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1. Il contesto e le motivazioni generali della speculazione kantiana

Il contesto entro il quale si inserisce la ricerca kantiana è quello del dibattito gnoseologico che caratterizza tutto il XVII e il XVIII secolo. Kant infatti condivide con i pensatori del suo tempo l’interesse per la ricerca intorno al valore della conoscenza.

Che cosa possiamo sapere? Questa domanda appare a Kant preliminare ed egli la premette a ogni altro tema filosofico. In questo quindi egli non si discosta da quanto già affermato da Locke o dallo stesso Cartesio. Tuttavia la sua posizione appare non solo espressa con maggiore chiarezza, ma anche con più decisa radicalità.

L’età moderna, scrive nella Critica della Ragion Pura, impone che la ragione si assuma nuovamente il più grave dei suoi compiti, cioè la conoscenza di se stessa. In questo modo essa deve “ … erigere un tribunale che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa”.

E’ questo quello che tradizionalmente viene conosciuto come il criticismo kantiano: compito della filosofia è di riflettere innanzitutto sulla scienza, allo scopo di determinare le condizioni che garantiscono e limitano la validità del sapere umano.

Questo compito non può essere esercitato che dalla ragione stessa la quale quindi deve giudicare se stessa stabilendo le possibilità e i limiti della sua azione conoscitiva. Per Kant la filosofia critica è “scienza dei limiti della ragione umana”. Il termine criticismo deve dunque intendersi come esame dei limiti della ragione.

La filosofia ha dunque il compito di determinare

• i fondamenti,

• le possibilità,

• la validità,

• i limiti delle conoscenze umane.

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2. Il Kant “precritico”

2.1. I “Sogni di un visionario”

E’ noto che Kant, a un certo punto della sua “carriera” di filosofo, rifiutò l'idea tipica della vecchia metafisica relativa al modo in cui avviene la conoscenza. In particolare, contro l’empirismo, egli affermò che l'intelletto umano non si limita a ricevere fedeli copie della realtà attraverso i sensi.

Nemmeno, contro il razionalismo, riteneva fosse possibile conoscere ogni cosa. Nacque così la Critica della ragion pura, il testo che rivoluzionò la filosofia, e che per molti aspetti costituì l’esito più alto dell’illuminismo: un lavoro che, anche considerato come fatto puramente letterario, trova difficilmente l’uguale nell’intera storia dello spirito.

Ma è possibile parlare di un altro Kant prima di Kant, innanzitutto dal punto di vista formale e stilistico. I testi kantiani giovanili sono veri e propri successi editoriali, sono pieni di brio e leggerezza, e lo avvicinano alla saggistica inglese e francese.

La Critica della ragion pura è invece un vero e proprio “mattone”, scritto in uno stile arido e pedante, e però fondamentale. Purtroppo, non tutte le cose importanti sono anche belle e piacevoli. Lo studio, ad esempio, è soprattutto fatica e applicazione.

Lo stile del Kant “critico” è insomma una compagine corazzata di definizioni, di determinazioni e articolazioni di concetti; al posto dell’iniziale libero movimento della fantasia e della battuta di spirito, con cui Kant accompagnava la chiarezza e la precisione del pensare analitico, subentra nel periodo “critico” il rigore dell’analisi concettuale astratta; al posto della superiore garbata gaiezza una greve serietà accademica.

Ma come arrivò, Kant, alla composizione della Critica della ragion pura? E’ impossibile qui ripercorrere il tragitto di quando Kant non era ancora "Kant", ma uno dei tanti studenti e studiosi attratti sia dalle certezze che la fisica moderna andava costruendo, a partire da Galileo e Newton, sia dalle incertezze che ormai proponeva la metafisica scolastica.

Mi limiterò a dire due cose:

• innanzitutto la distinzione di due periodi ben precisi nella produzione del filosofo tedesco: precritico e critico. Il primo periodo inizia nel 1747 e si chiude nel 1770, anno in cui Kant pubblicò la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, che va appunto sotto il nome di Dissertatio del 1770: opera importante non solo perché con essa Kant ottenne all’Università Albertina la cattedra di Logica e Metafisica (l’odierna Filosofia teoretica), che ricoprì fino al 1796, ma anche e soprattutto perché con tale opera inizia il secondo periodo della filosofia kantiana, il periodo cosiddetto “critico”, ovvero centrato sulle tre Critiche.

• In secondo luogo, tra tutti gli scritti precritici, mi limito a parlarvi brevemente, per capire la genesi della Critica della ragion pura, del saggio Sogni di un visionario (1766).

• Questo scritto è stato giustamente considerato come il documento più significativo del distacco di Kant dalle posizioni della metafisica razionalista, presente e attivamente operante nelle università tedesche.

• Per quanto riguarda il nostro tema, quello della genesi della prima Critica, assume

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che Kant considera come un insieme di visioni fantastiche e che paragona dunque in modo irriverente ai sogni di un visionario (l’“arcifantastico visionario” era svedese, si chiamava Emanuel Swedenborg, pretendeva di comunicare con le anime dei morti e godeva allora di un certo seguito e notorietà).

• E’ illecito presumere di conoscere qualcosa al di fuori dell’esperienza, non è illecito sperare e opinare, ma presumere di conoscere sì. I ragionamenti non fondati su sufficienti dati dell’esperienza sono come sogni, soggettivi, irreali, fantasiosi. Il metafisico è dunque un visionario.

• Ma Kant non si limita solo a criticare; in questo scritto egli delinea anche una concezione nuova della metafisica come “scienza dei limiti della ragione umana”. A suo avviso, la metafisica dovrà, in primo luogo, vagliare le proprie forze, dovrà trattare, già per il Kant del 1766, quei problemi che si muovono entro i confini dell’esperienza. In queste pagine sono già presenti i capisaldi dell’insegnamento critico kantiano, come la definizione di un nuovo tipo di metafisica, quella che costruirà nelle tre Critiche quale “scienza dei limiti della ragione umana”.

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3. La Critica della ragion pura: una visione d’insieme dei suoi problemi

Ho concluso la lezione precedente dicendovi che Kant, pur procedendo a un ridimensionamento delle pretese della metafisica, riconosce nella Critica della ragion pura come la ragione umana si senta irresistibilmente attratta dalle questioni metafisiche.

E quali sono i temi della metafisica? Ve li ho detti, in breve: la realtà trascendente l’esperienza:

• l’essere del tutto;

• i fini ultimi dell’uomo;

• la sua provenienza;

• il suo destino;

• la sostanza o essenza della realtà;

• la spiritualità e immortalità dell’anima;

• la finalità o meno della natura.

Sebbene appaia impossibile come scienza, perché sciolta da qualsiasi riferimento empirico, Kant afferma sin dal principio che la metafisica resta nondimeno necessaria come “disposizione naturale” della mente. Infatti ogni tentativo di rassegnarsi nei confronti delle sue questioni fondamentali si dimostra subito illusorio.

Nessuna decisione della volontà né alcuna dimostrazione logica, per sottile che sia, ci può indurre a desistere dai quesiti che nella metafisica ci sono posti.

