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CAPITOLO II
NORME IMPERATIVE E CONCORRENZA SLEALE
1- IL BENE GIURIDICO PROTETTO DALL’ART. 2598 N°3
2- L’INCIDENZA DELL’INTERESSE PUBBLICO NELLA DISCIPLINA
DELLA CONCORRENZA SLEALE
3- GLI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
4- IRRILEVANZA DELLA VIOLAZIONE DELLA NORMA
PUBBLICISTICA NELL’ILLECITO CONCORRENZIALE
5- NORME ATTINENTI ALLA ORGANIZZAZIONE INTERNA
DELL’IMPRESA: IRRILEVANZA DELLA LORO VIOLAZIONE AI FINI DELLA CONCORRENZA SLEALE – ORIENTAMENTI
GIURISPRUDENZIALI
6- TEORIA DEL NESSO CAUSALE: IL COLLEGAMENTO TRA NORMA
IMPERATIVA E CONCORRENZA SLEALE
1- IL BENE GIURIDICO PROTETTO DALL’ART. 2598
N°3
In dottrina(
1) ha avuto seguito la teoria che vedeva nella
disciplina della concorrenza sleale uno strumento per riconoscere
all’imprenditore la titolarità di un diritto soggettivo ad operare in
un clima concorrenziale di lealtà, trovando fondamento nella
previsione sanzionatoria contenuta nell’articolo 2599 c.c. dove si
legittima l’imprenditore ad attivare l’inibitoria senza aver cura
del soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale, né tantomeno
dell’esistenza di un danno attuale.
1
27
La tutela di tipo inibitorio oggetto di previsione dell’articolo
2599(
2), venendo accordata indipendentemente dalla prova della
colpa e senza la necessità di fornire la prova di un danno effettivo
ed attuale (trattasi, quindi, di tutela accordata su basi oggettive),
porterebbe a riconoscere a coloro che esercitano una attività
imprenditoriale, la titolarità di un vero e proprio diritto
soggettivo dell’imprenditore alla lealtà della concorrenza(trattasi
di un diritto assoluto della personalità indisponibile, di cui
l’imprenditore non potrebbe, appunto, validamente disporne
ovvero consentire ad altri il compimento di atti di concorrenza
sleale contra se).
Questa teoria supera, così, le resistenze di quanti (
3) vedono
nell’illecito concorrenziale una norma che sanziona la violazione
di doveri extra giuridici(senza riconoscere, agli imprenditori, la
titolarità di diritti soggettivi); la violazione di doveri extra
giuridici porterebbe il soggetto leso a poter disporre di azioni e
2L’articolo 2599 c.c. stabilisce infatti che “ la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale, ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni
provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”
3
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diritti contro l’autore dell’atto di concorrenza sleale(e quindi ad
attivare il meccanismo sanzionatorio previsto dal legislatore).
L’articolo 2598 c.c. si limiterebbe, così, ad imporre a tutti i
concorrenti il dovere assoluto di astenersi dal compimento di atti
sleali. E se da un lato, questo dovere si caratterizza come limite
della preesistente libertà di iniziativa economica privata di tutti i
soggetti interessati dal rapporto concorrenziale, dall’altro agisce
anche come garanzia per l’imprenditore di poter operare in un
contesto in cui ciascun attore si impegna a competere lealmente.
La tesi che ravvisa nella disciplina della concorrenza sleale la
tutela di un diritto soggettivo assoluto deve comunque far ricorso
a parametri extra giuridici (attraverso la clausola generale
dell’art. 2598 n° 3 che fa riferimento ai principi di correttezza
professionale) per disporre di uno strumento che permetta di
risolvere il conflitto che si instaura tra i diritti soggettivi di
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Questa tesi, inoltre, non offre una soluzione al problema della
rilevanza
concorrenziale
della
violazione
di
norme
pubblicistiche, dato che queste ultime, a differenza della
disciplina della concorrenza sleale (che offre la titolarità di un
diritto soggettivo), sono poste a tutela di interessi generali (come
quelle che hanno ad oggetto la tutela della salute pubblica, della
pubblica sicurezza, della tutela dell’ambiente) e quindi
l’imprenditore, nel caso in cui vengono violate, non può agire
(per la tutela della propria situazione giuridica) dinanzi al giudice
civile. L’incomunicabilità tra le due categorie di norme
(concorrenza sleale e norme pubblicistiche) deriva dall’essere
loro estranea qualsiasi ratio di tutela della lealtà della
concorrenza.
Sul terreno della teoria generale dell’illecito concorrenziale,
successivamente, si è arrivati ad una lettura sistematica
dell’istituto della concorrenza sleale, attraverso il collegamento
sia con il precetto dell’articolo 41 della Costituzione (precetto
30
posto a tutela della libertà di iniziativa economica privata) che
con quello dell’articolo 2595 c.c. (il quale sancisce che la
concorrenza deve svolgersi nei limiti stabiliti dalla legge).
Nell’analisi della slealtà della concorrenza, si è fatto ricorso ai
criteri di contemperamento di interessi contrapposti derivati dalla
carta costituzionale, come fonti delle regole della concorrenza
leale, e ciò per poter disporre di un metro di giudizio sulla lealtà
della concorrenza che non fosse rimesso del tutto alle scelte
discrezionali dei giudici.
Dall’importante lavoro esegetico delle corti di giustizia, emerge
una valutazione della correttezza che si basa non tanto sull’etica
comune o professionale, quanto sulla coerenza con il modello di
sistema economico ritenuto più conforme all’ordinamento
giuridico positivo(
4). La scorrettezza di un comportamento viene
fatta derivare dal contrasto dello stesso con i principi di natura
economica che si devono rispettare perché il sistema conservi se
4
MARCHETTI Il paradigma della correttezza professionale nella
31
stesso, mentre le leggi del mercato, valutate come basi
dell’attuale assetto economico, vengono considerate nodi centrali
per misurare la correttezza del concorrente.
Così, ad esempio, la Corte di Appello di Milano (decisione 3
luglio 1951)ha ritenuto lecito “ il fatto di un imprenditore di
procacciarsi licenza di sfruttamento di brevetto offrendo ai
titolari condizioni migliori e per questo inducendoli a revocare
precedenti licenze” sulla base della pregnante affermazione per
cui,” anche chi partecipa ad un’asta pubblica sa che la propria
miglior offerta nuocerà ad un altro concorrente, il mercato in
genere è niente più che un’immensa asta pubblica permanente.
Un atto conforme alla natura stessa del mercato non può, per se
stesso, essere disonesto”(
5)
Dalla lettura delle sentenze, emerge che momento essenziale
della motivazione delle sentenze non è un giudizio
morale(espresso ad opera del giudice che si fa interprete della
coscienza collettiva o dell’ambiente interessato) ma un giudizio
5
32
di rispondenza ad un modello economico ritenuto ottimale,
ovvero quello della libera concorrenza.
Quindi, nonostante ogni affermazione di principio circa il
contenuto dei principi di correttezza professionale, il principio
etico seguito sì da divenire costume, lascia il posto ai principi di
politica economica accolti dall’attuale sistema, mentre le
valutazioni etiche spesso nascondono un giudizio di convenienza
ed opportunità.(
6)
Anche dall’identificazione del principio di correttezza con la
buona fede oggettiva ex art. 1175 c.c. (
7), viene dato spazio alla
considerazione di interessi generali per esprimere giudizi sulla
concorrenza sleale.
