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L'uso dei droni per il monitoraggio della flora infestante su una coltura di mais

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

Corso di Laurea in

Produzioni Agroalimentari e Gestione degli Agroecosistemi

TESI DI LAUREA

L’uso dei droni per il monitoraggio della flora infestante su una

coltura di mais

RELATORE

Prof. Nicola SILVESTRI CORRELATORE

Prof. Giovanni CARUSO

CANDIDATO Leonardo ERCOLINI

UNIVERSITÀ DI PISA

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1

INDICE

PARTE GENERALE

1. TECNOLOGIA E AGRICOLTURA

... 4

1.1. Utilizzo dei droni per il monitoraggio della flora infestante ... 5

2. RADIOMETRIA E FOROMETRIA

... 8

2.1. Come viene percepita la radiazione luminosa dall’occhio umano ... 11

2.2. Il colore ... 12 2.2.1 La mescolanza cromatica ... 13

3. FOTOGRAMMETRIA

... 15 3.1. Le immagini digitali ... 17 3.2. Analisi di immagine ... 19

4. LE PIANTE INFESTANTI

... 20

4.1. Le infestanti del mais ... 24

4.1.1 Controllo delle infestanti del mais ... 26

PARTE SPERIMENTALE

5. SCOPO DELLA RICERCA

... 31

6. MATERIALI E METODI

... 32

6.1. Caratteristiche pedologiche dell’appezzamento ... 34

6.2. Attività di rilievo a terra ... 35

6.3. Attività di rilievo tramite S.A.P.R ... 36

6.4. Elaborazione delle immagini ... 39

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2

7. RISUTATI

... 42

7.1. Comunità infestante e densità di infestazione ... 42

7.2. Fraction Vegetation Cover (F.V.C) ... 46

7.2.1 F.V.C “residuale” e superficie fogliare del mais ... 49

7.3. Classificazione delle immagini ... 53

7.4. Superfici di copertura... 58 7.5. Indice di accuratezza ... 61 7.6. Tecniche di enhancing ... 63 7.6.1 Tecnica additiva ... 63 7.6.2 Tecnica sequenziale ... 64

8. DISCUSSIONE

... 67

9. CONCLUSIONI

... 69

BIBLIOGRAFIA

... 71

SITOGRAFIA

... 73

(5)
(6)

4

PARTE GENERALE

1) TECNOLOGIA E AGRICOLTURA

Secondo uno studio pubblicato dalla FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), la popolazione mondiale aumenterà di oltre un terzo entro il 2050, questo significa che anche la richiesta di cibo aumenterà di circa il 60 % (Morè, 2018).

Gli agricoltori, quindi, si trovano di fronte alla sfida di dover aumentare le produzioni avendo a disposizione la stessa superficie arabile e con risorse che diventano sempre più limitate. Le tecnologie, sotto questo punto di vista, stanno guidando il settore agricolo verso quella che è definita dalla FAO come un’intensificazione sostenibile (sustainable agricultural intensification). Secondo la quale l’incremento di produttività deve essere ottenuto tramite una razionalizzazione (cioè un uso più efficiente) degli input utilizzati a vantaggio della sostenibilità ambientale ed economica della produzione agricola.

Molti autori sostengono come questi principi siano alla base di una seconda rivoluzione verde che si distinguerebbe, appunto, dalla prima (secondo dopoguerra) per una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale.

Sistemi che permettono di raccogliere, interpretare e archiviare informazioni permetterebbero all’agricoltore di prendere decisioni basate su dati certi, rappresentativi delle reali esigenze delle colture senza trascurare la sostenibilità. Sotto questo punto di vista, lo Smart Farming (o Smart Agriculture) rappresenta una valida risorsa per l’agricoltura in termini di razionalizzazione delle risorse.

Questa tecnica, infatti, si basa sull’integrazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) con macchinari, attrezzature e sensori, che raccolgono dati nei sistemi di produzione agricola, che successivamente verranno trasmessi e archiviati per poter essere analizzati, permettendo quindi di modulare le decisioni tecniche di conseguenza. Un cambiamento radicale rispetto ai sistemi tradizionali basati, spesso, sull’esperienza e sull’intuizione e non sempre supportati da dati quantitativi (Morè, 2018).

