
che gli colmasse l’anima con la luce della fede e il cuore di orrore e
compunzione per la sua apostasia” 86.
Innanzitutto si noti come secondo Wynne la Grazia avesse già toccato il cuore di Manzoni “da qualche tempo”, proprio come la voce di Dio aveva fatto con l’Innominato, precedendo l’intervento di Lucia; si noti poi come le parole del prete abbiano fondamentale importanza: sembravano pronunciate da Dio; esse costituiscono una potente “vocatio suasiva”, ma soprattutto portano Manzoni a fare lo stesso percorso che egli deciderà per l’Innominato, ovvero quello che dall’orrore porta ai sentimenti di pietà cristiana; Manzoni ha infatti orrore per il proprio passato da ateo (apostasia) e accoglie quelle parole come rivelative, avviandosi a cambiare la propria ottica; nella testimonianza di Wynne (qualora sia vera) appare estremamente evidente come la grande importanza dei signa trovi un
84 Dopo aver redatto le sue riflessioni sulla Bibbia nel VII libro S. Agostino scrive: “Haec mihi
inviscerabantur miris modis, cum minimum apostolorum tuorum legerem, et consideraveram opera tua et expaveram”. Confessiones, VII, 21,pp. 110‐112.
85 La fonte indicata da Lindon è considerata autorevole da Langella. 86
Wynne citato da Lindon in Un nuovo documento per la biografia manzoniana: conversione
religiosa e sentimenti rivoluzionari in una lettera (1882) di John Henry Wynne in “Lettere Italiane”,
posto di primo piano nella concezione salvifica della Grazia che egli acquisì dal giansenismo degoliano: non può che essere così in effetti, se si considera il suo ruolo di poeta e di scrittore. Tra le parole che spinsero Manzoni a riflettere sulla conversione vanno individuate quelle di Fauriel, cui si è già accennato. Ma è probabile che anche le parole di Enrichetta abbiano avuto una parte in questa storia: fu infatti lei a portare all’interno della famiglia Manzoni l’idea di una religiosità nuova e infine, da sposa, divenne, forse, l’unica tesoriera di quelle intime confidenze che la riservatezza di Manzoni permise soltanto a lei 87. Ne riesce quindi rafforzata la convinzione di quel paragone che rivede in Lucia una proiezione letteraria di Enrichetta 88.
c) L’INTERVENTO DELLA CHIESA.
Di fronte all’Innominato è il Cardinale a rappresentare l’intervento della Chiesa: Borromeo ha il compito di gettare luce sulla vicenda psicologica dell’Innominato ed è lui che nei Promessi Sposi riesce a trarre attraverso un’operazione maieutica le fila del processo portando l’Innominato ad ammettere e comprendere il cambiamento 89. L’intervento del ministro è quindi fondamentale per Manzoni, perché pone il sigillo al percorso: è possibile che abbia ragione Ulivi, quando sostiene che la Chiesa svolga agli occhi dello scrittore una funzione insostituibile 90. Questo però non getta ombre sugli aspetti intimi della conversione 91: nella narrazione il cardinale Borromeo non interviene in maniera formale, e le sue parole, nate in un colloquio intimo e cercato, appaiono confidenziali, ma di cruciale importanza perché spiegano a chi sente di essere tra le mani della Grazia, cosa gli sta accadendo. È possibile, senz’altro, rivedere nella voce di Borromeo un’allegoria per i discorsi fatti dal Degola che catechizzò la famiglia Manzoni e le cui orazioni portarono definitivamente alla fede l’intera famiglia, compresa Giulia Beccaria 92. In realtà, il personaggio di Borromeo è certo il risultato della sovrapposizione di più figure di clericali che entrarono a contatto con Manzoni: la
87
Belotti op. cit. (1963), pp. 142‐145.
88
Ibidem, p. 143‐45. Cfr. Giuseppe Farinelli, Enrichetta e Lucia in In un concerto di voci amiche.
Studi di Letteratura Italiana dell'Otto e Novecento in onore di Donato Valli, a cura di Marinella
Cantelmo e Antonio Lucio Giannone, Lecce: Congedo, 2008, 55‐65. Cfr. Meterangelo, op. cit., p. 33‐35. 89 Barbi, op. cit. (1991), p 156‐157. 90 Ulivi, op. cit. (1974), pp. 152‐153. 91 Jenni, op. cit., (1964) p. 62. 92 Danelon, op. cit. (2006), passim.
