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Riflessi della riforma costituzionale sulla tutela giurisdizionale e l’Autorità giudiziaria

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di Ferruccio Auletta

Professore ordinario di Diritto processuale civile

Università degli Studi di Napoli Federico II

Riflessi della riforma costituzionale

sulla tutela giurisdizionale e l’Autorità

giudiziaria

(2)

Riflessi della riforma costituzionale sulla

tutela giurisdizionale e l’Autorità giudiziaria

*

di Ferruccio Auletta

Professore ordinario di Diritto processuale civile

Università degli Studi di Napoli Federico II

Sommario: 1. Una riforma di quasi tutti i poteri dello Stato? 2. La riserva di giurisdizione sulla

«conseguente decadenza da senatore» per la cessazione della carica elettiva regionale o locale. 3. Le forme e condizioni particolari di autonomia delle regioni ordinarie «limitatamente all'organizzazione

della giustizia di pace». 4. L’introduzione del «giudizio preventivo di legittimità costituzionale». 5. Il divieto

di «ripristinare l'efficacia di norme di legge […] che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi»: profili critici sui processi pendenti. 6. La sicura assenza di riflessi su «giurisdizione e norme processuali [e]

giustizia amministrativa» dal venir meno della legislazione regionale c.d. concorrente. 7. La ventura

giurisdizione sui rapporti di lavoro dei «dipendenti del Parlamento» nonché «delle formazioni organizzate

dei membri del Parlamento».

1. Una riforma di quasi tutti i poteri dello Stato?

È stato scritto che il Testo di legge costituzionale (TLC) apparso nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016 è «una riforma costituzionale di tale portata che investe quasi tutti i poteri dello Stato» (E. de Mita, Il Sole24ore, 28 maggio 2016, 11, a proposito della tecnica referendaria più adatta a rispondere a quesiti diversi fra loro).

Anche per verificare o escludere l’appropriatezza dell’avverbio, vorrei censire qui i punti in cui oggetto o questione rilevante della Legge costituzionale siano le forme della tutela giurisdizionale o il modo di essere venturo dell’ A.G.

2. La riserva di giurisdizione sulla «conseguente decadenza da senatore» per la cessazione della carica elettiva regionale o locale.

Per l’art. 7 del TLC (Titoli di ammissione dei componenti del Senato della Repubblica), all'art. 66 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Il Senato della Repubblica prende atto della

cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore».

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in materia di verifica dei poteri, ossia della competenza a esercitare in via definitiva la funzione giurisdizionale sopra i titoli di ammissione dei rispettivi componenti, nonché le cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità. E la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto la «natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in

via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell’art. 66 Cost.» (sent. 19 ottobre

2009, n. 259; cfr. anche Cass. sez. unite 15 febbraio 2013, n. 3731).

La questione si fa adesso per la natura della c.d. presa d’atto: questione dalla cui soluzione discende, per es., la possibilità di ravvisare o meno nel competente organo del Senato un possibile giudice a

quo ai fini dell’ eventuale promovimento del giudizio di costituzionalità o di rinvio pregiudiziale

alla Corte UE.

La nuova disposizione, modificata nel corso dell’esame in prima lettura sia dal Senato sia dalla Camera, lascia inalterato il testo vigente del primo comma dell’art. 66, che attribuisce a tutt’ e due le Camere la c.d. verifica dei poteri dei rispettivi membri. Già il testo approvato dal Senato in prima lettura (A.C. 2613) prevedeva in realtà un’asimmetria tra Camera e Senato, e cioè: nulla riuscendo cambiato per la Camera, al Senato si attribuiva invece il solo giudizio sui titoli di ammissione dei componenti e non anche quello sulle cause sopravvenute di ineleggibilità e di incompatibilità. E con l’introduzione di un secondo comma si era previsto che delle cause impeditive del corso ulteriore del mandato venisse soltanto data comunicazione da parte del Presidente del Senato. Era stato, peraltro, lo stesso disegno di legge governativo (A.S. 1429) a promuovere la differenziazione tra le due Camere, lasciando al Senato non più un potere di

giudizio ma di sola verifica sui titoli di ammissione dei senatori. Sennonché, il testo era stato poi

modificato nel corso dell’esame presso la Commissione Affari costituzionali del Senato, e nella relazione per l’aula del Senato (seduta del 14 luglio 2014) la sen. Anna Finocchiaro aveva manifestato l’opinione che la sottrazione di competenza avrebbe costituito negazione di una delle forme essenziali di sovranità della Camera.