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Le tecnologie a disposizione delle aziende agricole sono molteplici, tra le più utilizzate e conosciute possiamo trovare:

 Strumenti di controllo che permettono di rilevare e comprendere cosa sta accadendo in campo attraverso l’esecuzione di misurazioni (mappe da satellite o drone, rilievi in campo, analisi del suolo, centraline meteo, mappe di raccolta);

 Strumenti di previsione che consentono di stimare cosa sta accadendo in campo senza dover effettuare una misurazione diretta (previsioni meteo, stima dei fabbisogni irrigui o di fertilizzanti, modelli fenologici e di sviluppo delle fitopatie);

 Strumenti di supporto alle decisioni che aiutano l’agricoltore di fronte a problematiche complesse e multi-obiettivo;

 Mappe di prescrizione, ovvero mappe che interagiscono con trattrici o altri mezzi e guidano le operazioni in campo, indicando la quantità di input da distribuire nelle diverse zone del campo;

 Sistemi di guida automatica in grado di ottimizzare la gestione spaziale delle operazioni in campo;

 Sistemi per la tracciabilità in grado di documentare l’origine e le modalità di produzione dei beni alimentari (from farm to fork);

1.1) Utilizzo dei droni per il monitoraggio della flora infestante

I sistemi Aeromobili a Pilotaggio Remoto (SAPR) o droni, hanno registrato una crescita esponenziale negli ultimi anni, sia in campo scientifico, per quanto riguarda la ricerca, che in campo pratico applicativo (Pajares, 2015).

Il rapido progresso tecnologico e la conseguente diminuzione dei costi hanno reso i droni centrali in molti tipi di attività, tra le quali, appunto, lo smart farming e l’agricoltura di precisione. Ciò è dovuto soprattutto alla versatilità con cui gli SAPR riescono ad essere utilizzati come vettori per molteplici tipologie di sensori, permettendo una loro utilizzazione anche in aree remote e su superfici molto estese, con un ottimo rapporto costo-efficacia (Gago et al., 2015).

La mappatura dei suoli e la classificazione delle coperture vegetali hanno subito una svolta con l’avvento degli UAV (Unmanned Aerial Vehicle). Essi, infatti, possono ottenere immagini a risoluzione spaziale e temporale molto elevata (px < 1cm) e con costi relativamente bassi rispetto ai sistemi aerei o satellitari (Dufour et al., 2013).

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Anche le applicazioni possibili si sono notevolmente evolute negli anni, passando da semplici distinzioni tra terreno nudo e pascolo (Breckenridge et al., 2012) a mappe 3D ad alta risoluzione di foreste e a classificazioni dettagliate delle tipologie di copertura del suolo (Ahmed et al., 2017). La capacità di distinguere e mappare le erbe infestanti e la coltura all’interno delle aziende agricole , può portare ad una riduzione generale dell’applicazione di erbicidi (Rasmussen et al., 2013) in quanto gli agricoltori possono valutare quantitativamente e qualitativamente la tipologia di infestazione, modulando di conseguenza il loro intervento, sia dal punto di vista della dose da distribuire che del principio attivo da utilizzare.

Poter razionalizzare la quantità di prodotto da distribuire, rappresenta sia un vantaggio economico per l’agricoltore, dal momento che il costo degli erbicidi rappresenta circa il 40% del costo totale di tutte le sostanze chimiche applicate ai terreni agricoli in Europa (ECPA, 2012), che un passo verso un uso più sostenibile di queste sostanze. Gli aspetti ambientali ed economici della questione, hanno portato, in questi ultimi anni, alla creazione di una legislazione sull’uso sostenibile dei pesticidi (Williams, 2011), dove sono incluse le linee guida per la riduzione delle applicazioni di quest’ultimi e l’utilizzo di dosi adeguate rispetto al grado di infestazione. Entrambe queste componenti sono integrate nella base agronomica dei principi dell’agricoltura di precisione e in particolare nella gestione delle infestanti sito specifica (SSWM) (Pena, 2013).

Questa tecnica, che consiste nell’applicazione degli erbicidi solo dove sono presenti le infestanti all’interno del campo, utilizza tipicamente tecnologie digitali per elaborare informazioni spaziali relative al campo coltivato. Il telerilevamento rappresenta un metodo efficacie e ripetibile per ottenere informazioni sullo sviluppo della flora avventizia all’interno delle aree agricole (Pena, 2013). Inizialmente l’analisi delle immagini, per la valutazione della flora infestante, si basava su acquisizioni ottenute con aerei e piattaforme satellitari. Questa procedura ha prodotto numerosi esempi di mappatura delle infestanti soprattutto nelle fasi tardive di crescita colturale, mentre la stessa tecnica effettuata nelle prime fasi fenologiche della coltura (nel periodo ottimale in cui intervenire per il controllo di diverse specie infestanti) ha evidenziato diverse criticità dovute ad una risoluzione spaziale delle immagini non sufficiente a discriminare coltura e infestanti in considerazione delle loro dimensioni limitate.

