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Effetto del trattamento con metformina e/o sitagliptin sulla funzione beta-cellulare e sull'insulino-sensibilità in donne con pregresso diabete gestazionale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Scuola di Specializzazione in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Tesi di specializzazione

Effetto del trattamento con metformina e/o

sitagliptin sulla funzione beta-cellulare e

sull’insulino-sensibilità in donne con pregresso

diabete gestazionale

Relatore:

Candidata:

Chiar.mo Prof. Stefano Del Prato

Dott.ssa Sara Barone

Anno Accademico 2016-2017

(2)

INDICE

ABSTRACT………...………..4

PARTE GENERALE

1. PREDIABETE: UN RISCHIO PER LA PROGRESSIONE A DIABETE MELLITO TIPO 2 ……….. 8

1.1 Strategie di intervento per la prevenzione del diabete tipo 2……….8

1.1.1. Intervento sullo stile di vita………. 11

1.1.2. Intervento farmacologico……….14

2. DIABETE GESTAZIONALE………. . 20

2.1. Omeostasi glucidica in gravidanza………..20

2.2. Diabete gestazionale e il rischio per lo sviluppo del diabete tipo 2…………22

2.2.1 Incidenza del diabete post-partum……… 25

2.2.2. Fattori che influenzano l’incidenza del diabete post-partum ………. 26

2.2.3. Fattori di rischio genetici ……… 27

2.2.4. Fattori di rischio ambientali ………28

2.3. Strategie di prevenzione del diabete mellito tipo 2 nelle donne con pregresso diabete gestazionale ……….. 28

PARTE SPERIMENTALE

1. OBIETTIVI DELLO STUDIO ……….42

2. MATERIALI E METODI ………. 43

2.1. Soggetti ……….. 43

2.2.Disegno dello studio ………43

2.3. Durata dello studio ………50

(3)

2.5. Dimensione del campione ………. 51

3. RISULTATI ………... 51

3.1. Effetto del trattamento sulle caratteristiche antropometriche e profilo lipidico……… ………..……… 51

3.2. Effetto del trattamento sulla funzione beta-cellulare e sensibilità insulinica……….….………..53

4. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ……….69

BIBLIOGRAFIA……….…...77

(4)

ABSTRACT

Background: L’insulino-resistenza e la disfunzione della beta-cellula sono

meccanismi essenziali nella patogenesi del diabete gestazionale. Nelle donne con pregresso diabete gestazionale è rilevabile, già ad un anno dal parto, una persistenza della disfunzione beta-cellulare che, insieme all’insulino-resistenza, può favorire la progressione a prediabete e diabete. L’intervento farmacologico con metformina, una biguanide in grado di ridurre l’insulino-resistenza e inibire la gluconeogenesi epatica, è risultato efficace nei soggetti ad alto rischio con prediabete per prevenire o ritardare il diabete tipo 2. Sitagliptin è un farmaco anti-iperglicemico in grado di inibire la dipepetidil-peptidasi IV e prolungare l’emivita dell’ormone incretinico GLP-1 e, di conseguenza, stimolare la secrezione insulinica. Recenti studi in vitro e nell’animale suggeriscono che la terapia con farmaci incretinici sarebbe in grado di preservare la funzione beta-cellulare e aumentare la massa delle beta-cellule e, di conseguenza, potenzialmente utilizzabili per la prevenzione del diabete tipo 2. Scopo di questo studio è stato confrontare gli effetti della somministrazione orale di metformina e sitagliptin, da sole o in associazione, su regolazione glicemica, funzione beta-cellulare e insulino-sensibilità in donne con pregresso diabete gestazionale.

Disegno dello studio: Studio randomizzato, in doppio cieco.

Metodi: Hanno partecipato allo studio 53 donne con pregresso diabete gestazionale e

parto espletato da almeno 1 anno, che presentavano alterata glicemia a digiuno e/o alterata tolleranza glucidica dopo OGTT (75 gr). Tutte le donne hanno eseguito un clamp iperglicemico (+125 mg/dl al dì sopra della glicemia a digiuno) della durata di

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150 minuti, seguito da stimolo con arginina (5 g/ev al tempo 120’). Dopo il clamp, le donne sono state randomizzate a 3 gruppi di trattamento, secondo uno schema a blocchi: metformina 850 mg bid e sitagliptin 50 mg bid (MET+SITA), n = 19; metformina 850 mg bid (MET), n = 16; sitagliptin 100 mg/die (SITA), n = 18. La durata del trattamento è stata di 4 mesi, nel corso dei quali le donne sono state valutate mensilmente per la verifica di peso corporeo, pressione arteriosa, glicemia a digiuno, presenza di effetti collaterali e/o avversi. Alla fine del periodo di trattamento sono stati ripetuti l’OGTT e il clamp iperglicemico. Durante OGTT e clamp iperglicemico sono stati eseguiti prelievi seriati per la determinazione delle concentrazioni di glucosio, insulina e C-peptide. Sulla base di tali parametri sono stati calcolati i principali indici di secrezione insulinica e insulino-sensibilità durante OGTT (ISI-Matsuda, Insulinogenic index e Disposition index) e clamp iperglicemico (prima, seconda fase di secrezione insulinica, risposta all’arginina e rapporto M/I). I dati sono stati espressi come media +/- deviazione standard o come mediana e range iter quartile nel caso di variabili con distribuzione non-normale. Il confronto tra i gruppi di trattamento è stata eseguito con ANOVA, mentre gli effetti del trattamento sono stati valutati mediante ANOVA per misure ripetute. La partecipazione allo studio era subordinata alla firma del consenso informato e alla comunicazione al comitato etico di tutti gli eventi avversi seri.

Risultati: In totale 40 donne hanno completato lo studio. Sette donne nel gruppo

MET+SITA, 2 nel gruppo MET e 4 nel gruppo SITA hanno interrotto lo studio per ritiro del consenso alla partecipazione. Al basale le caratteristiche antropometriche e metaboliche dei 3 gruppi erano comparabili.

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Dopo il trattamento, il BMI si è significativamente ridotto nei tre gruppi in modo simile (gruppo MET+SITA da 27,62 ± 6,36 Kg/m2 a 26,13 ± 5,70 Kg/m2, p=0,001; gruppo MET da 29,72 ± 6,25 Kg/m2 a 28,53 ± 6,50 Kg/m2 , p=0,012; gruppo SITA da 28,72 ± 6,77 Kg/m2 a 27,67 ± 6,68 Kg/m2, p=0,031). La circonferenza vita si è significativamente ridotta solo nel gruppo SITA (p=0,047), mentre la circonferenza fianchi si è ridotta nelle donne trattate con MET+SITA (p=0,003) e MET (p=0,032), ma non nel gruppo SITA. La pressione arteriosa sistolica si è significativamente ridotta solo nel gruppo MET+SITA (p=0,016). Il profilo lipidico non è stato modificato significativamente da alcun trattamento.

Il gruppo MET+SITA ha mostrato un miglioramento della prima fase della secrezione insulinica (da 1,01± 0,92 ng/ml a 1,32± 1,09 ng/ml, p=0,016), risposta all’arginina (da 0,87±0,44 ng/ml a 1,33± 0,94 ng/ml, p=0,028), Disposition index (da 1,09± 0,47 a 2,16 ± 1,96, p=0.01) e della sensibilità insulinica (da 2,91±1,25 a 5,21± 3,91, p=0,037).

I gruppi MET e SITA hanno mostrato un lieve miglioramento di alcuni indici di secrezione (prima e seconda fase della secrezione insulinica, risposta all’arginina) e sensibilità insulinica (Insulinogenic index), statisticamente non significativo. Una normale regolazione glicemica è stata ripristinata in 7 dei 40 casi, con una superiorità del trattamento MET+SITA (33%) rispetto al trattamento MET (14%) e SITA (7%) (p<0,05).

Conclusioni: Lo studio dimostra che in donne con prediabete e pregresso diabete

gestazionale la terapia con l’associazione MET+SITA è più efficace nel migliorare funzione beta-cellulare e insulino-sensibilità rispetto alla monoterapia con MET e SITA. Inoltre, l’associazione MET+SITA consente di aumentare la probabilità di ripristinare una normale tolleranza glucidica rispetto alla monoterapia con MET o

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SITA, suggerendo un potenziale effetto sinergico sui meccanismi fisiopatologici alla base della progressione dal prediabete al diabete conclamato. Sono comunque necessari ulteriori studi di intervento finalizzati alla valutazione dell’efficacia e sicurezza a lungo termine di tale terapia di associazione, non solo in termini di ripristino della tolleranza glucidica, ma anche in termini di conservazione di una normale funzione beta-cellulare.