Insomma, e in parole povere, questa misera cosa che è l’uomo, se da una parte non può rispondere – con le sue limitate possibilità – alle domande che sono poste nella metafisica, dall’altra non può evitare di porsi quelle stesse domande, in un tentativo sempre frustrato, eppure sempre rinnovantesi.

In altre parole, per quanto la metafisica sia infondata e chimerica, dobbiamo constatare che la tensione dell'uomo che pensa e si fa le domande più essenziali sull’essere suo e del Tutto è reale, risponde a un'esigenza insopprimibile.

Sono queste, però, questioni nelle quali la ragione umana si perde se le affronta con la pretesa di giungere a conclusioni veritiere. Il campo della metafisica non è il campo della scienza, ossia della conoscenza vera, universale e oggettiva, le questioni proposte dalla metafisica non hanno niente a che fare con gli oggetti che possiamo vedere, sentire, toccare, sperimentare.

Questa, più o meno, è già la conclusione dei Sogni di un visionario, ossia di un’opera nella quale Kant prende le distanze dalle tesi del razionalismo metafisico tedesco, assimilando quest’ultimo alle fantasie senza costrutto dei visionari.

Ora, la prima grande opera filosofica di Kant, la Critica della ragion pura, giunge al termine di oltre dieci anni di riflessione (ma al termine di trentacinque anni di studio). Di quest’opera furono fatte due edizioni. La prima edizione della Critica della ragion pura apparve – dopo unidici anni di silenzio da parte di Kant – nella primavera del 1781, a Riga, stampata dall'editore J.F. Hartnoch, di Halle. Per ben otto volte, nell'arco di questo periodo, Kant annunciò come imminente la stampa dell’opera, e per sette volte l’attesa venne delusa.

La seconda edizione fu pubblicata nel 1787, e contiene importanti rimaneggiamenti e aggiunte rispetto alla prima. Nel 1783 Kant pubblica i Prolegomeni a ogni futura metafisica,

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una esposizione più breve e accessibile a tutti (ma non “popolare”, e talvolta anzi più

“oscura”) della dottrina contenuta nella Critica.

Ho ripetuto a lungo che la prima Critica tratta (anche se in maniera non esclusiva) del

• problema della conoscenza; il problema di “cosa possiamo realmente conoscere”

diviene così l’oggetto della prima Critica kantiana, laddove il termine “critica” abbiamo visto indicare

• “un esame dei limiti e delle possibilità della ragione” (da cui la definizione di criticismo data al sistema kantiano).

Abbiamo insistito inoltre sul fatto che motivo caratterizzante della Critica della ragion pura è

• il tema della riflessione della ragione su se stessa (il tribunale della ragione), sui suoi princìpi fondamentali, sui suoi limiti e compiti. La ragione deve indagare in modo preliminare i suoi limiti.

In altri termini possiamo dire che Kant si interroghi intorno alla legittimità di una conoscenza scientifica (soprattutto matematica e fisica) e alla illegittimità di una conoscenza metafisica, quale veniva offerta dalla metafisica tradizionale di stampo razionalista.

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3.1. Le domande della ragion pura

Quindi, se esiste un sapere la cui validità scientifica è indubitabile, cioè se è indubitabile che alcune discipline si sono già costituite in scienze, ossia in discipline capaci di produrre o scoprire verità universali e necessarie, ed è il caso della

• matematica

• e della fisica newtoniana, allora Kant

• vuole capire qual è l’elemento specifico che rende scientifiche queste discipline, su quale base si fonda la loro scientificità, qual è quel quid che rende la matematica e la fisica scienze;

una volta capito di cosa si tratta si propone di verificare se è possibile anche una metafisica come scienza, oppure se non è davvero possibile.

In altre parole, è possibile una metafisica che risponda a criteri di scientificità?

La risposta kantiana sarà negativa. La metafisica, con i suoi oggetti che esulano dal campo delle cose sensibili, usurpa il nome di scienza.

• Altra cosa è dire che la metafisica ha il diritto di occuparsi di indagare i presupposti delle scienze, presiedere alla definizione dei concetti basilari delle scienze ma non sostituirsi alle scienze.

Riassumendo la questione della metafisica: la metafisica è una 1) Naturale tendenza umana, come tale insopprimibile,

2) Che quando vuole spacciarsi come scienza ne usurpa il nome, occupandosi di oggetti che non appartengono al campo scientifico

3) Ma che è legittimata a discutere delle condizioni che rendono possibile la scienza.

Di qui, le tre domande formulate nell’introduzione, che tracciano la via alla Critica:

• come è possibile una matematica pura?

• come è possibile una fisica pura?

• in che modo è possibile la metafisica come scienza?

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3.2. Il fondamento della scienza e i giudizi su cui si fonda la conoscenza umana In precedenza abbiamo detto che la conoscenza scientifica (ossia la vera conoscenza) consta fondamentalmente di proposizioni o di giudizi che sono universali e necessari e per di più incrementa continuamente il conoscere.

Kant sa che la matematica e la fisica garantiscono questo tipo di conoscenza, sicché vuole cercare di capire quale sia il fondamento che rende possibile questa specificità delle due scienze sopra nominate.

Dunque vuole stabilire come e perché siano possibili le scienze matematico- geometriche e la scienza fisica. Soltanto risolto questo problema, quello del fondamento che rende possibile i giudizi universali e necessari, oltre che fecondi, della scienza, si potrà risolvere il problema se sia o non sia possibile una metafisica come scienza.

Inizia a questo punto la celebre teoria dei giudizi kantiana, nella quale Kant analizza i modi con i quali il soggetto giudica la realtà esterna, per poi stabilire quali sono propri della scienza.

Innanzitutto, cos’è un giudizio? Giudizio è qualsiasi proposizione (soggetto, copula, predicato) che connette fra loro concetti diversi, attribuendo un predicato a un soggetto: il cielo è azzurro; Gorizia ha 40 mila abitanti. Secondo Kant, il giudizio è il primo mattone di ogni conoscenza, non si dà conoscere che non sia fatto di giudizi. La ricerca kantiana inizia con una rigorosa distinzione tra tre tipi di giudizi, cioè:

• giudizi analitici a priori:

qui il concetto espresso dal predicato è già contenuto nel concetto del soggetto (“tutti i corpi sono estesi”). Sono a priori perché non è necessario il ricorso all’esperienza, sappiamo che i corpi sono estesi senza doverlo ogni volta sperimentare. Il concetto di estensione è già dentro il concetto di corpo: se dico corpo, dico estensione, essendo impensabile un corpo che non sia fatto di parti e che non occupi un posto nello spazio.

Proprio per questo motivo, per il fatto che non occorra ogni volta verificare la validità di tali giudizi con il ricorso all’esperienza, essi sono universali e necessari, e dunque sono sempre validi.

E però sono anche puramente esplicativi, e tautologici, appunto perché il predicato dice la stessa cosa del soggetto. Tali giudizi sono quindi infecondi, ovvero incapaci di allargare la conoscenza: questo è anche il motivo per cui – nonostante l’universalità e la necessità – non possono essere il giudizio tipico della scienza.

