• Non ci sono risultati.

Capitolo 2 La dissoluzione dello Stato in Hobbes

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo 2 La dissoluzione dello Stato in Hobbes"

Copied!
41
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo 2

La dissoluzione dello Stato in Hobbes

1. Introduzione

Nel frontespizio dell’edizione originale del Leviathan viene raffigurato il sovrano assoluto, il Dio mortale, che impugna la spada e il pastorale e indossa una corona. Il suo corpo, di cui è visibile soltanto il busto, è costituito da tanti corpi in miniatura che rappresentano i sudditi dello Stato1 (Figura 1). La raffigurazione sembra riecheggiare le parole di Hobbes sull’istituzione e la generazione dello Stato, poiché l’immagine simboleggia la moltitudine unita in una persona2, unità che è garantita dal patto degli uomini fra loro e che è definita dalla cessione autorizzata dei diritti degli individui al sovrano. Se, da un lato, l’immagine offre spunti visivi sull’origine della società politica, garantita dall’unione di tutti i sudditi in una sola persona, che unicamente detiene l’uso del potere civile e religioso (a loro volta simboleggiati da spada e pastorale), dall’altro lato, essa non dà alcuna indicazione a proposito della durata dello Stato3. La continuità temporale dello Stato dipende strettamente dal rapporto che intercorre tra sudditi e sovrano, ma l’immagine non suggerisce che tipo di                                                                                                                

1 Della raffigurazione dei sudditi vi sono due versioni: quella dell’edizione principe del Leviatano (Londra, 1651) rappresenta i sudditi rivolti verso il volto del sovrano, mentre nella copia del manoscritto del Leviathan inviata a Carlo II (oggi conservata alla British Library di Londra, Ms. Egerton) i sudditi sono raffigurati con il viso rivolto verso l’osservatore, quindi verso il re Carlo. Cfr. C. ALTINI,

Soberanía, representación y cuerpo político en el Leviatán de Thomas Hobbes, in ID., La fábrica de la soberanía. Maquiavelo, Hobbes, Spinoza y otros modernos, El Cuenco de Plata, Buenos Aires 2005, p.

98. Su questo punto cfr. anche C. GINZBURG, Paura, reverenza, terrore. Rileggere Hobbes oggi, MUP, Parma 2008, p. 36.

2 Cfr. T. HOBBES, Leviatano, [Leviathan, Londra 1651], con testo inglese e latino, a cura di Raffaella Santi, Bompiani, Milano 2001, [da ora in avanti indicato con la lettera L.], II, cap. XVII, §13, p. 283. 3 Questo viene suggerito anche da Altini. Cfr. C. ALTINI, op. cit., p. 97 e sgg.

(2)

interazione esista fra le due componenti. Eppure, nel discorso politico hobbesiano la questione della durata temporale è centrale, soprattutto nelle sue conseguenze: il problema della stabilità dello Stato e quello della sua dissoluzione.

(3)

2. La dinamica della dissoluzione

Nulla di ciò che fanno i mortali può essere immortale. Da questo principio, che si evince dall’incipit del capitolo XXIX del Leviatano, discende necessariamente che lo Stato, essendo una costruzione umana, è un’istituzione imperfetta e destinata a decadere. Eppure, il filosofo inglese prosegue nel suo ragionamento, sostenendo che «se gli uomini usassero la ragione che pretendono di avere, i loro stati sarebbero al sicuro dalla morte, almeno da quella causata da malattie interne»4. Pur riconoscendo che l’istituzione statale è condannata, da principio, alla dissoluzione, Hobbes ammette che lo sforzo – la ragione – degli uomini potrebbe prevenire il crollo dello Stato per cause interne, che devono essere, in una certa misura, prevedibili e rimediabili. Scartata la causa esterna dell’invasione o dell’attacco straniero, che rientra nel più ampio gioco di forze fra potenze statali, Hobbes si prefigge di esaminare le cause interne che conducono alla dissoluzione dello Stato e che vengono denominate significativamente ‘malattie’5. L’utilizzo del lessico medico si giustifica con il paragone del corpo dello Stato ad un organismo vivente, composto da membra, organi, nervi e articolazioni6.

Quando lo Stato si dissolve per disordini intestini, «la colpa non è negli uomini in quanto ne costituiscono la materia, ma in quanto ne sono gli artefici e gli ordinatori»7. Come viene efficacemente raffigurato nel frontespizio del Leviatano, gli uomini ‘fanno’ lo Stato nella misura in cui, insieme, ne costituiscono la materia8. Tuttavia, quando si

                                                                                                               

4 L., II, cap. XXIX, §1, p. 523.

5 I termini disease o infirmity, che si riscontrano facilmente nel testo, giustificano la metafora organicistica.

6 Per un’analisi delle metafore indicanti le strutture politiche si veda il saggio di G. SACCARO BATTISTI, Changing Metaphors of Political Structures, «Journal of the History of Ideas», XLIV, 1983, 1, pp. 31-54.

7 L., II, cap. XXIX, §1, p. 523.

(4)

considera lo Stato come creazione artificiale, come costruzione umana, gli uomini sono da considerarsi, in prima battuta, artefici, costruttori.

Lo Stato pensato e descritto da Hobbes sembra racchiudere in sé gli elementi della sua stessa fine9. Ecco che la questione della dissoluzione dello Stato assume una rilevanza notevole, se si considera che, proprio nelle opere di fondazione dello Stato, Hobbes avverte l’esigenza di dedicare diverse pagine ad indicare le ragioni della decadenza dello stesso, con l’intento – si può facilmente intuire – di proporre i rimedi per evitare la rovina. All’interno del ragionamento sulla dissoluzione dello Stato trovano spazio diversi motivi che sono tematizzati da Hobbes nei suoi scritti politici e che sono oggetto di indagine di queste pagine: le cause della ribellione, l’analisi delle dottrine sediziose, la definizione delle prerogative e dei compiti del sovrano. Questi molteplici argomenti, che sono fra loro connessi, contribuiscono a creare un quadro articolato del pensiero hobbesiano sulle ragioni profonde del collasso dello Stato, cui gli interpreti non hanno ancora dedicato un’attenzione specifica10. Il tema della decadenza dello Stato è rilevante per Hobbes che, fin dal suo primo scritto, dedica una parte della sua riflessione alla questione della dissoluzione, cui aggiunge un capitolo sui doveri del potere sovrano, a riprova di come i due temi siano strettamente intrecciati. Il nesso è garantito dal fatto che il sovrano, attraverso i diritti che costituiscono il fulcro della                                                                                                                

9 Su questo tema è fondamentale un passaggio del Leviatano, II, cap. XXI, §21, p. 361: «E, anche se nell’intenzione di chi la crea la sovranità è immortale, tuttavia, per la sua natura, non solo è soggetta alla morte violenta a causa delle guerre con gli stranieri, ma ha anche in sé, fin dalla sua istituzione, molti semi di mortalità naturale a cause delle discordie intestine dovute all’ignoranza e alle passioni degli uomini».

10 Fanno eccezione lo studio di O. NICASTRO, Le vocabulaire de la dissolution de l’état, in Hobbes et

son vocabulaire, a cura di Y.C. Zarka, Vrin, Parigi 1992, pp. 259-287 e il breve saggio di M.

MALHERBE, Hobbes et la mort du Léviathan: opinion, sédition et dissolution, «Hobbes Studies», IX, 1996, pp. 11-20. In alcuni testi si accenna brevemente alla questione della dissoluzione dello Stato, che viene affrontata all’interno di un contesto più ampio. Cfr. N. BOBBIO, La teoria politica di Hobbes in ID., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp. 30-32; alcune indicazioni sulla dissoluzione sono contenute nel saggio di S. GOYARD-FABRE, Loi civile et obéissance dans l’État-Léviathan, in Thomas

Hobbes. Philosophie première, théorie de la science et politique, a cura di Y.C. Zarka e J. Bernhardt, puf,

Parigi 1990, pp. 295-300. Cfr. anche A. DI BELLO, Sovranità e rappresentanza. La dottrina dello Stato

(5)

sovranità, ha il dovere di porre rimedio alla decadenza dello Stato. In queste pagine, vedremo quali sono le modalità di intervento con cui il sovrano può farsi carico, in prima persona, della questione della dissoluzione.