6
ALVISI Concorrenza sleale, violazione di norme pubblicistiche,
responsabilità, che fa riferimento a MARCHETTI il paradigma della correttezza professionale nella giurisprudenza di un ventennio in Riv. Dir. Ind. 1966 , il quale osserva che l’equilibrio tra dover essere e dati del
costume che la giurisprudenza faticosamente enuncia, si dimostra precario ed è di frequente abbandonato nel momento in cui si giustifica la lealtà di un comportamento in base agli interessi economici di fatto prevalenti ovvero, all’opposto, se ne sancisce la scorrettezza in quanto incoerente ed inadeguato al modello economico giudicato ottimo
7
33
Verrebbe così tutelato l’affidamento di ogni imprenditore a che i
concorrenti osservino, nei suoi confronti, determinate regole di
condotta. Tra i comportamenti la cui osservanza diverrebbe
oggetto di affidamento tutelato in base all’art. 2598 n° 3 c.c.,
dovrebbero essere considerati anche quelli che discendono da
norme di diritto pubblico, conclusione che trova origine dal
coordinamento dell’art. 2598 c.c. con l’art. 2595 c.c..
L’art. 2595 c.c., pur essendo caduto l’ordinamento corporativo,
mantiene efficacia normativa nella parte in cui stabilisce che la
concorrenza deve svolgersi nei limiti stabiliti dalla legge. L’art.
2595 c.c. verrebbe così a collegare la disciplina della concorrenza
con tutte le norme pubblicistiche dirette a regolarla, dando
rilevanza ai doveri pubblicistici in materia di concorrenza anche
nei rapporti tra privati (
8)
8
34
2
“L’INCIDENZA DELL’INTERESSE PUBBLICO NELLA
DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE”
La disciplina della concorrenza sleale si applica agli atti che sono
compiuti
a
scopo
di
concorrenza.
Anche
nel
caso
dell’inosservanza di norme di diritto pubblico, si può parlare di
concorrenza professionalmente scorretta quando la violazione di
precetti imperativi porti, anche indirettamente, ad acquisire un
vantaggio concorrenziale (e quindi un vantaggio economico).
Perché un atto possa essere considerato di tipo concorrenziale, è
necessario che il comportamento inosservante le norme
imperative sia tenuto nel mentre viene svolta una attività
economica in concorrenza, cosa che permette di arrivare alla
distinzione tra illecito amministrativo o illecito penale, dalla
concorrenza sleale per violazione di norme imperative(
9).
9
ALVISI Concorrenza sleale violazione di norme pubblicistiche e
responsabilità l’autrice afferma che “il discrimen tra illecito amministrativo o penale e concorrenza sleale per violazione di norme pubblicistiche consisterebbe, dunque, in un fattore obiettivo, una sorta di nesso di occasionalità necessaria intercorrente tra illecito (pubblicistico) e competizione
35
Perché dunque si possa affermare che la violazione di norme di
diritto pubblico costituisca atto di concorrenza sleale, occorre
anzitutto verificare se questa violazione possa comportare un
pericolo sull’altrui azienda concorrente, ed inoltre vedere se la
violazione del precetto imperativo sia valutabile come
professionalmente scorretta (
10).
Per quanto riguarda la norma violata, occorre far riferimento alla
tradizionale distinzione tra concorrenza illecita e concorrenza
sleale.
Si definisce illecita la concorrenza realizzata violando le norme
di diritto pubblico che regolamentano l’accesso al mercato( come
ad esempio quando viene esercitata attività commerciale senza la
prescritta licenza, oppure nel caso dello svolgimento di pubblici
10
ALVISI op. cit. l’autrice afferma che “ vi è dunque un nesso
qualificato….. che opera come criterio di attribuzione dell’illecito concorrenziale( e del pericolo occasionato dall’evasione di divieti ed obblighi connessi all’esercizio dell’impresa), autonomo e distinto dagli schemi attributivi dell’iniuria (rinvenibili nella fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c. come nella fattispecie di cui all’art. 2600 c.c. ed in quelle, autonome e specifiche, di cui agli articoli 2046 c.c.). Dal quale la giurisprudenza ha di sovente argomentato l’irrilevanza, ai fini concorrenziali, dell’illecito pubblicistico da violazione di norme inerenti all’organizzazione interna dell’impresa per ritenere civilmente responsabile l’imprenditore inosservante delle sole norme regolatrici e limitatrici dell’attività di concorrenza.
36
servizi in difetto di concessione ovvero oltre i limiti stabiliti da
quest’ultima).
La giurisprudenza valuta la concorrenza illecita al pari del fatto
illecito dannoso (fatto lesivo del diritto soggettivo assoluto del
soggetto passivo) e l’agente viene considerato responsabile solo
in presenza di un danno ingiusto ex art. 2043 c.c..
Pertanto la concorrenza sarebbe illecita in quanto vietata nella
sua esistenza, mentre sarebbe sleale quando realizzata attraverso
modalità scorrette.
La giurisprudenza, peraltro, al fine di salvaguardare la libertà di
fare impresa ha negato che la violazione di norme di diritto
pubblico, inerenti all’organizzazione interna dell’impresa, avesse
una qualche incidenza nella qualificazione di scorrettezza delle
modalità dell’attività concorrenziale.
Tra le norme inerenti all’organizzazione interna dell’impresa, la
giurisprudenza normalmente ricomprende quelle la cui
37
e di oneri. Rispetto a queste ultime, si distingue tra
l’inosservanza in sé considerata e quella prodotta da un risparmio
di spesa strumentale a scelte organizzative con rilievo esterno
(quali ad esempio il ribasso di prezzi), e si ammette che il
sindacato giudiziale possa avere ad oggetto le conseguenze della
violazione quando direttamente incidenti sul modo di fare
concorrenza(
11).
Per quanto riguarda la questione del riconoscimento della
giurisdizione del giudice civile, su fatti di concorrenza sleale
realizzati a seguito della violazione di norme di diritto pubblico,
11
VANZETTI DI CATALDO, manuale diritto ind. Ult. Edizione. Gli autori applicano alla categoria delle norme di organizzazione interna dell’impresa , la tripartizione che distingue tra norme che impongono costi, norme che impongono oneri e norme che impongono limiti alla concorrenza, ed osservano che la violazione di norme che impongono costi può diventare fonte indiretta di danno concorrenziale ove venga sfruttata dall’imprenditore per attuare modalità di concorrenza, ad esempio attraverso una riduzione di prezzi, cui i concorrenti che non violano la legge, e perciò hanno costi superiori, non possono far fronte. A questa distinzione presta attenzione la giurisprudenza che accoglie la tesi del nesso di causalità, onde la violazione di norme pubblicistiche si considera irrilevante ai fini concorrenziali, salvo che essa risulti in concreto nell’atto stesso di concorrenza , ovvero sia utilizzata quale mezzo al fine di incidere sulla situazione concorrenziale alterandola.
38
le S.U. della Suprema Corte (
12) hanno risolto in senso favorevole
la questione.
