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3.5. TRA VITA E LETTERATURA: I CONTENUTI DELLA PAROLA CHE POGGIA SUL VERO

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3.5. TRA VITA E LETTERATURA: I CONTENUTI

DELLA PAROLA CHE POGGIA SUL VERO

Finché Manzoni, entro i limiti che si è visto, si affidò al giansenismo, alcune domande non poterono mai trovare risposte. Fu infatti l’agostinismo di Rosmini a risolvere quei crucci che assillavano l’autore da diverso tempo, l’esistenza del male, per esempio, una pecca troppo grande e ingiusta, in un creato che avrebbe dovuto essere perfetto 1; tra i problemi che l’agostinismo di Rosmini riuscì a risolvere vi era la paura di peccare di ipocrisia, di cui l’autore aveva parlato alla Saluzzo di Roero:

“un tale convincimento (= l’evidenza della Religione cattolica) dee trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro perciocché, scrivendo, si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si trova che nella propria persuasione”.

Dalla volontà di persuasione, dalla propria fiducia in Dio, Manzoni trae la forza necessaria per fare apologia del cristianesimo; questa però non può essere l’unica fonte del proprio operare poetico: vi è anche il genio poetico che moltiplica le suggestioni della realtà creando un finto gioco d’ombre, come un potente caleidoscopio; l’estro poetico racchiude da sempre in sé stesso un impulso superbo, la tentazione all’onnipotenza; il calamaio dà allo scrittore quel non so ché di Pigmalione, o peggio, trasforma l’uomo in Dio di fronte all’opera messa su carta e di fronte a suoi “burattini”.

      

1  Rosmini  teorizzava  in  sintonia  con  l’innatismo  di  origine  neoplatonica  che  il  male  fosse 

corruzione  del  mondo  causata  del  peccato  adamitico  e  quindi,  privatio  boni  dediti,  sostanziale  assenza  di  bene.  Come  scrive  Di  Sacco  (op.  cit.  (1985),  p.  76)  riprendendo  Rosmini:  “La  nostra  mente riconosce in sostanza Dio come suo bene assoluto e le cose create come beni limitati”. In  questo  vi  è  S.  Agostino;  Rosmini,  proprio  come  Manzoni  sosteneva  che  la  sventura  ricaduta  su  Giobbe e sul giusto racchiuda comunque in sé stessa una qualche fecondità, perché “non v'ha un  solo  male  nell'universo,  onde  una  sapienza  infinita  non  cavi  dei  beni”  (Teodicea,  n.  611).  La  risoluzione  in  chiave  filosofica  del  problema  del  male  poté  forse  persuadere  anche  Manzoni:  prima del 1827 una tale soluzione non era per lui possibile e il male continuava a costituire per lo  scrittore un grandissimo problema teoretico ed esistenziale. 

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Ma se davvero scrivere significa mentire e, addirittura, subire l’influenza di un “orgoglio demiurgico” 2, come può un autore cristiano definirsi scrittore senza provare un brivido di coscienza, e come può farlo, nello specifico, un autore legato alla severità giansenistica? L’errore che Manzoni rimprovera a sé stesso nella famosa lettera è quindi a ben vedere doppio: da un lato quello di mentire esagerando una fede più volte “ripudiata, contraddetta col pensiero, coi discorsi, colla condotta”; dall’altro rimprovera a sé la superbia di paragonarsi a Dio, il peccato che i giansenisti consideravano capitale.

Nel Dialogo Dell’Invenzione questo doppio problema appare risolto e il merito è, in certo senso, di Rosmini 3. Come scrive Di Sacco: “la filosofia rosminiana, che postulava una Causa prima della realtà, offre a Manzoni la soluzione lungamente cercata al problema della moralità dell’arte”; “l’approdo al rosminianesimo 4, così come si esprimerà nel dialogo Dell’invenzione, segnerà insieme il vertice e non è altro che un vero trovare; perché il frutto dell’invenzione è un’idea, o un complesso di idee; e le idee non si fanno, ma sono, e sono in un modo loro” 5. L’idea è oggetto del pensiero ed essa, in quanto modello per la creazione del mondo, proprio come insegnava la tradizione platonico-agostiniana 6, è tassello del mondo archetipico contemplato da Dio 7.

       2  È una bella espressione di Di Sacco (op. cit. (1986), p. 13).  3  Come Scrive Merlo, a proposito dell’autunno del 1850, durante il quale Manzoni si dedicava al  Dialogo Dell’Invenzione, “s’occupava di scriver dialoghi di filosofia rosminiana, esponendola così  chiaramente che bastava leggere per capire” (dal Diario di Don Domenico Merlo, Carteggio a cura  di  Bonola,  p.  444)  citato  da  Carlo  Carena,  Tra  amici  filosofi,  in  Dell’Invenzione  e  altri  scritti 

filosofici, Premessa di Carlo Carena, Introduzione di Umberto Muratore, Testi a cura di Massimo  Castoldi, Edizione Nazionale ed Europea delle opere di Alessandro Manzoni, 16, Milano: Centro  Nazionale Studi Manzoniani, 2004, p. XXI.   4 La teoria circa l’origine innata delle idee fu appresa da Manzoni grazie alla lettura dei Principi  della scienza morale, volume che l’autore Rosmini inviò all’amico. Nella lettera del 10 luglio 1831  Manzoni scrive a proposito di questo: “La vo studiando quest’opera, e mi trovo ad ogni istante  istruito,  illuminato  da  importanti  recondite  e  non  meno  evidenti  verità  speciali”.  Questa  teoria  suscitò però inizialmente in lui molte perplessità e fu causa di varie discussioni tra i due. Come  scrive  lo  Stampa  (cit.  in  Carteggio,  I,  pp.  309‐310.):  “le  discussioni  durarono  quasi  una  decina  d’anni:  ci  fu  anche  un  imbarazzante  silenzio  durato  dal  1831  al  1836”.  Di  tutto  questo  si  deve  tener conto qualora si affronti lo studio di Agostino in Manzoni: lo scrittore apprese mediante i  giansenisti  “l’altro  Agostino”,  quello  cioè  della  severa  dottrina  della  Grazia;  con  Rosmini  invece  egli  si  avvicina  all’Agostino  origeniano,  ovvero  quello  che  faceva  particolare  affidamento  alla  teoria  della  “Revelatio  per  signa”:  il  convergere  tra  agostinismo  giansenistico  e  agostinismo  rosminiano può essere apprezzato nel Natale del 1833. Cfr. Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 69‐71.  5  Dialogo dell’Invenzione, p. 168.  6 Cfr. con Zama, op. cit. (2013), p. 65.  7  Manzoni poté apprendere il platonismo anche dall’opera di Paganini Pagano, Della natura delle 

idee  secondo  Platone  che  Manzoni  custodiva  nella  Biblioteca  di  via  Morone.  Pestoni,  op.  cit. 

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Scrive Manzoni:

“l’idea non può essere se non in una mente; e (…) quanto è assurdo il dire che il pensato sia niente, altrettanto assurdo e contraddittorio in terminis, sarebbe il dire che il pensato sia da sé, senza un pensante” 8.

Scrive ancora Manzoni:

“un’idea qualunque, prima di venire in mente a un uomo qualunque, era ab

aeterno in mente di Dio” 9; “Per trovare dove l’idea era, prima di venire in

mente a uno di noi, che siamo, e una volta non eravamo, e potevamo non esser mai, bisogna risalire a Quello che era, che è, che sarà” 10.

Se nel mondo odierno del decadentismo è possibile usare la parola come contenitore vuoto e sola forma, questo è inammissibile nell’ottocento di Manzoni e in particolare per un autore che credeva nella potenza creatrice del verbo divino: proprio come avrebbe voluto il Platone del Cratilo, il linguaggio non è convenzione 11, i verba contengono res 12.