Accenno ora brevemente alla genesi e alla datazione degli scritti politici di Thomas Hobbes, per fornire qualche indicazione sui principali luoghi presi in considerazione nell’indagine condotta in queste pagine. Gli Elements of Law Natural and Politic costituiscono il primo testo di argomento politico redatto da Hobbes. Nonostante gli Elementi di legge siano composti intorno al 1640, il filosofo decide, per precauzione, di non pubblicarli immediatamente, ma attende dieci anni, salvo poi darli alle stampe divisi in due trattati: Human Nature e De Corpore Politico11. Alla stesura, in inglese, degli Elementi segue la redazione, in latino, del De Cive, che ha luogo verosimilmente tra l’inizio del 1641 e il primo novembre dello stesso anno (che è la data riportata nell’Epistola dedicatoria)12. Il De Cive, che, nell’intento originario dell’autore, costituisce una parte della trilogia degli Elementa Philosophiae, viene pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1642 e viene accolto con grande interesse dal pubblico francese e olandese.

Il 1651 costituisce un anno fondamentale per Hobbes, perché vede la luce la sua opera maggiore, il Leviathan, composta in circa due anni, mentre il filosofo si trova in esilio volontario a Parigi e mentre nella sua patria si svolgono i convulsivi avvenimenti della guerra civile inglese, culminati nella decapitazione di Carlo I. In questo testo, che costituisce indubbiamente il capolavoro del filosofo di Malmesbury, sono riprese le                                                                                                                

11 Fu lo studioso tedesco Tönnies a rendersi conto che le due operette costituivano in realtà un unico trattato che Hobbes aveva fatto circolare manoscritto nel 1640 prima di rielaborare gli argomenti nel De

Cive. Cfr. T. HOBBES, Elementi di legge naturale e politica, presentazione, traduzione e note di Arrigo

Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1985, pp. IX-X.

12 Per le indicazioni sulla composizione del De Cive, si veda l’introduzione di Tito Magri a T. HOBBES,

De Cive. Elementi filosofici sul cittadino [ed. originale: Parigi 1642], a cura di Tito Magri, Editori Riuniti,

(6)

tematiche trattate negli scritti politici precedenti, ma vengono sviluppate e arricchite enormemente.

Nel periodo compreso tra 1666 e 1668 Hobbes compone il resoconto della storia civile inglese, intitolato Behemoth, or the Long Parliament, pubblicato per la prima volta nel 1679, soltanto qualche mese prima della morte del filosofo, avvenuta il 4 dicembre dello stesso anno. Lo stesso autore richiede che il testo rimanga inedito, considerati i toni infiammati della polemica e le circostanze storico-politiche inglesi non del tutto stabili13.

Nell’indagine condotta in queste pagine viene fatto ampio riferimento agli scritti hobbesiani, ma i luoghi specificamente dedicati al tema della dissoluzione dello Stato e ai doveri del sovrano sono i capitoli 8 e 9 della seconda parte degli Elementi di legge, i capitoli 12 e 13 del De Cive e i capitoli 29 e 30 del Leviatano. Numerosi spunti sulla decadenza dello Stato si riscontrano anche nel Behemoth, dove i motivi della dissoluzione sono contestualizzati nel turbolento processo storico della guerra civile inglese.

                                                                                                               

13 Per avere qualche indicazione sulla radicalità e la pervasività delle critiche di Hobbes si tenga presente l’avveduto giudizio di Onofrio Nicastro: «La situazione era troppo tesa e delicata perché Carlo II potesse permettere la pubblicazione di un’opera che, per sostenere l’autorità regia, rischiava di sollevarle contro tutti: il clero presbiteriano (e i dissenzienti in genere) additati tra i principali responsabili della ribellione; quello anglicano, accusato d’esse troppo tiepido nel difendere il potere civile e troppo pronto ad usurparne i diritti; quello cattolico che per secoli aveva costruito il “mistero d’iniquità” che aveva sorretto tale usurpazione; Londra e le altre città, che alla sedizione avevano dato uomini e denaro, e le università, che avevano contribuito a fornirle il sostegno delle idee e dell’eloquenza; gli ambienti mercantili, che nella vicina repubblica olandese avevano visto un modello politico oltre che economico; la nobiltà e la

gentry sensibili al fascino del repubblicanesimo classico e della teoria del governo misto». Cfr. T.

(7)

3. Le fazioni

Quando Hobbes, nel De Cive, si concentra sui doveri di chi detiene e amministra il potere sovrano, spiega quali sono i comportamenti che giovano alla pace dello Stato, inquadrandoli nel detto ciceroniano “Salus populi suprema lex”14. Dato che i poteri sono stati costituiti in vista della pace, i doveri del potere supremo devono coerentemente tendere alla pace e alla sicurezza dei cittadini. Tra questi compiti appartenenti al potere sovrano, Hobbes ricorda il potere di «reprimere i faziosi» e di «sciogliere e disperdere le fazioni»15. Con il termine ‘fazione’ Hobbes indica «una moltitudine di cittadini uniti da patti intercorsi fra di loro, o dalla potenza di qualcuno, senza l’autorizzazione di colui o di coloro che hanno il potere supremo»16. La fazione nasce, quindi, da un accordo che intercorre fra una parte dei cittadini, un accordo successivo e ulteriore rispetto al primo patto che ha dato origine all’istituzione statale. Per questo motivo, la fazione si qualifica, a tutti gli effetti, come uno «Stato nello Stato»17. Hobbes intravede nelle fazioni il germe della dissoluzione dello Stato, perché la fazione è sinonimo di interessi particolari che vanno a scontrarsi con l’interesse generale dello Stato. Il ragionamento sulle fazioni – e l’insistenza sulla repressione dei faziosi – si lega strettamente al problema delle cospirazioni contro lo Stato.

Sia negli Elements of Law Natural and Politic sia nel De Cive, Hobbes si concentra sull’esempio di Catilina, il cui carattere è particolarmente adatto alle sedizioni. Catilina è descritto, già da Sallustio, come uomo, al contempo, molto                                                                                                                

14 Il riferimento è a Cicerone, De legibus, III, 8. 15 Cfr. De Cive, cap. XIII, §13, p. 200.

16 Ibidem.

17 Ibidem. La fazione può essere descritta anche come uno Stato contro un altro Stato sullo stesso territorio: in questi termini si esprime O. NICASTRO, Le vocabulaire de la dissolution de l’état, cit., p. 63.

(8)

eloquente e poco saggio18. L’eloquenza che possiede Catilina nasce da un uso metaforico delle parole ed è interamente volta a sommuovere le passioni dell’animo19. Coloro che non sono ben disposti verso il potere sovrano saranno facilmente persuasi a organizzarsi in una fazione, soprattutto se sedotti da un capo dotato di una potente eloquenza. Catilina è un esempio che permette a Hobbes di associare fazione e cospirazione e di fornire qualche indicazione sulle modalità con cui solitamente si organizzano le congiure contro l’ordine istituito. Il motivo cospiratorio diventa l’obiettivo per cui la fazione ha necessità di riunirsi. I membri del gruppo decidono chi debba acquisire il potere all’interno della fazione per coordinare l’azione, dando origine al processo con cui si costituisce una vera e propria “fazione nella fazione”. Questo è vero nella misura in cui un numero più ristretto di faziosi si riunisce in segreto e separatamente per organizzare e decidere le proposte da fare all’assemblea che riunisce tutti i partecipanti. La congiura sfocia nell’azione messa in opera dalla fazione, spesso trascinata dall’eloquenza di un capo che eccita i partecipanti, turbando le loro menti e spingendoli alla sedizione. A questo punto, Hobbes ragiona sull’esito della congiura:

In questo modo, formata una fazione grande a sufficienza, che [i capi, ndr] dominano con l’eloquenza, la spingono all’azione, e così a volte si impadroniscono della repubblica, quando non vi sono fazioni contrarie; ma per lo più la lacerano, e suscitano la guerra civile20.