Con la nuova composizione del Senato vengono, dunque, in rilievo:

- titoli che riguardano direttamente lo status di senatore, che prescindono dalla carica elettiva regionale o locale ma non anche dalla legittimità del procedimento elettorale e insussistenza delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di senatore: su tali titoli il Senato continuerà a giudicare;

- titoli che risalgono allo status di consigliere regionale o di sindaco, che risulta a propria volta condizionato dall’ insussistenza di cause di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità

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autonomamente riferibili alla carica regionale o locale: è sul venir meno della condizione di consigliere regionale o di sindaco -vale a dire la decadenza a seguito dell’accertamento di una causa di ineleggibilità, incandidabilità o incompatibilità, ovvero delle dimissioni o dello scioglimento del consiglio comunale per il sindaco- che il Senato si limiterà ad una mera presa

d’atto, e quindi più non giudicherà su quelle cause che impediscono lo svolgimento del mandato di

senatore siccome dipendenti dalla carica elettiva regionale o locale.

Pertanto, «ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità», ma al Senato mancherà ogni corrispondente potere quando la decadenza dipenderà dalla cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. E poiché il potere di giudicare al riguardo di tale cessazione spetta esclusivamente all’A.G., col venir meno della riserva parlamentare neppure si darà materia di eventuale conflitto tra poteri sopra la pronuncia di decadenza quando, infine, la relativa dichiarazione risulterà pre-giudicata dall’ accertamento proprio dell’A.G. In tali casi, la decadenza dalla carica di senatore, insomma, diviene materia giustiziabile soltanto davanti all’A.G., accertabile e dichiarabile da questa.

In sintesi, a parte le peculiarità del tema della sospensione (prevista in caso di determinate condanne non definitive e di applicazione con provvedimento non definitivo di una misura di prevenzione antimafia o di determinate misure cautelari personali: cfr. artt. 8 e 11), sarà (soprattutto) la decadenza da senatore che consegue a quella (di diritto) dalle cariche elettive regionali e negli enti locali ex. d.lgs. n. 235/2012 destinata a costituire materia riservata alla giurisdizione: appare invero costituzionalmente impedita ogni interferenza, nonostante gli effetti sulla composizione del Parlamento, di altri e concorrenti poteri di giudizio, una volta disposto che il Senato può nent’altro che «prende[re] atto» della decadenza da senatore.

3. Le forme e condizioni particolari di autonomia delle regioni ordinarie «limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace».

Gli artt. 10 e 30 del TLC, rispettivamente dedicati al procedimento legislativo e alle modifiche dell’art. 116 Cost., danno ancora conto ancora di questa possibilità, cioè che «ulteriori forme e

condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse [e non più soltanto “su iniziativa della Regione interessata”:

n.d.r.], sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119, purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio. La legge è approvata da entrambe

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con oggetto proprio, [che] possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma» (come dirà il nuovo art. 70 Cost.).

È noto che il procedimento già previsto dall’art. 116, terzo comma per il conferimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale non ha trovato attuazione, tanto meno per l' organizzazione della giustizia di pace. Ciononostante, l’impianto vigente è destinato a permanere, sia pure con alcune significative modifiche, le quali però non appaiono specialmente congruenti alla materia in esame.

In generale, viene ridotto l’ambito delle materie nelle quali possono essere attribuite particolari forme di autonomia alle regioni ordinarie, ma viene confermata senz’altro (e, dunque, con quella maggiore enfasi implicata dalla contestuale riduzione di ipotesi omologhe) tale possibilità per la organizzazione della giustizia di pace.

Ora, ai fini dell’attribuzione di tali forme e condizioni particolari, risulta esplicitata una condizione in base alla quale, oltre al rispetto dei principi di autonomia finanziaria degli enti territoriali sanciti dall’art. 119 Cost., è necessario che la «regione interessata» risulti in equilibrio tra le entrate e le spese del relativo bilancio.