• giudizi sintetici a posteriori:

consistono nella connessione di due concetti diversi in base all’esperienza (“il cielo è azzurro”). Sono giudizi estensivi, hanno cioè il vantaggio di amplificare sempre il conoscere: producono nuova conoscenza in quanto dicono qualcosa di nuovo che non era contenuto implicitamente nel soggetto. Nel concetto di cielo non è contenuto necessariamente il concetto di azzurro, il cielo potrebbe essere anche grigio, o rosso, o nero: per saperlo devo alzare gli occhi al cielo, dunque fare ricorso all’esperienza.

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Ma, pur essendo amplificativi del consocere, sono anche particolari e soggettivi, e non universali e necessari, proprio perché ricavati dall’esperienza. Dal momento che ciò che deriva dall’esperienza non è mai né universale né necessario. Essi non possiedono il carattere di universalità e necessità proprio dei giudizi della scienza.

Né i giudizi analitici a priori né i giudizi sintetici a posteriori garantiscono una conoscenza che sia insieme universale e feconda, cioè in grado di aggiungere nuovi dati informativi e valida sempre e comunque per tutti, in altre parole: una conoscenza scientifica.

Questa è assicurata solo da un terzo tipo di giudizi, quelli

• sintetici a priori

essi uniscono l’apriorità, garanzia come abbiamo visto nei giudizi analitici di universalità e necessità, con la fecondità dei giudizi sintetici. I giudizi costitutivi della scienza sono giudizi “sintetici a priori”, a un tempo fecondi e universali.

Tutte le operazioni aritmetiche, ad esempio, sono sintetiche a priori: le proposizioni matematiche sono certamente a priori, cioè non ricavabili dall’esperienza (i numeri sono infatti enti ideali, cioè non stanno nello spazio e nel tempo) e sono sintetiche perché ampliano la conoscenza.

Il giudizo 7 + 5 fa 12 è un giudizio sintetico: il 12 non è contenuto nel 5, nemmeno nel 7, nemmeno nella loro somma. Il 12 non è affatto pensato semplicemente pensando alla riunione di 7 e di 5. Solo con l’aiuto delle dita della mano quando contiamo (o anche con il pallottoliere), cioè aggiungendo i due numeri l’uno all’altro arrivo al 12. Quindi il concetto di 12 amplia la mia conoscenza, dunque è sintetico.

A maggior ragione sono sintetici i princìpi della geometria e della fisica. La proposizione “la linea retta è la più breve tra due punti” è una proposizione sintetica:

nel concetto di “retta” non è contenuto quello di “la più breve”, che dunque è un concetto aggiunto, che non può essere ricavato con nessuna analisi da quello di

“linea retta”, e che accresce la conoscenza.

Dunque i giudizi sintetici a priori sono a priori perché non si basano sull’esperienza (quindi sono universali e necessari) e sono sintetici perché accrescono la conoscenza: ma cos’è che li rende possibili? Come fa l’intelletto a tirare fuori dal concetto A (“retta”) il predicato B (“la più breve”), a esso estraneo ed eterogeneo, e che pure è invece sempre e universalmente congiunto con esso?

Questa capacità che l’intelletto ha di trovare leggi generali nel comportamento di fenomeni eterogenei da dove deriva?

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Riassunto per punti (o anche “tu sei qui”):

Dall’inizio della trattazione sulla Critica della ragion pura abbiamo detto più o meno questo, molto schematicamente:

 La prima Critica tratta del

• problema della conoscenza: “cosa possiamo realmente conoscere?”;

• il criticismo è “un esame dei limiti e delle possibilità della ragione”;

• Kant si interroga intorno alla pretesa scientifica della metafisica;

• Dunque è costretto a chiedersi cos’è realmente scientifico, qual è lo specifico della scienza?

• Sa che matematica e fisica sono scienze: esse cioè sono capaci di proposizioni vere;

• Vere significa necessarie, universali e oggettive;

• Ma cos’è rende tali la matematica e la fisica?

• Kant affronta allora la teoria dei giudizi: che caratteristiche hanno i giudizi scientifici?

• Li divide in tre tipi: analitici a priori; sintetici a posteriori, sintetici a priori;

• Solo questi ultimi sono peculiari delle scienze, perché

• Estendono la conoscenza;

• Non fanno ricorso all’esperienza sensibile (la quale dà solo responsi soggettivi, particolari e mutevoli);

• Hanno la caratteristica di unire due concetti eterogenei e diversi tra loro trovandovi una relazione assolutamente necessaria, cioè non casuale, non estemporanea, ma anzi valida sempre e in tutti i casi.

• Allora il problema diventa, come fa l’intelletto a trovare relazioni necessarie e universali tra elementi apparentemente eterogenei?

Es. “A ogni azione corrisponde una reazione”. Questa spiegazione è traducibile in una legge valida per tutti i corpi e senza eccezioni, è la relazione di causalità istituita tra l’azione e la reazione. E’ la legge di causalità, tale per cui tutto ciò che ha un inizio ha una causa, a far diventare una legge sempre valida la relazione tra l’azione e la reazione. L’azione è causa della reazione. Ma la legge di causalità è a priori, non deriva dall’esperienza. E allora, come fa l’intelletto a trovarla?

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3.3. La “rivoluzione copernicana” di Kant

La risposta a questa domanda è semplicissima, ma Kant impiega più di dieci anni per trovarla: la soluzione a questo problema sarà una vera e propria rivoluzione nell’ambito degli studi relativi alle modalità della conoscenza. Kant stesso la definirà una vera e propria “rivoluzione copernicana”, e sotto questa siglia è conosciuta nella storia della filosofia.

Kant propone una radicale rivoluzione nell’ambito della teoria della conoscenza, a suo avviso comparabile a quella fatta valere nell’ambito dell’astronomia da Copernico. Nel conoscere, contrariamente a quanto riteneva la tradizione precedente, è l’oggetto del mondo esterno – secondo Kant – ad adeguarsi al soggetto e non il contrario (proprio come in astronomia, secondo Copernico, è la Terra a ruotare attorno al Sole e non viceversa).

Kant ritiene che non sia il soggetto che, conoscendo, scopre le leggi che regolano il funzionamento dell’oggetto, ma che, viceversa, sia l’oggetto che si “adatta”, quando viene conosciuto, alle leggi del soggetto che lo riceve conoscitivamente. Il rapporto tradizionale tra soggetto che conosce e oggetto è ribaltato; è la natura, in altre parole, che si regola sull’uomo, sulle leggi della sua ragione.

Perché esista un sapere scientifico – afferma Kant – occorre perciò che non sia la mente umana a regolarsi sugli oggetti, ma al contrario che siano gli oggetti a regolarsi sui concetti dell’intelletto, sulle sue leggi, sulle regole del pensiero, e ad accordarsi con essi.

Ciò vuol dire che non esiste prima un oggetto del quale poi noi facciamo esperienza, ma che il modo in cui si costituiscono gli oggetti dell’esperienza è determinato dalle funzioni della nostra ragione: ecco la rivoluzione copernicana.

E’ quindi chiaro qual è il fondamento dei giudizi sintetici a priori: è il soggetto stesso che, con le leggi del suo pensiero contribuisce a costituire gli oggetti, i quali poi ovviamente si comportano secondo le leggi del pensiero del soggetto.