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PARTE GENERALE

1. PREDIABETE: UN RISCHIO PER LA PROGRESSIONE A

DIABETE MELLITO TIPO 2

Il diabete mellito tipo 2 è una patologia, con crescente diffusione a livello globale, che interessa il 3-5% della popolazione adulta e rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio indipendenti per malattia cardiovascolare. Questa malattia è spesso diagnosticata con ritardo rispetto alla sua insorgenza, al punto che frequentemente possono essere evidenti le complicanze d’organo già alla diagnosi (1). Il diabete è preceduto dal “prediabete”: studi epidemiologici prospettici hanno dimostrato che la storia naturale del diabete tipo 2 evolve dalla normale tolleranza glucidica al “prediabete”, fino al diabete conclamato. Si stima che circa il 70% dei prediabetici svilupperà il diabete in un tempo più o meno lungo; la restante quota rimarrà immodificata o ritornerà a una condizione di normotolleranza glucidica. Secondo l’American Diabetes Association la diagnosi di prediabete può essere posta sulla base di uno dei seguenti criteri: glucosio plasmatico compreso tra 140 e 199 mg/dL alla seconda ora del test da carico orale di glucosio (OGTT); glicemia a digiuno compresa tra 100 e 125 mg/dL; emoglobina glicata (HbA1c) compresa tra 5.8% e 6.4%.

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Figura 1: criteri per la diagnosi di prediabete

La progressione da normale tolleranza glucidica ad alterata glicemia a digiuno/ridotta tolleranza glucidica a diabete mellito tipo 2 si colloca lungo un continuum, che contrassegna la storia naturale del diabete e che ne lascia prevedere la futura comparsa se non si interviene in maniera preventiva. L’insulino-resistenza è il difetto principale sia nel prediabete sia nel diabete tipo 2; coinvolge fegato, muscoli e tessuto adiposo e precede lo sviluppo della intolleranza glucidica. La perdita della prima fase di secrezione insulinica è caratteristica nella condizione di alterata glicemia a digiuno e/o ridotta tolleranza glucidica. Il deterioramento della funzione beta-cellulare e l’incremento dell’insulino-resistenza sono responsabili della progressione a diabete mellito; fattori genetici e acquisiti (glucotossicità, lipotossicità, deficit/resistenza incretinica) giocano un ruolo importante nel progressivo deterioramento della funzione beta-cellulare (2). I fattori che incrementano il rischio di ridotta tolleranza glucidica sono ben conosciuti e comprendono obesità, età avanzata, storia familiare di diabete, appartenenza a determinate etnie, pregresso diabete gestazionale (3). Dalla International diabetes

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federation desumiamo le dimensioni del fenomeno prediabete; si calcola che a livello mondiale vi siano circa 344 milioni di soggetti con ridotta tolleranza al glucosio (IGT) e che nel 2030 questa cifra salirà a 472 milioni, con una prevalenza, nella popolazione di età compresa tra 20 e 79 anni, destinata a variare dal 10.2 all’11%. Includendo anche i pazienti con diabete conclamato, si può calcolare che, per il 2030, circa un miliardo di soggetti saranno portatori di una forma più o meno grave di alterazione del metabolismo del glucosio. Diventa pertanto di primaria importanza identificare i soggetti a più elevato rischio di sviluppare diabete tipo 2 con l’obiettivo di modificare i meccanismi responsabili dell’evoluzione verso la malattia conclamata, attraverso un intervento che ponga un argine alla diffusione epidemica del diabete prevenendone l’insorgenza a partire dalle sue fasi più precoci, cioè dal prediabete.

(11)

1.1. STRATEGIE DI INTERVENTO PER LA PREVENZIONE DEL

DIABETE TIPO 2

Il diabete tipo 2 è una malattia multifattoriale, dovuta a cause molteplici che dipendono dall’interazione tra fattori genetici e ambientali. Se appare ampiamente dimostrato che i fattori genetici svolgono un ruolo importante nello sviluppo del diabete tipo 2, i fattori ambientali e quelli associati allo stile di vita sono maggiormente implicati nell’aumento di prevalenza della malattia registrato nelle ultime decadi. Al fine di prevenire e/o ritardare l’insorgenza del diabete, sono stati proposti e realizzati numerosi progetti di intervento; le strategie utilizzate si sono differenziate a seconda che il progetto fosse indirizzato all’intera popolazione o ad un gruppo di soggetti più ristretto e a rischio più elevato. In particolare si possono distinguere tre tipi di strategie: strategie a monte (up-stream): programmi diretti alla popolazione generale che comprendono interventi di politica sanitaria e sociale per la promozione di stili di vita più salutari; strategie intermedie (mid-stream): interventi diretti a popolazioni definite o comunità ad alto rischio, che si propongono di modificare lo stile di vita cercando, così, di influenzare il rischio di diabete; strategie a valle (down-stream): programmi di intervento diretti ai soggetti ad alto rischio che, mediante modificazione dello stile di vita (dieta ed esercizio fisico) o uso di farmaci, si propongono di ridurre la conversione a diabete.

Infatti, numerosi studi clinici controllati hanno mostrato che il diabete tipo 2, con le sue complicanze micro e macrovascolari, può essere prevenuto attraverso misure in grado di apportare modificazioni modeste della dieta e dell’attività fisica. Inoltre, diversi studi di intervento farmacologico hanno dimostrato che, grazie all’uso di

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farmaci ipoglicemizzanti, è possibile ridurre del 25–60% il numero di soggetti che sviluppa il diabete.

1.1.1. Intervento sullo stile di vita

L’intervento sullo stile di vita è efficace nel ridurre la progressione dalla ridotta tolleranza glucidica al diabete mellito, migliorando la sensibilità insulinica e incrementando la funzione beta-cellulare.

I primi studi di intervento sugli effetti dell’attività fisica nella prevenzione del diabete mellito risalgono agli inizi degli anni ’90, anche se si tratta di studi non randomizzati e controllati. Lo studio di Malmö è stato uno dei primi a dimostrare come soggetti affetti da ridotta tolleranza glucidica vedessero ridurre l’incidenza del diabete in maniera significativa, dopo un follow-up di 6 anni, con un intervento consistente nella correzione dello stile di vita e nella introduzione di una quota di esercizio fisico, rispetto a un gruppo sottoposto a trattamento standard. Ancora più importante l’osservazione secondo cui, a distanza di 12 anni, i soggetti con ridotta tolleranza glucidica sottoposti in precedenza all’intervento attivo presentavano un tasso di mortalità inferiore a quello dei soggetti di controllo (4).

La conferma dell’efficacia delle modificazioni dello stile di vita è venuta in seguito da un’ulteriore serie di studi clinici controllati succedutisi nel tempo.

Nel 1997 è stato pubblicato il primo studio di intervento randomizzato e controllato disegnato per valutare l’effetto della dieta, dell’esercizio fisico e della combinazione dieta/esercizio fisico sulla prevenzione del diabete tipo 2 in soggetti con intolleranza ai carboidrati. La selezione dei soggetti derivava da uno screening su 110660 abitanti

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della città cinese di Da Qing. 577 soggetti sono stati classificati come affetti da ridotta tolleranza glucidica e invitati a partecipare allo studio di intervento, che prevedeva quattro bracci: controllo, dieta, esercizio fisico, dieta/esercizio fisico. I tassi di incidenza del diabete (casi/100 persone/anno) sono risultati rispettivamente 15.7 nel gruppo di controllo, 10 nel gruppo trattato con dieta, 8.3 nel gruppo trattato con esercizio fisico e 9.6 nel gruppo dieta/esercizio fisico, ma senza differenze significative tra i diversi tipi di trattamento. Pertanto, i tre tipi di trattamento comportavano una riduzione del 40-50% dell’incidenza di nuovi casi di diabete (5).

Il secondo studio di intervento per la prevenzione del diabete attraverso le modifiche dello stile di vita è il Finnish Diabetes Prevention Study (DPS), eseguito in 522 uomini e donne finlandesi con ridotta tolleranza glucidica. Gli obiettivi nel gruppo di intervento erano: riduzione maggiore del 5% del peso corporeo; riduzione delle calorie dai grassi a meno del 30% delle calorie totali; riduzione delle calorie dai grassi saturi a meno del 10% delle calorie totali; aumento dell’introito delle fibre maggiore di 15 g/1000 Kcal; esercizio fisico per più di 4 ore a settimana. Nei sei anni dello studio l’intervento sullo stile di vita ha ridotto il rischio di sviluppare il diabete mellito del 58%. L’attività fisica risultava una componente importante dell’intervento, come documentato dal fatto che il rischio relativo di sviluppare diabete nei soggetti del gruppo di intervento che perdevano meno del 5% del loro peso corporeo nel primo anno si riduceva dell’80% se veniva raggiunto l’obiettivo di oltre 4 ore a settimana di attività fisica (6).