La Cassazione, nell’occasione, ha stabilito che il difetto di
giurisdizione del giudice civile andasse affermato quando
l’iniziativa dinanzi a questi venisse promossa deducendo la sola
inosservanza,
da
parte
del
concorrente,
delle
norme
pubblicistiche; laddove invece la denuncia avesse ad oggetto la
violazione di norme imperative, che, considerate nel quadro di
una più complessa attività di illecita concorrenza, andassero ad
incidere direttamente nella sfera patrimoniale dell’imprenditore
concorrente (danneggiandogli l’azienda) la giurisdizione del
giudice civile andrebbe riconosciuta (
13).
12
Cass. S.U. 582/1976 in Giur. Amm. Dir. Ind. 1976
13
La Suprema Corte ritiene che la giurisdizione del giudice civile sia da ammettersi quando l’attore “invece di limitarsi alla mera denuncia di un
fatto lesivo di norme imperative(penali, fiscali, amministrative)questo fatto descrive e di esso si duole come elemento di una più complessa attività di illecita concorrenza che, attraverso un malizioso ed artificiale squilibrio delle condizioni di mercato, si riflette direttamente nella sua sfera patrimoniale, danneggiandone l’azienda…In questo caso non si tratta di valutare la trasgressione di una norma di diritto pubblico, in sé considerata e agli effetti suoi propri; si tratta piuttosto di accertare se, con tale infrazione ,per il modo e le circostanze in cui l’attività del concorrente viene posta in essere, o per il più ampio disegno in cui essa va inquadrata, o per quanto altro emerga dai fatti dedotti dall’attore e sottoposti al giudice,
39
3-“GLI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
”I casi analizzati dalla giurisprudenza riguardanti la violazione di
norme imperative di tipo penale o amministrativo hanno portato a
dare risposte differenti al quesito se quelle stesse violazioni
integrassero o meno anche un illecito concorrenziale.
Di
seguito
vengono
riportati
i
principali
indirizzi
giurisprudenziali(
14)che si sono formati in merito
.
si ponga in essere e, comunque, coesista una lesione del diritto soggettivo privato nascente dal divieto di concorrenza sleale di cui all’articolo 2598 n°3 c.c….Posto, dunque, che in casi del genere, e alla stregua della disciplina legale della materia, la situazione giuridica sostanziale posta a fondamento dell’azionata pretesa è “astrattamente” configurabile come diritto soggettivo perfetto, il giudice ordinario, per accertare se il vantato diritto esiste o non” in concreto”, ha il dovere di pronunciare nel merito, accogliendo o rigettando la domanda, ma non può dichiararla inammissibile negando la giurisdizione che a lui e a non altri spetta”. La
suprema corte, in sede di regolamento di giurisdizione, distingue così la semplice denuncia della violazione di norme di diritto pubblico (in quanto tale sottratta alla cognizione del giudice civile) dalla denuncia di una più complessa attività di illecita concorrenza che alteri l’equilibrio delle condizioni di mercato, onde la violazione di norme di diritto pubblico concorre a determinare o comunque coesiste con la lesione del diritto soggettivo privato del concorrente(nascente dal divieto di cui all’articolo 2598 n° 3 c.c. e rispetto al quale si riconosce la giurisdizione del giudice civile).
14
Nella ricostruzione fatta da ALVISI “concorrenza sleale, violazione di
40
4- “IRRILEVANZA DELLA VIOLAZIONE DELLA
NORMA PUBBLICISTICA NELL’ILLECITO
CONCORRENZIALE”
Secondo
questo
indirizzo,
la
violazione
delle
norme
pubblicistiche di natura penale o amministrativa non può
integrare mai anche un illecito concorrenziale, posto che diversa
è la natura degli interessi protetti dai due ordini di norme(
15).
Infatti mentre la concorrenza sleale è vista come istituto che
accorda tutela al diritto soggettivo perfetto (dell’imprenditore)
all’altrui correttezza professionale, nelle norme pubblicistiche di
tipo penale o amministrativo si ravvisa unicamente la tutela di un
interesse pubblico(
16).
15
Su tutte App. Roma 1990 in Giur.Ann.Dir.Ind. in massima: “Sebbene in un economia di mercato la concorrenza debba svolgersi nel rispetto sia delle norme di diritto pubblico dirette a tutelare interessi generali, sia delle regole fissate da norme privatistiche, dettate nell’interesse diretto degli imprenditori concorrenti(art. 2598 c.c.), data la diversità degli interessi protetti dalle due richiamate categorie di disposizioni, i comportamenti lesivi del primo tipo di norme non integrano di per se stessi, atti di concorrenza sleale reprimibili sul piano privatistico”.
16
ALVISI op.cit. indica alcuni autori che esprimono questa valutazione, tra cui MESSINA Infrazioni penali, scorrettezze professionali, concorrenza
sleale in Giur. Compl.Cass.Civ. 1947, dove si afferma che si distinguono “ i
doveri che il diritto impone al commerciante professionalmente corretto a seconda che dipendano da interessi comuni, che riguardano l’ordinamento generale del commercio o da interessi particolari che riguardano l’attività specifica di una determinata azienda”. Si esclude così che l’inosservanza dei primi, quand’anche idonea a turbare l’equilibrio concorrenziale a vantaggio del trasgressore che ne trae facilitazioni per la propria attività, costituisca atto scorretto. Il motivo è che in tali norme si ravvisa la fonte di doveri
41
L’inidoneità della violazione di norme pubblicistiche ad integrare
concorrenza sleale, viene affermata chiaramente nella sentenza
del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 1962(
17), con
riguardo alla inosservanza di prescrizioni amministrative poste a
presidio di finalità igienico – produttive. I giudici di primo grado
esclusero che la violazione di prescrizioni di questo tipo potesse
essere considerata anche come illecito civilmente sanzionato. In
questa pronuncia, inoltre, venne stabilito il principio per cui le
norme pubblicistiche, imposte all’osservanza dell’imprenditore,
vanno distinte in norme che condizionano l’ingresso nella
competizione concorrenziale(le quali non hanno rilevanza per
valutare la correttezza di un comportamento concorrenziale) e
norme che incidono sulle modalità della competizione.
Tra queste ultime non vennero ricomprese le norme penali,
fiscali, amministrative, quando non dirette alla tutela di un
istituiti “unicamente per un pubblico interesse; (i quali) non fanno sorgere alcun diritto soggettivo a favore di chi, sul piano della concorrenza commerciale, soffre gli effetti dello squilibrio derivante dalla loro inosservanza
17
42
interesse di tipo privato, per arrivare a concludere che
l’osservanza dei principi di correttezza professionale non include
necessariamente l’osservanza di tutte le norme imperative che un
imprenditore deve osservare nell’esercizio della propria
attività(
18).