La teorizzazione di questi concetti è di molto posteriore agli anni della conversione e deriva a Manzoni da un agostinismo diverso da quello giansenistico: l’agostinismo di Rosmini 13. È molto probabile che Rosmini abbia        8  Dialogo dell’Invenzione, p. 210.  9 Ibidem  10 Ibidem.  11

  In  realtà  il  discorso  è  molto  più  complicato  di  così;  Manzoni  riconosceva  l’esistenza  di  un  arbitrio  nelle  lingue:  questo  ne  spiega  le  differenze  in  fatto  di  grammatica  e  di  lessico;  come  scrive  Bolelli  per  Manzoni  l’arbitrio  si  limita  alla  “facoltà  di  fare  una  scelta  tra  due  o  più  cose  possibili all’uomo”. Egli era in disaccordo con De Tracy secondo cui il linguaggio è stato inventato  dagli uomini e le lingue originate da gesti, e scrive “Ci era indispensabile far qui questa specie di  protesta; perché cercando noi di dimostrare che tutto il positivo di qualunque lingua è arbitrario  e di convenzione, qualcheduno potrebbe credere esser noi di quella opinione che il linguaggio sia  opera di convenzioni umane” (Scritti linguistici, a cura di L. Poma e A. Stella, Milano, Mondadori,  1974,  p.  403).  Tristano  Bolelli,  Alessandro  Manzoni:  la  teoria  linguistica  in  Manzoni,  l’eterno 

lavoro – Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto negli studi del  Manzoni , Milano 6/7/8/9 Novembre 1985, Milano: Casa del Manzoni – Centro Nazionale di Studi  Manzoniani, 1987, pp. 75‐79.  12  Cfr. Zama, op. cit. (2013), passim  13

    A  questo  proposito,  discostandosi  dalla  visione  unitaria  di  Zama,  si  può  vedere  come  nel  Natale  del  1833  Manzoni  abbia  veramente  fatto  convergere  l’agostinismo  giansenistico  con 

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trasformato in Manzoni il modo di pensare alla parola trasformato definitivamente in oggetto dotato di autonomo potere rivelativo: se per il Manzoni segnato dall’impronta giansenistica, la parola è tendenzialmente strumento della Grazia, segno debole, se privato della potenza divina e vivificatrice 14, per il Manzoni lontano dal giansenismo è la parola stessa che tende ad assumere potenza da sé: grazie a Rosmini avviene in Manzoni il passaggio dalla dottrina agostiniana della

Gratia ad Rem per signa 15 a quella della Res per signa 16.

Per fare uno degli esempi più evidenti, nella Pentecoste del 17, quando si dice che la legge di Dio è servitù a meno che non venga vivificata dalla Grazia, si è di fronte ad un concetto che, astratto dalla letteratura, corrisponde all’agostiniana dottrina della Gratia ad rem per signa, condivisa da Degola in quanto giansenista: la parola, non dotata di per sé di valore rivelativo, per quanto giusta giunge, muta alle orecchie dell’uomo lapso, e, a meno che Dio non lo voglia, non si trasforma in “admonitio”, ovvero in luce di fede ed in chiamata rivelativa.

Nel Romanzo la faccenda rimane complessa da dirimere: vi è una diversità di fondo tra il Fermo e Lucia e i Promessi Sposi perché la questione, come notava già Langella, viene impostata in maniera completamente diversa in una versione e nell’altra. In entrambe le versioni, è la stessa realizzazione del Romanzo ad ostacolare la visione giansenistica dei signa come meri contenitori della straripante potenza della Grazia: è infatti innegabile che la potente affermazione del genio poetico manzoniano poggi sulla radicata convinzione che la parola appartenga innanzitutto alla letteratura e sia strumento libero dello scrittore; l’opposizione tra fede e Genio appare per la prima volta nella Vaccina, dove lo scrittore indica già una via di risoluzione, seguendo Dante: la parola si priva

        quello nuovo di Rosmini: infatti, parlando in quell’opera della praescientia Dei ristabilisce quello  che in S. Agostino era l’originario punto di partenza per negare il libero arbitrio.  

14  Questa  concezione  è  ovviamente  contraddittoria  nel  caso  di  uno  scrittore,  ma  essa  sussiste 

nella Pentecoste del 1817. 

15

  Secondo  questa  concezione  agostiniana,  la  Gratia  permette  l’illuminazione  quando  vivifica  i 

signa e solo tramite essa si giunge alla comprensione dell’oggetto da rivelare (Dio).  

16  Secondo  quest’altra  concezione,  sempre  agostiniana,  sono  i  signa  stessi  ad  avere  potere 

rivelativo: tale concezione è precedente alla prima enunciata, ed è quella di Ddch‐A (cfr. II, 6,7;  8;)  De,  di  cui  parla  diffusamente  Lettieri:  “suasio”  o  “admonitio  ad  res  per  signa”.  In  realtà,  nell’ultimo  Agostino  questa  concezione  finisce  per  incastrarsi  con  la  prima  inserendosi  nella  visione più ampia della della celebre e difficile dottrina della Gratia, per come essa fu impostata  dal filosofo dopo De diversis quaestionibus ad Simplicianum. 1,2, pp. 24‐56. Cfr. Lettieri, op. cit.  (2001), pp. 23‐111. 

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dell’orgoglio, connaturato all’onnipotenza del talento poetico, se viene espressa da un intelletto che sa raggiungere la sua prima fonte (il Verbum).

Nel racconto della conversione del Conte del Sagrato la parola ha un valore ridimensionato: dalle analisi compiute emerge in questa prima versione lo strapotere della Gratia sulla volontà dell’individuo; i signa - e non soltanto le parole, ma anche le visioni, il turbinio improvviso di ricordi - appaiono realmente solo come strumenti della Grazia a cui l’io oppone una blanda resistenza: la

Gratia non ha insomma assoluto bisogno dell’aiuto delle parole ma se ne serve; ci

si muove perciò in una concezione molto simile a quella dell’ ultimo Agostino (Gratia ad rem per signa) 17, ovvero dell’Agostino dei giansenisti.

Nella vicenda dell’Innominato (1827) le parole sono invece indispensabili per la conversione: Manzoni, pur rimanendo ancorato alla concezione giansenistica che vede la Grazia come unico elemento vivificante della parola, come unica causa

efficiens della fede, decide di liberare i signa: la parola sboccia, sembra a tratti

assumere valore autonomo, spicca il volo liberata e, nutrita della forza irresistibile della Gratia, vince la mente; in questo modo la teoria della “Revelatio per signa”, propria dell’agostinismo origeniano, emerge assumendo importanza.

Manzoni arrivava a questo già prima dell’incontro con Rosmini (1826), secondo un “iter” che lo porta a scoprire col tempo alcune importanti sfaccettature di quel particolare giansenismo che egli aveva conosciuto con Degola: il giansenismo illuminato.

Cattolicesimo giansenistico e illuminismo si incontrano proprio lì, dove la parola diviene un signum potente, dove essa, pur vivificata dalla Grazia, mira a persuadere, a convincere in nome del proprio buon senso e diventa insomma assolutamente necessaria alla conversione: in altre parole, si ha a che fare a proposito dell’Innominato con una Grazia che parla anche e soprattutto alla ragione. Se quindi l’ispirazione giansenistica rimane 18, ecco, però, che Manzoni       

17  Forse  semplificando  un  po’  troppo,  Langella  ritiene  che  nel  Fermo  e  Lucia  Manzoni  faccia  il 

tentativo  di  introdurre  la  conversione  fulminea,  specialmente  a  proposito  del  Conte  (Op.  cit.  (1986), p. 196). 

18  È  vero  che  “se  Dio  opera  direttamente  nella  volontà  umana,  ricreandola  e  convertendola,  la 

rivelazione  per  signa  assume,  inevitabilmente,  un  ruolo  secondario,  meramente  strumentale”.  Cfr. Lettieri, op. cit (1999), p. 117. Questo scrive Lettieri commentando S. Agostino e in qualche  modo vale anche per Manzoni, nel senso che la concezione della Revelatio per signa si integra 

necessariamente con la dottrina della Grazia giansenisticamente intesa e diviene funzionale ad  essa.  La  vocazione  di  scrittore  lo  induce  però  a  dare  grandissimo  valore  alla  parola  come 

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nel secondo Romanzo si allontana leggermente dalla dottrina giansenistica della Grazia, dando maggior valore al potere rivelativo della parola, che, pur vivificata dalla Grazia, sembra diventare autonoma e prendere il volo. Lettieri chiama questa idea“Res per signa”.

Grazie all’incontro con Rosmini, Manzoni acquisisce piena consapevolezza dell’iter compiuto, e si convince della teoria di matrice agostiniana (Res per signa), secondo cui si arriva alla verità (Res) tramite l’autonomo potere dei signa 19

, ovvero delle parole che semplicemente acquisiscono potenza rivelatrice dal

fondo della propria natura e origine divina 20.

In rapporto proprio alla parola, vi è però una cosa che nel pensiero manzoniano non cambiò mai: secondo uno schema di impostazione illuministica, la parola

deve sempre essere veridica 21. Per Manzoni, sin da subito, già dal tempo del

carme In morte di Carlo Imbonati, il santo vero doveva essere l’oggetto privilegiato della sua poesia 22 e, perciò, fare letteratura dovette sempre per lui coincidere con la ricerca della verosimiglianza: trasformare l’idea in arte è per Manzoni renderne palese l’oggettività, la verità 23.