Lo studio di intervento randomizzato e controllato per la prevenzione del diabete mellito attraverso modifiche dello stile di vita con la casistica più numerosa è il Diabetes Prevention Program (DPP). Il DPP è stato un trial clinico multicentrico

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(3234 partecipanti in 227 centri negli USA), con l’obiettivo di determinare se un intervento farmacologico (metformina) o la modifica dello stile di vita erano in grado di ridurre l’incidenza di nuovi casi di diabete in soggetti con intolleranza ai carboidrati. L’intervento sullo stile di vita, eseguito in 1079 partecipanti, aveva l’obiettivo di ridurre del 7% il peso corporeo e di aumentare di almeno 700 kcal/settimana il dispendio energetico con l’attività fisica (camminare a passo svelto almeno 150 minuti a settimana). Nel gruppo di intervento con lo stile di vita si è ottenuta una riduzione rispetto al placebo del 58% dell’incidenza di nuovi casi di diabete in un periodo medio di 2.8 anni; anche la metformina è risultata efficace (31% di riduzione rispetto al placebo), ma in misura inferiore rispetto all’intervento sullo stile di vita e solo nei soggetti obesi (7). Il calo ponderale è efficace nel ridurre l’incidenza di diabete solo del 50-60% (8). Perciò il 40-50% dei soggetti con ridotta tolleranza glucidica ancora progredisce verso il diabete nonostante la riduzione del peso corporeo, indicando che solamente la modifica dello stile di vita non è sufficiente a prevenire il diabete in un’ampia percentuale di individui.

1.1.2. Intervento farmacologico

La terapia farmacologica nella prevenzione del diabete mellito tipo 2 può essere un’importante alternativa terapeutica, quando l’intervento sullo stile di vita sia fallito o non sia sufficientemente potente o applicabile. Numerosi studi di intervento con molecole appartenenti a diverse classi farmacologiche hanno descritto una riduzione dell’incidenza di nuovi casi di diabete tipo 2 in coorti di soggetti a rischio per questa malattia (9).

Trials controllati e randomizzati, che si proponevano come obiettivo primario la riduzione dell’incidenza di diabete tipo 2, sono stati effettuati utilizzando farmaci

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quali la metformina, l’acarbosio, i tiazolidinedioni, la liraglutide, gli inibitori della dipeptidil-peptidasi-IV.

La metformina è un farmaco che riduce la glicemia e l’insulinemia a digiuno e l’emoglobina glicata nel diabete mellito tipo 2, inibendo la sintesi epatica di glucosio; in alcuni studi è anche stato dimostrato un miglioramento della sensibilità insulinica a livello muscolare. Non stimola direttamente la secrezione insulinica né preserva la funzione beta-cellulare (10).

Figura 3: meccanismo d’azione della metformina

Il DPP ha raccolto un campione randomizzato di 2155 soggetti con ridotta tolleranza glucidica, suddivisi in quattro gruppi: il primo è stato sottoposto a un trattamento intensivo sullo stile di vita, che includeva un programma di esercizio fisico moderato associato a dieta salutare; il secondo gruppo ha ricevuto 850 mg di metformina due volte al giorno. Questi due gruppi di intervento sono stati confrontati con un gruppo di controllo, cui venivano date solo raccomandazioni sullo stile di vita e placebo. Un quarto sottogruppo, in cui veniva somministrato troglitazione, fu interrotto a causa di gravi eventi avversi. Obiettivo primario dello studio era valutare le variazioni della tolleranza glucidica mediante OGTT ripetuto annualmente e attraverso la

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misurazione semestrale della glicemia a digiuno. Dopo un periodo di follow-up della durata media di 2.8 anni, l’incidenza di diabete è risultata del 7.8% nei pazienti trattati con placebo e del 4.8% nei pazienti trattati con metformina, con una riduzione del rischio relativo di sviluppare la malattia pari al 31%. Per valutare se l’effetto osservato della metformina sullo sviluppo del diabete persisteva dopo l’interruzione della somministrazione del farmaco, i pazienti che non avevano sviluppato diabete sono stati sottoposti a un’ulteriore valutazione mediante OGTT dopo una o due settimane di wash-out, durante le quali la metformina è stata sospesa. La percentuale di pazienti con diabete è risultata più alta (5.4%) nei soggetti precedentemente trattati con metformina rispetto ai soggetti non trattati farmacologicamente (3.3%).

Lo studio di Ramachandran ha valutato l’effetto dello stile di vita e della metformina sulla prevenzione del diabete tipo 2 in soggetti indiani con ridotta tolleranza glucidica. 531 individui sono stati assegnati in modo casuale a 4 gruppi: controllo, modifica dello stile di vita, metformina, metformina e modifica dello stile di vita. Dopo un periodo di follow-up di 30 mesi il rischio relativo di riduzione del diabete era 28.5% con modifica dello stile di vita, 26.4% con metformina e 28.2% con l’associazione di corretto stile di vita e metformina (11).

La possibilità di prevenire l’insorgenza del diabete tipo 2 mediante terapia con acarbosio è stata verificata nello studio STOP-NIDDM (Study TO Prevent Non-Insulin-Dependent Diabetes Mellitus). In questo trial sono stati randomizzati 1429 soggetti con ridotta tolleranza glucidica, di cui 715 trattati con acarbosio 100 mg tre volte al giorno e 714 con placebo. La durata dello studio è stata 3.3 anni. L’incidenza del diabete durante i 39 mesi di osservazione è stata del 32% nel gruppo in cui era stato somministrato acarbosio e del 42% nel gruppo placebo, con una riduzione del

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rischio relativo pari al 25%. Anche in questo caso alla fine dello studio i pazienti sono stati valutati dopo un periodo di sospensione del trattamento (farmaco o placebo) di circa tre mesi, durante i quali il 15% dei pazienti trattati con acarbosio ha sviluppato diabete rispetto al 10.5% dei pazienti di controllo. Questi risultati hanno dimostrato che l’intervento farmacologico con l’acarbosio nei pazienti con ridotta tolleranza glucidica può ritardare la progressione verso il diabete mellito, ma questo effetto scompare alla sospensione del trattamento (12).

I tiazolidinedioni sono potenti insulino-sensibilizzanti di muscoli, fegato e adipociti e al contempo preservano la funzione beta-cellulare a lungo termine migliorandone la secrezione insulinica. I tiazolidinedioni attivano la via di segnale del PPAR-gamma che modula la sensibilità insulinica attraverso multipli meccanismi: inibizione della lipolisi, riduzione dei livelli di acidi grassi liberi, aumento dell’ossidazione degli acidi grassi, riduzione dei livelli intramiocellulari di metaboliti lipidici tossici, ridistribuzione del tessuto adiposo viscerale verso i depositi sottocutanei. Il difetto beta-cellulare è il principale fattore responsabile della progressione della ridotta tolleranza glucidica verso il diabete mellito. Sebbene i tiazolidinedioni migliorino marcatamente l’insulino-sensibilità negli individui con ridotta tolleranza glucidica, una migliorata funzione beta-cellulare è il più forte predittore di prevenzione del diabete.

Nello studio DREAM il rosiglitazone ha ridotto del 62% la progressione della ridotta tolleranza glucidica verso il diabete (13).

Lo studio randomizzato in doppio cieco Canadian Normoglycemia Outcomes Evaluation (CANOE), valutando 103 persone assegnate a metformina/rosiglitazone e

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104 a placebo, per una durata di 3.9 anni, ha dimostrato che la terapia combinata rosiglitazone/metformina preveniva l’insorgenza del diabete in soggetti con ridotta tolleranza glucidica (14).

Anche il DPP prevedeva un sottogruppo di pazienti randomizzato all’impiego di troglitazone 400 mg/die (n=585), accanto ai gruppi trattati con metformina (n=587), intervento intensivo sullo stile di vita (n=589) e placebo (n=582). A seguito del manifestarsi di gravi eventi avversi a livello epatico, il trattamento con troglitazone è stato interrotto precocemente, dopo un follow-up medio inferiore a un anno. Nonostante il breve periodo di trattamento, l’incidenza di nuovi casi di diabete tra i soggetti che assumevano troglitazone è stata solo del 3%, significativamente inferiore rispetto sia al gruppo di controllo (12%, con riduzione del rischio del 75%), sia al gruppo dei soggetti trattati con metformina (6.7%) e statisticamente non differente dall’effetto ottenuto con l’intervento intensivo sullo stile di vita. L’effetto di prevenzione primaria del diabete tipo 2 era associato a una relativa conservazione della funzione beta-cellulare, stimata mediante il calcolo di indici surrogati derivati dall’OGTT.