                                                                                                               

18 Cfr. SALLUSTIO, De Catilinae Coniuratione, 5: «satis eloquentiae, sapientiae parum».

19 Hobbes distingue l’eloquenza di Catilina dall’eloquenza intesa come esposizione chiara e lineare dei concetti, che si genera dalla contemplazione delle cose stesse e che è sempre associata alla saggezza. Questo tipo di eloquenza mira a utilizzare le parole nel loro significato e ha come fine la verità, mentre l’eloquenza esemplificata da Catilina adatta e calibra le parole a seconda delle passioni che vuole suscitare nell’uditorio e ha come scopo la vittoria. Cfr. De Cive, cap. XII, §12, pp. 190-191.

(9)

L’azione compiuta dalla fazione ha un esito lacerante per la struttura statale, poiché nella maggior parte dei casi si scatenano lotte con le fazioni contrarie. La lotta tra fazioni, che maschera lo scontro fra interessi particolari, costituisce, a tutti gli effetti, una lotta intestina, una guerra civile21. Tenendo presenti questi possibili e preoccupanti scenari, Hobbes insiste nel dire che i sovrani che permettono la formazione di fazioni all’interno del loro Stato commettono un errore grave e pressoché irreparabile, poiché è come se accogliessero «entro le mura un nemico»22.

Nel Leviathan Hobbes torna sul problema delle fazioni, estendendo il ragionamento anche alle associazioni e agli incontri pubblici. I raggruppamenti o le associazioni di privati cittadini che nascono da volontà, inclinazioni o interessi comuni sono considerati sistemi irregolari23 nella misura in cui si formano in seno allo Stato – da Hobbes definito come semplice associazione di tutti i sudditi – pur situandosi al di fuori dell’accordo originario. Inoltre, a differenza dell’associazione globale di tutti i sudditi che è lo Stato, le associazioni di privati non sono necessarie al mantenimento della pace. Oltre a ciò, se lo scopo per cui si costituiscono le associazioni è malvagio o ignoto, esse diventano illegittime, oltre che pericolose24. Tra i sistemi irregolari Hobbes annovera anche il semplice ritrovo di persone, «la cui legittimità o illegittimità dipende dall’occasione per cui esse si sono riunite e dal loro numero»25. Esempi di adunanze legittime sono la partecipazione a una cerimonia in chiesa o ad uno spettacolo pubblico, poiché l’occasione è manifesta e innocua e il numero di partecipanti non è                                                                                                                

21 Sul passaggio diretto dal sorgere delle fazioni alla sedizione e alla guerra civile Hobbes insiste in un altro punto del De Cive, cap. X, §12, p. 175. In questo luogo Hobbes ipotizza un confronto fra oratori di uguali capacità, che sfocia in un vero e proprio combattimento verbale.

22 De Cive, cap. XIII, §13, p. 200.

23 Cfr. L., II, cap. XXII, §28, p. 385. Sulle società particolari all’interno dello Stato hobbesiano ha riflettuto N. BOBBIO, Hobbes e le società parziali, in ID., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp. 169-191.

24 L., II, cap. XXII, §29, p. 385. 25 L., II, cap. XXII, §33, p. 387.

(10)

eccessivamente grande. Se, invece, l’occasione della riunione non è manifesta o il numero di uomini è elevato, quell’adunanza di persone rischia di essere ritenuta illegittima e – aggiunge Hobbes – tumultuosa26. La questione del numero di partecipanti assume nella riflessione hobbesiana una rilevanza decisiva. Non si tratta, infatti, di stabilire un numero determinato di persone che costituisca il discrimine tra legittimità e illegittimità di un raduno, quanto piuttosto di rapportare il numero dei presenti al numero di guardie27 che hanno il compito di mantenere la sicurezza pubblica e di soffocare le rivolte28. I tumulti possono essere provocati dalle fazioni che si formano per il governo dello Stato29, le quali sono ingiuste in ogni caso, poiché attentano direttamente alla pace e alla sicurezza di tutti i sudditi30. La storia è ricca di esempi in tal senso: gli scontri fra patrizi e plebei a Roma e la contrapposizione fra aristocratici e democratici nella Grecia antica.

Ad essere presa di mira dal filosofo inglese non è soltanto la dimensione pubblica, ma anche quella più nascosta, rappresentata dagli intrighi segreti31, con cui Hobbes indica, in maniera più specifica, le cospirazioni. Come si legge nel De Cive, lo Stato costituisce di per sé l’assemblea di tutti i sudditi, mentre la riunione separata di

                                                                                                               

26 Tumultuous è l’aggettivo che Hobbes utilizza nel testo inglese e costituisce, a mio avviso, una spia della sua preoccupazione nei confronti del mantenimento l’ordine pubblico. La sicurezza deve essere garantita anche attraverso l’opera di contenimento o di repressione delle sommosse.

27 Nel testo inglese si trova il termine officers con cui si indicano solitamente i funzionari con compiti di polizia e di ordine pubblico. Cfr. L., II, cap. XXII, §33, p. 389.

28 Sedare la rivolta significa, al contempo, riportare alla giustizia e all’ordine.

29 In queste pagine, Hobbes fa un brevissimo cenno alle fazioni che si formano per il governo della religione, adducendo come esempi i papisti e i protestanti. È facile intuire che le lotte e gli scontri per motivi religiosi non erano un pericolo troppo remoto per l’epoca in cui ha vissuto Hobbes. Nel Behemoth Hobbes insisterà maggiormente sui dissensi religiosi che hanno costituito una delle principali cause della guerra civile inglese.

30 Bobbio ha insistito, in modo convincente, sul fatto che il filosofo inglese veda la formazione di partiti o fazioni come una minaccia all’unità dello Stato, che è un motivo caro a Hobbes. Cfr. N. BOBBIO, op.

cit., p. 186 e sgg.

31 Peculiare l’espressione utilizzata nel testo inglese “secret cabals” per indicare intrighi o cricche. Cfr. L., cap. XXII, §30, p. 384. L’uso del termine ‘cabal’ si attesta anche in Behemoth, II, p. 92. Hobbes separa nettamente la dimensione pubblica, che è caratterizzata da legittimità e regolarità, e la dimensione privata, dove invece i sistemi vengono definiti irregolari o illegittimi. Cfr. N. BOBBIO, op. cit., p. 189.

(11)

una parte di uomini costituisce una fazione o una cospirazione ed è illegittima. Nella consultazione in separata sede, si situa non soltanto il nucleo della segretezza – e quindi della potenziale pericolosità – ma anche il germe della disgregazione. Lo scopo di una riunione ristretta non può che essere quello di perseguire interessi particolari o di assumere la guida – e, conseguentemente, il potere – all’interno dell’assemblea generale che è lo Stato.

4. Le cause della ribellione

Negli Elements of Law Hobbes spiega che sono tre i fattori che dispongono gli individui alle sedizioni: il malcontento, la pretesa di diritto e la speranza di successo. In assenza di uno solo di questi fattori non può darsi alcuna ribellione.

Il malcontento dipende da una sofferenza fisica o da un turbamento mentale, ma non coincide con la sofferenza stessa, bensì, piuttosto, con la paura di provare dolore. Quando si temono alcuni mali, come la paura di venire arrestati o imprigionati, e, in definitiva, la paura di morire, gli uomini sono indotti a riunirsi e a prendere le armi per difendersi da queste paure fisiche32. Hobbes porta l’esempio di una moltitudine che ha commesso un crimine punibile con la pena capitale e che si prepara alla sedizione, per difendersi dalla paura della morte. Il genere di malcontento che deriva da un turbamento mentale sorge dal fatto che alcuni individui avvertono, entro lo Stato in cui vivono, la                                                                                                                

32 Tra le paure fisiche, Hobbes segnala anche la paura della povertà. Nel De Cive il filosofo spiega che la miseria, che si definisce come la mancanza di cose necessarie a conservare la vita e la dignità, ha il potente effetto di turbare l’animo e di disporre alla sedizione. L’effetto più destabilizzante per lo Stato è dato dal fatto che «tutti i poveri sono soliti gettare la colpa, invece che sulla propria pigrizia e prodigalità, sul governo dello Stato, come se il loro patrimonio fosse stato esaurito dalle esazioni pubbliche» (De

(12)

mancanza di potere e di onore, che ritengono, invece, di meritare. Sono scontenti coloro i quali si sentono più virtuosi e più capaci di altri concittadini e, tuttavia, si vedono superati in onore da questi ultimi. Vedere tradita questa loro convinzione li spinge a reclamare33 contro il potere sovrano e li dispone facilmente alla sedizione.