Altro orientamento giurisprudenziale, affermatosi nel solco
dell’irrilevanza
della
norma
pubblicistica
nell’illecito
concorrenziale, è quello che attribuisce rilievo all’atto di
concorrenza senza dare importanza all’atto preparatorio ancorché
illecito, il quale pertanto non si propagherebbe a quello
18
Il tribunale escluse che il fatto sottoposto al suo esame potesse integrare gli estremi dell’illecito concorrenziale, in quanto “ per la ricerca, nel caso concreto, di atti da definire contrari alla correttezza professionale occorre fare richiamo al principio etico universalmente seguito dalla categoria dei commercianti si da diventare costume. L’art. 2598 c.c. riproduce nella sostanza, nella ipotesi considerata, l’art. 10 bis della Convenzione Internazionale di Parigi, riveduta all’Aja, resa esecutiva con R.D. 10m Gennaio 1926 n. 169…Tale norma fa riferimento agli usi onesti in materia commerciale ed è proprio ad essa che occorre far riferimento per interpretare il mezzo dei principi di correttezza professionale. Usi onesti costituiscono i metodi abituali e non lesivi degli altrui interessi che praticano i commercianti leali….” Si escluse, invece, che l’illecito amministrativo potesse concretare “dal punto di vista privatistico,…..un’attività strumentale idonea a danneggiare l’altrui azienda e tanto meno scorretta dal punto di vista professionale…E’ principio costante che la violazione di norme fiscali, penali, amministrative, dirette quindi alla tutela di pubblici interessi e che normalmente non tutelano l’interesse del singolo considerato come tale, non costituisce di per se stesso elemento sufficiente a caratterizzare l’atto di concorrenza sleale, a meno che non risulti contraria ai principi di correttezza professionale, concetto che non include necessariamente l’osservanza di tutte le norme imperative che un imprenditore deve osservare nell’esercizio della propria attività….”
43
successivo. Così, ad esempio, la violazione di norme
pubblicistiche che consenta un risparmio di costi, permettendo
poi di praticare sul mercato un ribasso di prezzi con conseguente
sviamento di clientela, non avrebbe incidenza sul comportamento
concorrenziale. (
19)
5-NORME ATTINENTI ALL’ORGANIZZAZIONE INTERNA
DELL’IMPRESA: IRRILEVANZA DELLA LORO VIOLAZIONE AI
FINI DI CONCORRENZA SLEALE – ORIENTAMENTI
GIURISPRUDENZIALI
Dato che l’articolo 2598 n°3 c.c. è posto a presidio dell’interesse
dell’imprenditore ad una competizione corretta, è possibile
valutare la correttezza di certi comportamenti concorrenziali
19
Graziani “Importazione in zona di esclusiva”, L’autore osserva che il comportamento concorrenziale di per se lecito, come nel caso delle importazioni libere in zona di esclusiva, rimane tale anche se reso possibile da un atto di per se scorretto o illecito. L’Autore considera irrilevanti, al fine di caratterizzare come sleale l’atto di concorrenza, la violazione di norme amministrative o doganali. L’illiceità dell’atto preparatorio non può propagarsi all’atto successivo di per se lecito. Diversamente, nell’ambito della teoria del nesso di causalità, l’acquisizione di un vantaggio competitivo conseguente alla violazione di norme pubblicistiche, e lo sfruttamento di questo, porta a qualificare come scorretto l’atto di concorrenza realizzato.
44
inosservanti quelle norme pubblicistiche che stabiliscono come si
deve competere (
20).
Tuttavia dal novero di queste ultime dovrebbero venir escluse
quelle norme pubblicistiche di natura penale, amministrativa e
fiscale, che incidono sulla organizzazione interna dell’impresa e
non invece sulle modalità di fare concorrenza.
Distinguendo le norme che fanno riferimento all’organizzazione
interna dell’impresa in norme che impongono costi, norme che
impongono oneri e norme che impongono limiti alla concorrenza
(
21), in giurisprudenza inizialmente si è concluso per l’irrilevanza
concorrenziale della violazione di tutte e tre le categorie di
norme.
20
Cass. 1868/1958, Con riguardo all’evasione di norme fiscali aveva stabilito il principio per cui “la conformità ai principi di correttezza professionale non include necessariamente l’osservanza di tutte le norme imperative che l’imprenditore deve osservare nell’esercizio della propria attività.
21
La tripartizione è opera di Vanzetti- Di Cataldo manuale di diritto industriale ult. Ed. tripartizione che ha dato seguito all’orientamento giurisprudenziale della cosiddetta tesi del nesso di causalità
45
Dall’esame
della
giurisprudenza(
22),
si
evince
che
dall’inosservanza di norme fiscali, doganali e penali
l’imprenditore può conseguire un immediato risparmio di costi
da sfruttare acquisendo un vantaggio concorrenziale, mentre
invece da quella inosservanza non deriverebbe immediatamente
un danno al concorrente (
23)
6– TEORIA DEL NESSO CAUSALE: IL
COLLEGAMENTO TRA NORMA IMPERATIVA E
CONCORRENZA SLEALE
L’orientamento prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza,
è quello che vede realizzato l’illecito concorrenziale quando la
violazione di norme pubblicistiche si realizzi nell’atto stesso di
concorrenza sleale, ovverosia quando l’atto illecito sia causa
diretta ed immediata di un danno concorrenziale per l’altrui
azienda.
22
Nella ricostruzione di ALVISI op. cit.
23
Trib. Bologna 1983 esclude che il conseguimento del vantaggio concorrenziale possa essere apprezzato, insieme alla violazione che l’ha consentito, come atto di concorrenza sleale
46
Partendo dal presupposto che le norme pubblicistiche proteggono
interessi pubblici, si afferma che l’inosservanza di queste
norme(pur essendo antigiuridica la condotta) non costituisca atto
di concorrenza sleale, e che ad esse è estranea la tutela della
lealtà della concorrenza.
Non si esclude però che, laddove sussistano gli elementi previsti
dall’art. 2598 c.c., un atto compiuto in violazione della disciplina
pubblicistica possa costituire anche concorrenza sleale(
24).
Occorre verificare, pertanto, se determinati comportamenti
concorrenziali pur se leciti( come il ribasso di prezzi) laddove
resi possibili grazie alla violazione di norme pubblicistiche,
24
GRECO, Concorrenza sleale e violazione di marchio nel commercio degli
orologi “omega” , in Riv.dir.ind. 1953, in ancora sulla concorrenza sleale per violazione di esclusiva di vendita, da ALVISI op.cit.; aderendo
all’indirizzo intermedio, esposto nel testo, afferma che atto di concorrenza sleale non è né il reato di contrabbando in sé, né il fatto di acquisire scientemente oggetti importati in contrabbando, ma “ bensì il ribasso del prezzo praticato approfittando di quel reato o di quel fatto.”. Questa regola per l’autore dovrebbe applicarsi anche per ogni altra inosservanza di norme fiscali o che impongono oneri, retributivi, previdenziali o assistenziali. L’autore ricorre al concetto di nesso di causalità, cui poi altri si riferiranno: la violazione di norme di diritto pubblico non costituisce di per sé atto di concorrenza sleale, ma se attraverso essa è possibile per il trasgressore praticare prezzi più bassi, la situazione di favore in cui egli viene a trovarsi rispetto ai concorrenti è sufficiente per far ritenere tale atto (il ribasso dei prezzi) come atto di concorrenza sleale.
47
possano per questa ragione essere qualificati anche come atti di
concorrenza sleale.
Dalle pronunce giurisprudenziali emerge tuttavia che, perché
l’illecito concorrenziale possa dirsi integrato, oltre alla violazione
di norme imperative occorre apprezzare anche la scorrettezza
della condotta, per la modalità e gli scopi con cui è attuata.