Tutta l’opera di Manzoni è tesa a questo, perché egli, come scrive nella prima stesura del 1823 della Lettera sul romanticismo era convinto che “La poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo” 24. E tale convinzione fu quella di una vita, perché essa rimane identica anche nell’ultima tarda stesura della lettera a Cesare d’Azzeglio         percorso  che  si  è  visto  e  che  inizia  lentamente  dall’Adelchi,  coincida  anche  con  la  consapevole  rivalutazione della parola come strumento potente in virtù della sua origine divina. L’idea che Dio  operi dall’interno della volontà, molto forte in Agostino, tende invece ad inabissarsi in Manzoni  fino  a  scomparire  del  tutto  dalla  sua  produzione  scritta,  facendo  emergere  a  tutto  tondo  i  personaggi, e permettendo alla parola di raccontarne l’autonomia e la loro peculiare volontà. Cfr.  Zama, op. cit. (2013), passim. 

19 Si tratta veramente  di una vocatio suasiva”, cfr. Lettieri, op. cit. (2001), pp. 30‐31. 

20  In  questo  senso  Manzoni  fa  un  percorso  al  contrario  rispetto  a  quello  di  Agostino  che  dalla 

dottrina della Res per signa, accompagnata dalla vocatio suasiva, approda alla teorizzazione della  dottrina  che  teorizza  l’onnipotenza  della  Grazia  (nello  specifico  Gratia  ad  Rem  per  signa).  Cfr.  Lettieri, op. cit. (2002), pp. 116‐117.   21  Anche per questo credo sia giusto avvalersi di un approccio unitario come quello utilizzato da  Zama nel considerare la valenza del potere rivelativo della parola, in maniera giustamente anche  trasversale.  22  Acerboni, op. cit. (2012), pp. 59‐62.  23  Zama, op. cit. (2013), pp. 68‐69. Cfr. Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 15; 24. 

24  Lettera  sul  romanticismo,  p.  114.  Citato  sempre  da  Sul  romanticismo:  lettera  al  marchese 

Cesare  d’Azeglio.  Premessa  di  Pietro  Gibellini,  a  cura  di  Massimo  Castoldi  (fa  parte  di  Edizione  nalzionale  ed  europea  delle  Opere  di  Alessandro  Manzoni.  Testi  riveduti  e  corretti.  Diretta  da  Gianfranco Vigorelli: 13), Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2008. 

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25: “La poesia deva proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole; giacché il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla né elevarla” 26. La scoperta del vero in Dio fa perciò sì che il “Santo Vero” finisca per convergere nella fede, e che Dio sia il punto dell’estetica e della morale manzoniana 27.

Il messaggio etico fu sempre, sin dal momento dei Sermoni, fondamentale per la letteratura di Manzoni 28 ed esso trovò la giusta teorizzazione proprio nell’ambito della conversione, divenendo il fulcro dell’opera manzoniana. Sin dalla prima lettera del febbraio 1806 al Fauriel, Manzoni sognava un’Italia simile alla Francia dove il messaggio dello scrittore potesse arrivare a tutti indistintamente senza dover superare l’ostacolo fondamentale costituito dall’assenza di una lingua viva conosciuta da tutti 29.

La costruzione del suo Romanzo e la risciacquatura in Arno corrispondevano alla volontà romantica 30 di dare il proprio apporto alla creazione di una lingua nazionale necessaria ad una Nazione che egli sognava unita 31: ma la lingua di un popolo, che ne è anche elemento identificatore, non è fatta per essere asservita alla retorica dei sofismi, è fatta “per servire a tutto a e a tutti”: essa ha un ruolo universale di comunicazione 32, e deve essere utilizzata dallo scrittore per rivelare il vero, attraverso il verosimile. Il vero è per Manzoni l’ultimo fine della parola. Nell’Autoritratto, composto nel 1801 si legge: “Lingua or spedita or tarda, e non mai vile, / che il ver favella apertamente o tace” 33. Nei famosissimi versi all’Imbonati è suo proposito “il santo Vero mai non tradir” e nei versi

      

25 Acerboni, op. cit. (2012), pp. 73‐76. 

26 Lettera sul Romanticismo, p. 69. Cfr. con Zama, op. cit. (2013), p. 69.  27

 Di Sacco, op. cit. (1986), pp. 37‐38. 

28  Cfr.  Acerbone,  op.  cit.  (2012),  p.  64:  “il  bene  morale”  è  uno  “degli  scopi  irrinunciabili  del 

poeta”. 

29

  Cfr.  Giovanni  Nencioni,  Manzoni  e  il  problema  della  lingua  tra  due  centenari  in  Manzoni 

l’eterno lavoro, Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 1985, pp. 15‐56.   30 Cfr. Albert Maquet, alienazione ed estraneità nel travaglio linguistico di Manzoni, in Manzoni.  “l’eterno lavoro”, pp. 443‐453.  31  Scrive Jemolo: “Non giovò, direi alla popolarità di Manzoni, l’aver dato tanto di sé, l’avere tanto  meditato sulla questione della lingua. Lo sentiva come un problema politico, più che letterario:  corollario del profondo senso di unità nazionale. Dare a tutti gli Italiani la medesima lingua, che si  collegasse  ai  capolavori  della  letteratura,  al  momento  in  cui  il  volgare  aveva  preso  il  posto  del  latino ed era divenuto anche la lingua degli storici, dei filosofi, degli uomini di scienza.” Jemolo,  op. cit. (1973), pp. 5‐6. 

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 Zama, op. cit. (2013), pp. 44‐45. 

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programmatici di Aprile 14 lo stesso motivo ritorna mostrandosi una costante che non abbandonerà mai la poetica manzoniana:

“Fin che il ver fu delitto, e la menzogna / corse gridando minacciosa il ciglio: / “Io son parola che parlo, io sono il vero”, “tacque il mio verso, e non fu vergogna, … /or che il superbo morso / ad onesta parola è tolto alfine” 34.

Conoscere il vero serve per Manzoni, a teorizzare i precetti dell’etica e, in ambito schiettamente umano, conoscere il vero significa innanzitutto dare la priorità all’indagine antropologica: qualsiasi riflessione sull’etica non può che partire dallo scandaglio profondo dell’animo umano, dall’attenzione a quell’equilibrio che nasce nell’anima umana dal contrappeso tra la volontà, il desiderio degli istinti e il senso del giusto 35. Questa indagine, che porta Manzoni a contemplare senza filtri il guazzabuglio del cuore umano, emerge con assoluta evidenza alla lettura del Romanzo, e si mostra con altrettanta chiarezza nella Storia della

colonna infame, dove si sottopone all’accurata analisi psicologica la natura della

colpa, la credulità della gente, la spinta data ad un’opinione dalla paura e dal desiderio 36. Questa indagine deve aver avuto come primo oggetto di studio se stesso, il proprio animo. Il dato reale viene sottoposto alla riflessione, e dalla comparazione tra esso e l’idea di giustizia e di bene nasce l’istanza artistica, che per essere espressa ha bisogno di affidarsi al sentire. Il binomio “meditare e sentire” funge da imperativo categorico nella dimensione letteraria di Manzoni: la visione schietta e disincantata del vero deve sempre per Manzoni condurre alla riflessione sul bene e sulla morale 37. È compito poi del sentire mettere in luce il sentimento con cui la letteratura deve esprimere il vero e in ultima analisi il messaggio morale: questo è il nobilissimo compito della parola 38.

      

34 Aprile 14, vv. 8‐9, p. 467.  35

  Scrive  Jemolo,  in  un  contesto  diverso  ma    qui  utile:  “Manzoni  scrittore  non  è  legato  particolarmente  all’Italia.  Le  sue  analisi  hanno  un  valore  universale:  i  don  Rodrigo  ed  i  don  Abbondio, i Renzo e Lucia sono vissuti sotto tutti i cieli.” Jemolo, op. cit. (1973), p. 3.  36  Rita Zama ha messo in luce lo studio attento che Manzoni porta avanti sul cuore umano  e sulle  circostanze in cui l’uomo agisce contro l’uomo. Cfr. Zama, op. cit. (2013), pp. 169‐194.  37 D’Alessandro, op. cit. (2010), pp. 715‐751.  38  Nel Saggio sulla Rivoluzione francese Manzoni scrive “Il linguaggio è stato lavorato dagli uomini  per intendersi tra di loro, non per ingannarsi a vicenda” e come commenta Rita Zama, in questa  frase  “risiede  la  cifra  di  tutto  l’impegno  artistico  e  speculativo  di  Manzoni:  gli  aspetti  retorici, 

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L’osservazione del vero non può che partire da sé e dalla propria esperienza di vita. Lo scrittore è portato a concepire la scrittura come coessenziale alla vita. Vita e letteratura comunicano incessantemente perché il flusso della parola è sempre in ascolto del dato biografico, lo trascina con sé per scomporlo e rimodellarlo secondo le esigenze misteriose del genio dello scrittore. Aver compreso queste istanze della poetica di Manzoni è fondamentale per interpretare la vicenda di conversione dell’Innominato alla luce della biografia.