La speranza di successo costituisce un altro dei fattori che predispongono alla ribellione. Quattro sono le condizioni necessarie a suscitare quel complesso sentimento che caratterizza la speranza di vincere. In primo luogo, occorre che fra gli uomini scontenti e insoddisfatti si instauri un rapporto di fiducia reciproca, che li stimoli ad agire, e quindi a ribellarsi, sulla base di una condivisione di intenti. Questi uomini devono poi mettersi d’accordo su un capo, cui obbedire spontaneamente e non dietro costrizione34. Le altre due condizioni necessarie ad alimentare la speranza di vincere sono il numero e le armi. Il numero dei sudditi che intendono ribellarsi deve essere sufficiente e le armi e approvvigionamenti indispensabili al raggiungimento degli scopi. Questi quattro fattori, a parere di Hobbes, concorrono a formare il corpo della ribellione35.

La pretesa di un diritto è un altro elemento che conduce alla ribellione. Per analizzare questo fattore Hobbes espone alcune opinioni erronee diffuse tra gli uomini36, che mettono in serio pericolo la tenuta dello Stato e che vengono giudicate

                                                                                                               

33 Il reclamo può dare luogo a richieste distinte, ma egualmente pericolose e destabilizzanti. Cfr.

Elementi, II, cap. VIII, §2, p. 239: «Chiunque quindi in uno stato monarchico, ove il potere sovrano

risiede assolutamente in un sol uomo, reclama libertà, reclama […] o di avere a sua volta la sovranità, o di essere collega di colui che la detiene, o di mutare la monarchia in una democrazia».

34 Un capo può essere scelto o per la sua virtù e prudenza militare o per la somiglianza delle sue passioni a quelle dei faziosi. Cfr. De Cive, cap. XII, §11, p. 190.

35 Interessante la visione d’insieme dei quattro fattori che costituiscono la speranza di successo: «Infatti questi quattro elementi debbono concorrere alla costituzione di un corpo di ribellione, in cui la comprensione è la vita, il numero le membra, le armi la forza, e un capo l’unità, dalla quale sono diretti ad una medesima azione». Cfr. Elementi, II, cap. VIII, §11, p. 245.

36 Negli Elementi di legge Hobbes elenca queste dottrine in sei casi particolari. La numerazione delle dottrine varia a seconda del testo considerato, poiché questo è un tema oggetto di modifiche e ripensamenti da parte di Hobbes. Cfr. Elementi, II, cap. VIII, §4, pp. 240-241.

(13)

incompatibili con la pace e il buon governo. L’analisi delle dottrine sediziose e la spiegazione del loro potenziale sovversivo costituiscono, a mio modo di vedere, un tema assolutamente decisivo all’interno della riflessione hobbesiana sullo Stato e sinora poco studiato37. Ho dedicato un paragrafo specifico ad esaminare questo tema.

5. Le dottrine “perverse”

Una costante dei testi politici redatti da Hobbes è l’analisi delle dottrine dannose che mirano alla dissoluzione dello Stato. Già negli Elementi di Legge e nel De Cive Hobbes espone in maniera dettagliata le dottrine sediziose, tornando a soffermarsi su questi temi nel capitolo XXIX del Leviathan.

Negli Elementi di Legge le dottrine sediziose sono raggruppate sotto la categoria di pretese di diritti. La pretesa (quasi una rivendicazione) di un diritto fa scattare un processo che induce gli uomini a credere di godere di una legittimità di cui non godono effettivamente. L’effetto che ne consegue è la restrizione, la limitazione del carattere assoluto della sovranità38. Nel De Cive le cause delle sedizioni sono considerate cause interne di dissoluzione dello Stato, cioè motivi corrosivi che agiscono dall’interno della struttura statale per lacerarla. Tra queste cause, ampio spazio occupano le dottrine o le opinioni contrarie alla pace.

La prima dottrina sediziosa è quella secondo cui la conoscenza del bene e del male sia riservata ai singoli individui. Da questa falsa opinione consegue che anche il giudizio su ciò che è bene o male – sulle azioni buone o cattive – dipenda dal privato                                                                                                                

37 Si segnala in tal senso il breve saggio di M. MALHERBE, Hobbes et la mort du Léviathan: opinion,

sédition et dissolution, cit., pp. 11-20.

(14)

cittadino. Opinioni simili sarebbero vere, e di fatto lo sono, nello stato di natura, quando ancora non esistono le nozioni di giusto e ingiusto, poiché non vi è ancora un potere coercitivo atto a garantire la giustizia. Nello Stato, invece, sono le leggi civili a costituire delle «regole o misure comuni a tutti, con cui ciascuno possa conoscere cosa debba dire suo e cosa altrui, cosa giusto e cosa ingiusto, cosa onesto e cosa disonesto, cosa bene e cosa male, e, insomma, cosa si debba fare, e cosa evitare, nella vita comune»39. Le leggi civili vengono stabilite e introdotte da chi detiene il potere supremo al fine di prevenire le controversie derivanti dalla difformità e dalla divergenza di opinioni in base a cui ciascuno giudica e valuta secondo la propria personale considerazione. I soggetti che vogliono autonomamente conoscere e giudicare ciò che è bene e ciò che è male, in realtà, nascondono dietro questa pretesa40 il desiderio di essere essi stessi re. Tuttavia, un atteggiamento simile è assolutamente incompatibile con la sicurezza dello Stato. È facilmente intuibile come questa dottrina abbia effetti deleteri sulla stabilità dello Stato, perché, introducendo la pluralità di opinioni, induce gli uomini a discutere e a scontrarsi fra loro, anche in merito al rispetto delle leggi civili, che, invece, dovrebbe essere sempre assicurato.

Un ragionamento analogo vale per la dottrina, per Hobbes egualmente perversa, secondo cui ognuno abbia libertà di coscienza41. È un’opinione sediziosa ritenere che ciò che si compie contro la propria coscienza costituisca peccato42. Un esempio significativo in tal senso riguarda il servizio militare:

                                                                                                               

39 De Cive, cap. VI, §9, p. 133.

40 È questa una pretesa che Hobbes riconduce al gesto compiuto dal primo uomo di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, contravvenendo al divieto divino. Sul ritorno all’errore originario, cfr. De Cive, cap. XII, §2, p. 184.

41 Sulla libertà di coscienza nel pensiero di Hobbes si veda il saggio di J. TRALAU, Hobbes contra

Liberty of Conscience, «Political Theory», XXXIX, 2011, 1, pp. 58-84.

(15)

Se servo in guerra per ordine dello Stato, ritenendo che la guerra sia ingiusta, non agisco ingiustamente. Anzi, agirei ingiustamente se mi rifiutassi di servire in guerra, perché mi arrogherei la conoscenza del giusto e dell’ingiusto, che spetta allo Stato43.

La questione è piuttosto intricata. Entrambe le opzioni, servire in guerra o rifiutarsi di servire, implicano un’azione contro qualcosa: nel primo caso, infatti, se si prendono le armi in una guerra che si reputa ingiusta, si agisce contro la propria coscienza; nel caso contrario, se si rifiuta di servire la patria, si agisce contro il diritto. Dato che bisogna sempre evitare di agire contro il diritto, poiché questo metterebbe a rischio la tenuta dello Stato, in una simile circostanza, non si deve tenere conto della propria coscienza. Questa tesi discende dall’idea per cui, mediante la stipulazione del patto, ognuno ha rinunciato alla propria coscienza44. Per questo motivo, l’idea che il peccato discenda da tutto ciò che si fa contro coscienza costituisce, in effetti, un’opinione avversa all’obbedienza civile e, per lo stesso motivo, trova spazio in questo elenco.