Su questo punto, una valutazione di coerenza si impone anzitutto con il trend normativo costante e recente, addirittura in corso: che la dimensione territoriale e sociale rilevante per l’organizzazione della giustizia di pace non è (mai stata) costituita dall’ ambito regionale, ma soltanto da quello locale, stabilmente al di fuori di ogni progetto di area vasta (a intendere ciò basterebbe leggere la successione dei decreti che determinano la cessazione di sedi di giustizia di pace all’esito del programma statuale di soppressione: cfr., da ultimo, D.M. 19 aprile 2016 -

Esclusione dall'elenco delle sedi degli Uffici del Giudice di pace mantenuti ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 156/2012 dell'Ufficio del Giudice di pace di Francavilla in Sicilia dall'elenco delle sedi mantenute).

Neanche la più recente normativa (in materia) -cfr. legge 27 febbraio 2015, n. 11, che ha convertito con modificazioni il D.L. 31 dicembre 2014 n. 192, disponendo il differimento del termine per consentire agli enti locali, le unioni di comuni e le comunità montane di chiedere il ripristino degli uffici del giudice di pace già soppressi- lascia emergere alcun profilo di rilevanza della dimensione regionale del fenomeno. Tant’è che in attuazione della stessa normativa, dal prossimo 2 gennaio 2017 l’ Amministrazione della Giustizia ha già decretato che, valutati l’impegno di spesa, gli ambiti territoriali coinvolti e il personale messo a disposizione degli enti per essere destinato agli uffici del giudice di pace, n. 51 di questi uffici siano da ripristinare; ed è sufficiente scorrere l’elenco delle sedi ripristinate per rimanere persuasi della nessuna capacità conformativa

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esercitata dall’istituzione regionale in queste fondamentali scelte organizzative della giustizia di prossimità.

Continua a registrarsi, insomma, l’assenza di qualsivoglia rete organizzativa tra gli uffici di pace e men che meno è data rilevarne alcuna su base territoriale e di consistenza regionale: ente, quello regionale, che -del resto- rimane privo dell’ intelligenza del fenomeno (e dello strumentario occorrente) e, dunque, tale da far apparire come incongrue -allo stato- le venture condizioni costituzionali per una geografia giudiziaria effettivamente variabile su scala regionale: una scala sulla quale vale forse la pena riflettere oltre dal momento che l’ isonomìa organizzativa dell’offerta giudiziaria costituisce risposta inadeguata a una domanda di giustizia che, quando considerata in cifra territoriale, si presenta assai variegata.

4. L’introduzione del «giudizio preventivo di legittimità costituzionale».

All'articolo 73 della Costituzione, il primo comma sarà sostituito dai seguenti: «Le leggi sono

promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall'approvazione.

Le leggi che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un

quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall'approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può

essere promulgata».

In aggiunta, l’art. 39, c. 11., TLC, prescrive che «in sede di prima applicazione, nella legislatura in corso

alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, su ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data, o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o un terzo dei componenti del Senato della Repubblica, le leggi promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni».

Nel corso dell’esame parlamentare è stato evidenziato come la ratio della nuova previsione sia, in particolare, quella di consentire che la Consulta possa pronunciarsi prima che le leggi elettorali

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dopo aver ricevuto attuazione in turni elettorali, così producendo effetti di difficile reversibilità. La sentenza che conclude il giudizio preventivo non appare destinata a rientrare tra le tipologie di decisioni della Corte costituzionale oggi conosciute, proprio in quanto ha per oggetto un atto non avente (ancora) forza di legge. Del resto, all'art. 134 della Costituzione, dopo il primo comma risulta aggiunto il seguente: «La Corte costituzionale giudica altresì della legittimità costituzionale delle leggi

che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell'articolo 73, secondo comma». Il che prova l’alienità del tipo di pronuncia da quelli già in elenco, e anche per

questo sembra destinata a persistere la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale (finanche) de eadem re, in via incidentale, dopo l’eventuale entrata in vigore della legge (determinata dall’esito di non fondatezza della questione posta col ricorso preventivo). L’alternativa, costituita dalla spoliazione dell’essenziale prerogativa di rimessione da parte dell’A.G. e la creazione di una non concepibile zona franca, non è logicamente tollerabile per molti ordini di motivi: in primo luogo, la modificazione dell’ordinamento giuridico nel tempo espone il giudicato di rigetto della q.l.c. ai naturali limiti temporali della regiudicata, i quali già di per sé possono determinare il superamento del primo giudizio di legittimità sopra la norma (ma meglio sarebbe dire, lì, la disposizione); in secondo luogo, un giudizio sulla legge dato ante diem non potrebbe investire il segmento ulteriore della sua promulgazione, per cui (almeno ai fini della validità dell’atto primario) rimarrebbero aperte le vie d’accesso ordinarie al sindacato di costituzionalità.