Lo studio ACT NOW ha valutato, in soggetti con ridotta tolleranza glucidica, l’effetto della somministrazione di pioglitazone 45 mg/die sulla conversione a diabete in 4 anni di follow-up. Pioglitazone ha ridotto l’incidenza di diabete del 72% (15).

Gli agonisti recettoriali del Glucagon-Like Peptide (GLP-1) sono potenti secretagoghi insulinici, migliorano la funzione beta-cellulare, inibiscono la secrezione di glucagone e la sintesi epatica di glucosio, promuovono il calo

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ponderale diminuendo l’appetito e riducendo l’introito di cibo e riducono i livelli di glucosio nel diabete mellito tipo 2. I soggetti con ridotta tolleranza glucidica, come quelli diabetici, presentano un importante danno della funzione beta-cellulare e una marcata riduzione dell’effetto incretinico in risposta al pasto/ingestione di glucosio. Il principale difetto beta-cellulare consiste nell’incapacità di rispondere al glucosio e ciò può essere almeno in parte ripristinato dall’azione incretinica. Pertanto, gli analoghi del GLP-1 sono farmaci candidati alla prevenzione del diabete.

In uno studio randomizzato in doppio cieco, con il controllo del placebo, la liraglutide ha ridotto la conversione dalla ridotta tolleranza glucidica al diabete del 84-96%; nel follow-up a due anni, la prevalenza di ridotta tolleranza glucidica era ridotta del 54% e del 52-62% degli individui trattato con liraglutide era tornato a normotolleranza glucidica (16).

Lo studio randomizzato in doppio cieco “SCALE obesità e prediabete” ha valutato la proporzione di individui prediabetici, con indice di massa corporea di almeno 30 kg/m2 o almeno 27 kg/m2 in associazione a comorbidità, che progrediscono verso il diabete tipo 2. I soggetti sono stati randomizzati con rapporto 2:1 al trattamento con liraglutide 3 mg al giorno o con placebo, in aggiunta al trattamento con dieta ipocalorica ed attività fisica. Dopo 3 anni il rischio di diabete si è ridotto del 66% rispetto al trattamento con placebo (17).

Gli inibitori DPP-IV preservano la funzione beta-cellulare e hanno dimostrato la capacità di migliorare l’omeostasi glucidica in soggetti con prediabete, tuttavia, non sono ancora disponibili studi di intervento che dimostrano la capacità di questa classe di farmaci di ritardare o revocare la perdita di funzione beta-cellulare mediante l’aumento endogeno delle incretine (18).

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Uno studio ancora in corso, randomizzato, in doppio cieco, sta valutando l’effetto di sitagliptin e metformina sulla progressione del prediabete a diabete tipo 2. Lo studio prevede due gruppi di trattamento: metformina e placebo, metformina e sitagliptin in associazione per sfruttare l’effetto sinergico dei due farmaci. Gli endopoint primari includono il numero di soggetti prediabetici che sviluppano il diabete conclamato, il numero di eventi cardiovascolari e il numero di decessi (19).

Sebbene ad oggi nessuna terapia abbia dimostrato di incrementare la massa beta-cellulare, gli individui al terzile superiore della ridotta tolleranza glucidica hanno già perso il 70-80% della funzione beta-cellulare e presentano una riduzione del volume beta-cellulare del 30-40%. Dato che gli individui con prediabete manifestano tutte le anomalie fisiopatologiche presenti nel diabete e una percentuale non trascurabile (circa 10-15%) di soggetti presenta le complicanze microvascolari del diabete, è ragionevole introdurre una terapia farmacologica, insieme alla modificazione dello stile di vita, già in presenza di prediabete.

1. DIABETE GESTAZIONALE

1.1. OMEOSTASI GLUCIDICA IN GRAVIDANZA

La gravidanza si caratterizza per un complesso processo di adattamento endocrino-metabolico, che include, in primo luogo, una riduzione della sensibilità insulinica, accompagnata da una risposta beta-cellulare incrementata, da un moderato aumento dei valori glicemici post-prandiali, oltre che dagli aumentati livelli di acidi grassi liberi circolanti, trigliceridi, colesterolo. Questi cambiamenti non riflettono una condizione patologica, piuttosto rappresentano un indispensabile adattamento

(21)

dell’organismo per soddisfare le richieste energetiche del feto e preparare l’organismo materno al parto e alla lattazione. Infatti, lo sviluppo di una resistenza insulinica in gravidanza è un evento fisiologico, che permette di deviare i substrati energetici materni (glucosio e acidi grassi liberi) ai tessuti fetali. L’insulino-resistenza che si sviluppa durante la gravidanza è simile a quella che si osserva nel diabete tipo 2, con una ridotta azione insulinica dovuta principalmente ad alterazioni post-recettoriali che coinvolgono i trasportatori del glucosio e il metabolismo intracellulare nei tessuti insulino-sensibili (20). Il grado di insulino-resistenza sembra influenzato dall’obesità e dalla familiarità per diabete. Nelle normali gravidanze, nonostante l’insulino-resistenza, l’omeostasi glucidica è mantenuta da un concomitante incremento compensatorio della secrezione beta-cellulare. L’intolleranza ai carboidrati si sviluppa nel momento in cui la secrezione insulinica non è più in grado di compensare l’insulino-resistenza periferica (21). I cambiamenti della funzione beta-cellulare avvengono in parallelo allo sviluppo dell’unità feto-placentare e della locale produzione di ormoni, quali gli estrogeni, il progesterone, il cortisolo, la somatotropina umana corionica (human chorionic somatotropin, hCS) o il lattogeno placentare (human placental lactogen, phPL), prolattina, ormone della crescita. E’ stato dimostrato, infatti, che questi ormoni producono insulino-resistenza. L’incremento del TNF-alfa, che si manifesta nel terzo trimestre di gravidanza, è il più forte predittore di alterata azione periferica dell’insulinica, anche se confrontato con il lattogeno placentare e gli steroidi (22).

(22)

Figura 4: modificazioni metaboliche in gravidanza

2.2. DIABETE GESTAZIONALE E IL RISCHIO PER LO SVILUPPO

DEL DIABETE TIPO2

Il diabete gestazionale, definito come un’intolleranza glucidica di ogni grado a esordio o primo riconoscimento durante la gravidanza, è una complicanza comune della gravidanza, presentandosi nel 4-7% delle donne; esso rappresenta il 90% di tutti i casi di diabete diagnosticati durante la gravidanza.

Secondo i criteri proposti dall’International Association of the Diabetes and Pregnancy Study Groups (IADPSG), il test diagnostico consiste in una curva da carico orale con 75 gr. di glucosio e dosaggio della glicemia ai tempi 0, 60, 120 minuti, da eseguire alla 24°-28° settimana di gestazione. La diagnosi di diabete gestazionale è definita dalla presenza di uno o più valori uguali o superiori a 92 mg/dl a digiuno, 180 mg/dl alla prima ora, 153 mg/dl alla seconda ora (23).

(23)

Figura 5: iter diagnostico nel diabete gestazionale

Il tasso di incidenza del diabete gestazionale sta aumentando indipendentemente dall’etnia di appartenenza, insieme all’aumentata prevalenza dell’obesità e del diabete mellito, nella popolazione generale. Infatti, sia l’obesità sia la familiarità per diabete tipo 2 rappresentano importanti fattori di rischio per lo sviluppo del diabete gestazionale (1). Nelle donne con diabete gestazionale la ridotta utilizzazione insulino-mediata del glucosio e l’inadeguato incremento nella prima fase della secrezione insulinica rappresentano le alterazioni iniziali dell’omeostasi glucidica e sono responsabili del picco iperglicemico post-prandiale e dopo OGTT. La perdita della prima fase di secrezione insulinica contribuisce all’intolleranza glucidica e all’iperglicemia post-prandiale ed è considerata un marker di alterata omeostasi glucidica (24). Nelle donne con pregresso diabete gestazionale il rischio di sviluppare il diabete tipo 2 è significativamente aumentato.

(24)

L’incidenza di diabete mellito tipo 2 è molto elevata nei primi 5 anni con una incidenza cumulativa pari al 2-3% per anno (25). Si stima che il 30% circa delle donne con diabete tipo 2 abbia una storia di diabete gestazionale (26).

In uno studio eseguito su 180 donne con storia di diabete gestazionale è stato evidenziato che, a due anni dal parto, circa il 20% presentava un’alterata tolleranza glucidica e il 3% aveva sviluppato diabete (27). Queste percentuali sono elevate soprattutto in considerazione della giovane età di queste donne.