Connessa alla prima dottrina sediziosa è la cosiddetta “pretence of inspiration”, ovvero quella falsa opinione per cui si crede che la fede e la santità non si debbano ottenere attraverso lo studio o la ragione, ma per via soprannaturale45. Ammettendo come vera questa dottrina si rischierebbe di fare confusione tra il piano della legge civile e il piano della personale ispirazione, poiché non vi sarebbe apparentemente                                                                                                                

43 De Cive, cap. XXI, §2, p. 184.

44 Ciascun individuo costituisce, nel suo intimo, una sfera privata che si sottrae al controllo dello Stato e ogni uomo, in foro interno, è autonomo e svincolato dalla legge civile, poiché questa vale solo sulle azioni esterne e non sulla coscienza e i pensieri. D’altro canto, è altrettanto vero, come ammette Hobbes, che allo Stato interessano le opinioni dei cittadini perché «le azioni degli uomini derivano dalle loro opinioni e il buon governo delle azioni degli uomini consiste nel buon governo delle loro opinioni» (L., II, cap. XVIII, §9, p. 293). Su questo punto, si vedano le riflessioni di G. SORGI, Quale Hobbes? Dalla

paura alla rappresentanza, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 111-115.

45 L., II, cap. XXIX, §8, p. 527. La colpa della diffusione di questa falsa opinione è attribuita a teologi incolti (Leviatano), a uomini folli (De Cive, cap. XII, §6, p. 187) che collegano le parole tratte dalla Sacra Scrittura in modo insensato e irragionevole, ma tale da sembrare “divino” alle persone ingenue e inesperte.

(16)

alcuna ragione per preferire il rispetto della legge civile al proprio giudizio, basato su una soprannaturale ispirazione. Questa confusione di piani implica una ricaduta nel primo errore, cioè nella pretesa della conoscenza del bene e del male, che si giustificherebbe mediante una conoscenza soprannaturale. In altre parole, ciascuno si arrogherebbe la facoltà di giudicare le azioni buone e cattive, favorendo in tal modo la disgregazione del governo civile, mentre è noto che il potere decisionale spetta unicamente al sovrano.

Un’altra dottrina erronea, elencata come quarta sia nel De Cive sia nel Leviathan, è l’assoggettamento del potere sovrano alle leggi civili. Si tratta di un errore antico, che può essere fatto risalire ad Aristotele, convinto che la suprema potestas debba essere affidata, in definitiva, alle leggi46. Questa convinzione cela un certo grado di ingenuità e di inesperienza a proposito della natura dello Stato. Se, da un lato, è vero che il sovrano è sottoposto alle leggi di natura, che sono divine e non possono essere abrogate, dall’altro, il sovrano non può essere soggetto alle leggi che egli stesso, che è lo Stato, fa. Un simile procedimento implicherebbe essere soggetti a se stessi, vale a dire essere obbligati verso se stessi, ma questo è impossibile e insensato, perché, per Hobbes, si può essere obbligati solo nei confronti di un’altra persona. Il principio posto alla base di questo ragionamento è uno dei capisaldi del pensiero politico hobbesiano, ossia che il sovrano è sciolto, svincolato dalla soggezione alle leggi civili47.

Costituisce una dottrina avversa allo Stato la convinzione che ai singoli individui spetti la proprietà assoluta sui beni posseduti. Questa opinione, oltre ad essere falsa, è                                                                                                                

46 Si veda ARISTOTELE, Politica, III, 11.

47 Il sovrano è soggetto alle leggi di natura ma si trova in una condizione di libertà dalle leggi civili. Su questo punto, cfr. De Cive, cap. XII, §4, pp. 185-86, e L., cap. XXIX, §9, p. 529. Nel capitolo XXVI del

Leviatano, dedicato alle leggi civili, Hobbes spiega che: «Il sovrano di uno stato, sia egli un’assemblea o

un uomo, non è soggetto alle leggi civili. Infatti, avendo il potere di fare e di abrogare le leggi, se vuole può liberarsi dalla soggezione abrogando le leggi che lo disturbano e facendone di nuove» (L., II, cap. XXVI, §6, p. 433).

(17)

un controsenso, perché il diritto di proprietà, che un cittadino esercita su un determinato bene, deriva necessariamente dall’istituzione dello Stato stesso. Prima dell’atto istitutivo dello Stato, infatti, le cose erano comuni a tutti, cioè tutti avevano eguale diritto su un determinato oggetto. Con la stipulazione del patto e la cessione del diritto di ciascun suddito al sovrano, il dominio e la proprietà di ogni singolo individuo acquistano «l’estensione e la durata che lo Stato stesso vuole»48. È il sovrano a esercitare una proprietà assoluta su ciascun bene dei singoli cittadini; con ciò si intende che egli garantisce il diritto di proprietà a ciascun cittadino, ma, nel caso si renda necessario, può far valere il suo diritto assoluto sul bene, al fine di provvedere ai compiti che gli sono stati affidati al momento della stipulazione pattizia, e cioè per difendere i sudditi dai nemici esterni e per tutelarli dai torti reciproci.

Una dottrina che intacca l’essenza dello Stato è l’idea che il potere sovrano possa essere diviso. La divisione del potere può essere pensata in modi differenti. Una prima possibile separazione intende definire due ambiti distinti, uno riguardante la pace e la sicurezza terrena, l’altro concernente la salvezza dell’anima, e attribuire il potere supremo, rispettivamente, all’autorità civile e all’autorità ecclesiastica. In questo caso, i cittadini si sentono autorizzati a venire meno al rispetto delle leggi civili, reputando di maggior rilevanza le disposizioni necessarie alla salvezza dell’anima49. Una seconda separazione del potere prevede di attribuire la potestà di guerra e pace al monarca e di concedere, invece, il diritto di esigere denaro a persone diverse dal sovrano. A ben guardare, il potere di esigere denaro ha maggior peso del potere decisionale su pace e guerra, poiché la possibilità di organizzare e preparare una guerra dipende strettamente dalla disponibilità di denaro. Per questi motivi, la divisione del potere, intesa in                                                                                                                

48 De Cive, cap. XII, § 7, p. 187.

49 In questo caso, occorre tenere presente il problema dell’obbedire a due padroni. Su questo punto, cfr.

(18)

ambedue i sensi proposti, è una dottrina tanto falsa quanto profondamente disgregatrice, poiché corrode dall’interno l’essenza stessa della sovranità.

6. L’imitazione delle nazioni vicine, l’esempio degli antichi: il rischio del

contagio

Nel Leviatano, accanto all’analisi delle dottrine sediziose, si introduce l’idea che l’imitazione delle nazioni vicine possa agire come una falsa dottrina. Fa parte della natura umana ricercare e desiderare le novità, per cui l’esempio del governo di una nazione vicina induce gli uomini a voler modificare il proprio Stato su imitazione di quelli limitrofi. Questo processo, che è segnale della naturale insoddisfazione dell’uomo, trova diversi esempi storici. Hobbes riporta il caso del popolo ebraico che, volendo seguire l’esempio delle altre nazioni, richiede a Dio di poter essere governato da un re50. Il rischio dell’imitazione delle nazioni vicine è talmente reale per Hobbes che un altro esempio, a lui contemporaneo, è rappresentato dai «turbamenti causati in Inghilterra dall’imitazione dei Paesi Bassi»51. Alla base di questi disordini agisce la supposizione secondo cui, per potersi arricchire, è sufficiente cambiare la forma di governo, così come hanno fatto gli olandesi. Questo stimolo al cambiamento, che Hobbes avversa e tenta di arginare, rappresenta la messa in opera del contagio. Essendo gli Stati paragonabili agli organismi viventi, le malattie di cui essi soffrono, si possono facilmente diffondere in virtù della loro vicinanza.

                                                                                                               

50 Il riferimento è al capitolo ottavo del primo libro di Samuele, quando il popolo di Israele richiede di essere governato da un re, al pari degli altri popoli. Samuele, su espressa volontà di Dio, espone gli inconvenienti in cui potrebbe incappare in popolo di Israele, se venisse governato da un re, ma, a fronte dell’insistenza del popolo, il Signore accetta di accontentare la sua richiesta.