Nei fenomeni io dovrò necessariamente ritrovare qualcosa che risponde alle leggi della mia ragione. Ciò significa che nel mondo esterno, nella sfera dei fenomeni, nella rete del mondo circostante, nel quale faccio esperienza di fenomeni e di relazioni tra fenomeni, ritrovo esattamente ciò che io stesso vi metto (es: non si dà un “prima e dopo” tra le percezioni/impressioni/rappresentazioni/idee, come invece avviene per Hume, se non perché sono io a proiettarvi uno schema temporale che è legge, o forma o struttura della mia – e vostra, e di tutti – sensibilità. Lo stesso per lo spazio).

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3.4. I concetti di “puro”, “trascendentale” e “a priori”

A questo punto non è più rimandabile la spiegazione dei termini e dei concetti di “puro”

“trascendentale” e “a priori” così come utilizzati da Kant.

Già Cartesio aveva parlato di “matematica pura”, con la quale indicava una scienza considerata in sé, puramente intellettuale, libera dalle misurazioni empiriche e dai suoi usi in altri campi.

“Pura” è anche la fisica di Newton considerata come costruzione razionale rigorosa, in cui le leggi di natura hanno forma matematica.

Ancora oggi si usa questo termine quando si vuole definire una disciplina che non si occupa delle sue applicazioni (questa si chiama appunto applicata).

Kant non va distante da quest’uso: puro, per il filosofo tedesco, significa non mescolato con la sensazione o con l’esperienza. Una conoscenza è pura quando sta a priori (cioè precede, sta prima) rispetto all’esperienza.

Quindi, pura è la ragione quando viene considerata come contenente i princìpi, le leggi, le strutture che, proprie del soggetto, rendono possibile qualsiasi conoscenza. La ragione pura si identifica con la struttura della facoltà conoscitiva, cioè con quel corredo di proprietà che – proprio perché non derivano dall’esperienza – la rendono possibile.

Con un esempio molto grossolano, se non avessi la categoria mentale dello spazio non potrei mai collocare quell’albero là fuori in un punto (appunto, nello spazio). Questo elemento del mio modo di pensare (lo spazio) precede l’esperienza, e nel precederla la rende possibile.

Questo tipo di elementi e di princìpi conoscitivi è detto puro, o a priori, cioè a indicare qualcosa che sta prima dell’esperienza.

Conoscere l’albero dal punto di vista della ragion pura significa dunque concentrarsi non sull’oggetto, sul contenuto della conoscenza (l’albero), ma sul mio modo di conoscere gli oggetti, cioè sulle caratteristiche della mia mente che permettono di conoscere quell’albero.

Si tratta di una conoscenza, quindi, che si esercita sulla condizione della conoscibilità degli oggetti. Indica non un contenuto, ma una forma del conoscere: l’insieme di elementi a priori che rende possibile una conoscenza oggettiva.

Kant adotta il termine trascendentale come sinonimo di a priori e di puro, per indicare ciò che precede ogni esperienza – essendone anzi la condizione – e non contiene in sé alcun elemento empirico, ma ha valore solo in ambito empirico, e quindi non trascende l’esperienza. Trascendentale si oppone dunque a empirico, perché si riferisce a ciò che non ha origine dall’esperienza sensibile.

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3.5. I princìpi della conoscenza

Presentazione dell’articolazione interna della Critica della ragion pura. L’analisi kantiana si divide innanzitutto in due parti:

Dottrina trascendentale degli elementi, prende in esame le componenti della ragione umana (ovvero gli elementi di cui è composta) e il modo in cui essa conosce a priori i suoi oggetti;

Dottrina trascendentale del metodo, tratta dell’applicazione di tali elementi, sulla base di un metodo, ovvero lo studio del modo in cui la ragione costruisce il sistema complessivo delle sue conoscenze.

La sezione più importante, e quella che ha maggior spazio nell’opera kantiana, è la prima, che a sua volta si articola in

Estetica trascendentale e

Logica trascendentale

Intitolando Estetica trascendentale la prima sezione della Critica, dedicata alla sensibilità, Kant usa il termine estetica nel suo significato originario di dottrina della sensibilità (dal greco aisthesis), un significato progressivamente messo in ombra dall’emergere di un altro, introdotto dal filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762), che alla metà del Settecento in un’opera intitolata Estetica aveva utilizzato il termine per indicare la dottrina del bello. L’estetica ha dunque per oggetto la sensibilità

La logica tratta dell’altra componente della conoscenza, oltre la sensibilità, cioè il pensiero, in cui Kant distingue tra l’intelletto, che è la facoltà del conoscere scientifico, e la ragione in senso vero e proprio, che è la facoltà di pensare l’incondizionato

3.6. L’impianto della Critica

Dottrina trascendentale degli elementi Comprende:

I. Estetica trascendentale (sensibilità);

II. Logica trascendentale

Questa (Logica trascendentale) si divide a sua volta in due, e comprende:

I. Analitica trascendentale (intelletto);

II. Dialettica trascendentale (ragione) Dottrina trascendentale del metodo

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3.7. L’Estetica trascendentale: lo spazio e il tempo

La sensibilità è la prima fondamentale componente del conoscere umano, nonché la prima forma di “raccolta” dei dati provenienti dal mondo esterno (in quanto gli oggetti

‘impressionano’ il soggetto).

La sensibilità è la facoltà attraverso cui ci sono date le sensazioni, in quanto modificazioni del soggetto conoscente, che si trova dunque in posizione recettiva di fronte alla realtà esterna.

Dire che la sensibilità è recettiva significa che essa non genera i propri contenuti ma li accoglie dalla realtà esterna.

Gli atti conoscitivi propri della sensibilità sono chiamati da Kant intuizioni; si tratta delle impressioni sensibili.

Le intuizioni sensibili (sensazioni) sono rese possibili dalla presenza nel soggetto conoscente delle forme pure a priori dello spazio e del tempo.

Significato di spazio e tempo come forme pure a priori della sensibilità.

La sensibilità, come struttura fondamentale del soggetto è un fatto dell’intuizione.

L’intuizione sensibile è passiva, e ha due forme, spazio e tempo, che ricevono e condizionano ogni ricezione del materiale sensibile intuitivo.

Queste forme sono dette trascendentali perché rendono l’esperienza possibile.

Senza le due forme della ricezione sensibile non si dà esperienza. Quindi la sensibilità precede – logicamente parlando – tutte le sensazioni.

Per questo motivo Kant confuta la teoria empiristica secondo cui spazio e tempo sarebbero nozioni tratte dall’esperienza: spazio e tempo non possono derivare dall’esperienza, perché per fare una qualsiasi esperienza dobbiamo già presupporre le forme originarie di spazio e tempo.

Lo spazio e il tempo a loro volta, in quanto forme o strutture della sensibilità, precedono dunque le sensazioni. La costituzione fondamentale della sensibilità (spazio e tempo) è appunto condizione a priori di ogni possibile sensazione.

La conoscenza, dunque, si fonda su una ricettività originaria, condizione per l’adempimento di ogni intuizione. La possibilità di percepire un fenomeno in uno spazio e in un tempo determinati non è più attribuita a proprietà intrinseche dell’oggetto o dell’intelletto, ma dipende dalle strutture della sensibilità del soggetto.