3.6. MANZONI E DEGOLA: LO STESSO PARADIGMA

DI CONVERSIONE

Quando la critica indaga il toccarsi tra biografia e letteratura, si impelaga di necessità in un terreno molto rischioso, affidandosi a suggestioni che rimangono sempre fallibili. Pur con la consapevolezza di questo limite, sembra però giusto identificare nella storia dell’Innominato un’invenzione, a cui Manzoni è approdato passando sotto setaccio la propria esperienza 39, e con lo scopo ultimo di mostrare al lettore un percorso di conversione verosimile, e, soprattutto, quanto di buono esista in un simile percorso.

Alla luce del lavoro svolto sinora, si può ricordare che Degola aveva raccontato la conversione di Enrichetta nell’Exhortation à une nouvelle Catholique alla luce di un forte provvidenzialismo e scandendo il suo iter in almeno tre fasi: la crisi psicologica (si pensi al dolore di Enrichetta nel giorno del battesimo della figlia); l’intervento di persone care (Somis e i Manzoni stessi) che offriron sostegno ad Enrichetta con i loro discorsi; l’intervento finale di Degola stesso in qualità di catechista. Come si è detto inoltre, nell’Exhortation l’esperienza di conversione di Enrichetta ha carattere universale: è il viaggio di qualsiasi persona, che emergendo dalle tenebre dell’eresia o dell’ateismo raggiunge la luce della fede. A         logici e morali del linguaggio, pur discernibili formano un “unicum” indissolubile. Cfr. Zama, op.  cit. (2013), p. 90. 

39

  Come  scrisse  Momigliano,  la  conversione  “dominò  non  soltanto  il  pensiero,  ma  anche  la  fantasia del Manzoni: è perciò il fatto capitale della sua vita, il centro della vicenda del Manzoni  uomo, critico, artista” A. Momigliano, Alessandro Manzoni, Messina: Principato, 19453 p. 23. 

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dimostrare tale carattere universale concorrono molti complessi concetti teologici, tra cui quello della “personalità corporativa”.

Possibile che Manzoni non si sia ispirato per nulla a queste idee e alla visione dell’abate genovese, quando scrisse le sue conversioni nel Romanzo? Si tratta pur sempre di concetti che egli visse e sentì sulla sua pelle; la sua conoscenza dell’Exhortation à una nouvelle Catholique doveva inoltre essere molto profonda: era un’opera che Manzoni aveva sicuramente letto più volte e che custodiva con grande gelosia.

Il racconto della conversione dell’Innominato 40 non lascia dubbi; Manzoni tenne conto della propria esperienza nel raccontare la conversione dell’Innominato e soprattutto non dimenticò gli insegnamenti di Degola 41. Pare giusto, perciò ritenere che quel racconto sia frutto di lunga riflessione e della rielaborazione di un vissuto: come sottolinea Zama, riflessione e poetica per Manzoni sono inscindibili, perché la letteratura deve esemplificare il vero 42. Ezio Raimondi scrisse giustamente: l’Innominato ha un nome: Alessandro Manzoni 43.

Naturalmente Manzoni, come anche Degola, era ben consapevole del fatto che ogni conversione è intima e unica perché segue modalità proprie e deriva dall’esperienza personale che è sempre irripetibile ed inviduale. Nonostante la Grazia sia, giansenisticamente, unica protagonista operante in ogni percorso, nonostante la maturazione psicologica abbia luogo puntualmente, Ludovico si converte in un modo proprio, attraverso un iter che non è paragonabile a quello del Conte del Sagrato.

Come scrisse Ugo Benson, i percorsi di conversione sono moltissimi:

“ci sono mille e mille strade che conducono alla Città. Uno sarà guidato dal suono dell’organo, l’altro dal profumo dell’incenso; uno se ne andrà tenendo una Bibbia in mano; questi è uno storico, quegli un mistico, il terzo è filantropo; questi è peccatore che implora il perdono; quell’altro un uomo semplice che vuol essere illuminato; quello infine è un santo che reclama        40  Più quest’ultimo che quello della conversione del Conte del Sagrato.  41  Jemolo, op. cit. (1973), 57‐58.  42 Rita Zama, op. cit. (2013), p. 64‐65.  43

  Padre  Onofrio  Gianaroli,  Presentazione  in  Per  la  conversione  di  A.  Manzoni  (1810‐2010)  –  Il 

tema  della  conversione  fra  l’antico  e  il  moderno.  Atti  a  cura  di  Giuseppe  Chili,  Bologna: 

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l’unione con Dio: uno è condotto dalla mano di sua madre, l’altro si strappa agli amici per seguire Cristo. Così se ne vanno questi mille e mille, seguendo ciascuno la propria strada, ciascuno mosso da una potenza che gli resta misteriosa, ma tutti finiscono con l’incontrarsi davanti alla stessa porta, quella porta di cui si parla nell’Apocalisse, che tutti devono varcare (..)” 44. Quando però si tratta di parlare della conversione dell’Innominato e del suo autore è possibile trovare dal confronto un percorso comune 45. La conversione di quest’ultimo personaggio spicca per la sua unicità: le altre storie di conversione raccontate da Manzoni, pur rappresentando nel complesso una frantumazione della sua esperienza biografica, rimangono sempre particolari e individuali, strettamente legate al nome del personaggio che le ha vissute.

Inoltre Manzoni sembra che sia stato particolarmente attento a conferire alla conversione dell’Innominato carattere di universalità con tutto ciò che nei termini di un confronto con Degola questo comporta: Manzoni porta sotto gli occhi del lettore, tramite l’arte della verosimiglianza, il dramma universalmente umano della morte, degli interrogativi su ciò che ad essa segue, e, quindi, la tragedia del dubbio che divide ogni anima tra la negazione e l’affermazione di Dio.

L’intreccio è anche il risultato di quelle riflessioni sull’arte drammatica che Manzoni mise per iscritto nella Lettre à M. Chauvet 46, dove, dando la palma della vittoria a Shakespeare 47, egli riconobbe alla finzione letteraria il compito importantissimo di rappresentare, senza costrizione, le passioni degli uomini e l’universale umano 48. Tutto questo sembra favorire un’immedesimarsi maggiore: il senso tragico ed universale fa della conversione dell’Innominato un paradigma        44 Cfr. Luigi Colombo, Della Conversione di Alessandro Manzoni, in IV Congresso nazionale di studi  manzoniani, Lecco: Annone, 1964, pp. 9‐22. Luigi Colombo cita da Enciclopedia Apologetica, Alba:  Edizioni paoline, 1955, p. 773.  45 Come scrive Adolfo Jenni, nelle opere di Manzoni “la conversione riflette una vicenda della sua  vita.” Jenni, op. cit. (1964), p. 59.  46 Acerboni, op. cit., pp. 73‐76.  47 In Materiali Estetici si legge: “Toccare questo punto che la perfezione morale è la perfezione 

dell’arte  e  che  perciò  Shakespear  sui  tragici  sovrasta  gli  altri  perché  è  più  morale.  Più  si  va  in  fondo al cuore, più si trovano i principi eterni della virtù”. Alessandro Manzoni, Scritti letterari, a  cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi, Milano: Mondadori, 1991, p. 14. 

48

  “C’est  de  l’histoire  que  le  poète  tragique  peut  faire  ressortir  sans  contrainte  des  sentiments  humains; ce sont les plus nobles, et nous en avons tant besoin ! C’est à la vue des passions qui  ont tourmenté les hommes qu’il peut nous faire sentir ce fond commun de misère et de faiblesse  qui dispose à une indulgence, non de lassitude ou de mépris, mais de raisons d’amour.” Lettre à 

M. Chauvet. Cfr. Christesco, op. cit. (1943), pp. 28‐49; cfr. Ezio Raimondi,  il dramma, il comico, il  tragico in Il romanzo senza idillio, Torino: Einaudi, 1974, 79‐123. 