Sebbene dopo il parto la tolleranza glucidica ritorni normale nella maggioranza delle donne con diabete gestazionale, il diabete gestazionale rappresenta uno stadio precoce nella storia naturale del diabete mellito. Nonostante la normale tolleranza glucidica nell’immediato post-partum, le donne con pregresso diabete gestazionale presentano un rischio molto maggiore per lo sviluppo di diabete tipo 2 e altre anomalie metaboliche. Queste donne, infatti, tendono a presentare le caratteristiche tipiche della sindrome metabolica, quali l’ipertensione arteriosa, le alterazioni del profilo lipidico e la microalbuminuria, che conferiscono loro un rischio aterogeno più elevato. La forza dell’associazione tra diabete gestazionale e diabete mellito tipo 2, insieme alla consapevolezza che molti fattori di rischio sono gli stessi, suggerisce un background genetico comune per entrambe le condizioni (28).

I meccanismi patogenetici del diabete gestazionale possono ritenersi sovrapponibili a quelli del diabete tipo 2: in entrambi i casi si sviluppa una intolleranza ai carboidrati nel momento in cui la secrezione beta-cellulare non è più sufficiente a compensare la resistenza insulinica periferica fisiologicamente presente in gravidanza (29). La presenza di un certo grado di difetto della beta-cellula sembra caratterizzare il persistere di una intolleranza glucidica, una volta risolta l’insulino-resistenza

(25)

sostenuta dalla gravidanza con l’espletamento del parto. Peraltro anche in donne normotolleranti ma con pregresso diabete gestazionale sono stati evidenziati difetti combinati di secrezione ed azione insulinica (24).

I fattori in grado di contribuire all’evoluzione verso il diabete tipo 2 conclamato sono molteplici: familiarità per diabete mellito, età, etnia, diagnosi di diabete gestazionale effettuata prima della 24° settimana, necessità di ricorrere alla terapia insulinica, grado di obesità pre e post-partum, attività fisica, allattamento al seno. La conoscenza di tali fattori di rischio diviene indispensabile per effettuare programmi mirati alla prevenzione della malattia.

Uno dei fattori di rischio che sembra pesare maggiormente sulla predizione dello sviluppo di futuro diabete è il livello di glicemia a digiuno dell’OGTT eseguito in gravidanza. Anche i valori di glicemia della prima e seconda ora post-carico (seppur meno studiati della glicemia a digiuno) e la glicemia media rilevata durante OGTT sono correlati al rischio di sviluppo di diabete.

2.2.1. Incidenza del diabete post-partum

Uno studio condotto in donne di diversa etnia con pregresso diabete gestazionale ha mostrato una incidenza cumulativa di diabete postpartum di circa il 50%; l’incidenza aumentava più rapidamente nei primi due anni post-partum (30).

Uno studio prospettico che includeva una coorte costituita principalmente da individui caucasici ha rilevato che il 32.8% delle donne con diabete gestazionale aveva una ridotta tolleranza glucidica o diabete a 3 mesi post-partum (31). Uno studio di coorte retrospettivo svedese ha riportato un’incidenza del diabete del 35% tra le donne con pregresso diabete gestazionale, durante un periodo di follow-up di

(26)

15 anni (32). Da una revisione sistematica della letteratura è emerso che la prevalenza del diabete post-partum variava dal 2.6% al 70%, con tassi che differivano in base alla progettazione dello studio, metodi diagnostici e etnia (33). Uno studio di coorte prospettico condotto in Corea ha riportato un’incidenza cumulativa del diabete post-partum del 23.8% per una durata media di 4 anni ed era attesa un’incidenza del 50%, durante un periodo di follow-up di 8 anni, tra le donne affette da pregresso diabete gestazionale (34). Un altro studio prospettico di coorte ha evidenziato un’incidenza del 12.8% e del 13.2% del diabete post-partum e ridotta tolleranza al glucosio, rispettivamente, durante un periodo di follow-up di 6 anni (35). Infine, il rischio del diabete post-partum nelle donne coreane con diabete gestazionale è risultato 3.5 volte maggiore rispetto a quello delle donne non affette (36) .

2.2.2. Fattori che influenzano l’incidenza del diabete post-partum

 Etnia Gli asiatici orientali hanno un indice di massa corporea relativamente basso e per questo si ipotizza che la fisiopatologia del diabete differisca da quella delle altre etnie. In precedenti studi, lo sviluppo del diabete in individui coreani è stato attribuito a una predisposizione genetica alla disfunzione beta-cellulare e/o alterata compensazione delle cellule beta all’ insulino-resistenza. Quindi, si ipotizza un aumento della suscettibilità al diabete post-partum tra le popolazioni asiatiche (37).

 Durata dopo il parto L’incidenza del diabete post-partum aumenta rapidamente nei primi 5 anni e rimane stabile dopo 10 anni (33) .

 Altri fattori Solo circa il 25% delle donne con pregresso diabete gestazionale si sottopone allo screening a 6-12 settimane dal parto per mancanza di tempo,

(27)

stress emotivo nell’adattarsi a un bambino, paura di ricevere diagnosi di diabete.

2.2.3. Fattori di rischio genetici

Molte varianti genetiche associate al diabete di tipo 2 sono risultate associate al diabete gestazionale. In questo contesto, un lavoro di Lauenborg ha preso in esame l’associazione tra il diabete gestazionale e 11 loci genetici di suscettibilità per il diabete tipo 2. Gli alleli di rischio per il diabete tipo 2 coinvolti nella ridotta funzione beta-cellulare (CDKAL1, SLC30A8, HHEX/IDE, CDK2A/2B e IGF2BP2) nello sviluppo di obesità (FTO) o di insulino-resistenza (PPAR-gamma), sono stati trovati anche in donne con diabete gestazionale o pregresso diabete gestazionale. Inoltre, anche la presenza di due varianti del gene TCF7L2, la cui mutazione è quella maggiormente riconosciuta associata allo sviluppo del diabete tipo 2, è risultata associata al diabete gestazionale (38). L’associazione tra diversi alleli di rischio per diabete tipo 2 e diabete gestazionale supporta l’ipotesi che le due patologie siano due aspetti della stessa entità. 18 polimorfismi del singolo nucleotide associati al diabete tipo 2, inclusi CDKAL1, CDKN2A/2B, HHEX, IGF2BP2, SLC30A8 e TCF7L2 MTNR1B, KCNQ1 sono stati associati al diabete gestazionale (39) Sono state identificate fino a nove varianti genetiche di TCF7L2, GCK, KCNJ11, KCNQ1, CDKAL1, IGF2BP2, MTNR1B e IRS1, comunemente associate al diabete gestazionale (40). La maggior parte delle alterazioni genetiche associate al diabete gestazionale, eccetto IRS1, riguardano la secrezione insulinica ma non l’insulino-resistenza. Non vi sono evidenze sufficienti per l’identificazione di fattori di rischio genetici per il diabete post-partum. Le varianti genetiche vicino a CDKN2A/2B e HHEX erano associate a conversione precoce (≤ 8 settimane dopo il parto) a diabete

(28)

e quelli vicino a CDKAL1 erano associati a conversione tardiva (> 1 anno dopo il parto). Kwak ha generato un punteggio di rischio genetico (GRS) costituito da 48 varianti genetiche associate al diabete di tipo 2 (41). Diabete gestazionale e diabete post-partum non sono malattie separate, ma rappresentano stadi specifici nell’ambito di un continuum caratterizzato da una progressiva insufficienza della funzione beta-cellulare. Tuttavia, sono necessari nuovi studi per trovare possibili marcatori comuni al diabete gestazionale e al diabete tipo 2 (42). Infatti, in una coorte di 252 soggetti caucasici euro-brasiliani, 127 con diabete gestazionale e 125 con normale tolleranza glucidica, sono stati valutati i polimorfismi di diverse varianti genetiche associate al diabete tipo 2, quali recettore per la leptina (LEPR), recettore gamma attivato dai proliferatori dei perossisomi (PPARγ) e fattore di trascrizione 7-like 2 (TCF7L2). Purtroppo non è stata trovata alcuna relazione tra questi polimorfismi e il diabete gestazionale (43).

2.2.4. Fattori di rischio ambientali

 Obesità Un incremento del peso corporeo è fortemente associato al deterioramento della funzione beta-cellulare (44).

 Dieta ed attività fisica Le donne con pregresso diabete gestazionale che aderiscono ad un corretto regime dietetico e praticano attività fisica presentano un minor rischio di sviluppare il diabete tipo 2 (45,46).