(19)

Non soltanto l’imitazione delle nazioni esistenti, ma anche la lettura dei libri e delle storie degli antichi Greci e Romani è da rigettare. Il rischio derivante dalla lettura di questi testi è di rimanere impressionati dalle gesta eroiche di alcuni personaggi o dalle imprese belliche degli eserciti, perdendo di vista gli errori di una simile politica. In modo particolare, i lettori dimenticano le sedizioni e le guerre civili scaturite da una politica volta all’espansionismo e al continuo mutamento territoriale. Tuttavia, la vera preoccupazione di Hobbes a proposito della lettura degli antichi non è un generico riferimento al disordine, quanto piuttosto la ben più grave legittimazione del tirannicidio:

Dico che, dopo aver letto questi libri, gli uomini hanno iniziato ad uccidere i loro re, perché gli scrittori greci e latini, nei loro libri e nei loro discorsi di politica, rendono legittimo e lodevole per ognuno il farlo, facendo in modo che prima di farlo egli chiami il re tiranno. Dicono, infatti, che non è legittimo il regicidio, cioè l’uccisione di un re, ma il tirannicidio, cioè l’uccisione di un tiranno52.

Tracciare una distinzione tra monarchia e tirannia permette di differenziare regicidio e tirannicidio, qualificando il primo come illegittimo e il secondo come legittimo. In altre parole, chi vuole giustificare l’uccisione del re, si preoccupa, in primo luogo, di denominarlo ‘tiranno’ per sentirsi poi autorizzato a procedere contro di lui. Per il filosofo inglese questo meccanismo è scorretto, poiché monarchia e tirannia sono

                                                                                                               

(20)

sinonimi53 e, di conseguenza, non vi è alcuna differenza nell’uccidere il tiranno o il re. Si tratta, infatti, di un unico e lo stesso atto: l’uccisione di chi detiene il potere supremo. Hobbes ritrova, dunque, nell’imitazione dei Greci e dei Romani una causa specifica che spinge alla ribellione contro la monarchia. Nel De Cive l’idea che il tirannicidio sia lecito si ritrova nell’elenco delle dottrine sediziose, ma in questo testo si distingue ancora tra tirannicidio legittimo e illegittimo54. Se il tiranno detiene il potere illegittimamente, è un nemico dello Stato e viene legittimamente ucciso, ma questo atto dovrebbe essere più propriamente chiamato hosticidium, vale a dire uccisione di un nemico, e non tirannicidio. In caso contrario, se il tiranno, cioè, detiene il potere legittimamente, il suo assassinio è del tutto illegittimo, oltre che ingiustificato55. L’idea che il tirannicidio sia lecito costituisce, a tutti gli effetti, un’opinione falsa e perniciosa che trova sostenitori da ogni dove: non soltanto tra gli autori antichi, ma anche tra i teologi moderni56. Tra gli autori antichi, denominati “sofisti”, Hobbes ricorda Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, Plutarco e «altri fautori dell’anarchia greca e romana»57. Oltre ad insistere sulla pericolosa diffusione della legittimità del tirannicidio, l’intento di Hobbes, in queste pagine, è quello di dipingere il re in una posizione di estrema insicurezza, quasi in balia di una folla dagli istinti animaleschi, ponendo l’accento sul fatto che il monarca è costantemente esposto al rischio di condanna o alla minaccia di assassinio.

                                                                                                               

53 L., II, cap. XIX, §2, p. 304: «Nella storia o nei libri di politica ci sono altri nomi di governo, come la tirannia e l’oligarchia, che però non sono nomi di altre forme di governo, bensì delle stesse forme, quando sono detestate. Infatti, chi è scontento sotto la monarchia la chiama tirannia».

54 È la distinzione tra tirannus adsque titulo e tirannus ab exercitium, riproposta da Di Bello. Il primo non ha un potere legittimo ed è un usurpatore, poiché non è stato autorizzato dal popolo ad esercitare il potere. Non essendo il rappresentante della volontà degli individui, le sue azioni sono perseguibili e può essere ucciso. Il secondo, invece, ha un potere legittimo e non può essere deposto né ucciso, poiché è autorizzato dal popolo. Cfr. A. DI BELLO, op. cit., p. 156.

55 Cfr. De Cive, cap. XII, §3, p. 185.

56 Il riferimento ai teologi è piuttosto vago e impreciso. Cfr. De Cive, cap. XII, §3, p. 184. 57 Ibidem.

(21)

Oltre a ciò, i lettori degli scrittori greci e latini vivono nella falsa opinione «che i sudditi di uno stato popolare godano della libertà, mentre quelli di una monarchia siano tutti schiavi»58. Sulla questione della libertà Hobbes insiste per due ordini di ragioni. In primo luogo, a causa di un frequente elogio della libertà, gli scritti dei Greci e dei Romani contribuiscono a creare confusione nell’animo dei cittadini, poiché non specificano che la libertà che viene elogiata non è quella dei singoli individui, ma quella dei sovrani59. Da questo malinteso segue che, persuasi dalla lettura di questi autori, «gli uomini si sono abituati (sotto una falsa parvenza di libertà) a favorire i tumulti e a censurare sconvenientemente le azioni dei loro sovrani»60. In secondo luogo, a fronte del tentativo degli antichi di insegnare che sotto la monarchia si vive sempre in schiavitù, Hobbes intende precisare come in uno stato monarchico o democratico la libertà sia sempre la stessa. La dottrina per cui la libertà è ammessa solo nella democrazia, che Aristotele sostiene nella sua Politica61, deriva da un odio sconsiderato e, dal punto di vista hobbesiano, decisamente ingiustificato nei confronti della monarchia. Al pari delle dottrine perverse e sediziose, i libri dei Greci e dei Latini hanno contenuti velenosi, in quanto volti a contrastare e distruggere la monarchia. Per queste ragioni è un errore grave permettere che questi libri vengano letti pubblicamente,

                                                                                                               

58 L., II, cap. XXIX, §14, p. 533.

59 Questo punto viene chiarito da un esempio, con cui Hobbes vuole liberare il campo dai fraintendimenti: «Gli Ateniesi e i Romani erano liberi, erano cioè degli stati liberi, non perché i singoli avessero la libertà di resistere al proprio rappresentante, ma perché il loro rappresentante aveva la libertà di resistere ad un altro popolo o di aggredirlo» (L., II, cap. XXI, §8, p. 351).

60 L., II, cap. XXI, §9, p. 353.

61 Il riferimento ad Aristotele si spiega alla luce dell’esempio degli Ateniesi: «E, poiché agli Ateniesi si insegnava (per trattenerli dal desiderio di cambiare governo) che erano uomini liberi e che tutti quelli che vivevano sotto la monarchia erano schiavi, Aristotele scriveva allora nella sua Politica (VI, 2): la libertà

deve essere supposta nella democrazia, perché si ammette comunemente che nessuno è libero in altri tipi di governo» (Ibidem).

(22)

poiché essi andrebbero, se non vietati per intero, almeno sottoposti a correzioni e aggiustamenti, per eliminarne il veleno62.

Di certo il Behemoth, composto da quattro dialoghi dedicati alla guerra civile inglese nel periodo compreso tra 1640 e 166063, costituisce il testo in cui Hobbes insiste maggiormente sulla polemica contro i Greci e i Romani. Sin dalle primissime pagine, quando il filosofo di Malmesbury inquadra le varie fazioni che si formano in seno al regno di Inghilterra e alla Camera dei Comuni, si fa cenno ad alcune persone di elevata condizione che si sono formate sui «libri scritti dagli uomini famosi della Grecia e di Roma sull’ordinamento politico e sulle grandi gesta di quelle antiche repubbliche»64. Questi stessi libri, in cui «il governo popolare era esaltato con il nome glorioso di libertà, mentre la monarchia era resa odiosa col nome di tirannide»65, hanno pesantemente plasmato la cultura di questi uomini, i quali, essendo molto versati nell’eloquenza, sono stati in grado di influenzare anche i restanti membri della Camera dei Comuni.