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per ogni convertito ed essa ha valore persuasivo di exemplum perché trova le proprie radici in una storia vera, che, oltre a quella raccontata dal Ripamonti, è la vita di Manzoni stesso. La crisi morale e psicologica dell’Innominato è, perciò, la fondamentale rielaborazione fantastica di quella vissuta realmente dal suo autore 49; l’importanza data alla parola, usata come mezzo rivelativo, che si osserva nelle pagine dedicate all’Innominato, è specchio della forza che le parole stesse, sia scritte che pronunciate, poterono avere su Manzoni stesso; l’incalzare degli eventi voluti dalla Provvidenza, l’incontro con persone divenute strumento della Grazia sono nella vicenda fittizia dell’Innominato allusione velata a quelle persone e quegli eventi, che secondo un’ottica giansenistica e degoliana, condussero Manzoni alla decisiva risoluzione; infine, la conversione biografica e quella di fantasia vengono entrambe portate a compimento dall’intervento della Chiesa. Questo è, anche, sostanzialmente lo schema degoliano di conversione che si articola in tre momenti distinti: la crisi psicologico-morale; la meditazione stimolata dalla parola in tutte le sue forme (lettura, discorsi, conversazioni con persone care divenute strumento della Grazia divina); l’intervento della Chiesa che chiude il percorso e lo ufficializza. Ma, cosa ancora più importante, perché valida sia per Degola che per Manzoni, questo schema così strutturato comunica con il prototipo di conversione offerto dalle Confessiones di Agostino.

a) LA CRISI PSICOLOGICA E MORALE.

Secondo Degola la crisi psicologica di Enrichetta ebbe inizio quando la donna si trovò a prendere parte in solitudine alla Cena Calvinista durante quella Pasqua che precedette il battesimo di Giulietta. Il culmine della crisi per Enrichetta va invece ravvisato nel giorno dolorosissimo per lei, in cui venne battezzata la prima figlia (23 agosto 1809). La crisi morale arrivò per lei quando, nel riconsiderare la propria vita passata cominciò a guardare alla propria fede protestante come ad un’eresia. Questo però accadde ad Enrichetta, probabilmente, solo durante le

      

49

 La crisi psicologica, che coincide con l’esame di coscienza, è il primo passo verso la conversione.  Cfr. Langella, op. cit. (1986), p. 182. 

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accese conferenze con il Degola. Nell’Innominato la crisi morale, che comunque ha un antefatto lontano 50, inizia nel segno del rimorso:

“Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, un cotal tedio delle sue scelleratezze. Quelle tante che erano accumulate, se non su la sua coscienza, almeno nella memoria, si risvegliavano ad ognuna ch’egli commettesse di nuovo, ed apparivano all’animo spiacevoli, e troppe: era come crescere e crescere un peso già incomodo” 51.

Per il personaggio la crisi si esplica nella sensazione di aver imboccato una strada di morte, condannata e senza futuro 52. A causarla fu la voce di Dio, “Prédicateur intérieur”, che da dentro gli gridò “Io sono però”, come fece con Mosé nell’Esodo 53, e ne agitò la coscienza.

Anche Manzoni dovette avere una sua crisi psicologica: l’ “ictus cordis” agostiniano, “il fischio del treno” dovette esserci. Lo lascia certo intendere, per quanto nebuolosa sia, la leggenda del miracolo di San Rocco. Langella, a differenza di molti altri studiosi, è scettico di fronte al resoconto offerto dall’aneddotica, e, seguendo la tesi di Bognetti, sostiene che la crisi improvvisa andrebbe anticipata al 1809: in questo caso la visita fatidica alla Chiesa di San Rocco dovrebbe essere riconnessa non all’aver smarrito la moglie ma alla paura di perdere la prima figlia, che a venti giorni dalla nascita fu assalita dalle afte e dalla rosolia 54. Come aveva già notato Trompeo, questo evento troverebbe fondamento nella natura neuropatica che accumunava Manzoni a Pascal.

Alla crisi psicologica seguì quella morale. Non si trattò certo di riconsiderare una vita di delitti, come nel caso dell’Innominato, ma si trattò di rivedere completamente i propri parametri di giudizio, e, quel che più conta, la propria visione della vita e della letteratura. Questa metanoia, attraverso cui riplasmare i       

50

  L’Innominato  da  ragazzo  provava  un  misto  di  sentimento  di  sdegno  e  di  invidia  paziente  di  fronte allo spettacolo delle prepotenze (Promessi Sposi, cap. XIX). Lo “sdegno” consisteva in “una  certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto”. Cfr. Eurialo De  Michelis,  Sulla  conversione  dell’Innominato,  in  Atti  del  VI  congresso  nazionale  di  studi 

manzoniani, Lecco: Annoni, 1964, p. 91‐96.  51 Promessi Sposi (1925‐27), XX, p. 784.  52  Barbi, op. cit. (1991), p. 151.  53  Dio disse a Mosè “Io sono colui che sono”. Barbi, op. cit. (1991), p. 151.  54 Bognetti, op. cit. (1977),  p. 304. 

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propri credi per erigerne di nuovi 55, l’avvertire tale distruzione come necessaria e pian piano sempre più urgente, furono le cause della crisi psicologico-morale. L’origine della crisi morale ha tracce proprio nelle colte conversazioni con il Fauriel, dove il tema della morale si legava strettamente a quello letterario: stoicismo e idillio, proprio come l’Hortensius di Cicerone e molto tempo dopo i testi neoplatonici 56 per Sant’Agostino 57, inducevano Manzoni alla riflessione e, nel seno di quelle conversazioni, lo scrittore si avviava ad accogliere una visione nuova della moralità... La crisi psicologica nasce quando un evento o un discorso semina nuove intuizioni nel pensiero 58 ed essa si esplica in un dettagliato esame interiore, teso a riportare coerenza con quel che pian piano si impone alla ragione come cosa giusta. Nella famosa lettera del 6 febbraio del 1806 egli esprimeva al Fauriel il suo concetto del meditare e sentire, la sua ricerca di una poetica che nascesse da un’istanza morale, ovvero dal paragone tra quel che è e quel che dovrebbe essere 59. Ma per stabilire “quel che dovrebbe essere” è richiesto un metro di giudizio che si dimostri solido, una scala di valori universalmente validi in grado di sottrarsi al relativismo etico. Quel che un ateo trova nelle buone convenzioni e nella filosofia morale, Manzoni poté trovarlo nel Vangelo una volta che quella crisi si fu risolta, dopo aver trasformato il suo sguardo sulla vita e il suo modo di fare poesia: “quello che è e quello che dovrebbe essere (…) tutto conferma il Vangelo” 60. Quando la conversione sarà compiuta, la nuova severità morale e religiosa che egli acquisì, di matrice inequivocabilmente giansenistica, gli imporrà di rigettare il suo passato e la precedente poesia 61.

      

55

  È  un  termine  certamente  più  giusto  a  proposito  di  Manzoni.  cfr.  Cacciari,  “metanoia”  in  La 

Conversione di A. Manzoni (1810‐2010) Il tema della conversione fra l'antico e il moderno ‐ Atti a  cura di Giuseppe Chili, Bologna: Fondazione del Monte Bologna e Ravenna, 2010, pp. 15‐20. 

56

  I  testi  neoplatonici  di  Porfirio  e  Plotino,  letti  nella  traduzione  latina  fatta  da  Mario  Vittorino,  furono fondamentali per la conversione di Agostino, come egli stesso dimostra nel VII libro delle 

Confessiones: essi infatti gli permisero di comprendere la difficilissima questione del male. 

57

 Sant’Agostino si era accostato alla Bibbia in seguito alla lettura dell’Hortensius di Cicerone nel  373;  ma  proprio  come  fu  Cicerone  ad  avvicinarlo,  fu  lui  stesso  ad  allontanarlo:  il  bello  stile  del  celebre scrittore contrapposto a quello semplice e rozzo dei testi Sacri lo fece desistere da quella  lettura.  Sant’Agostino  però  dà  molta  importanza  a  quel  momento,  e  definisce  quel  primo  incontro con la fede la sua “prima conversione”. 

58 Zama, op. cit. (2013), passim.  59

  Scrive  Manzoni  al  Fauriel:  “Io  credo  che  la  meditazione  di  ciò  che  è,  e  di  ciò  che  dovrebbe  essere,  e  l’acerbo  sentimento  che  nasce  da  questo  contrasto,  io  credo  che  questo  meditare  e  questo  sentire  sieno  le  sorgenti  delle  migliori  opere  si  in  verso  che  in  prosa  dei  nostri  tempi”. 