2.3. STRATEGIE DI PREVENZIONE DEL DIABETE MELLITO TIPO 2

NELLE DONNE CON PREGRESSO DIABETE GESTAZIONALE

La risposta alle modificazioni dell’assetto ormonale e del metabolismo glucidico durante la gravidanza consente di identificare una popolazione ad alto rischio di

(29)

sviluppo di diabete tipo 2 su cui indirizzare strategie di prevenzione della malattia. Le donne con pregresso diabete gestazionale dovrebbero, pertanto, essere inserite in programmi di follow-up disegnati per provvedere possibilmente a una efficace prevenzione del diabete tipo 2. La consapevolezza dell’incremento del rischio e dei tempi di sviluppo del diabete tipo 2 dopo il diabete gestazionale fornisce l’opportunità di un’adeguata sorveglianza e di adottare interventi dietetici, farmacologici e sugli stili di vita che possano prevenire o ritardare la sua presentazione.

L’American Diabetes Association (ADA) raccomanda che le donne con diabete gestazionale siano rivalutate dopo 6-12 settimane dal termine della gravidanza, al fine di rilevare le possibili persistenti anomalie glucidiche. Coloro che mostrano un’alterata glicemia a digiuno o una ridotta tolleranza glucidica dovrebbero ripetere l’OGTT dopo un anno, mentre quelle che risultano normotolleranti alla prima valutazione dopo il parto dovrebbero eseguire un OGTT a intervalli regolari ogni due anni (1).

In uno studio di 231 donne con pregresso diabete gestazionale, a distanza di un anno dal parto, la prevalenza di un OGTT alterato era 46% contro un’alterazione dell’emoglobina glicata solamente del 19%: ciò suggerisce che è raccomandabile un OGTT di screening durante il primo anno post-partum, proseguendo con un successivo monitoraggio dell’emoglobina glicata o della glicemia a digiuno (47).

Allo scopo di ridurre o ritardare l’insorgenza del diabete mellito nelle donne con diabete gestazionale, l’International Diabetes Federation raccomanda l’adozione di uno stile di vita salutare, in particolare dieta, esercizio fisico e calo ponderale. L’aderenza a un corretto regime alimentare può ritardare o prevenire l’insorgenza di

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diabete mellito (48). Nonostante le donne con diabete gestazionale comprendano che esiste un’associazione tra diabete gestazionale e diabete mellito tipo 2, hanno una scarsa percezione del rischio elevato di sviluppare il diabete. Sebbene le raccomandazioni a eseguire il follow-up nelle donne che hanno avuto un diabete gestazionale siano ben definite, ci sono ancora numerosi dati in letteratura che documentano una perdita considerevole di casi nell’ambito del follow-up nel post-partum. Una mancata o ancora scarsa sensibilizzazione al problema della prevenzione del diabete tipo 2 in una popolazione relativamente giovane, che sottostima il proprio rischio di sviluppare il diabete tipo 2 e la difficoltà nell’aderire alla dieta e all’esercizio fisico, non permette di avere un alto tasso di follow-up post-partum, che rimane ancora intorno al 50% (49). I programmi educativi si sono dimostrati efficaci nell’aumentare la consapevolezza di tale rischio (50).

Un’altra revisione sistematica della letteratura ha incluso trial randomizzati che implementavano interventi comportamentali per prevenire il diabete (dieta e attività fisica; durata, intensità e modalità di approccio agli interventi) ed è stato mostrato che gli interventi indirizzati alle condizioni di salute nelle donne con precedente diabete gestazionale fino a un anno dopo il parto sono superiori rispetto a nessun intervento per quanto riguarda la prevenzione del diabete tipo 2. Inoltre, gli interventi mostravano una maggiore efficacia quando erano implementati a 6 settimane dal travaglio (51).

In una revisione sistematica della letteratura è stato dimostrato che l’aumento relativo del rischio di sviluppo del diabete era più alto a 3-6 anni dopo il parto e a un’età inferiore a 40 anni, anche se i maggiori rischi rimanevano marcatamente elevati in seguito, suggerendo che qualsiasi intervento sullo stile di vita dovrebbe iniziare entro

(31)

3 anni dalla gravidanza per ottenere il massimo beneficio per la prevenzione del diabete in questo gruppo ad alto rischio (52).

E’ ormai ben noto, come dimostrato da importanti studi, che le modifiche dello stile di vita possano ridurre il rischio di progressione verso il diabete manifesto. Anche gli interventi farmacologici sembrano ridurre la progressione verso il diabete.

Secondo alcuni risultati provenienti dal Diabetes Prevention Program (DPP) e dalla sua estensione, la somministrazione a lungo termine di metformina ha un effetto rilevante nel prevenire lo sviluppo del diabete di tipo 2 nelle donne con precedente storia di diabete gestazionale. La valutazione del sottogruppo delle donne con pregresso diabete gestazionale ha infatti mostrato che la metformina riduceva il rischio di diabete del 51%. Dopo 15 anni dall’inizio del DPP, le donne con precedente diabete gestazionale che assumevano metformina hanno presentato un rischio di sviluppare diabete di tipo 2 ridotto del 41%, rispetto ad una riduzione del 10% delle donne senza storia di diabete gestazionale (53).

Inoltre, nella popolazione dello studio DPP, la funzione beta-cellulare era significativamente ridotta nelle donne con pregresso diabete gestazionale (54).

Il trial randomizzato controllato Diet, Exercise and Breastfeeding Intervention (DEBI) ha coinvolto donne con pregresso diabete gestazionale. L'intervento prevedeva la riduzione dell’assunzione di grassi nella dieta e l’aumento dell’allattamento al seno, senza modificare i livelli di attività fisica. Ciò si associava a una percentuale maggiore di donne che raggiungevano il loro obiettivo di peso corporeo post-partum (55).

(32)

Gli studi di prevenzione del diabete tipo 2 basati sulla terapia farmacologica consentono di esplorare gli effetti in donne con pregresso diabete gestazionale.

Nello studio TRIPOD (TRoglitazone In Prevention Of Diabetes) sono state valutate 266 donne di etnia ispano-americana con pregressa diagnosi di diabete gestazionale, randomizzate all’assunzione di troglitazone 400 mg/die (n=133) o placebo (n=133). Le pazienti sono state seguite mediamente per circa 30 mesi: lo studio è stato interrotto prima del termine stabilito, per il ritiro del farmaco dal commercio a seguito del riscontro di casi di epatotossicità fatale. In questo intervallo di tempo, la percentuale di nuovi casi di diabete è stata del 5.4% nelle donne trattate con troglitazone e del 12.1% nel gruppo placebo, con una riduzione del rischio relativo di insorgenza di diabete pari al 55%. Le donne che non avevano sviluppato diabete entro la fine del periodo di osservazione sono state rivalutate a distanza di 8 mesi dal termine dello studio. Le pazienti che avevano assunto il troglitazone continuavano a mostrare una ridotta incidenza di malattia diabetica rispetto alle donne assegnate al placebo (2.3% vs 15%, con una riduzione del rischio maggiore dell’80%), anche dopo molti mesi dalla sospensione della terapia farmacologica. Questa protezione persistente era associata a una minore compromissione della capacità secretoria beta-cellulare, documentata, nelle donne che assumevano il troglitazione, mediante IVGTT (Intravenous Glucose Tolerance Test) nel corso dello studio (56).

Nello studio PIPOD (Pioglitazone In Prevention Of Diabetes) è stata valutata la funzione beta-cellulare, l’insulino-resistenza e l’incidenza di diabete durante trattamento con pioglitazone nelle donne che avevano completato lo studio TRIPOD senza aver sviluppato il diabete tipo 2. Il pioglitazone ha interrotto il declino della funzione beta-cellulare, che si è verificato durante il trattamento con placebo nello

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studio TRIPOD e ha mantenuto stabile la funzione beta-cellulare nelle persone trattate con troglitazone durante lo studio TRIPOD. Dopo 3 anni di trattamento e 6 mesi di washout farmacologico, in quelle trattate con pioglitazone la riduzione del rischio per lo sviluppo di diabete tipo 2 era oltre il 60%. Il più basso tasso di insorgenza di diabete si osservava nelle donne con la migliore performance beta-cellulare. Questi studi hanno anche dimostrato però che l’evoluzione verso il diabete tipo 2 è caratterizzata da un lungo e relativamente lento declino nella secrezione insulinica (57).