Kant chiama lo spazio “forma del senso esterno”, cioè l’intuizione originaria che sta alla base di tutte le intuizioni sensibili delle cose esterne; mentre il tempo è “forma del senso interno”, ossia la forma a priori mediante la quale è possibile stabilire una successione dei nostri stati interni (stati psichici, emozioni, ricordi).

Tuttavia, essendo ogni cosa nel tempo, e non nello spazio (ad esempio i sentimenti, ma anche il teorema di Pitagora non sono nello spazio), il tempo è il modo fondamentale di percepire tutti gli oggetti.

Mediante le forme fondamentali dello spazio puro e del tempo puro allacciamo i fenomeni in ordinamenti dell’uno accanto all’altro e dell’uno dopo l’altro.

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3.8. La Logica trascendentale e le categorie

Le intuizioni sensibili non sono ancora vere e proprie conoscenze. La sensibilità è infatti condizione necessaria ma assolutamente insufficiente a dare qualsiasi esperienza (cioè qualsiasi oggetto, che nella sensibilità viene esperito solo in quanto unificazione di

‘rapsodie’ di percezioni diversificate a seconda dei sensi).

La sensibilità offre un complesso di input sensoriali (forme, colori, suoni, sapori, spessori, durezze e così via), ordinatamente collocati nello spazio e nel tempo, ma questi non sono ancora organizzati in modo da rappresentare gli oggetti dell’esperienza: alberi, case, uomini, e così via. Essa è solo uno degli elementi necessari affinché si possa avere la presenza e la conoscenza del mondo sensibile

Occorre un altro elemento altrettanto fondamentale rispetto al primo. Soltanto dalla loro sintesi può scaturire il mondo dell’esperienza conoscibile

Ai dati delle intuizioni sensibili mancano la connessione e l’unitarietà che caratterizzano la conoscenza. Bisogna allora che intervenga un tipo di attività capace di mettere ordine nel molteplice delle rappresentazioni sensibili, costituendo in tal modo la possibilità dell’oggetto come oggetto di conoscenza

Il compito di unificare il molteplice della sensibilità, di connettere fra loro le rappresentazioni sotto una rappresentazione comune spetta alla facoltà dell’intelletto, che opera attraverso le categorie, o concetti, che sono appunto forme unificatrici dei dati sensibili.

L’intelletto è dunque una seconda fase di organizzazione: l’unificazione dei dati, già coordinati in un continuo spazio temporale, si intensifica e arriva a stabilire dei rapporti necessari tra i fenomeni.

Sensibilità e intelletto non possono svolgere alcun ruolo all’interno del processo conoscitivo senza l’apporto reciproco: le intuizioni sensibili senza l’organizzazione concettuale resterebbero una massa di dati dispersi e perciò inutili, perché incapaci di rappresentare gli oggetti

A loro volta, i concetti dell’intelletto, privi del materiale empirico fornito dalla sensibilità, non avrebbero niente da unificare e verrebbero così svuotati della loro funzione propria, quella unificante.

Con le parole di Kant: le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza intuizioni sono vuoti

Dell’attività dell’intelletto si occupa la parte denominata Logica trascendentale: studia i principi a priori del pensiero in quanto forme della conoscenza degli oggetti.Tali forme a priori sono indicate da Kant con il termine di categorie, o concetti puri dell’intelletto.

Le categorie o concetti puri dell’intelletto sono tutti i modi possibili in cui l’intelletto pensa, cioè unifica e organizza sul piano conoscitivo i contenuti dati dalle intuizioni spazio-temporali della sensibilità.

Sono dunque funzioni dell’unità, e hanno valore gnoseologico, in quanto rappresentano le leggi in base a cui funziona la mente umana nel conoscere. Se l’origine delle categorie pure è a priori, tuttavia l’impiego che possiamo farne è sempre solo empirico: nel senso che esse sono limitate entro i confini dell’esperienza.

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I concetti puri o categorie – che precedono l’esperienza (causa, sostanza, necessità, esistenza) e consentono all’intelletto di unificare e collegare tra loro le intuizioni empiriche formulando dei giudizi di valore universale.

A concetti di questo tipo si riferisce Kant quando parla dei concetti puri a priori mediante i quali l’intelletto collega tra loro le rappresentazioni empiriche, già organizzate nello spazio e nel tempo, e formula dei giudizi sintetici a priori.

L’intelletto ha dunque una funzione unificante, che consiste nel pensare gli oggetti, i quali a livello della sensibilità sono semplicemente intuiti e rappresentati immediatamente. Nel lessico kantiano, pensare è un’operazione specifica dell’intelletto, quella che unisce un soggetto a un predicato: pensare è giudicare.

Ma pensare non significa conoscere gli oggetti come sono in sé, bensì unificare le rappresentazioni che vengono dall’esperienza riferendole ai loro oggetti, cioè alle cose di cui sono rappresentazioni, ma che rimangono sconosciute in quanto cose in sé. Si può dire insomma che l’intelletto mediante le categorie pensa quanto nell’intuizione è semplicemente dato.

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3.9. La deduzione trascendentale delle categorie

La deduzione trascendentale delle categorie è il vero centro di tutta la Critica, quello che più ha fatto e farà discutere: si tratta ancora una volta, come già avvenuto per le forme pure di spazio e tempo, di capire

• come giustificare il diritto di attribuire a oggetti nessi che sono soltanto nostri modi necessari di pensare?

Rispondere a questa domanda è possibile solo dimostrando che

• le categorie sono la condizione che rende possibile l’esperienza stessa, cioè gli oggetti di cui l’esperienza è intessuta.

In altre parole, è necessario dimostrare come le condizioni soggettive dell’intelletto siano alla base della costituzione stessa dei fenomeni.

Questa dimostrazione prende il nome di deduzione trascendentale delle categorie.

Si tratta del riconoscimento di un’unità originaria del pensiero che sta alla base di ogni sintesi operata dall’intelletto.

Sappiamo che per Kant ogni conoscenza implica la connessione di una molteplicità di rappresentazioni sensibili, connessione che avviene sia a livello delle forme pure di spazio e tempo, sia a livello delle categorie dell’intelletto.

Ora, se è vero che conoscere è connettere, allora Kant ritiene che debba darsi, al di sopra e prima di tutti i singoli atti di unificazione, una superiore e originaria capacità di connessione, che fonda (cioè precede e rende possibili) tutte le singole unificazioni.

Questa unità originaria, nel lessico kantiano, si chiama

• “io penso”, e si può identificare con l’unità della coscienza, o meglio con ciò che intendiamo con il termine “autocoscienza”, ossia con la consapevolezza di essere coscienti e pensanti.

Ciò significa più o meno questo:

• rispetto alla molteplicità di ciò che la sensazione mi fornisce, io devo poter pensare che si tratta di mie rappresentazioni che ne formano una: dai molti dati sensibili (colore, forma, durezza ecc.) si arriva cioè all’unità dell’oggetto solo attraverso la possibilità di una percezione di sé o autocoscienza.

L’io è dunque un centro comune a cui sono riferite tutte le rappresentazioni, un’unità costante, identica a sé, che sta sempre dietro ogni rappresentare e pensare particolari.