Carteggio Manzoni‐Fauriel, p. 4. 

60

 Osservazioni sulla morale cattolica (1819), Al lettore, p. 4. 

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b) L’INFLUENZA DELLA PAROLA, DI PERSONE, EVENTI

DIVENUTI STRUMENTO DELLA GRAZIA:

Come si è già spiegato seguendo il brillante lavoro di Zama, grande importanza ebbero le parole di Lucia prima e quelle di Borromeo dopo per quanto riguarda la conversione dell’Innominato 62. L’animo colpito dalla Grazia è vulnerabile alla parola e si lascia trascinare da essa: la parola incanta i movimenti dell’Innominato, lo induce a pensare e compiere l’opera di misericordia 63. La Grazia agisce prima da dentro poi al di fuori attraverso le parole di Lucia. Come si è già visto, le parole “compassione” e “Dio” hanno potenza rivelativa e si piantano nella mente dell’Innominato raccogliendosi nell’orecchio 64. E quando, lasciata sola Lucia, quell’uomo terribile ritrova la propria tormentata solitudine, le parole della donna, “Dio perdona tante cose per un opera di misericordia” si impongono irresistibilmente sul turbine di pensieri e rimorsi con un’autorità nuova: è Dio che ha abitato quelle parole per servirsene; esse trasformano lo sguardo dell’Innominato inducendolo a vedere Lucia non più come prigioniera, ma come dispensatrice di “grazie e consolazioni” 65. I suoi occhi ora vedono

veramente perché le parole di Lucia sono animate dalla forza della Grazia 66,

proprio come quelle del Conte Somis lo furono per Enrichetta 67. Per l’Innominato il fatto che sulla sua strada sia capitata Lucia, il breve scambio di parole con il Nibbio mosso a compassione, l’aver udito il suono delle campane che lo porteranno nella festa del paese, l’incontro con Borromeo, sono tutti signa, eventi        62  Zama, op. cit. (2013), pp. 101‐113.  63  Ibidem, p. 103.  64 “Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a  certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti  all’orecchio”, Promessi Sposi (1827), XXI, p. 795.  65 “Tutt’a un tratto gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: 

Dio  perdona  tante  cose  per un’opera  di  misericordia!:  E  non  gli  tornavan  già  con  quell’accento  d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, è che insieme  induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di un sollievo: levò le mani dalle tempie,  e,  in  un’attitudine  più composta,  fissò  gli  occhi  della  mente  in  colei  da  cui  aveva  sentite  quelle  parole;  e  la  vedeva,  non  come  sua  prigioniera,  non  come  una  supplichevole,  ma  in  atto  di  chi  dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire  dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita”. Promessi Sposi (1827), XXI, 54‐56, p. 796. 

66

 Come ha mostrato Zama, sembrano essere le parole a trascinare la mente, ma a ben vedere  l’operazione  trascinante  è  impensabile  senza  la  Grazia,  giansenisticamente  intesa:  ed  è  proprio  qui  che  la  rivelazione  per  signa  si  integra  con  dottrina  giansenistica  della  Grazia,  che  Manzoni  interiorizza  e  rielabora.  Anche  Langella  parla  di  prepotenza  della  Grazia  citando  Papini  in  un  discorso che interessa anche Manzoni: op. cit (1986), pp. 181‐182. 

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di cui Dio si è servito per operare la sua conversione. Anche nella biografia di Manzoni è forse possibile identificare le parole, le persone e gli eventi che, come direbbe Degola, furono “strumenti della Grazia”.

Ovviamente, non è dato sapere quali furono le prime parole che portarono Manzoni a quel percorso. È probabile però che lo scrittore, all’interno di quel dialogo intimo e continuo che è conversione, abbia identificato in Dio il suo primo interlocutore, proprio come accadde all’Innominato. Se così avvenne, Manzoni poté riconoscere questa verità solo quando il processo fu compiuto: alla luce della nuova consapevolezza raggiunta (“Io mi conosco ora!”), egli poté dare a quell’esperienza intima del proprio “io” un’interpretazione cristiana, da credente, che dovette certo tener conto delle convinzioni di Degola. Vi sono alcuni indizi che guidano verso questa strada. Nell’epistolario con il Fauriel a partire dalla lettera del 7 marzo 1808, ovvero a distanza di solo un mese dal matrimonio protestante, si riscontra un interesse nuovo per i testi sacri 68.

All’inizio (“le temps approche, et qu’il faut vous mettre en chemin, ut

impleantur Scripturae”) e alla fine della lettera (venez, venez, veni veni et noli tardare) Manzoni mette insieme l’implicit e l’explicit del salmo 69. Come nota

Langella, la prima formula ricorre nei Vangeli per indicare la promessa dell’arrivo di Cristo. Questo interesse è certo emblematico indicatore di una ricerca che secondo Langella poté aver luogo inizialmente anche per sola curiosità di natura storica 69. Una nuova citazione nella lettera del 30 novembre 1808 allude invece alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi: “cum fustibus et lanternis” 70. È forse possibile rivedere nel Vangelo la prima parola che fece brillare l’animo dello scrittore, il primo passo verso il risveglio della coscienza. Su quelle parole Manzoni sarebbe poi tornato. Per Sant’Agostino e per San Paolo la conversione era innanzitutto un ritorno in Cristo, e di questo era convinto anche Degola che compone l’intera Instruction ai Réglements come un discorso necessario a far comprendere cosa la neofita debba fare, una volta convertita, per partecipare dello       

68

 Carteggio Manzoni‐Fauriel, pp. 72‐74. 

69

 Langella, op. cit. (2009), p. 58. 

70  Come  aveva  già  notato  il  Botta,  l’espressione  ritorna  più  o  meno  simile  in  tutti  i  Vangeli,  in 

riferimento alle armi e alle fiaccole tenute dalla folla che segue Giuda: “et cum eo turba multa  cum gladiis et fustibus” (Matteo, XXVI 47); “venit illuc cum lanternis et facibus et armis (Giovanni  XXVIII 3); “venit Iudas Iscarioth (…) et cum eo turba multa cum gladiis et lignis (Marco (XIV 43).  Nel Vangelo di Luca invece Cristo si rivolge ai principi, ai sacerdoti e ai magistrati che erano sul  punto di rapirlo in questo modo: “quasi ad latronem esisti cum gladiis et fustibus” (Luca, XXII 52).  Cfr. Carteggio Manzoni – Fauriel, p. 86. 

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spirito di Cristo 71. Inoltre Degola chiamava le sue neofite “soeurs in Jesus Christ” 72 e viene difficile ipotizzare che non abbia spiegato loro l’allusione alla concezione paolina e agostiniana che questa formula racchiude. Se mai Degola parlò al Manzoni del concetto di conversione agostiniano, dell’importanza che il Santo dava al potere evocativo della parola, e in special modo a quella biblica, se questo accadde, lo scrittore non poté fare a meno di rivedersi in quell’esperienza antica di conversione. Se invece questo non avvenne, Manzoni poté comunque ritrovare somiglianze con la propria esperienza quando lesse le pagine delle

Confessiones 73, dove il Santo racconta il proprio accostarsi alla fede a più livelli:

la conversione è per S. Agostino un ritorno in sé stessi 74; un ritorno in Dio tramite Cristo 75; un progressivo accedere alla verità tramite la riflessione filosofica 76; infine per S. Agostino la conversione è la maturazione 77 di una decisione presa grazie all’Admonitio e al “contagio” della parola 78. Manzoni poté certo rivedersi in ciascuno di questi livelli: anche per lui la conversione è innanzitutto introspezione; anche per lui si arriva a Dio tramite Cristo: lo dimostrano quelle citazioni bibliche fatte al Fauriel, l’utilizzo della figura Christi e l’importanza data all’atto di umiltà nelle conversioni raccontate nel Romanzo. Per entrambi gli scrittori, poi, si arriva a Dio per mezzo della logica, perché la conversione è un

       71 Degola, Instruction in Eustachio Degola, il clero costituzionale, pp. 438‐439.  72  Degola, ibidem, p. 438; cfr.  Exhortation à une nouvelle catholique, p. 94 etc.  73  In particolare i libri VII e VIII.  