Peraltro, a parte la suitas dell’oggetto e le modificazioni che l’ordinamento è capace di apportarvi quando la disposizione viene irretita dalle altre norme, anche nei giudizi preventivi di legittimità costituzionale la Corte costituzionale risulterà adita «su ricorso motivato». Questo dato -esclusa così l’ipotesi del controllo officioso- induce a ritenere che, come al solito, la Corte (potrà) limita(re) il proprio giudizio ai profili di legittimità costituzionale sollevati e a quelli strettamente consequenziali, rispetto ai quali il sindacato di non fondatezza avrà come effetto preclusivo soltanto di inibire, nella misura corrispondente alla concreta estensione del giudizio, l’altrimenti regolare sindacato altrui in funzione della promulgazione medesima.

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5. Il divieto di «ripristinare l'efficacia di norme di legge […] che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi»: profili critici sui processi pendenti.

Per l’art. 16 del TLC (Disposizioni in materia di decretazione d'urgenza), all'art. 77, 4° comma, della Costituzione è disposto che «Il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge:

disciplinare le materie indicate nell'articolo 72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina dell'organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare

l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento».

Si tratta di norma la quale, specie in questa parte finale, può avere, stando all’ambito di interesse per il presente intervento, un impatto sulla disciplina delle questioni connesse all’ applicazione dell’art. 5 c.p.c. e al principio di c.d. perpetuatio jurisdictionis: storicamente, infatti, problemi hanno riguardato gli eventi che colpiscono l’istituzione di un organo giudiziale o la sua composizione, rispetto ai quali la sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità potrebbe stimolare, in omaggio a principi di pari levatura da bilanciare, trattamenti legislativi differenziati, vale a dire trattamenti diversi per i processi in corso e per quelli venturi.

Ciò porta con sé anche l’eventuale esigenza di urgente regolamentazione ad hoc, che forse può giungere, ricorrendo determinate condizioni, fino a preservare (dal-) la (in-) efficacia gli atti fondati sulle norme dichiarate illegittime (si pensi al riconoscimento di un termine apposito per far valere il conseguente vizio della decisione in sede di impugnazione o per la devoluzione della medesima questione ad altro giudice dedicato, con sequela di preclusione dei poteri così assegnati quando non esercitati in conformità delle previsioni legislative sopravvenute).

Ora, operazioni del genere potrebbero (se non altro, logicamente) implicare il «ripristin[o del]l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi».

Sub specie facti, comunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dà luogo, come rivelano

anche le contigue vicende censite nell’art. 2 c.p., a una successione di norme nel tempo, e non può pregiudizialmente escludersi dal novero di fenomeni del genere che un atto concepito in base alla norma anteriore venga dotato di efficacia ultrattiva (più o meno effimera) pur dopo la relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale, almeno qualora tanto risulti essenziale ad assicurare ulteriori valori di rango costituzionale concernenti soprattutto i modi di essere della tutela giurisdizionale e dell’A.G.

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amministrativa» dal venir meno della legislazione regionale c.d. concorrente.

Le peculiari materie dell’art. 117, lett. l), Cost., cioè «giurisdizione e norme processuali; […] giustizia

amministrativa» da nessun riflesso della soppressione della legislazione c.d. concorrente appaiono

lambite, e sembra destinata all’irrilevanza l’ipotesi di un incremento dell’area della legge dello Stato per via della confluenza in essa di blocchi già attribuiti all’area intersecante della legislazione ripartita con la fonte regionale: stando all’ originalismo di Corte cost. 13 luglio 1963, n. 128, «è

ormai indubitabile l'esistenza di una riserva assoluta di legge statale in materia penale e processuale. […]. Onde può affermarsi che [gli atti con forza di legge] concernenti materia penale e processuale eccedono la competenza regionale e sono pertanto illegittimi».