In alcune pronunce(
25) emerge la necessità di superare la formula
considerata per cui la violazione di norme pubblicistiche è
irrilevante ai sensi dell’art. 2598 c.c., salvo che venga usata quale
mezzo al fine ed incida direttamente sulla situazione
concorrenziale. Il Tribunale di Genova afferma, nell’occasione,
come sia insufficiente “al fine dell’individuazione del nesso di
causalità diretta tra violazione ed incidenza sulla libertà di
concorrenza”, l’accertamento del solo “aspetto soggettivo o
intenzionale della condotta illecita. Proprio perché il piano su cui
ci troviamo è diverso da quello penale o pubblicistico in genere,
non importa sapere se effettivamente nell’evadere l’IVA, il
25
48
commerciante abbia avuto l’intenzione o lo scopo di alterare
l’equilibrio del mercato a proprio favore”. Inoltre affermano non
rilevi qualsiasi collegamento tra la violazione della disciplina
pubblicistica dell’attività economica e la situazione ideale di
mercato (garantita dalla libertà della concorrenza) ma solo i
comportamenti in grado di incidere direttamente (senza alcuna
mediazione) sulla situazione ideale di mercato(
26).
La tesi del nesso di causalità viene accolta rispetto a controversie
aventi ad oggetto, prevalentemente, la violazione di norme
pubblicistiche concernenti l’organizzazione interna dell’impresa.
26
Nella ricostruzione della vicenda sub judice di ALVISI op. cit. Nel caso deciso viene valutata la vendita di whisky scozzese sotto la denominazione generica di whisky anziché di scotch whisky, come espediente esperito al fine di ottenere una minore aliquota iva. Il tribunale escluse la sussistenza di illecito concorrenziale; i giudici ritennero che, nella fattispecie considerata, l’elusione ai fini fiscali delle disposizioni concernenti la denominazione merceologica de prodotto, non fosse idonea ad incidere direttamente sulla situazione di mercato. Tale diretta ed immediata incidenza sulla situazione di concorrenza potrebbe ravvisarsi per il tribunale solo in due ipotesi: quando “un prodotto oggettivamente identico , per qualità, caratteristiche e provenienza a quello offerto dalla concorrenza” viene immesso sul mercato con l’espressa indicazione di tali sue caratteristiche che lo individuano agli occhi della clientela “ma ad un prezzo inferiore a quello praticato dai concorrenti”; ovvero “quando un prodotto – sicuramente e immediatamente riconoscibile dal consumatore di media esperienza e diligenza – venga messo in commercio ad un prezzo inferiore rispetto a quello corrente per quel prodotto, ma con indicazioni (circa la natura, l’origine e la qualità)lacunose, oppure esplicitamente svianti,”. In entrambe le ipotesi, infatti, “l’immediata riconoscibilità del prodotto consente di collegare direttamente l’alterazione della situazione concorrenziale alla condotta, in questo senso non solo illecita ma anche sleale del commerciante”.
49
Trattasi di norme che vanno ad incidere sui costi
dell’organizzazione imprenditoriale (come nelle ipotesi di
emissione di fattura nella vendita di beni merce), norme che
impongono oneri alle aziende(che possono venir disattesi, ad
esempio, nel caso di esercizio abusivo di attività) ed anche di
norme che impongono limiti all’esercizio delle attività di impresa
(e che se violate, come nelle ipotesi di apertura di esercizi
commerciali nei giorni vietati, si ritiene integrino atto di
concorrenza sleale); le disposizioni dirette a stabilire limiti alla
concorrenza, infatti, sembrano in grado sicuramente di incidere,
quando violate, sul modo di fare concorrenza.
Si arriva così ad ammettere l’operatività del nesso di causalità
quando la violazione di una norma di diritto pubblico incide
direttamente nel rapporto di concorrenza (
27).
27
App. Milano 1993 in nota ad ALVISI op.cit.. Con questa decisione viene ritenuta legittima la sentenza del tribunale di 1° circa l’insussistenza di un fatto di concorrenza sleale imputabile al concorrente, che si era aggiudicato un appalto pubblico in violazione del divieto di sub appalto a terzi, dei lavori di montaggio e di fabbricazione aggiudicati, sancito dalla legge. La corte ritenne di condividere la motivazione del tribunale, il quale aveva escluso che il nesso di causalità tra sub appalto vietato e aggiudicazione della fornitura potesse ritenersi in re ipsa, considerando necessaria, al
50
La violazione di norme di diritto pubblico può costituire anche
atto di concorrenza sleale, quando realizzata allo scopo di
acquisire un vantaggio concorrenziale. Questo indirizzo è stato
stabilito in Cass. 2149/1968(
28), che ha escluso costituisse atto di
concorrenza sleale la vendita di merce senza fattura (in evasione
dell’IGE)
“Gli atti d concorrenza sleale, infatti, sia che si tratti di
concorrenza diretta e specifica (contro un determinato
concorrente), sia che si tratti di concorrenza generica e indiretta
(reclame menzognera, false indicazioni di ribasso di prezzi,
ecc.)hanno pur sempre per oggetto l’esercizio dell’attività
commerciale in senso proprio, attengono cioè al modo di
scambio dei prodotti, ai fini di una maggiore acquisizione di
clientela. Allorché invece l’atto consista nella violazione di
norme fiscali poste a tutela di interessi pubblicistici ed in
funzione di questi ultimi represse e punite, il nesso tra tale atto
contrario, la prova positiva(non fornita dall’attore nel caso di specie) in ordine alla strumentalità della violazione del divieto all’offerta di condizioni più vantaggiose alla pubblica amministrazione.
28
51
illecito e la situazione concorrenziale è solo indiretto. La Corte
ha già affermato che la slealtà della concorrenza e la violazione
dei principi di correttezza professionale si devono avere
nell’attività concorrenziale dell’imprenditore, senza potersi
perciò compiere un’analisi così penetrante sui singoli elementi di
essa, fino a spingersi alla valutazione di tutto il complesso della
sua attività produttiva e di scambio per censurare la ricerca stessa
dei mezzi attuati dall’imprenditore, ove questa si sia ottenuta con
diretto o indiretto ricorso ad atti che violino norme dettate a
tutela di interessi pubblicistici, ha precisato anche che la
violazione di norme penali ed amministrative può cadere sotto la
disciplina della concorrenza sleale soltanto quando si verifichi
nell’atto stesso di concorrenza, ovvero sia usata quale mezzo per
tale fine ed incida direttamente sulla situazione concorrenziale, sì
da rendere l’atto illecito causa diretta ed immediata di una
situazione concorrenziale dannosa per l’azienda altrui(
29).