74  La  conversione  è  innanzitutto  introspezione:  indagine  di  sé  al  fine  di  conoscere  sé  stessi. 

Agostino infatti usa spesso la forma media convertor. Nelle Confessiones Agostino scrive: “Et inde  admonitus (ammonito dai libri neoplatonici) redire ad memet ipsum intravi in intima mea duce te  et potui, quoniam factus es adiutor meus”. Confessiones, VII, 10, 16, pp. 84‐85. Cfr. Ivano Dionigi,  op. cit. p. 30‐31.   75  Guardarsi dentro guidati da Dio significa trovare al fondo del proprio cuore Dio stesso: “Intravi  et  vidi  qualicumque  oculo  animae  meae  supra  eundem  oculum  animae  meae,  supra  mentem  lucem  incommutabilem,  non  hanc  vulgarem  et  conspicuam  omni  carni  nec  quasi  ex  eodem  genere  grandior  erat,  tamquam  si  ista  multo  multoque  clarius  claresceret  totumque  occuparet  magnitudine. Non hoc illa erat, sed aliud, aliud valde ab istis omnibus.” Conf. VII, 10, 16, pp. 103‐ 104. Agostino si riferisce, come spiega successivamente alla luce di Dio. 

76

  Luigi  Franco  Pizzolato,  Una  rigorosa  ricerca  intellettuale.  La  conversione  di  Sant'Agostino  in  Ermes Ronchi, Divina seduzione. Storie di conversione: Paolo, Pacomio, Agostino, Ignazio, Milano:  Paoline Editoriale libri, 2004, pp. 47‐74. 

77

  Confronto  tra  Manzoni  Papini  e  Agostino  viene  fatto  in  questo  senso  da  Langella  (op.  cit.  (1986), pp. 191‐193). 

78  Ivano  Dionigi,  Per  verba  ad  verbum:  la  Conversio  di  Agostino,  in  “Per  la  Conversione  di  A. 

Manzoni. (1810‐2010) Il tema della Conversione fra l’Antico e il Moderno”, Atti della XXIX edizione  delle Giornate dell’Osservanza, 22‐23 maggio 2010, Bologna: Fondazione del Monte di Bologna e 

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operazione intellettuale e oltre che religiosa 79 ed essa avviene a stretto contatto con i “verba”, pronunciati e scritti, e prende forma in un processo meditativo che si sostanzia di letture e di dialogo 80: proprio come Manzoni si era dato allo studio dello stoicismo e della filosofia tedesca, Agostino si dà allo studio della dottrina neoplatonica che, pur contenendo frammenti della verità cristiana ed evangelica, non la rappresenta completamente 81. Manzoni nella conversione dell’Innominato costruisce colloqui dove protagonista è la parola rivelatrice e allo stesso modo Agostino racconta propria conversione come scaturita dalla parola, ovvero da un continuo gioco di rimandi, dove il legere porta al narrare e il narrare a legere: nell’ottavo libro delle Confessiones, al fine di persuadere Agostino a convertirsi, Simpliciano racconta la storia di conversione di Vittorino, che da neoplatonico diventa cristiano leggendo assiduamente le Sacre Scritture, poi quella di Ponticiano che trovò la fede grazie alla lettura delle Epistole di Paolo, e, per ultima, quella di due funzionari dell’amministrazione imperiale che divennero cristiani dopo aver letto la biografia del monaco egiziano Antonio. Questo gioco si estende oltre la fine del libro fino a toccare il lettore: le stesse Confessiones sono state scritte per testimoniare (viene in mente il latino giuridico) di fronte a Dio e agli uomini i peccati compiuti e sopratutto la grazia ricevuta 82, al fine di scatenare in chi legge il desiderio di mimesi 83. La confessio ha perciò valore apologetico.Tutte le parole di fede sono importanti, ma alla fine solo la lettura delle Sacre Scritture potrà illuminare veramente la coscienza di Agostino e fargli       

79  Il  racconto  delle  conversioni  di  Vittorino  e  Ponticiano  preparano  quella  di  Agostino  stesso. 

Ibidem  80  Questo lo scrive Agostino stesso che sembra mostrare come i libri di filosofia neoplatonica letti  in precedenza siano quasi propedeutici alla lettura della Bibbia, affinché la differenza tra parola  divina e quella dei filosofi (anche i più vicini alla verità) si imprimesse nella memoria: “Ubi enim  erat illa aedificans caritas a fundamento humilitatis, quod est Christus Iesus? Aut quando illi libri  me docerent eam? In quos me propterea, priusquam scripturas tuas considerarem, credo voluisti  incurrere, ut imprimeretur memoriae meae, quomodo ex eis affectus essem et curantibus digitis  tuis  contrectarentur  vulnera  mea  (si  tratta  della  metafora  del  cancro  che  porta  la  cecità  e  impedisce di vedere), discernerem atque distinguerem, quid interesset inter praesumptionem et  confessionem,  inter  videntes,  quo  eundum  sit,  nec  videntes,  qua,  et  viam  ducentem  ad  beatificam patriam non tantum cernendam sed et habitandam.”  Confessiones, VII, 20, p. 110.  

81

 La teoria neoplatonica aiuta Sant’Agostino a teorizzare il male come privazione di bene, ed è  quindi  fondamentale  per  la  sua  filosofia,  ma  la  teoria  delle  ipostasi  non  è  comunque  al  livello  della Verità evangelica. Confessiones VII, 20. 

82

  Jacques  Fontaine,  Introduzione  generale,  in  Sant’Agostino,  Confessioni,  Volume  I  (Libri  I‐III),  Fondazione Lorenzo Valla, Milano: Mondadori, 20072, XXIII‐XXXIII. 

83

  Cfr.  con  quanto  scrive  Agostino  nelle  Confessioni:  “ubi  mihi  homo  tuus  Simplicianus  de  Victorino ista narravit, exarsi ad imitandum: ad hoc enim ille narraverat.” Confessiones, VIII 5,10,  p. 119. 

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vedere il Dio vero: alla fine del VII libro egli scrive che le parole del Vangelo lo penetrano sino alle viscere lasciandolo attonito 84. Anche per Manzoni il lungo percorso di conversione iniziò probabilmente con quell’interesse per la parola biblica, e, se si vuole, finirà in esso, persuadendo definitivamente lo scrittore di quel che anche Agostino sosteneva, cioè che la parola evangelica dona la vista, ha potere rivelativo. Ma si può forse anche dire che il percorso di Manzoni iniziato con la voce di Dio, fu portato a compimento da essa stessa. In questo senso diviene davvero importante la confessione che Manzoni fece ad Wynne 85, a proposito dell’illuminante omelia fatta dall’ignoto prete francese che fu ascoltata casualmente dallo scrittore durante un breve soggiorno a Lione:

“Durante un viaggio da Parigi in Italia con sua moglie si fermarono a Lione.

Da qualche tempo la grazia di Dio gli toccò il cuore ed egli andò a Messa.

Un religioso francese (…) in quell’occasione fece una predica che, parola

per parola, sembrava rivolta a lui personalmente. Disse che gli era parso che Dio onnipotente gli parlasse attraverso le parole di quel prete,

che gli colmasse l’anima con la luce della fede e il cuore di orrore e

compunzione per la sua apostasia” 86.

Innanzitutto si noti come secondo Wynne la Grazia avesse già toccato il cuore di Manzoni “da qualche tempo”, proprio come la voce di Dio aveva fatto con l’Innominato, precedendo l’intervento di Lucia; si noti poi come le parole del prete abbiano fondamentale importanza: sembravano pronunciate da Dio; esse costituiscono una potente “vocatio suasiva”, ma soprattutto portano Manzoni a fare lo stesso percorso che egli deciderà per l’Innominato, ovvero quello che dall’orrore porta ai sentimenti di pietà cristiana; Manzoni ha infatti orrore per il proprio passato da ateo (apostasia) e accoglie quelle parole come rivelative, avviandosi a cambiare la propria ottica; nella testimonianza di Wynne (qualora sia vera) appare estremamente evidente come la grande importanza dei signa trovi un       

84  Dopo  aver  redatto  le  sue  riflessioni  sulla  Bibbia  nel  VII  libro  S.  Agostino  scrive:  “Haec  mihi 

inviscerabantur  miris  modis,  cum  minimum  apostolorum  tuorum  legerem,  et  consideraveram  opera tua et expaveram”. Confessiones, VII, 21,pp. 110‐112. 