Per definizione, dunque, nessun incremento dell’ambito in parte qua già popolato da sola legge statuale potrebbe adesso dipendere dall’annessione a quest’ultima anche di quei blocchi di materie già rientranti nell’area della legislazione concorrente, destinata appunto ad annichilirsi.

7. La ventura giurisdizione sui rapporti di lavoro dei «dipendenti del Parlamento» nonché «delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento».

Per l’art. art. 40, comma 3 TLC (Disposizioni finali), «tenuto conto di quanto disposto dalla presente legge

costituzionale, entro la legislatura in corso alla data della sua entrata in vigore, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica provvedono, secondo criteri di efficienza e razionalizzazione, all'integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione. A tal fine è istituito il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, formato dal personale di ruolo delle due Camere, che adottano uno statuto unico del personale dipendente, nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le

modificazioni successive da approvare in conformità ai princìpi di autonomia, imparzialità e accesso

esclusivo e diretto con apposito concorso. Le Camere definiscono altresì di comune accordo le norme che

regolano i contratti di lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento, previste dai regolamenti. Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati

anche con i terzi».

La disposizione in esame prevede dunque la possibilità di introdurre una disciplina per i contratti di lavoro dei dipendenti «delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento» dettata «di comune

accordo» dalle Camere, in forme evidentemente diverse dalla legge ordinaria: ciò che di per sé crea,

per la soggezione esclusiva del giudice alla legge («soltanto alla legge»), un tema disputabile circa i corrispondenti poteri dell’A.G.

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Inoltre, per i rapporti di lavoro dei «dipendenti del Parlamento» è chiaramente, ancorché non esplicitamente mantenuta l’autodichia (relativa, siccome immune da controllo incidentale ma pur sempre esposta al sindacato della Corte cost. per conflitto di attribuzione, e quindi non assoluta al modo di quella stabilita dall’art. 66, 1° comma, Cost.: retro, § 1.)

Viene allora fatto di interrogarsi, di seguito a Cass. [ord.], 19 gennaio 2015, n. 740, se il venturo «statuto unico del personale dipendente», contenendo altresì «le procedure per le modificazioni successive», possa sostanziare l’avvio del processo di «revisione» in senso proprio, sin qui negato dalla giurisprudenza di legittimità.

Sostiene, infatti, la Corte suprema che attualmente «i giudici delle controversie dei dipendenti (nella specie, del Senato: n.d.r.), si pongono, rispetto alla giurisdizione ordinaria, come giudici speciali,

istituiti dopo l'entrata in vigore della Costituzione, senza che in essa ci sia una salvezza, così come invece espressamente previsto per il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; salvezza che deroga a tale generale divieto proprio per essere essa di rango costituzionale. Ed ove anche si ravvisasse una continuità con analogo apparato di autodichia nel sistema ordinamentale prerepubblicano, non appare soddisfatta l'ulteriore prescrizione della VI disposizione transitoria della Costituzione che prescrive la revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti al momento di entrata in vigore della Costituzione; prescrizione che invece - può notarsi incidentalmente - si è ritenuto essere soddisfatta con riferimento al procedimento attivato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, di cui parimenti la giurisprudenza di questa Corte, quella del Consiglio di Stato e più recentemente anche quella della Corte costituzionale, hanno predicato la natura giurisdizionale».

Secondo la Corte persiste, dunque, «il difetto di revisione degli organi di autodichia», sebbene l’indomani della pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 28 aprile 2009, Savino ed altri c. Italia), misure di revisione (per la Camera dei deputati, almeno) risultano avviate: misure non sufficienti perché anche a voler ritenere «che il procedimento di revisione, prescritto dalla citata VI

disposizione transitoria, abbia avuto in realtà corso [….], vi sarebbe comunque, a tutto concedere, la violazione dell'art. 111, settimo comma, Cost. coniugato all'art. 3, primo comma, Cost.», i.e.: continua a

mancare «la possibilità del ricorso straordinario per cassazione che invece il settimo comma dell'art. 111 Cost.

riconosce nei confronti di qualsivoglia sentenza che, ove non impugnabile - altrimenti, può essere censurata per violazione di legge; garanzia questa che costituisce proiezione del principio di eguaglianza».

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