29
Vedi ALVISI op. cit. dove viene data rassegna, con riguardo alla concorrenza sleale per violazione di norme fiscali, dei vari indirizzi
52
Per quanto riguarda le norme amministrative che impongono, per
l’esercizio di una attività economica, l’ottenimento di un
provvedimento autorizzativo(licenze, autorizzazioni), numerose
sono le pronunce giurisprudenziali che negano la teoria del nesso
di causalità. In questi casi assume rilievo particolare il tipo di
norma, la cui violazione permette il conseguimento di un
risparmio di oneri (anziché di costi), e risulta quindi non in grado
giurisprudenziali fino ad arrivare a Cass.3948/1958, con cui viene fatta adesione alla teoria del nesso di causalità, per cui diviene rilevante la considerazione degli effetti resi possibili dalla violazione della normativa fiscale. Si afferma così che “la violazione di una norma penale o amministrativa non costituisce atto di concorrenza sleale a meno che non si dimostri che l’atto illecito sia la causa diretta ed immediata della situazione concorrenziale dannosa, ovvero che la violazione si verifichi nell’atto tesso di concorrenza in quanto rivolto direttamente al cliente. La vendita in evasione di norme doganali non si può ritenere atto di concorrenza sleale ove non provochi direttamente una situazione dannosa per il concorrente come l’indebita riduzione dei prezzi di mercato o addirittura l’eliminazione del concorrente dal mercato. I principi della correttezza professionale sono applicabili soltanto all’attività concorrenziale e non anche all’attività produttiva nel suo complesso”. Cass. 2149/1968 in Giur.It. 1968, considera il caso in cui l’evasione fiscale consenta al rivenditore di vendere remunerativamente al di sotto del prezzo imposto. Questo nesso finalistico è anzi l’elemento che, secondo la giurisprudenza ancorata alla teoria del nesso di causalità, può assurgere a circostanza qualificante, che vale a rendere sleale il fatto, di per sé privatisticamente lecito, della vendita sotto prezzo, e della violazione di norme fiscali. Tuttavia nel caso deciso, la corte di cassazione non ha ritenuto sufficiente ad integrare gli estremi della concorrenza sleale, il collegamento fra l’evasione di imposta ed il ribasso di prezzi, ma ,rinviando al giudice di merito, ha ritenuto necessario l’accertamento di un nesso più stretto fra violazione delle norme fiscali e situazione concorrenziale. Non si precisa peraltro di quale natura debba essere il nesso qualificante. In dottrina vedi Vanzetti-Di Cataldo Manuale diritto Industriale ult. Ed., dove si osserva che le norme fiscali rientrano nella categoria di quelle che impongono all’imprenditore dei costi la cui violazione . non consiste in sé in un atto di concorrenza. Se essa può infatti comportare un risparmio di spesa, e quindi un maggiore utile per chi la pratica, non vale però a determinare, di per se, un danno concorrenziale.
53
di alterare l’equilibrio concorrenziale del mercato (e quindi di
causare danni ai concorrenti)(
30).
30
Si riporta per conoscenza Cass. SU 582/1976 in ALVISI Op. cit, che prende in esame il caso di un cinematografo che proiettava abusivamente films normali contravvenendo alla licenza di esercizio che lo abilitava, invece, alla proiezione di cortometraggi. Questa attività era stata esercitata(nonostante le diffide dell’autorità di pubblica sicurezza)attraverso il ricorso ad espedienti quali il taglio di pellicole per stare nelle misure, la promozione del cinematografo attraverso messaggi pubblicitari che promettevano agli utenti un prodotto simile a quello offerto dagli altri cinematografi, l’offerta del più basso costo del biglietto di ingresso. A causa di questa illecita attività un cinematografo concorrente lamentava di aver subito un danno economico, a causa della conseguente diminuzione degli incassi. I parte così dalla premessa per cui “ nell’economia di mercato, e pur nel rispetto della libertà di iniziativa privata (ex art. 41 cost), la concorrenza deve svolgersi nei limiti stabiliti dalla legge (2595 c.c.). E questi limiti sono di due specie. Vi sono infatti norme di diritto pubblico (penali, fiscali, amministrative):cioè dirette a proteggere interessi dello stato o della generalità dei consociati, come quelle ad esempio che subordinano l’esercizio di talune imprese ad autorizzazioni o concessioni amministrative (2084 c.c.), per esigenze di capacità tecnica e a tutela dell’economia, dell’igiene, della pubblica incolumità, della buona fede dei consumatori ecc… E vi sono norme di diritto privato: cioè dettate nell’interesse esclusivo dei singoli soggetti, come quelle che stabiliscono in determinati casi il divieto di concorrenza (v. art. 2301,2390,2557 c.c.) e quelle che, in ogni caso, vietano gli atti di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.). Che a quest’ultima categoria sia da ricondurre ogni comportamento lesivo di norme del primo tipo, è cosa che non può senz’altro affermarsi: anzi, stando alla diversità dell’interesse tutelato dai due gruppi di norme, rispettivamente pubblico e privato, ciò, in linea di massima, è da escludere: nel senso, quanto meno, che non c’è automatica coincidenza….Ma proprio perché si tratta di una puntuale e quindi occasionale coincidenza, se ne deve dedurre che, a parte la segnalata possibilità, vige come regola il principio opposto. E la regola – salve le eccezioni di cui ora si dirà- è che il semplice fatto di aver violato una norma o un provvedimento di ordine pubblico(penale, fiscale, amministrativo) – alla cui osservanza sono preposti i competenti organi della P.A: a tutela di un interesse pubblico – costituisce una condotta antigiuridica che, pur esponendo il contravventore alle relative sanzioni (penali, fiscali, amministrative), tuttavia, in sé e per sé considerata, non da luogo ipso facto ad un atto di concorrenza sleale. A questo punto, però, un chiarimento e una distinzione si impongono. Si faccia il caso che l’imprenditore, agendo a tutela di un suo preteso diritto ed al fine di ottenere dal giudice la repressione dell’altrui concorrenza sleale, questa descrivi e ravvisi nel fatto puro e semplice che il suo concorrente opera in spregio a norme imperative. Per esempio: svolge l’attività concorrenziale senza o
54
Per quanto riguarda poi la violazione delle norme pubblicistiche
che impongono limiti all’attività imprenditoriale (come nelle
ipotesi di violazione di norme che disciplinano gli orari di
apertura degli esercizi commerciali, o nelle ipotesi di reato di
contro la prescritta licenza di esercizio; oppure si rifornisce di merce a minor costo violando le disposizioni doganali o valutarie; oppure sottrae il suo movimento di affari agli accertamenti tributari; o si rende comunque inosservante di provvedimenti dell’autorità o di norme di legge dettate nella pubblica amministrazione dell’economia. Ebbene se a ciò si limita e di ciò solo si duole l’attore, è certo che la sua azione non potrà sortire alcun esito poiché il fatto da lui denunciato consiste e si esaurisce in una condotta
contra jus: null’altro venendo egli invero a prospettare se non la lesione di
valori che l’ordinamento protegge come propri dello stato o della comunità, ma non a tutela di colui che se ne fa zelante portavoce…..Ma se quell’imprenditore, invece di limitarsi alla mera denuncia di un fatto lesivo di norme imperative, questo fatto descrive e di esso si duole come elemento di una più complessa attività di illecita concorrenza che, attraverso un malizioso ed artificiale squilibrio delle condizioni di mercato, si riflette direttamente nella sua sfera patrimoniale, danneggiandone l’azienda, allora il discorso cambia. Cambia perché in questo caso non si tratta più di valutare la trasgressione di una norma di diritto pubblico, in sé considerata ed agli effetti suoi propri; si tratta piuttosto di accertare se, con tale infrazione, per il modo e le circostanze in cui l’attività del concorrente viene posta in essere, o per il più ampio disegno in cui essa va inquadrata, o per quant’altro emerga dai fatti dedotti dall’attore e sottoposti al giudice, si ponga in essere, e, comunque, coesista una lesione del diritto soggettivo privato nascente dal divieto di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n°3 c.c.. Ora, se è vero –come si è premesso- che in tale schema non ricade una attività concorrenziale per il solo fatto di svolgersi in contravvenzione a norme pubblicistiche, stante appunto la diversità degli interessi tutelati, non è detto però che non possa rientrarvi: e vi rientra ove in essa sia dato di ravvisare, nel concorso dei vari elementi di fatto e avuto riguardo alle particolari circostanze del caso concreto, un mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Il che nei singoli casi si potrà affermare o escludere, ma negare a priori ed in assoluto non si può: sarebbe certamente errato ,oltre che assurdo, ritenere che una attività suscettibile di censura sotto il profilo della correttezza professionale, e perciò qualificabile come concorrenza sleale, non lo sia più o non sia più perseguibile come tale sol perché realizzata (anche) a mezzo della violazione di una norma pubblicistica. La qual violazione come è ovvio se non vale da sola ad integrare la concorrenza sleale, a fortiori non vale ad escluderla, e meno che mai, a legittimarla”.