85 La fonte indicata da Lindon è considerata autorevole da Langella.  86

  Wynne  citato  da  Lindon  in  Un  nuovo  documento  per  la  biografia  manzoniana:  conversione 

religiosa e sentimenti rivoluzionari in una lettera (1882) di John Henry Wynne in “Lettere Italiane”, 

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posto di primo piano nella concezione salvifica della Grazia che egli acquisì dal giansenismo degoliano: non può che essere così in effetti, se si considera il suo ruolo di poeta e di scrittore. Tra le parole che spinsero Manzoni a riflettere sulla conversione vanno individuate quelle di Fauriel, cui si è già accennato. Ma è probabile che anche le parole di Enrichetta abbiano avuto una parte in questa storia: fu infatti lei a portare all’interno della famiglia Manzoni l’idea di una religiosità nuova e infine, da sposa, divenne, forse, l’unica tesoriera di quelle intime confidenze che la riservatezza di Manzoni permise soltanto a lei 87. Ne riesce quindi rafforzata la convinzione di quel paragone che rivede in Lucia una proiezione letteraria di Enrichetta 88.

c) L’INTERVENTO DELLA CHIESA.

Di fronte all’Innominato è il Cardinale a rappresentare l’intervento della Chiesa: Borromeo ha il compito di gettare luce sulla vicenda psicologica dell’Innominato ed è lui che nei Promessi Sposi riesce a trarre attraverso un’operazione maieutica le fila del processo portando l’Innominato ad ammettere e comprendere il cambiamento 89. L’intervento del ministro è quindi fondamentale per Manzoni, perché pone il sigillo al percorso: è possibile che abbia ragione Ulivi, quando sostiene che la Chiesa svolga agli occhi dello scrittore una funzione insostituibile 90. Questo però non getta ombre sugli aspetti intimi della conversione 91: nella narrazione il cardinale Borromeo non interviene in maniera formale, e le sue parole, nate in un colloquio intimo e cercato, appaiono confidenziali, ma di cruciale importanza perché spiegano a chi sente di essere tra le mani della Grazia, cosa gli sta accadendo. È possibile, senz’altro, rivedere nella voce di Borromeo un’allegoria per i discorsi fatti dal Degola che catechizzò la famiglia Manzoni e le cui orazioni portarono definitivamente alla fede l’intera famiglia, compresa Giulia Beccaria 92. In realtà, il personaggio di Borromeo è certo il risultato della sovrapposizione di più figure di clericali che entrarono a contatto con Manzoni: la       

87

 Belotti op. cit. (1963), pp. 142‐145. 

88

 Ibidem, p. 143‐45. Cfr. Giuseppe Farinelli, Enrichetta e Lucia in In un concerto di voci amiche. 

Studi  di  Letteratura  Italiana  dell'Otto  e  Novecento  in  onore  di  Donato  Valli,  a  cura  di  Marinella 

Cantelmo e Antonio Lucio Giannone, Lecce: Congedo, 2008, 55‐65. Cfr. Meterangelo, op. cit., p.  33‐35.  89 Barbi, op. cit. (1991), p 156‐157.  90  Ulivi, op. cit. (1974), pp. 152‐153.  91  Jenni, op. cit., (1964) p. 62.  92 Danelon, op. cit. (2006), passim. 

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sua statura morale non ha nulla da invidiare a quella del Degola, ma il temperamento tollerante del personaggio lo rende distante dall’abate genovese e più vicino, forse, a Grégoire. Il Degola invece, uomo dai grandi occhi azzurri e vivissimi 93 , capace al tempo stesso di atti estremi di carità cristiana e di terribili sferzate polemiche, fu più probabilmente (in nome della sua natura ossimorica) una buona fonte di ispirazione per il profilo psicologico di Fra Cristoforo 94. Ad ogni modo però Degola e Borromeo hanno la stessa funzione: Borromeo mette ordine ai pensieri dell’Innominato e, così facendo, aiuta l’uomo a chiudere il suo processo conoscitivo, che, in maniera eschilea, gli ha portato davanti agli occhi la verità della sua coscienza. Borromeo aiuta quindi l’Innominato terminare il “suo ritorno in sé stesso”. Testimonianza di ciò sono le parole stesse del neoconvertito che infatti dice alla fine: “io mi conosco ora” 95. L’Innominato dice questo dopo aver versato lacrime ardenti, che sono la sublimazione letteraria del pianto leggendario del Chevalier au Barisel 96: l’uomo ha acquisito una conoscenza dolorosa, propedeutica alla futura vita di pentimento che Borromeo si premura di indicargli. Il vescovo perciò scioglie l’angoscia per il futuro che ha assalito l’Innominato e gli indica la nuova strada da percorrere:

“è un saggio che Dio vi dà (la gioia, giansenistica, provata dall’aver compreso i propri mali e la maniera per espiarli), per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da riparare, tanto da piangere!” 97.

       93 Bonacchi, op. cit. (1949), p. 13.  94  Polemica, coraggio e profondo senso del sacrificio accomunano sia Fra Cristoforo che l’abate  genovese. Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), pp. 125‐129.  95 Promessi Sposi (1827), XXIII, p. 807.  96  La leggenda francese dell’eremita e del cavaliere, diffusasi nella seconda metà del XIII secolo,  introdusse nella pastorale della Chiesa le lacrime della penitenza: un terribile cavaliere sfida un  eremita, che  a propria volta lo provoca fino ad estorcergli una confessione per i propri peccati  che  il  nobile  non  riconosce  come  tali.  Allora  il  religioso  lo  sfida  a  compiere  il  semplice  atto  di  riempirgli un barilotto attingendo da un ruscello. L’uomo però è assalito dai guai e per un anno  invano cerca di adempiere l’impegno. Dopo aver patito ogni genere di stenti, il cavaliere in punto  di morte accusa il religioso che a propria volta versando lacrime lamenta la propria responsabilità  di  giudice  confessore  nei  confronti  di  un  uomo  destinato  alla  dannazione.  A  quel  punto  il  cavaliere  piange  finalmente  e  le  sue  lacrime  sono  quelle  della  vera  contrizione.  Antonella  Mancini,  Le  lacrime  della  penitenza,  ovvero  l’ingresso  della  melanconia  nella  pastorale  della 

Chiesa in Anima e Paura: studi in onore di Michele Ranchetti, Macerata: Quodlibet 1998, 243‐248. 

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Questo è essenzialmente quel che fece Degola con Enrichetta. Come scrive Marta Morazzoni: “Degola fu il primo che raccolse e ordinò il cambiamento della ragazza, colui che l’aiutò a sciogliere i turbamenti dello spirito” 98. L’aiuto di Degola non fece breccia solo nell’animo, ma anche nella mente di Enrichetta; le sue conferenze servirono a fare luce e a guidare Enrichetta, che già aveva sofferto, verso la conclusione del proprio processo conoscitivo, il quale per lei non rappresenta tanto la contemplazione della propria coscienza quanto lo studio attento di una nuova dottrina, destinata a guidare tutta la sua vita futura: attraverso le conferenze di Degola, Enrichetta, che comunque poteva già contare su una solida preparazione in materia teologica 99, riuscì a comprendere la bontà della Religione cattolica; Degola le mostrò quanto il dogma cattolico fosse più razionale e convincente rispetto a quello calvinista, e, una volta che la sua opera fu compiuta, la giovane donna si persuase profondamente 100. È lo stesso Degola che dice questo, facendo riferimento proprio alla capacità persuasiva della Grazia che (si deve dedurre) vivifica le parole del catechista:

“l’onction de la Grâce vous en a persuadé si profondément, que j’ai du bien des fois vous féliciter dans le Seigneur en vous faisant sentir en même temps, combien votre amour per la Vérité doit être reconoissant, tendre et fidèle” 101.

Nell’epistolario Enrichetta, specie di fronte ai genitori, si mostra resolutissima nella sua scelta ed è probabile che in questa convinzione vada rivista anche l’autorevole guida di Degola, che non avrebbe permesso alla neofita di accostarsi all’atto di abiura, se non dopo aver ritenuto che questa fosse “pronta” e quindi salda nel suo proposito 102: nella sua Exhortation l’abate insiste molto sui doveri del nuovo cristiano e, proprio in riferimento alle vicende personali di Enrichetta, pone l’accento sull’importanza di dare priorità all’autorità divina anche su quella

       98 Marta Morazzoni, Premessa in Enrichetta Manzoni Blondel, “Par pièces et morceaux” Lettere  1809‐1833 a cura di Fabio Danelon, Milano: Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2006, p. XVIII‐ XIX.  99 Ruffini, op. cit. (1931), I, pp. 215‐230.  100  Morazzoni, op. cit. (2006), p. XII.  101  Degola, Exhortation à une nouvelle catholique à une nouvelle catholique,  p. 108.  102 Degola, Diario, in Eustachio Degola, il clero costituzionale, pp. 82; 84. 

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