Poiché senza l’autocoscienza trascendentale non sarebbe possibile nessuna unificazione, ma senza unificazione nessuna molteplicità intuitiva otterrebbe l’unità e la determinazione in oggetto, l’unità sintetica originaria è la condizione oggettiva di ogni conoscenza.

L’unità trascendentale costituisce quindi la condizione della possibilità degli oggetti in generale.

L’intelletto non ricava le sue leggi dalla natura ma le prescrive a essa. L’io penso, l’autocoscienza, ossia la certezza del soggetto è il fondamento da cui partire – secondo Kant – per spiegare il mondo.

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Alcune conclusioni su quanto detto finora

In questa serie di lezioni su Kant ho voluto mettere l’accento su ciò che ritengo maggiormente significativo della sua speculazione, ossia

• la rivoluzione copernicana della conoscenza da lui compiuta, e cioè il rovesciamento della tradizionale concezione del rapporto tra soggetto e oggetto, tra res cogitans e res extensa (usando il lessico cartesiano).

Con Kant la conoscenza non viene più spiegata a partire dall’aoggetto, come semplice registrazione dello stesso nella mente passiva.

In questo mutamento di prospettiva che è la teoria kantiana del conoscere, abbiamo anzi visto come le facoltà conoscitive a priori siano attive e protagoniste nel processo di costruzione dell’oggetto di conoscenza.

Di più, con l’istanza sintetica originaria dell’io penso, ossia di quell’autocoscienza a cui ogni rappresentazione deve fare capo, affinché vi sia consapevolezza di un processo conoscitivo in atto – e dunque reale conoscenza – abbiamo visto come l’intelletto sia addirittura legislatore della natura.

Questo significa, per Kant, che non è dagli oggetti che scaturiscono le leggi che regolano i fenomeni, i fenomeni sono tali perché è l’intelletto che organizza i dati sensibili, altrimenti sparsi e molteplici, intorno a momenti unitari riconoscibili.

L’unità dei fenomeni è dunque una costruzione intellettuale, la cui garanzia ultima sta nella suprema capacità sintetica/unificatrice dell’io penso.

E’ così completata la rivoluzione copernicana di Kant:

• conosciamo l’insieme dei fenomeni come unità governata da leggi universali e necessarie, che sono prodotte dalla struttura del nostro intelletto e non provengono dagli oggetti.

• Questo è davvero il centro del complesso pensiero kantiano, il cui sforzo è quello di far convergere soggetto e oggetto nel processo della conoscenza.

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4. Il significato del noumeno

Al termine dell’Analitica Kant si sofferma su un punto decisivo del suo pensiero: la distinzione tra fenomeno e noumeno.

Fenomeno è l’oggetto dell’esperienza, e ogni oggetto di esperienza è sempre un fenomeno, cioè l’oggetto come appare al soggetto che conosce, dato nell’intuizione spazio-temporale.

Fenomeno non vuol dire altro che l’oggetto di un’esperienza possibile, e dunque l’oggetto che viene trasmesso dalle funzioni della conoscenza, ossia dalle forme dell’intuizione pura e del pensiero puro, e che è dato solo per mezzo di esse.

Così definito (come ciò che appare), il fenomeno rimanda inevitabilmente a qualcos’altro che non appare, che sta al di fuori di ogni rapporto con le leggi formali della conoscenza:

la cosa in sé o noumeno.

Il noumeno è inconoscibile, il pensiero della “cosa in sé” non vale come contenuto reale della conoscenza, di esso non si può a rigore mostrare il benché minimo fondamento.

Infatti, ciò che conosciamo come esperienza si fonda

• sul peculiare intervento combinato dei due fattori fondamentali che la critica ha designato sensibilità e intelletto, intuizione pura e pensiero puro.

• Per contro, noi non abbiamo alcuna possibilità di definire un’esperienza in cui uno di tali fattori fosse escluso oppure definito del tutto altrimenti nel suo rapporto col secondo.

Per noi la funzione unificatrice, presente nelle categorie, porta a un contenuto conoscitivo positivo solo alla condizione di connettere ciò che è dato nelle forme dello spazio e del tempo.

I concetti puri e le categorie, in altre parole, necessitano sempre di riferirsi all’intuizione sensibile e dunque alle condizioni spazio-temporali per significare qualcosa.

Il noumeno può così essere soltanto pensato dall’intelletto, ma non conosciuto perché esso non è dato nell’intuizione sensibile, come d’altra parte dichiara il nome di noumeno, che significa: pensabile, intelligibile.

Il concetto di noumeno svolge una funzione utile in quanto concetto-limite per circoscrivere la sensibilità, per segnare i confini delle pretese conoscitive dell’uomo.

La nostra conoscenza, sia comune che scientifica, è circoscritta all’ambito dell’esperienza, mentre gli oggetti che stanno al di là del mondo sensibile – i quali pure restano pensabili – rimangono inconoscibili alla mente umana.

Fuori dall’ambito di questa funzione il concetto di noumeno non può porre mai alcunché di positivo.

Solo in sede etica ed estetica si scoprirà il senso autenticamente positivo del noumeno, quel dato fondamentale in cui trova la sua giustificazione ultima la separazione del sensibile dall’intelligibile, del fenomeno dalla cosa in sé.

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Un quadro sintetico conclusivo

In sintesi la complessa articolazione della gnoseologia kantiana è un processo unificante che porta a stabilire una trama di nessi necessariamente riconosciuti tra i fenomeni del mondo naturale.

Ciò che conosciamo come esperienza si fonda sul peculiare intervento combinato dei due fattori fondamentali che la critica ha designato sensibilità e intelletto, intuizione pura e pensiero puro.

In quanto insieme dei fenomeni, la natura è resa possibile dalla struttura intrinseca della sensibilità, per cui le sensazioni sono colte e ordinate secondo le forme a priori dell’intuizione sensibile dello spazio e del tempo.

L’intelletto organizza il materiale ancora indeterminato delle intuizioni sensibili, formando i concetti empirici, e costituisce gli oggetti, cioè dà unità e struttura ai dati dell’esperienza sulla base delle categorie, collegando i fenomeni in una conoscenza universale e necessaria.

Questa è resa possibile dalla percezione che l’intelletto stesso ha di sé come principio unificante, come Io penso, o Appercezione trascendentale.

L’unità dell’oggetto è dunque l’esito dell’intero processo conoscitivo come attività di unificazione, di sintesi a priori, dei dati fenomenici, un processo che ha il suo punto di riferimento nell’unità del soggetto trascendentale, cioè nella funzione unificante della coscienza pensante.

L’unità del mondo naturale non è garantita quindi dall’oggetto, ma dall’azione unificatrice del soggetto, che costituisce la realtà come l’insieme dei fenomeni legati tra loro da leggi necessarie che non sono altro che le leggi fondamentali del nostro intelletto.

L’ordine legale che l’intelletto sembra limitarsi a trovare già precostituito nell’esperienza, in realtà è un ordine istituito dalle categorie e dalle regole dell’intelletto stesso e, in tale misura, un ordine necessario.

