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"Tibet" di Roberto Carifi. La libertà oltre le cause del dolore.

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Academic year: 2021

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Tibet di Roberto Carifi:

la libertà oltre le cause del dolore

Tommaso Meozzi

Con la sua nuova raccolta di poesie, Tibet (Le Lettere, 2011), Roberto Carifi ci accompagna in uno spazio contemplativo in cui il dolore si scioglie, per divenire estatica visione del dolore. Il ‘grido’ è elemento ben presente fin dall'inizio della raccolta, e costituisce il punto in cui la sofferenza del soggetto raggiunge il momento più intenso, per trapassare poi nel suo opposto, l'assenza di ogni lacerazione individuale, e l'unione con le cose che popolano il mondo.

In questo cammino spirituale elementi provenienti dalla cultura buddista, di volta in volta esplicitamente nominati, si fondono con immagini che evocano un contesto simbolico più vicino a quello cristiano, in particolar modo relativo alla passione e alla trasfigurazione di Cristo: “(...) senti l'ululato/ che piange, che piange/ ti sentitai trasformato/ fino alle braccia spalancate.”1, “Vidi e non vidi, poi cessai di immaginare,/ indovinai il costato vicino al cuore,”2. Ed è questa l'energia composita che si sente al fondo della poesia di Carifi: l'eliminazione del dolore egoistico, attraverso il progressivo distacco dell'Io dalla volontà di possesso sulle cose del mondo, si fonde alla compassione per una sofferenza insanabile, che riguarda tutti gli esseri viventi.

In questo senso già i titoli delle sezioni offrono una chiave interpretativa accostando il “Samadhi”, pratica della contemplazione buddista, a “Le ferite di tutti”, espressione che evoca un cammino di sofferenza e di riscatto dal dolore individuale. Le poesie si articolano come variazioni su alcuni costanti nuclei simbolici, che danno al lettore la possibilità di orientarsi all'interno della così densa materia emotiva di Tibet: tra i nuclei fondamentali emergono il già citato “ululato”, il “ventre”, la “neve”, gli “animali”.

Il “ventre” è il luogo del corpo dove nasce la brama di possesso, e è da qui che inizia il percorso di sublimazione, che prende i tratti di un radicale svuotamento, nell'ascetica separazione del soggetto dall'urgenza del desiderio: “Ho perso tutto, tutto,/ al posto del ventre un lucernario”3, “purissimo spirito era il ventre”4.

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La “neve” è forse l'elemento che più caratterizza la raccolta di poesie Tibet, e questo sia per la sua frequenza (compare, se si comprendono le sue modulazioni aggettivali, in 14 componimenti), sia per il suo fondamentale rapporto con un tempo che non è più quello della linearità e della razionale concatenazione di causa e effetto, ma della ciclicità, e del periodico, rituale, ritorno ad una verità aderente alle radici più profonde dell'Essere. Ecco come la neve segna la rivelazione della «verità»: “da una parte ci sono le nebbie/ e dall'altra parte le nevi che portano alla verità,/ essa ci appare quando la neve ha smesso di cadere/ ed è lì, tutt'uno con le cime.”5. Ed è sempre la neve che dà inizio al cammino dei «bodhisattva», coloro che sono vicini al Buddha e che guidano gli altri: “poi la neve cade lentamente e i bodhisattva,/ esseri dell'illuminazione, fanno strada a tutti,/ uomini e animali, anch'io li seguo.”6. La neve costituisce però un elemento ambivalente: scandisce il cammino verso le “cime”, verso l'ascesi, e accompagna il “pellegrino”7 nel suo doloroso percorso di raccoglimento, misurando il lento sedimentarsi dell'esperienza, che non può essere in alcun modo forzato. Solo quando la neve smette di cadere la verità può rivelarsi, nell'anima di chi ormai guarda la sofferenza senza più essere soverchiato dall'angoscia: “dopo essere passato per i corpi squartati/ ed avere ringraziato il più grande,/ seduto accanto a lui con la faccia d'acciaio,/ non ero più nulla e la neve mi copriva.”8.