55
frode in commercio, o quelle che vietano lo spionaggio
industriale), la giurisprudenza, facendo propria la
teoria del nesso
di causalità, ha ritenuto spesso che detta violazione integrasse
(ipso facto) atto di concorrenza sleale (anche se, in alcune
pronunce, il diverso ambito di operatività tra norme
pubblicistiche e norme concorrenziali ha portato a negare la
slealtà dell’atto di concorrenza conseguente alla violazione di
norme pubblicistiche)(
31).
31
Vedi Cass. 2220/1978 in Giust. Civ. 1978, che escluse la slealtà di una ipotesi di frode in commercio con questa motivazione: “ai sensi dell’art. 2595 c.c., la concorrenza deve svolgersi nei limiti stabiliti dalla legge. Tali limiti sono di due specie: da un lato, vi sono norme di diritto pubblico( penali, fiscali, amministrative)dirette a proteggere interessi dello stato o della generalità dei consociati; dall’altro, vi sono norme di diritto privato, dettate nell’interesse esclusivo di singoli soggetti, come quelle che stabiliscono in determinati casi il divieto di concorrenza (2301, 2390, 2557 c.c.) e quelle che, in ogni caso, vietano gli atti di concorrenza sleale (2598 c.c.). Orbene, non può condividersi la tesi secondo cui in quest’ultima categoria sia da ricondurre automaticamente ogni comportamento lesivo di norme di diritto pubblico (in particolare, di quelle penali). E’ ben vero che ad alcune fattispecie di concorrenza sleale, indicate nei numeri 1 e 2 del 2598 c.c., corrisponde una identica o analoga figura criminosa (art. 473, 517, 594, 595, 622 c.p.), di modo che il medesimo fatto può dar luogo nello stesso tempo ad un illecito penale e ad un illecito civile. Ma proprio perché si tratta di mera coincidenza si deve escludere che ad essa faccia riscontro un principio giuridico di portata generale. Pertanto, il semplice fatto di avere violato una norma di diritto pubblico alla cui osservanza sono preposti i competenti organi della P.A., a tutela di un interesse pubblico, costituisce una condotta antigiuridica che, pur esponendo il contravventore alle relative sanzioni, tuttavia, in se e per se considerata, non dà luogo ipso facto ad un atto di concorrenza sleale….neppure con riguardo al n° 3 del 2598 c.c., poiché il precetto ivi contenuto, malgrado la sua più ampia ed elastica formulazione, è pur sempre orientato sulla specifica direzione dell’offesa arrecata al concorrente da parte di chi si vale direttamente o indirettamente
56
In riferimento alla fattispecie di cosiddetta consegna di aliud pro
alio ove questa integri anche il reato di frode in commercio
sanzionato dal 515 cp, la giurisprudenza sembra attestarsi su un
indirizzo univoco che collega il reato di frode in commercio alla
fattispecie di concorrenza sleale prevista dall’art.2598 n° 3 c.c..
In questo senso il Tribunale di Catania nel 1983(
32) afferma che
“la consegna al consumatore di un prodotto di marca diversa da
quella richiesta costituisce, oltre che un illecito penale, un atto di
concorrenza sleale, sia sotto il profilo di cui al n° 1 dell’art.
2598 c.c. per la confusione che si crea fra i prodotti delle
imprese concorrenti, sia in relazione al n°3 dello stesso articolo,
per la scorrettezza del comportamento, sicuramente idoneo a
danneggiare l’impresa che pone in commercio il prodotto di
marca. A concretizzare l’ipotesi di concorrenza sleale di cui
all’art. 2598 n° 3 c.c. è sufficiente che l’attività posta in essere
sia idonea a danneggiare, sia pure astrattamente, l’altrui
di ogni altro mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
32
57
impresa, senza che occorra che si sia verificato un danno
concreto ed effettivo”.
Conforme a questo indirizzo anche il Tribunale di Bari nel 1976
(
33)che, ribadendo il principio generale per cui “la violazione di
norme di diritto pubblico(fiscali, penali, amministrative) non
costituisce di per sé un atto di concorrenza sleale, pur potendo i
medesimi
comportamenti,
qualificati
reati
o
illeciti
amministrativi da specifiche norme, configurare del pari, se
compiuti da imprenditori concorrenti, gli estremi di un atto di
concorrenza sleale, allorché take qualifica si desuma in base ai
criteri di valutazione forniti dall’articolo 2598 c.c.”, stabilisce
che “le ripetute consegne agli acquirenti, da parte del gestore di
un pubblico esercizio, di un prodotto diverso da quello richiesto
– se integra gli estremi della fattispecie penale della frode in
commercio non costituisce per ciò stesso, in mancanza di
ulteriori elementi qualificanti, un’attività di sleale concorrenza
nei confronti dell’impresa che fabbrica detto prodotto tipico: tale
33
58
comportamento integra, tuttavia, nei riguardi di quest’ultimo, un
illecito civile extra contrattuale”. Il Tribunale di Roma nel
1959(
34), afferma l’automatica rilevanza concorrenziale della
violazione dell’art. 515 cp in questi termini: “il commerciante
che, richiedendo il cliente un dato prodotto, venda invece quello
di una impresa concorrente, compie atto di concorrenza illecita,
giacché la consegna da parte di un commerciante di un prodotto
diverso per provenienza da quello richiesto, oltre a ledere
l’interesse del consumatore, frustrando la fiducia che questi ha
riposto nella provenienza specificamente indicata (lesione che è
sempre sanzionata penalmente dalla norma dell’articolo 515 cp),
costituisce ad un tempo atto di parassitismo economico, poiché
per mezzo di esso il commerciante, profittando della notorietà e
della reputazione che altri ha saputo creare intorno al proprio
prodotto principalmente attraverso i costosi mezzi di pubblicità
oggi in uso, raccoglie parte dei frutti dell’altrui operosità ed
intraprendenza. Tale condotta quindi, violando il diritto
34
59
dell’imprenditore a svolgere l’attività commerciale, come
proiezione della propria personalità, al riparo da qualsiasi
attentato denigratorio e parassitario, diritto che costituisce
l’oggetto specifico della tutela apprestata dalla norma in esame,
non può non essere considerata professionalmente scorretta. Ne
è possibile dubitare che ricorra nel caso il requisito dell’idoneità
dell’atto a danneggiare l’altrui azienda, perché è chiaro che il
comportamento innanzi descritto non solo può, a lungo andare,
influire sulle scelte dei consumatori e portare così ad uno
sviamento
di
clientela(nel
che
consiste,
per
comune
interpretazione, il pericolo che la norma tende ad evitare); ma è
di per se stesso causa immediata di danni in quanto determina
una riduzione, non importa in quale misura, dello smercio del
prodotto richiesto, dovendosi presumere che il richiedente, se
tempestivamente avvertito della mancanza di quel prodotto, lo
avrebbe ricercato ed acquistato presso altro esercizio”.