Impedire la perdita di funzione della beta-cellula potrebbe rivelarsi altrettanto importante ai fini della prevenzione, anche se ciò dovrebbe essere perseguito mediante una terapia farmacologica che risponda a determinati criteri di sicurezza; in particolare un terapia farmacologica deve essere in grado di migliorare la secrezione insulinica senza aumentare il rischio di ipoglicemia. Un trattamento basato sulle incretine potrebbe rappresentare un candidato ideale. E’ stato, infatti, osservato che l’ingestione per os di glucosio determina, a parità di profilo glicemico, una risposta insulinica molto più marcata. Questa differenza è dovuta al rilascio di ormoni gastro-intestinali (incretine) capaci di potenziare la secrezione insulinica. Il principale ormone incretinico è il Glucagon-Like Peptide-1 (GLP-1) che è secreto dalle cellule entero-endocrine dell’intestino distale (cellule L), stimolate dai nutrienti presenti nel lume intestinale. I recettori per l’ormone si trovano a livello del miocardio, cervello, stomaco, tessuto adiposo, fegato, polmoni e cellule alfa e beta pancreatiche (58). La secrezione di GLP-1 si riduce in funzione della perdita di tolleranza glucidica, essendo il suo rilascio in risposta all’ingestione di un carico orale di glucosio, più bassa in soggetti con ridotta tolleranza glucidica e ancor più marcatamente deficitaria

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in pazienti con diabete manifesto. Di contro, l’infusione di GLP-1 in pazienti diabetici è in grado di ripristinare la normoglicemia senza indurre ipoglicemia. Questo effetto è dovuto all’azione di stimolo della secrezione insulinica glucosio-dipendente e alla concomitante modulazione della secrezione di glucagone (59). Non solo il GLP-1 esercita una funzione di modulazione della secrezione insulinica, ma sembra esercitare un effetto trofico contribuendo a mantenere la massa beta-cellulare. Questo aspetto è di particolare interesse, dato che già in condizioni di ridotta tolleranza glucidica è stata osservata una decurtazione pari al 50% del patrimonio beta-cellulare. Il GLP-1 non può, però, essere usato a fini terapeutici per la sua breve emivita (circa 2 minuti) causata dalla degradazione (per oltre l’80%) ad opera dell’enzima dipeptidil-peptidasi-IV (DPP-IV) (60). Al fine di prolungare l’emivita del GLP-1, sono stati identificati analoghi resistenti all’azione degradante dell’enzima ed inibitori selettivi dell’enzima stesso. La prima soluzione richiede l’iniezione di sottocutanea dell’analogo, la seconda l’assunzione per os dell’inibitore dell’enzima. Uno di questi inibitori è il sitagliptin (61). Il legame di sitagliptin al DPP-IV comporta concentrazioni di GLP-1 endogeno più elevate con conseguente stimolazione della secrezione insulinica, inibizione della secrezione di glucagone, riduzione della glicemia in maniera glucosio-dipendente con un basso rischio di ipoglicemia. Il farmaco è impiegato per il trattamento del diabete tipo 2 e risultati interessanti sono stati riportati in associazione con le metformina in pazienti con nuova diagnosi e con moderate elevazioni della glicemia (62). Sia la metformina sia il sitagliptin presentano un rischio molto basso di ipoglicemia. Può essere assunto indipendentemente dai pasti e ad ogni orario. Il farmaco è generalmente ben tollerato, mentre in circa il 5% dei casi vengono riportati nausea, vomito, infezioni del tratto respiratorio superiore, cefalea.

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Figura 6 e 7: meccanismo d’azione di sitagliptin

Alla luce di quanto sopra, appare ipotizzabile che la stessa combinazione potrebbe essere vantaggiosa in soggetti a elevato rischio di diabete tipo 2, come le donne con pregresso diabete gestazionale.

Un recente studio prospettico, in singolo cieco, randomizzato, ha valutato l’efficacia a breve termine della combinazione di sitagliptin e metformina (sitagliptin 50 mg,

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metformina 1000 mg due volte/die) o placebo in 33 donne con pregresso diabete gestazionale, che presentavano prediabete (63). L’outcome primario era la normalizzazione della glicemia; outcome secondari comprendevano gli effetti sulla sensibilità insulinica e sulla funzione beta-cellulare, misure antropometriche (indice di massa corporea, circonferenza della vita, rapporto fianchi, rapporto vita-altezza), profilo lipidico e pressione arteriosa. L’insulino-sensibilità a digiuno e dopo stimolo con glucosio è stata stimata mediante la valutazione del modello omeostatico di insulino-resistenza (HOMA-IR) e dell’indice Matsuda. La risposta precoce delle beta-cellule al glucosio è stata calcolata utilizzando l’indice insulinogenico, definito come il rapporto tra la variazione incrementale dell’insulina durante i primi 30 minuti dell’OGTT e la variazione incrementale di glucosio nello stesso periodo. L’indice insulinogenico, corretto per il relativo livello di resistenza all’insulina a digiuno, ha fornito una misura derivata di funzione beta-cellulare. Al basale e dopo 16 settimane è stato eseguito test da carico orale di glucosio per valutare la glicemia, la glicemia media e la sensibilità/secrezione insulinica. Dopo 16 settimane di terapia, il profilo glicemico ottenuto mediante OGTT è stato normalizzato nel 75% delle donne trattate con l’associazione metformina-sitagliptin, rispetto al 33% del gruppo trattato con metformina e al 22% del gruppo trattato con placebo. L’associazione metformina-sitagliptin si è dimostrata statisticamente superiore della metformina e placebo nel normalizzare la glicemia a digiuno e dopo carico orale di glucosio (p=0.035). I livelli di glicemia erano significativamente inferiori nelle persone trattate con l’associazione metformina-sitagliptin (p=0.04) e le glicemie durante OGTT erano significativamente ridotte solo nei soggetti trattati con sitagliptin (p=0.034). L’HOMA-IR era significativamente ridotto con metformina-sitagliptin e metformina rispetto al placebo (p=0.004), mentre l’indice di Matsuda era

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significativamente aumentato solo con metformina-sitagliptin rispetto al placebo (p=0.017). Inoltre, le donne trattate con metformina-sitagliptin hanno avuto una significativa riduzione dell’indice di massa corporea, circonferenza vita, rapporto vita/altezza rispetto a quelle trattate con placebo; la sensibilità e la secrezione insulinica erano migliorate nelle pazienti trattate con metformina-sitagliptin rispetto a sola metformina o placebo. E’ possibile ipotizzare che il miglioramento della funzione beta-cellulare sia attribuibile alla modificazione del sistema incretinico. Questo studio mostra un risultato promettente della terapia orale con sitagliptin in associazione alla metformina. D’altra parte questo studio non fornisce evidenze sul potenziale effetto sulla sensibilità insulinica, funzione beta-cellulare e sulla tolleranza glucidica del trattamento con sitagliptin in monoterapia. Di conseguenza non è completamente chiaro se l’associazione metformina-sitagliptin fornisce un vantaggio aggiuntivo in termini di miglioramento della funzione beta-cellulare rispetto alla monoterapia con sitagliptin (64). Inoltre, le evidenze a disposizione sugli effetti della terapia farmacologica sulla funzione beta-cellulare e sensibilità insulinica nelle donne con pregresso diabete gestazionale sono state ottenute mediante carico orale di glucosio. Il gold standard per la misurazione della sensibilità insulinica è il glucose clamp e in pratica si quantifica l’abilità dell’insulina di abbassare la concentrazione del glucosio nel sangue promuovendone l’utilizzazione periferica da parte dei tessuti muscolari e adiposo e inibendone la produzione epatica. La sensibilità è, quindi, un processo dai diversi aspetti e in teoria non può essere rappresentato da un singolo valore. Tuttavia, dopo l’introduzione del glucose clamp (65), si è comunemente accettato di rappresentare la sensibilità come la scomparsa di glucosio a un determinato livello di concentrazione di insulina. D’altra parte, il glucose clamp è una metodica complessa che richiede competenze tecniche