Così la legalità dei fenomeni in generale ha cessato di essere un enigma, perché si presenta solo come un’altra espressione della legalità dell’intelletto stesso.

La rivoluzione copernicana è così pienamente realizzata.

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4. La Dialettica trascendentale e gli inganni della metafisica

Come abbiamo visto, l’attività dell’intelletto da sola non basta a rappresentare un oggetto;

è necessario anche un materiale da unificare offerto dalla sensibilità. «I pensieri senza contenuti sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.»

L’impossibilità di applicare le categorie a ciò che non è sperimentabile spiega il fallimento della metafisica nel suo tentativo di oltrepassare l’esperienza, spiega cioè il motivo per cui non c’è accordo sulle sue proposizioni, tanto che non si trova un solo libro di cui si possa dire, come per esempio per il testo di Euclide in relazione alla geometria, che contenga i principi della metafisica dimostrati razionalmente.

La metafisica è il risultato dell’uso illegittimo dei concetti puri dell’intelletto, che si verifica quando essi non sono applicati al materiale empirico, come invece è nell’uso legittimo o uso empirico.

I concetti dell’intelletto, infatti, sono come forme vuote pronte ad accogliere e unificare le intuizioni sensibili; usati in modo illegittimo in riferimento alla realtà in sé, di cui non abbiamo alcun riscontro, portano inevitabilmente a una conoscenza ingannevole:

sulla base di concetti vuoti di contenuti empirici, l’intelletto non può che “girare a vuoto”, non avendo nulla su cui esercitare la propria azione sintetica.

Si determina cosí un uso trascendente delle categorie – applicate al di fuori del mondo sensibile – cioè un uso che trascende l’ambito dell’esperienza; allora nascono gli infiniti errori e le illusioni della metafisica.

4.1. La ragione e il bisogno dell’incondizionato

La metafisica tuttavia scaturisce da un’esigenza legittima e insopprimibile della mente umana: quella di non fermarsi mai nella ricerca delle ragioni ultime di ciò che è dato; il suo errore consiste nell’illudersi di poter trovare la spiegazione ultima delle cose, di pervenire alla totalità, all’incondizionato, all’assoluto che sta a fondamento delle esperienze parziali, condizionate, limitate che costituiscono la nostra conoscenza.

Per esempio, data una connessione causale fra un certo numero di fenomeni, la ragione cerca di risalire a una causa prima, a qualcosa che sia causa – e quindi condizione di una serie di nessi – senza essere a sua volta causata, condizionata.

A questi temi è dedicata l’ultima parte della «Dottrina trascendentale degli elementi», la

«Dialettica trascendentale», dove è all’opera la ragione, o la facoltà che ricerca l’incondizionato.

Il termine “ragione” è qui usato da Kant in un senso specifico, per indicare quella facoltà del pensiero che tende a conoscere ciò che va al di là dell’esperienza: essa opera non con i concetti, che sono gli strumenti dell’intelletto, bensí con le idee, prodotte appunto dalla ragione, alle quali non può essere dato un corrispettivo sensibile.

Perciò la ragione tende a un sapere assoluto (nel senso etimologico di ab-solutus, libero da vincoli, ovvero sciolto dai legami dell’esperienza), non piú attraverso giudizi, come l’intelletto, ma attraverso sillogismi, cioè attraverso catene di ragionamenti attraverso cui essa pretende di arrivare alla totalità incondizionata.

Il campo delle nozioni che vanno al di là dell’esperienza, e che sono perciò illusorie, è molto vasto. Kant indirizza la propria analisi critica verso le nozioni che costituiscono il

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nucleo della metafisica tradizionale. Queste nozioni sono le idee assolute, incondizionate di anima, mondo e Dio.

L’anima è intesa come l’incondizionato che sta a fondamento dei fenomeni psichici; il mondo come un tutto, cioè come l’incondizionato che sta a fondamento dei fenomeni fisici; e Dio come l’incondizionato che sta a fondamento dell’intera realtà.

Ciascuna di esse rappresenta una totalità, cioè qualcosa che non può essere colto dal pensiero umano finito, limitato, la cui azione conoscitiva è necessariamente circoscritta all’ambito delle determinazioni empiriche, mentre il tutto non è mai oggetto di esperienza.

Le idee, dunque, sono contenuti privi di carattere empirico.

4.2. L’idea dell’anima

Innanzitutto, l’idea dell’anima esprime l’esistenza di un soggetto assoluto, incondizionato, che permane identico nel tempo, secondo le linee della psicologia razionale.

Ma la psicologia razionale si basa su paralogismi, ragionamenti sbagliati.

L’origine dell’errore sta nell’attribuire arbitrariamente all’«Io penso» – principio di unificazione delle rappresentazioni – il carattere di sostanza per sé stante, trasformando cosí la stessa condizione che rende possibile il conoscere – appunto l’«Io penso» – in una realtà autonoma e permanente, chiamata anima, oggetto di una conoscenza inevitabilmente illusoria.

Bisogna infatti ricordare che, come tutte le categorie, anche quella di sostanza può essere applicata solo a un oggetto empirico, mentre – come abbiamo visto – l’«Io penso» non si presenta come un contenuto di tal genere, ma come una funzione conoscitiva, dunque nulla di materialmente determinabile e conoscibile, ma semplicemente un certo modo di funzionare della mente.

Da questo primo errore, che fa dell’«Io penso» una sostanza, ne discendono altri, consistenti nell’attribuire all’Io-sostanza, costituito in maniera arbitraria, i caratteri per tradizione riconosciuti alle entità spirituali: la semplicità, l’unità-identità, l’immaterialità, l’incorruttibilità, l’immortalità.

4.3. L’idea della natura come un tutto originario

Nel tentativo illusorio di conoscere il mondo come totalità assoluta dei fenomeni cosmici, le dottrine cosmologiche tradizionali sono destinate a fallire, poiché la totalità dell’esperienza ci è preclusa, mentre possiamo sperimentare questo o quel fenomeno, non l’insieme complessivo dei fenomeni.

La cosmologia razionale, più nello specifico, incappa in antinomie, cioè coppie di proposizioni contrapposte – tesi e antitesi, in cui l’una afferma e l’altra nega –, che sfociano in quesiti irrisolvibili, come i seguenti (sono quattro, ma ne trattiamo tre):

1. il mondo ha un inizio nel tempo e un limite nello spazio, oppure è infinito, e non ha limiti né di spazio né di tempo?

2. nel mondo esiste una causalità libera, oppure nel mondo non c’è libertà, ovvero non esiste altra causalità che quella rigorosamente necessaria delle leggi naturali?

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3. al mondo appartiene qualcosa che, come suo elemento e sua causa, è assolutamente necessario, oppure non esiste alcun essere necessario che sia causa del mondo?

Ora, ognuna delle proposizioni citate può essere in qualche modo argomentata razionalmente, come si rileva dalla storia del pensiero, senza tuttavia che emergano elementi decisivi tali da far escludere l’una o l’altra delle ipotesi in conflitto.

Attraverso ampi ragionamenti, Kant analizza e discute le quattro antinomie, rilevando come le difficoltà nascano dalla mancata distinzione fra il mondo fenomenico e quello noumenico e dalla pretesa della ragione, che aspira all’assoluto, di cogliere i caratteri oggettivi del mondo come è in sé.