60
Si è poi formato in giurisprudenza un indirizzo che vede nella
violazione delle norme di diritto pubblico un atto di concorrenza
sleale, senza la necessità di dover valutare se la condotta
inosservante sia contraria ai principi di correttezza professionale.
Ogni atto concorrenziale che violi una qualunque norma
giuridica sarebbe, dunque, anche atto di concorrenza sleale in
quanto mezzo efficace per acquisire un vantaggio concorrenziale.
Le norme sulla concorrenza sleale avrebbero ad oggetto la tutela
dell’uguaglianza delle condizioni di gara, il che porterebbe a
sanzionare quei comportamenti concorrenziali che mettono il
trasgressore, che violi norme imperative, in posizione di
vantaggio rispetto al concorrente che invece si impegni a
61
Secondo questo indirizzo, pertanto, il compimento di un atto di
impresa che viola una norma imperativa sarebbe di per se, atto
scorretto idoneo a danneggiare le aziende dei concorrenti (
35).
35
App. Bari 1973 in Giur.Ann. Dir. Ind. 1973, che prende in esame il caso di una ditta che vende caffè con buoni premio senza la prescritta autorizzazione, affermando che “in un campo in cui sia viva la concorrenza fra più imprese, ogni attività che sia rivolta a diminuire l’afflusso di clienti verso prodotti di una impresa concorrente può rientrare nell’ambito della concorrenza sleale, ove non sia conforme alla correttezza professionale, ai sensi del n°3 del citato articolo 2598, in quanto a configurare tale ipotesi è sufficiente sia provata l’idoneità dell’attività a danneggiare l’impresa concorrente e non è neanche richiesto un diretto ed univoco vantaggio dell’impresa cui è imputabile il comportamento, né occorre la frode, che non costituisce elemento dell’atto di concorrenza sleale, il quale può estrinsecarsi in forme molteplici, essendo sufficiente la colpa che è sempre presente quando sia dimostrato l’atto di concorrenza. Certo la gara per la conquista della clientela è lecita finché si svolge attraverso una riduzione di costi e di prezzi, atti questi che si risolvono a vantaggio del pubblico e dell’interesse economico nazionale, ma quando si cerca di conquistare la clientela mediante atti contrari alla correttezza professionale, la legge ha inteso intervenire vietando tali atti e creando l’obbligo del risarcimento del danno a beneficio di coloro che hanno perduto della clientela a causa degli atti illeciti compiuti dal concorrente. È stato giustamente osservato da studiosi della materia, che, poiché non può ritenersi che il legislatore ha inteso tutelare le norme della correttezza professionale meglio delle norme giuridiche, deve concludersi che ogni atto di attività commerciale che violi una qualunque norma giuridica, è anche un atto di concorrenza sleale in quanto mezzo efficace per la conquista della clientela. Indubbiamente la sanzione penale o amministrativa si applica anche se l’atto non sia da qualificarsi come di concorrenza sleale per l’impossibilità obiettiva del danno, ma se il danno o la possibilità di esso esiste per la possibile influenza dell’atto sull’orientamento della clientela, l’atto è illecito non solo perché viola la norme penale o amministrativa, ma anche perché viola un diritto del concorrente alla clientela. Orbene, per l’articolo 43 della legge 585 del 1950, i concorsi e le operazioni a premio di ogni specie, intesi ad accreditare determinati prodotti o ad eccitarne la diffusione e lo smercio, o aventi fini anche in parte commerciali, come pure le vendite di merci al pubblico effettuate con offerte di premi o di regali sotto qualsiasi forma, non possono aver luogo se non sono preventivamente autorizzati, tanto se i premi sono offerti ai consumatori dei prodotti, quanto se siano offerti ai rivenditori. L’art. 2, poi, del D.M. 14 marzo 1963 stabilisce un elenco dei generi per i quali possono essere negate le autorizzazioni ad effettuare concorsi ed operazioni a premio; nell’elenco, che riflette i generi alimentari
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Integrerebbero poi concorrenza sleale non solo gli atti realizzati
in violazione di norme che pongono limiti alla concorrenza, ma
anche gli atti di organizzazione interna dell’impresa che se
realizzati in violazione di norme di tipo fiscale o amministrativo,
consentono un risparmio di costi o di oneri(
36), permettendo al
di largo consumo, è compreso il caffè. Il legislatore in sostanza ha voluto che la vendita di prodotti alimentari di largo consumo non fosse influenzata da fattori diversi dalla bontà del prodotto e dalla congruità del prezzo. Sicché, al lume dei principi innanzi esposti, deve dedursi che la vendita con buoni premio agli acquirenti o con altre modalità simili (premio sconto agli esercenti, ecc.)costituiscono atti di concorrenza sleale in quanto idonei, appunto, a cagionare danno – a chi adopera un comportamento diverso- per l’adescamento del pubblico o dell’esercente, i quali, attratti da premio o comunque dai vantaggi, non sono liberi di orientare la scelta in base al prezzo ed alla qualità del prodotto”.
36
Nell’ambito del presente indirizzo, per giudicare la lealtà della concorrenza, si dà rilievo decisivo ad ogni comportamento contrario a norme di legge, che permetta all’imprenditore di acquisire un vantaggio concorrenziale ( ad esempio violando norme che impongono costi maggiori), anche laddove questo non si traduca in pratica direttamente concorrenziale. Vedi Pret. Milano 1988 (Giur. Ann. Dir. Ind. 1988)che giudicò come atto di concorrenza sleale la commercializzazione, in italia, di dentifrici prodotti e confezionati in brasile e distribuiti in italia nelle confezioni originali, e prive delle indicazioni prescritte dalla legge italiana, in quanto idonea a far acquisire al distributore una posizione di vantaggio indebito. Il pretore ritenne che costituisse “ atto di concorrenza sleale la violazione delle norme relative al confezionamento e all’etichettatura dei prodotti, in quanto genera un risparmio di oneri attribuendo una posizione di vantaggio rispetto a chi osserva la disciplina dettata da quelle disposizioni”. L’ordinanza non si preoccupa di verificare la corrispondenza tra le finalità perseguite dalla disposizione violata e dalla disciplina della concorrenza sleale: è peraltro, difficilmente negabile che, almeno in via generale, questa corrispondenza sussista in relazione alle norme disciplinanti l’etichettatura dei prodotti, le quali obbediscono anche ad uno scopo di regolamentazione del mercato, imponendo alle imprese doveri di informazione circa il contenuto degli articoli posti in vendita. In motivazione però non è chiarito se la violazione lamentata consistesse esclusivamente nella mancata apposizione sulla confezione di indicazioni obbligatorie, o se invece l’omissione occultasse il fatto che il prodotto avesse caratteristiche che ne impedivano la commercializzazione in italia.
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