In diversi luoghi del testo Hobbes inserisce una nota polemica contro l’apprendimento e la conoscenza delle lingue greca e latina, considerate veicolo di buona parte degli errori e dei pregiudizi nei confronti della monarchia e, più in generale, mezzo di diffusione delle opinioni sediziose66. In molti casi, le parole utilizzate da                                                                                                                

62 Cfr. L., II, cap. XXIX, §14, p. 533, dove il veleno contenuto nei testi è paragonato al morso di un cane rabbioso.

63 Cfr. l’epistola di Thomas Hobbes a Sir Henry Bennet, barone di Arlington in cui Hobbes espone brevissimamente i contenuti dei quattro dialoghi che compongono l’opera. Cfr. T. HOBBES, Behemoth, a cura di Onofrio Nicastro, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 4. Per uno studio sul Behemoth si veda R. MACGILLIVRAY, Thomas Hobbes’s History of the English Civil War. A Study of Behemoth, «Journal of the History of Ideas», XXXI, 1970, 2, pp. 179-198. Cfr. anche W. R. LUND, Hobbes on opinion,

private judgment and Civil War, «History of Political Thought», XIII, 1992, 1, pp. 66-72.

64 Behemoth, I, p. 7. 65 Ibidem.

66 Quando tratta dello studio del greco e del latino, Geoffrey Vaughan spiega che la dottrina del tirannicidio non ha altra fonte se non quella classica. A questo proposito si veda G. VAUGHAN, Behemoth teaches Leviathan. Thomas Hobbes on Political Education, Lexington Books, Lanham 2002, p. 20.

(23)

Hobbes sono volutamente eccessive e provocatorie, al punto tale che Hobbes arriva a giustificare l’utilità della conoscenza del latino solo per «scoprire le frodi romane, e sottrarsi al potere di Roma»67.

Anche nel Behemoth un bersaglio polemico di Hobbes è Aristotele, la cui «ciarlatanesca filosofia» serve soltanto ad alimentare il malcontento e la discordia e a condurre alla sedizione e alla guerra civile68. Tuttavia, nella riflessione hobbesiana ciò che si configura come estremamente radicale è che la stessa esecuzione di Carlo I, decapitato il 30 gennaio 1649, è imputata, in ultima battuta, alla follia degli uomini che hanno letto Cicerone, Seneca, o altri scrittori contrari alla monarchia69, ovvero di quegli scrittori che parlano dei re «come di lupi o altre bestie rapaci»70.

Si osservi come negli scritti politici il filosofo inglese non modifichi l’atteggiamento nei confronti degli scrittori greci e latini, che critica talvolta con veemenza talaltra con sottile ironia. Nel Behemoth si intravvede una radicalizzazione e si percepisce un’esasperazione dei toni, dovuta soprattutto al peso delle circostanze storico-politiche e, di conseguenza, ai motivi profondi della redazione del testo. Gli attacchi diretti contro il pessimo esempio degli antichi, che godono di una stima immeritata, riescono, a mio parere, a dare dimostrazione del meccanismo sotteso alla dissoluzione dello Stato, che consiste nella propagazione di un germe, di un seme della disgregazione, che si diffonde in maniera capillare e profonda. Il germe della decadenza è contenuto nelle dottrine false e riduttive proposte nei loro libri velenosi, che contribuiscono a diffondere opinioni pericolose per la stabilità dello Stato e, in particolar modo, avverse alla monarchia.

                                                                                                               

67 Behemoth, II, p. 104. Hobbes è convinto che, una volta scoperti gli inganni degli scrittori romani, lo studio del latino, insieme al greco e all’ebraico, abbia perso di utilità.

68 Op. cit., II, p. 110. 69 Op. cit., III, p. 180. 70 Op. cit., IV, p. 184.

(24)

7. L’indivisibilità dei diritti e dei poteri: il caso del governo misto

Una delle cause interne di crisi dello Stato riguarda la rinuncia da parte del sovrano di almeno una delle sue prerogative. Il problema che ha in mente Hobbes è quello per cui «a volte un uomo, per ottenere un regno, si accontenta di un potere minore di quello che si richiede necessariamente per la pace e per la difesa dello stato»71. Si tratta di un’idea che ha conseguenze disastrose, poiché, quando diventa necessario per mantenere la sicurezza pubblica recuperare l’esercizio di un diritto cui si era rinunciato, il tentativo di riappropriarsi del potere legittimo sarebbe mal visto dal popolo, pronto ad interpretare lo sforzo del sovrano come un tentativo di usurpazione. Questo motivo di crisi è associato alla falsa credenza del sovrano, per cui è necessario rinunciare a qualche diritto per farsi benvolere dal popolo. Ciò che Hobbes vuole mettere in luce in questo caso è un grave errore di valutazione da parte del sovrano, che, rinunciando ad una parte dei suoi diritti, perde il possesso dei mezzi necessari per procurare sicurezza ai cittadini e garantire pace allo Stato. È un sovrano che non riesce più a gestire lo Stato, perché ha irrimediabilmente perso il controllo della situazione, mentre il suo compito consiste nel mantenere quei diritti per intero72.

Tutte le prerogative sovrane sono inalienabili e indivisibili; ciò significa che non possono essere né trasferite né divise poiché sono direttamente connesse al fine dell’istituzione statale, la pace e la sicurezza. Nel capitolo XVIII del Leviatano Hobbes

                                                                                                               

71 L., II, cap. XXIX, §3, p. 523.

72 Su questo punto, un passo del Leviatano è fondamentale: «Infatti, chi abbandona i mezzi abbandona i fini e abbandona i mezzi chi, essendo sovrano, riconosce di essere soggetto alle leggi civili e rinuncia al potere della giudicatura suprema, al potere di fare la guerra o la pace con la propria autorità, a quello di giudicare che cosa è necessario per lo stato, a quello di prelevare denaro e soldati quando e per quanto la sua coscienza lo riterrà necessario, a quello di nominare ufficiali e ministri sia di pace che di guerra e a quello di incaricare degli insegnanti di esaminare quali dottrine siano conformi o contrarie alla difesa, alla pace e al bene del popolo» (L., II, cap. XXX, §3, p. 545).

(25)

si sofferma sui diritti dei sovrani per istituzione, insistendo su due punti: questi diritti costituiscono l’essenza della sovranità e sono indivisibili73. È sulla base di queste due caratteristiche che vale il principio per cui “un regno in sé diviso non può sussistere”74. Per Hobbes questo principio è talmente manifesto che l’esempio richiamato è proprio quello della guerra civile inglese:

Se prima non ci fosse stata l’opinione, accettata dalla maggioranza dell’Inghilterra, che questi poteri dovessero essere divisi fra il re, i Lords e la Camera dei Comuni, il popolo non si sarebbe mai diviso e non sarebbe caduto in questa guerra civile, prima fra quelli in disaccordo in politica e poi fra dissenzienti a proposito della libertà di religione75.

In questo passo Hobbes individua l’origine del processo che ha condotto l’Inghilterra alle soglie della guerra civile nella divisione dei poteri o, specularmente, nell’assenza di un potere sovrano assoluto.

Si è già notato, ragionando delle opinioni sediziose, che Hobbes condanna la dottrina della divisione del potere all’interno di uno Stato, per cui il sovrano trasferisce alcuni fra i suoi poteri a vantaggio di un terzo. È questo il caso del cosiddetto ‘governo misto’, ovvero il caso in cui si formino più anime all’interno del governo civile76. Dal punto di vista hobbesiano, il governo misto ingenera una situazione di pericolo e di crisi per lo Stato, che subisce una suddivisione in fazioni, dietro l’etichetta di “monarchia                                                                                                                

73 Cfr. L., cap. XVIII, §16, p. 299. Gli esempi proposti da Hobbes sono diversi: «Se però egli (il sovrano,

ndr) trasferisce la milizia, trattiene invano l’amministrazione della giustizia, per mancanza di esecuzione

delle leggi; se cede il potere di raccogliere il denaro, la milizia diventa vana o se dà via il governo sulle dottrine, gli uomini si spaventeranno e si ribelleranno per la paura degli spiriti».