sua statura morale non ha nulla da invidiare a quella del Degola, ma il temperamento tollerante del personaggio lo rende distante dall’abate genovese e più vicino, forse, a Grégoire. Il Degola invece, uomo dai grandi occhi azzurri e vivissimi 93 , capace al tempo stesso di atti estremi di carità cristiana e di terribili sferzate polemiche, fu più probabilmente (in nome della sua natura ossimorica) una buona fonte di ispirazione per il profilo psicologico di Fra Cristoforo 94. Ad ogni modo però Degola e Borromeo hanno la stessa funzione: Borromeo mette ordine ai pensieri dell’Innominato e, così facendo, aiuta l’uomo a chiudere il suo processo conoscitivo, che, in maniera eschilea, gli ha portato davanti agli occhi la verità della sua coscienza. Borromeo aiuta quindi l’Innominato terminare il “suo ritorno in sé stesso”. Testimonianza di ciò sono le parole stesse del neoconvertito che infatti dice alla fine: “io mi conosco ora” 95. L’Innominato dice questo dopo aver versato lacrime ardenti, che sono la sublimazione letteraria del pianto leggendario del Chevalier au Barisel 96: l’uomo ha acquisito una conoscenza dolorosa, propedeutica alla futura vita di pentimento che Borromeo si premura di indicargli. Il vescovo perciò scioglie l’angoscia per il futuro che ha assalito l’Innominato e gli indica la nuova strada da percorrere:
“è un saggio che Dio vi dà (la gioia, giansenistica, provata dall’aver compreso i propri mali e la maniera per espiarli), per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da riparare, tanto da piangere!” 97.
93 Bonacchi, op. cit. (1949), p. 13. 94 Polemica, coraggio e profondo senso del sacrificio accomunano sia Fra Cristoforo che l’abate genovese. Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), pp. 125‐129. 95 Promessi Sposi (1827), XXIII, p. 807. 96 La leggenda francese dell’eremita e del cavaliere, diffusasi nella seconda metà del XIII secolo, introdusse nella pastorale della Chiesa le lacrime della penitenza: un terribile cavaliere sfida un eremita, che a propria volta lo provoca fino ad estorcergli una confessione per i propri peccati che il nobile non riconosce come tali. Allora il religioso lo sfida a compiere il semplice atto di riempirgli un barilotto attingendo da un ruscello. L’uomo però è assalito dai guai e per un anno invano cerca di adempiere l’impegno. Dopo aver patito ogni genere di stenti, il cavaliere in punto di morte accusa il religioso che a propria volta versando lacrime lamenta la propria responsabilità di giudice confessore nei confronti di un uomo destinato alla dannazione. A quel punto il cavaliere piange finalmente e le sue lacrime sono quelle della vera contrizione. Antonella Mancini, Le lacrime della penitenza, ovvero l’ingresso della melanconia nella pastorale della
Chiesa in Anima e Paura: studi in onore di Michele Ranchetti, Macerata: Quodlibet 1998, 243‐248.
Questo è essenzialmente quel che fece Degola con Enrichetta. Come scrive Marta Morazzoni: “Degola fu il primo che raccolse e ordinò il cambiamento della ragazza, colui che l’aiutò a sciogliere i turbamenti dello spirito” 98. L’aiuto di Degola non fece breccia solo nell’animo, ma anche nella mente di Enrichetta; le sue conferenze servirono a fare luce e a guidare Enrichetta, che già aveva sofferto, verso la conclusione del proprio processo conoscitivo, il quale per lei non rappresenta tanto la contemplazione della propria coscienza quanto lo studio attento di una nuova dottrina, destinata a guidare tutta la sua vita futura: attraverso le conferenze di Degola, Enrichetta, che comunque poteva già contare su una solida preparazione in materia teologica 99, riuscì a comprendere la bontà della Religione cattolica; Degola le mostrò quanto il dogma cattolico fosse più razionale e convincente rispetto a quello calvinista, e, una volta che la sua opera fu compiuta, la giovane donna si persuase profondamente 100. È lo stesso Degola che dice questo, facendo riferimento proprio alla capacità persuasiva della Grazia che (si deve dedurre) vivifica le parole del catechista:
“l’onction de la Grâce vous en a persuadé si profondément, que j’ai du bien des fois vous féliciter dans le Seigneur en vous faisant sentir en même temps, combien votre amour per la Vérité doit être reconoissant, tendre et fidèle” 101.
Nell’epistolario Enrichetta, specie di fronte ai genitori, si mostra resolutissima nella sua scelta ed è probabile che in questa convinzione vada rivista anche l’autorevole guida di Degola, che non avrebbe permesso alla neofita di accostarsi all’atto di abiura, se non dopo aver ritenuto che questa fosse “pronta” e quindi salda nel suo proposito 102: nella sua Exhortation l’abate insiste molto sui doveri del nuovo cristiano e, proprio in riferimento alle vicende personali di Enrichetta, pone l’accento sull’importanza di dare priorità all’autorità divina anche su quella
98 Marta Morazzoni, Premessa in Enrichetta Manzoni Blondel, “Par pièces et morceaux” Lettere 1809‐1833 a cura di Fabio Danelon, Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2006, p. XVIII‐ XIX. 99 Ruffini, op. cit. (1931), I, pp. 215‐230. 100 Morazzoni, op. cit. (2006), p. XII. 101 Degola, Exhortation à une nouvelle catholique à une nouvelle catholique, p. 108. 102 Degola, Diario, in Eustachio Degola, il clero costituzionale, pp. 82; 84.