Brevemente possiamo cosí riassumere i ragionamenti kantiani. Nella prima antinomia, corrispondente ai contenuti della cosmologia razionale,

• sono false sia la tesi che l’antitesi: il mondo non è né finito né infinito relativamente allo spazio e al tempo, ma è un insieme di fenomeni potenzialmente indefinito, esso va infatti costituendosi nel tempo.

Nella seconda e terza antinomia, la tesi e l’antitesi potrebbero essere entrambe vere (ma non è detto che lo siano) senza tuttavia contraddirsi fra loro, perché ciascuna si riferisce a un diverso ambito rispetto all’altra: l’una al mondo fenomenico dell’esperienza, l’altra al mondo noumenico delle cose in sé.

Per esempio, riguardo ai fenomeni si può ritenere vero – in conformità al modello della filosofia naturale newtoniana – che tutto accade secondo leggi causali; ma riguardo ai noumeni è possibile invece ammettere l’esistenza della libertà, ovvero l’esistenza di una volontà libera all’origine delle nostre azioni; è anzi questo il fondamento irrinunciabile della vita morale.

4.4. L’idea di dio

Nella teologia razionale (ovvero in quel settore della metafisica che si occupa della realtà trascendente), l’idea di Dio esprime l’ideale di un essere assoluto, incondizionato, perfetto, che costituisce l’unità di tutti i possibili predicati (ovvero tutte le possibilità dell’essere), la totalità del reale, di cui ciascun singolo ente non è che una determinazione.

La ragione metafisica, dal punto di vista kantiano, pretende illusoriamente di trasformare quella nozione ideale di una totalità assoluta in un essere reale, un essere supremo, onnipotente e onnisciente, cioè Dio.

Ma la totalità assoluta non può essere oggetto di esperienza, perciò non ci può essere alcuna conoscenza scientifica, razionalmente dimostrata, intorno a Dio.

Kant confuta in maniera puntuale i tre tipi di ragionamento a cui possono essere ricondotte le prove elaborate dalla metafisica nel corso dei secoli per dimostrare l’esistenza di Dio:

• la prova ontologica, formulata innanzitutto da Anselmo d’Aosta, che deduce l’esistenza di Dio dalla sua essenza di essere perfettissimo;

• la prova cosmologica che, a partire dalla contingenza del mondo, afferma l’esistenza di un essere necessario all’origine di tutte le cose;

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• la prova fisico-teologica che, a partire dall’ordine del mondo, afferma l’esistenza di un essere intelligente come artefice di quell’ordine.

Vediamo i punti essenziali delle critiche kantiane.

• L’errore della prova ontologica consiste nel passaggio arbitrario dal piano del pensiero a quello dell’essere, dal piano logico a quello ontologico. La prova funzionava più o meno così, per secoli: se pensiamo a un essere che assomma su di sé tutte le perfezioni, non possiamo poi non pensarlo esistente, altrimenti non sarebbe perfetto: da qui la necessiatà della sua esistenza. Ecco che da un’idea si vorrebbe far derivare una realtà.

Ma l’esistenza – afferma Kant – non è un predicato logico, è un predicato reale che può essere colto solo attraverso l’esperienza. Non è un attributo che si aggiunge ad altri: è il predicato senza il quale non vi sarebbe alcuna possibilità di attribuire predicati.

L’esistenza non è una qualità, una caratteristica che possa essere compresa fra quelle che definiscono una cosa, ma è anzi il fondamento stesso affinché quella cosa possa ricevere determinate caratteristiche.

• L’errore fondamentale della prova cosmologica consiste nell’applicare a un ente che trascende l’esperienza il concetto di causa, cioè un concetto puro dell’intelletto, che come tale opera la sintesi fra rappresentazioni empiriche.

Nella prospettiva kantiana la sintesi si colloca sempre, per cosí dire, a livello orizzontale, all’interno del mondo fenomenico, non in verticale, come raccordo fra mondo fenomenico e mondo noumenico. Di qui, l’impossibilità del passaggio – nell’ambito della conoscenza scientifica – dal piano empirico a quello trascendente.

La prova cosmologica può al massimo condurre alla nozione di una causa prima, ma per realizzare il passaggio dal concetto di essa all’esistenza, sarebbe necessario ricorrere alla prova ontologica, che, come abbiamo appena visto, è inaccettabile.

• Infine, per quanto riguarda la prova fisico-teologica, essa poggia sull’analogia con l’arte umana; è dunque un argomento empirico, una prova al massimo dell’esistenza di un architetto del mondo, non di un Dio creatore.

Se dalla nozione di un architetto del mondo si vuole arrivare a quella di un ente necessario, si ricade nelle prove precedenti, già messe da parte.

4.5. L’uso regolativo delle idee

Con la «Dialettica trascendentale», Kant arriva dunque a escludere la possibilità di costruire una scienza metafisica; la naturale aspirazione della mente umana a dare risposte univoche e sicure sui problemi

• dell’immortalità dell’anima,

• la libertà nel mondo,

• e l’esistenza di Dio

non può essere soddisfatta nell’ambito della conoscenza scientifica.

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Le illusioni metafisiche discendono dall’uso scorretto delle idee della ragione; le idee vengono cioè usate come i concetti dell’intelletto per “costituire” oggetti, secondo quanto esposto nell’«Analitica trascendentale», dove costituire significa appunto rappresentare un oggetto in quanto oggetto di conoscenza.

La scorrettezza sta nell’uso costitutivo delle idee che, non avendo un materiale empirico a cui applicarsi, non possono essere usate allo stesso modo delle categorie.

Come sappiamo, i concetti puri possono essere legittimamente usati solo in raccordo con i dati sensibili, per costituire gli oggetti della conoscenza, i fenomeni, e garantirne la realtà oggettiva in quanto fenomeni.

Al contrario, le idee della ragione, prive come sono di riferimenti empirici, se usate costitutivamente danno luogo solo all’esistenza di oggetti vuoti, illusori (l’anima, il mondo, Dio).

Ma c’è anche un uso buono delle idee della ragione, l’uso che Kant indica come regolativo: attraverso di esso non si tende a conoscere gli oggetti trascendenti l’esperienza, ma si traggono utili spunti per l’organizzazione della conoscenza.

Il concetto di totalità incondizionata, espresso a vari livelli dalle idee della ragione, serve infatti a promuovere l’unità sistematica del sapere, perché solo attraverso il riferimento al tutto è possibile cogliere i limiti oggettivi del nostro conoscere e quindi determinare la collocazione e il ruolo che spettano alle singole conoscenze, cosí come solo in relazione al disegno complessivo si possono collocare le singole tessere di un mosaico.

Secondo il corretto uso regolativo, le idee

• indicano all’intelletto la via della ricerca, perché nessuna conclusione raggiunta sul piano scientifico può mai essere ritenuta esauriente e definitiva;

• nello stesso tempo, esse avvertono che il campo della razionalità è piú ampio di quello che l’intelletto umano riesce a raggiungere.

Ciò significa, in altre parole, che esistono oggetti intelligibili che sfuggono alle possibilità della comprensione umana.

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