Elemento liminale tra morte e vita, la “neve” è costantemente sul punto di trasformarsi in “ghiaccio” e di assumere così una valenza di inquietante immobilità. E' attorno ad un “lago ghiacciato”9 che si sviluppa la capacità contemplativa, là dove il desiderio del “ventre” è placato, ma forse, anche, inconsciamente rimosso, se è vero che i pellegrini nel loro errare “(...) tornavano con un tozzo di pane,/ sfatti, sfiniti con i cappelli e le sciarpe,/ ognuno con una foto della madre morta/ vicino al ghiacciaio.”10. Ed è infatti dalla rottura dei ghiacci che rinasce il sentimento della solidarietà, e che le voci sopite della memoria tornano a relazionarsi l'una con l'altra: “So che nulla accade e tutto può accadere/ ma se il ghiaccio si spalanca/ e si spezzano le nevi/ tutti ritornano, uno per uno/ si stringono le mani,”11.

A questo proposito è fondamentale l'immagine degli “animali”, che chiarisce il significato etico di questa moltiplicazione dell'Io. L'animale è innanzi tutto figura che si fa portatrice di un dolore non razionalizzato a priori, e quindi espresso in tutta la sua lacerante intensità. All'“ululato” che erompe dal “nulla” nella prima poesia di Tibet, fa eco l'urlo dell'uomo nella seconda. La pluralità degli animali rappresenta la lotta all'interno di un Io frammentato, spinto da desideri non composti razionalmente: “Cadono fiocchi di neve, giù fino al bivio/ dove formano una pietra, un talismano/ e dove gli uomini si riducono a nulla,/ fanno

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un tempio dove gli animali si riposano,/ dove gli ultimi rimasti tentano di uccidersi,”12. Al dolore viscerale degli «animali» corrisponde un'aggressività non sublimata, che talvolta li connota nella più cruda variante di “bestie”. Non è un caso che proprio dal riconoscimento di questo teatro interiore di “bestie” inizi il viaggio dei pellegrini: “Sono stranieri che hanno lasciato terre,/ bestie che divennero purissime,”13. La condizione di ‘bestia’ non viene definitivamente superata da quella di ‘uomo’, ma piuttosto rilevata nell'uomo stesso e purificata, fino al raggiungimento di una prospettiva non discriminatoria. Gli animali, con la loro sofferenza e aggressività, sono comunque “innocenti”, in quanto mancano della consapevolezza: “Mi sognerò nei campi di sole/ dove non esistono uomini da salvare/ e tutto resiste alla condanna, (...)/ nei campi di sole non c'è anima viva/ ma solo animali innocenti.”14.

Nel ricco patrimonio simbolico, di cui abbiamo analizzato solo alcuni elementi, che permea le poesie di Tibet, sono inseriti a tratti accenni alla sofferenza più concreta e corporale (“gli ictus che prendono piede”15, “con un catetere che mi ricorda il mio morire”16, “esseri che vanno lungo la marina/ malati di malattie incurabili,”17), che rendono conto dell'impotenza dell'uomo di fronte all'evento inevitabile della morte, e che al tempo stesso innalzano a un'umanità sublime la persistente, altrettanto insopprimibile ricerca di una parola tra gli uomini che sia chiara, e che possa dare vita a un momento di verità: “Tu parli come si deve, perciò io ti ringrazio/ come ci si ringrazia quassù, tra le nevi,/ qui è bastato un piccolo gesto/ che distruggesse tutte quante le acque,/ fu un atto levigato, di qualche migliaia di anni,”.18 Ed è nel lavoro “di qualche migliaia di anni” che si inserisce la poesia di Roberto Carifi.

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1 Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere, Firenze 2011, p. 9. 2 Ivi, p. 52. 3 Ivi, p. 37. 4 Ivi, p. 39. 5 Ivi, p. 45. 6 Ivi, p. 57. 7 Ivi, p. 61. 8 Ivi, p. 79. 9 Ivi p. 12. 10 Ivi, p. 61. 11 Ivi, p. 11. 12 Ivi, p. 36. 13 Ivi, p. 46. 14 Ivi, p. 54. 15 Ivi, p. 30. 16 Ivi, p. 39. 17 Ivi, p. 44. 18 Ivi, p. 86.

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