74 Ibidem.

75 L., II, cap. XVIII, §16, p. 299.

76 L., II, cap. XXIX, §16, p. 537: «Anche nel governo esclusivamente civile c’è, a volte, più di una sola anima, come quando il potere di prelevare il denaro (che è la facoltà nutritiva) dipende da un’assemblea generale, il potere di dirigere e comandare (che è la facoltà motrice) da un uomo e il potere di fare le leggi (che è la facoltà razionale) dal consenso accidentale non solo di quei due, ma anche di un terzo».

(26)

mista”77. È per il motivo di disgregazione e di frammentazione dello Stato che la riflessione sul governo misto trova spazio nel capitolo del Leviatano dedicato alla dissoluzione.

L’idea di realizzare un governo misto si origina e si alimenta da un atteggiamento apertamente critico nei confronti del potere assoluto. L’aggettivo ‘misto’ viene utilizzato da Hobbes come contrario di ‘assoluto’. Come espone il filosofo di Malmesbury negli Elementi di legge:

Altri per evitare la dura condizione, come essi la considerano, della sudditanza assoluta (che in odio ad essa chiamano anche schiavitù), hanno escogitato un governo che essi considerano misto di tre specie di sovranità. Ad esempio, essi suppongono il potere di fare le leggi attribuito ad una qualche assemblea democratica, il potere di giudicare a qualche altra assemblea, e il curare che vengano eseguite le leggi ad una terza, o a un qualche uomo; e questa politica la chiamano monarchia mista, o aristocrazia mista, o democrazia mista, a seconda che una delle tre specie predomini in modo più visibile78.

In questo passo, si propone uno dei modi possibili di dividere i poteri all’interno di uno Stato. Tuttavia, nella prospettiva hobbesiana, è la stessa supposizione di poter alleggerire la condizione di soggezione dei cittadini al potere sovrano ad essere mal posta. Hobbes prosegue nel suo ragionamento:

                                                                                                               

77 Ibidem: «Infatti, anche se pochi percepiscono che questo genere di governo non è un governo, ma una divisione dello stato in tre fazioni e lo chiamano monarchia mista, tuttavia la verità è che non è uno Stato indipendente, ma tre fazioni indipendenti e non c’è una persona rappresentativa, ma ce ne sono tre». In questo passo, si rende manifesto che sostenere la realizzazione di un governo misto significa sostenere la divisione dei poteri all’interno di un solo Stato, e, dunque, l’inevitabile frammentazione.

(27)

L’alleggerimento quindi di questa soggezione deve consistere nel disaccordo di coloro tra i quali siano stati distribuiti i diritti del potere sovrano. Ma il disaccordo stesso è guerra. Quindi la divisione della sovranità, o non opera effetto, quanto all’eliminazione della semplice soggezione, o introduce la guerra79.

Il tentativo di limitare il potere assoluto, attraverso un alleggerimento della condizione di sudditanza, è destinato a fallire80. Non possono convivere due situazioni opposte: o c’è una condizione di massima soggezione e, di conseguenza, non può sussistere un governo misto, ma un potere assoluto, oppure c’è un governo misto e, conseguentemente, la massima divisione81. Il governo misto si qualifica, a tutti gli effetti, come uno stato di conflitto, che si origina necessariamente da un processo di divisione della sovranità. Nella prospettiva hobbesiana, il governo misto va condannato, nella misura in cui crea disaccordo e genera uno stato di guerra82.

È bene specificare che Hobbes distingue nettamente fra sovranità e amministrazione per cui, sebbene la prima non possa essere mista, la seconda può esserlo. Hobbes adduce l’esempio di Roma, per cui, nonostante la forma di governo fosse una democrazia, si potevano avere un consiglio aristocratico, il Senato, e un

                                                                                                               

79 Op. cit., pp. 173-174.

80 La condizione di sudditanza è considerata da Hobbes un danno minore rispetto al danno che potrebbe derivare allo Stato dall’assenza di un’autorità assoluta. Cfr. L., II, cap. XVIII, §20, pp. 301-303: «Qui però qualcuno potrebbe obiettare che la condizione dei sudditi è molto miserabile, dato che essi sono in balia delle brame e delle altre passioni sregolate di colui o di coloro che hanno in mano un potere così illimitato. […] e [i sudditi, ndr] non considerano che lo stato nuovo non può mai essere privo di una scomodità o di un’altra e che la più grande scomodità, che in qualunque forma di governo può capitare al popolo in generale, è scarsamente percepibile se paragonata alle pene e alle orribili calamità che accompagnano una guerra civile».

81 Su questo punto ha insistito in modo intelligente R. ESPOSITO, Ordine e conflitto in Machiavelli e

Hobbes, in ID., Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano,

Liguori, Napoli 1984, p. 186.

82 Contro la prospettiva machiavelliana di tenere insieme ordine e conflitto, Hobbes li separa nettamente, ponendoli in alternativa: o c’è ordine o c’è conflitto. Anche su questo punto si veda R. ESPOSITO, op.

(28)

monarca subordinato, come il dittatore o i generali in tempo di guerra83. In altre parole, è possibile istituire cariche o consigli predisposti all’adempimento di alcune funzioni, a patto che siano dipendenti da colui o da coloro che detengono il potere supremo. Nel caso di Roma, a fronte dell’esistenza di una pluralità di istituzioni, è l’assemblea democratica a detenere il potere sovrano. Di conseguenza, la sovranità è concentrata nelle sue mani e non viene spezzettata nelle molteplici istituzioni. Secondo Hobbes, diviene fondamentale evitare di confondere la divisione amministrativa, che è lecita e non costituisce un fattore di dissoluzione, con la divisione della sovranità, che è indice e sinonimo di frammentazione dello Stato.

Nel terzo dialogo del Behemoth Hobbes dedica una certa attenzione al problema del governo misto, che chiama con il nome di mixarchy. In Inghilterra alcuni uomini, innamorati del governo misto84, erano indotti a elogiare un simile governo, utilizzando l’espressione “monarchia mista”, mentre in realtà si trovavano in una situazione di pura anarchia85. Alcuni uomini, ignorando i diritti della sovranità, erano contrari ad ogni forma di governo assoluta, che veniva etichettata in termini dispregiativi come tirannide:

Essi sognavano di un potere misto appartenente al re e alle due Camere. Che questo fosse un potere diviso, incompatibile con la pace, era al di sopra delle loro possibilità di comprensione86.

                                                                                                               

83 Così viene definita da Hobbes la situazione politica dei Romani: «Infatti, si supponga che il potere sovrano sia una democrazia, come fu talvolta in Roma: tuttavia al medesimo tempo si poteva avere un consiglio aristocratico, com’era il senato; e contemporaneamente si poteva avere un monarca subordinato, come era il dittatore, che aveva per un certo periodo l’esercizio dell’intera sovranità, e come sono tutti i generali in guerra» (Elementi, I, cap. I, §17, p. 174).

84 Behemoth, III, p. 136. 85 Ibidem.

Riferimenti

Documenti correlati

Uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accordano e convengono, ognuno con ognuno, che, a qualunque uomo o assemblea di uomini sarà dato dalla maggior parte il

Per valutare l’effettiva accessibilità del sito presentato nei paragrafi precedenti, abbiamo coinvolto le associazioni podistiche e palestre, contattate anche per il

aziEndE ChE hanno SoSpESo attività lavorativE pEr EffEtto di aCCordi Con utilizzo fEriE arrEtratE E iStituti CCnl. - Pesaro: Abbiamo contrattato protocolli e rallentamenti e in

Conduzione ('on salariati elo comparte(!, Conduzione a colon'ia parziaria appoderata Altra forma di

La ripartizione territoriale dei dati conferma che la distribuzione si concentra nelle regioni settentrionali; infatti, solo il 35,2 per cento dei prodotti fungicidi viene immesso

Diversamente dagli altri fitosanitari, la distribuzione dei prodotti vari relativa al 2002 risulta più elevata nelle regioni meridionali ove viene immesso al consumo il 47,4 per

una rete ad anello, oppure una rete a stella con un concentratore che provvede alla ripetizione delle trame a tutte le stazioni?. [

Tra i sistemi di protezione sui carrelli elevatori si posso- no adottare, tenendo anche conto delle caratteristiche del ciclo di lavoro svolto, sia dispositivi antiribaltamen-