(38)

specifiche e non è attuabile nella pratica clinica, soprattutto nel caso di studi che coinvolgono un numero elevato di pazienti. Per tali motivi, la sensibilità all’insulina da OGTT può essere calcolata sfruttando specifici modelli matematici o usando particolari formule (empiriche o con substrato fisiologico), che consentono di ottenere una buona correlazione con la sensibilità insulinica ottenuta mediante glucose clamp (66) I vantaggi dell’OGTT sono la facile esecuzione nella pratica clinica e, data la semplicità in termini di facilità di uso, costo e calcolo, è di gran lunga più accessibile per eseguire gli studi di intervento per la prevenzione del diabete. Inoltre, il coinvolgimento dell’effetto ormonale incretinico, stimolato dall’ingestione del glucosio, ne conferisce una maggiore riproduzione fisiologica. La complessità della funzione beta-cellulare fa sì che attualmente nessun test in vivo sia in grado, da solo, di indagare in maniera accurata tutti gli aspetti della fisiologia e/o della disfunzione della beta-cellula. Il dosaggio dell’insulina plasmatica a digiuno, sebbene largamente utilizzato, non riflette in maniera precisa la funzione della beta-cellula, dal momento che le concentrazioni plasmatiche dell’insulina sono influenzate anche da altri meccanismi successivi alla fase di secrezione, come la distribuzione, la degradazione e la clearance (67). Diverse metodiche statiche e dinamiche, oggi supportate anche da complessi modelli matematici, sono dunque utilizzate per ottenere una stima della funzione beta-cellulare che tenga conto, non solo della secrezione di insulina, ma anche della sua correlazione con i livelli plasmatici di glucosio. La dinamica della secrezione insulinica nel soggetto normale è caratterizzata da due fasi: la prima fase, della durata di pochi minuti, è dovuta alla liberazione di vescicole precostituite; la seconda fase si attua in risposta a uno stimolo costante (nutrienti, farmaci) e comporta la produzione di nuova insulina. I metodi per la valutazione della secrezione insulinica sono distinti in: test statici

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(rapporto proinsulina/insulina e HOMA-B), che si basano sulla misurazione di glucosio e insulina in condizioni di digiuno; test dinamici (OGTT, clamp iperglicemico), che si basano sullo studio della relazione dinamica tra glucosio, insulina e peptide-c dopo uno stimolo.

Il rapporto proinsulina/insulina è un marker surrogato dell’elaborazione intracellulare del pro-ormone in insulina ed è, quindi, un indice generico di funzione beta-cellulare. È semplice da determinare, tuttavia, le informazioni fisiologiche fornite da questo test sono limitate allo stato di digiuno e non vi sono correlazioni sufficienti con altri test di stima della funzione beta-cellulare in una varietà di condizioni cliniche per sostenerne pienamente l’uso nella pratica di routine.

L’HOMA (Homeostasis Model Assessment) deriva da un modello matematico progettato per calcolare le concentrazioni di glucosio e insulina ideali allo steady state. HOMA-Beta valuta la funzione beta-cellulare calcolando il rapporto delle concentrazioni di glucosio e insulina a digiuno (con fattori di conversione metabolica inclusi nell’equazione). L’HOMA-Beta correla bene con altri metodi di valutazione di funzione beta-cellulare su un ampio intervallo di tolleranza al glucosio. Il vantaggio di HOMA è che i calcoli sono relativamente semplici e derivano da parametri tipicamente analizzati durante gli esami clinici e di laboratorio di routine. Tuttavia, HOMA-Beta è una misura indiretta di funzione beta-cellulare e considera solo glicemia a digiuno/basale e concentrazioni di insulina. HOMA fornisce informazioni limitate sulle fluttuazioni giornaliere nell’omeostasi del glucosio e il modello non può essere accurato sul prevedere l’impatto di diversi farmaci ipoglicemizzanti su funzione beta-cellulare e sensibilità insulinica. Quando i livelli di glucosio plasmatico sono ≤ 3.5 mmol/L, le stime di HOMA non possono essere

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utilizzate per valutare la funzione beta-cellulare, perché danno valori indefiniti o negativi.

La curva da carico orale di glucosio (OGTT) è stata validata per valutare la complessa interrelazione tra i livelli di glucosio, la secrezione e l’azione insulinica. Dopo digiuno notturno, i soggetti ingeriscono 75 g di glucosio; prima, durante e dopo l’ingestione di glucosio, vengono raccolti campioni di sangue per dosare le concentrazioni di glucosio, insulina, peptide-C e altri parametri di interesse. Dall’OGTT è possibile calcolare l’indice insulinogenico (rapporto tra peptide-C nei primi 30 minuti con la variazione glicemica dei primi 30 minuti), velocità di secrezione insulinica (ISR), beta-index (indice della capacità della beta-cellula di rispondere a variazioni glicemiche) e disposition index (DI, simile all’indice insulinogenico, ma considera anche la sensibilità insulinica), oltre all’indice di sensibilità all’insulina (ISI o indice di Matsuda).

Il clamp iperglicemico è il gold standard per stimare la funzione beta-cellulare in condizioni di stimolazione massimale. Tipicamente, la concentrazione plasmatica di glucosio è rapidamente innalzata a 6,9 mmol/L sopra il valore basale mediante infusione endovenosa di glucosio; alla fine del test è possibile anche somministrare un bolo di arginina, utile per massimizzare la secrezione insulinica. Il plateau iperglicemico desiderato è poi mantenuto mediante regolazione di un’infusione di glucosio variabile, basata su frequenti misurazioni (ogni 5 minuti) del glucosio nel plasma. Poiché la concentrazione di glucosio plasmatico è mantenuta costante, la velocità di infusione di glucosio diventa un indice del metabolismo del glucosio. Nei soggetti non diabetici, nelle condizioni imposte dall’iperglicemia costante, la velocità di secrezione insulinica aumenta rapidamente con l’aumentare della glicemia sopra il

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valore basale e, quando è somministrata l’arginina, aumenta ulteriormente. Tramite la valutazione dell’area incrementale sopra il valore basale, è possibile calcolare la prima e seconda fase di secrezione e la risposta massimale. Il punto di forza del clamp iperglicemico è la sua alta riproducibilità come metodo di valutazione della secrezione insulinica; consente il follow-up di qualsiasi cambiamento della risposta insulina alle variazioni dei livelli plasmatici di glucosio negli stessi soggetti. Questa procedura è anche un indicatore attendibile delle modifiche di ISR nel corso di terapie usate per il diabete. D’altra parte, il clamp è una metodica invasiva, richiede personale esperto e comporta un significativo impiego di tempo e risorse (68,69). Sulla base delle evidenze disponibili, lo studio oggetto della tesi di specializzazione si propone di esplorare le modificazioni della funzione beta-cellulare e sensibilità insulinica in riposta alla terapia con metformina o sitagliptin in monoterapia e confrontarle con l’associazione metformina-sitagliptin in donne prediabetiche con pregresso diabete gestazionale. Inoltre, lo studio in oggetto si propone di impiegare l’OGTT, in associazione al clamp iperglicemico, al fine di implementare lo studio degli effetti dei singoli schemi di terapia farmacologica sulla funzione beta-cellulare.

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PARTE SPERIMENTALE

1. OBIETTIVI DELLO STUDIO

L’obiettivo dello studio è stato confrontare gli effetti di sitagliptin (SITA) o metformina (MET) in monoterapia e in associazione (MET-SITA) in donne prediabetiche con pregresso diabete gestazionale.

End Point Principale

L’end-point principale era quello di valutare gli effetti del trattamento su: 1) funzione beta-cellulare (prima, seconda fase di secrezione insulinica, risposta all’arginina) e sensibilità insulinica derivati dal clamp iperglicemico

2) ISI-Matsuda Index, indice insulinogenico e Disposition index derivati dall’OGTT

End Points Secondari

Gli end-points secondari dello studio erano finalizzati a valutare l’effetto del trattamento su:

1) Peso corporeo, circonferenza vita, rapporto vita-fianchi 2) Profilo lipidico

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2. MATERIALI E METODI

2.1. Soggetti

Sono state arruolate 64 donne con pregresso diabete gestazionale afferenti presso la U.O. di Malattie Metaboliche e Diabetologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana. L’arruolamento è avvenuto nell’ambito del programma di screening del diabete rivolto alle donne con pregresso diabete gestazionale, che prevede la ripetizione dell’OGTT circa 2 mesi dopo il parto e l’identificazione delle donne a maggior rischio di sviluppare il diabete tipo 2. Le donne risultate prediabetiche al follow-up sono state poi ricontattate a 1 anno dal parto, per iniziare lo studio mediante nuovo screening della tolleranza glucidica. Lo studio è stato approvato dal comitato etico locale afferente all’Università di Pisa, approvato da AIFA e condotto seguendo le indicazioni del GCP in accordo con la dichiarazione di Helsinki.

2.2. Disegno dello studio

Lo studio randomizzato, in doppio cieco, è stato eseguito in donne con pregresso diabete gestazionale e parto espletato almeno da un anno, che presentavano alterata glicemia a digiuno e/o alterata tolleranza glucidica. La durata del trattamento è stata di 4 mesi.

Fase 1a – screening della tolleranza glucidica

Al momento della prima visita è stato acquisito il consenso informato, consegnato il foglio informativo dello studio e una lettera informativa per il medico curante. Al fine di verificare i criteri di inclusione ed esclusione, è stata compilata una scheda clinica informatizzata comprendente:

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