Questa criticità può essere superata grazie all’utilizzo degli UAV, che potendo volare a bassissime quote possono produrre immagini a risoluzione spaziale molto elevata e per questo motivo sono stati ampiamente utilizzati sia nell’ambito della ricerca che per molte applicazioni pratiche.

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Provando, però, ad automatizzare la procedura di classificazione di queste immagini su base colorimetrica, nonostante la risoluzione spaziale elevata delle immagini, sono emerse diverse problematiche legate alla somiglianza spettrale esistente tra coltura e infestanti che le rende difficilmente discriminabili, soprattutto durante le prime fasi fenologiche.

Questo è dovuto al fatto che i metodi di analisi colorimetrica di immagine si basano sull’informazione spettrale di ogni pixel (capitolo 2.1) ed essendo il comportamento delle infestanti e della coltura molto simile da un punto di vista spettrale, si riesce con difficoltà a distinguerle.

Figura 1: volo con drone ed acquisizione di immagine relativo ad una coltura di campo (mais)

Per superare questa problematica le strade proposte sono pressoché di due tipi. La prima, come già detto precedentemente, presuppone un aumento delle informazioni spettrali contenute in ogni pixel tramite l’utilizzo di sensori più sofisticati (multispettrali o iperspettrali). La seconda possibilità è quella di effettuare un’analisi detta OBIA (Object Based Image Analysis). Questa prevede l’individuazione di unità (oggetti) spazialmente e spettralmente omogenee, create raggruppando pixel adiacenti secondo una procedura nota come segmentazione e la combinazione delle informazioni spettrali con quelle morfologiche per migliorare drasticamente i risultati di classificazione delle immagini (Stafford, 2000). Ad esempio una tecnica utilizzata, è stata quella di definire la struttura delle file formate dalla coltura seminata a righe, utilizzando come chiave di riconoscimento tra infestanti e coltura proprio la posizione di ciascuna pianta rispetto a tale struttura spaziale (Burgos et.al., 2009).

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2) RADIOMETRIA e FOTOMETRIA

La radiazione luminosa è energia elettromagnetica che si propaga nello spazio, il campo elettrico e quello magnetico di questa radiazione vibrano su due piani ortogonali tra di loro, a frequenze diverse caratterizzanti il tipo di radiazione.

L’insieme di tutte queste possibili frequenze costituiscono lo spettro elettromagnetico (EM), il quale è convenzionalmente suddiviso in diverse regioni (regioni spettrali) che variano al variare della lunghezza d’onda della radiazione. Nello specifico, la radiazione luminosa con lunghezza d’onda compresa tra 380 e 780 nm (nm = nanometri 10-9m) appartiene alla regione visibile ed è apprezzabile dall’occhio umano. Valori inferiori e vicini ai 380 nm caratterizzano la radiazione ultravioletta, mentre quelli superiori ai 780 nm appartengono alla radiazione infrarossa e termica.

Il nostro sistema visivo è dunque capace a rilevare la radiazione e elettromagnetica a lunghezza d’onda che può andare dai 380 ai 780 nm mentre per lunghezze d’onda superiori o inferiori sono necessari appositi sensori (chiamati multispettrali o iperspettrali).

La radiometria è quel campo della metrologia che si occupa della misurazione fisica delle proprietà

della radiazione elettromagnetica considerando tutte le sue regioni spettrali (INRIM., 2017). Possiamo distinguere due tipi di grandezze radiometriche, quelle spettrali e quelle totali:

Le grandezze radiometriche spettrali sono descritte in funzione della lunghezza d’onda, sono cioè rapportate ad una quantità unitaria di lunghezza d’onda (o frequenza);

Le grandezze radiometriche totali nelle quali si considera la quantità complessiva di energia contenuta (integrata) in tutte le lunghezze d’onda presenti, il risultato di questa integrazione è quindi un numero e ciò comporta la perdita di quella che era l’informazione cromatica; Le grandezze radiometriche riguardanti l’emissione e la trasmissione della radiazione elettromagnetica sono:

 Energia radiante (Qe) che rappresenta l’energia totale emessa da una sorgente e si misura in

Joule (J), mentre l’energia radiante spettrale in Joule m-1 (tutte le grandezze spettrali hanno in

più una dimensione m-1);

 Flusso radiante (φe) che esprime l’energia emessa da una sorgente per unità di tempo, si misura

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 Intensità radiante (Ie) è il flusso radiante per unità di angolo solido in una data direzione,

considerando la sorgente della radiazione come origine, si esprime in Watt / steradiante (W/sr). Questa grandezza è utile a descrivere il comportamento della sorgente quando il suo flusso di radiazioni non è costante in tutte le direzioni. L’intensità radiante spettrale invece è espressa in W / (sr m);

 Radianza (Le) è data dalla quantità di energia emessa da una superficie nell’unità di tempo

(φe) per unità di angolo solido in una data direzione (Ie) per unità di superficie. L’unità di

misura è quindi W sr-1 m-2. Radianza spettrale Watt sr-1m-3.

 Emittenza o Emittività radiante (Me) esprime il flusso radiante emesso da un elemento

infinitesimo di superficie, diviso per l’area dell’elemento stesso. Si misura in W / m2, mentre

l’emittenza spettrale in W/m3;

 Irradianza (Ee) è definita come il flusso radiante incidente su un elemento infinitesimo di

superficie diviso per l’area dell’elemento stesso. L’unità di misura è il W /m2, mentre per

l’irradianza spettrale è W/m3;

La fotometria, invece, studia come viene percepita una radiazione elettromagnetica da un

osservatore umano, lo scopo di tale disciplina è quello di misurare la luce visibile in modo da tener conto della sensibilità del sistema visivo umano (INRIM.,2017). Sensibilità che varia sia al variare della lunghezza d’onda che al variare dell’intensità della radiazione.

La fotometria può lavorare in due diversi regimi luminosi:

 Regime fotopico, in condizioni di alta intensità luminosa (es. luce diurna);

 Regime scotopico in condizioni di bassa intensità luminosa (es. cielo stellato)

Questa distinzione è importante dal momento che i due diversi regimi luminosi differiscono per la posizione dei picchi di massima sensibilità, intesi come quelle lunghezze d’onda alle quali i recettori visivi sono più “efficienti”.

Un altro importante valore fotometrico è rappresentato dalla funzione di efficacia luminosa

spettrale, che valuta la sensibilità alle radiazioni elettromagnetiche dell’osservatore umano medio,

sia in regime fotopico che scotopico. La funzione specifica di ognuno dei due regimi luminosi è stata determinata sperimentalmente dalla Commission International de l’Enclarage (CIE) nel 1924 (fotopico) e nel 1951 (scotopico).

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L’efficacia luminosa spettrale in regime fotopico K(λ), che è stata calcolata come prodotto tra una costante di proporzionalità (Km = 683 lm/W) e la funzione di risposta dell’occhio umano in regime

fototopico (V(λ)), ha evidenziato come vi sia massima sensibilità nella regione del giallo e minima in quella del blu (Di Giulio.,2015).

Lo stesso valore calcolato in regime scotopico, con Km = 1740 lm/W e la corrispondente funzione di

risposta spettrale in quelle condizioni luminose, ha evidenziato la massima sensibilità in corrispondenza delle regioni blu/verde e la minima in quelle giallo/rosso (Di Giulio.,2015).

Come la radiometria anche la fotometria ha le sue grandezze, infatti, ad ogni grandezza radiometrica corrisponde una grandezza fotometrica pesata però dall’efficacia luminosa spettrale (K(λ)), che assume valore 0 al di fuori dello spettro visibile (380-780nm). Ne consegue che le grandezze fotometriche hanno senso solo nella regione spettrale visibile (Di Giulio.,2015).

Le grandezze fotometriche sono:

 Flusso luminoso, che rappresenta la parte del flusso di radiazione che è capace di produrre una sensazione luminosa. Si ottiene dal prodotto tra flusso radiante (φe) e l’efficacia luminosa

spettrale (K(λ)). L’unità di misura è il lumen (lm);

 Quantità di luce (Q), è il prodotto tra il flusso luminoso per l’intervallo di tempo durante il quale la radiazione è mantenuta. Questa grandezza è espressa in lumen per secondo (lm*s);

 Intensità luminosa (Iv) è la grandezza fotometrica corrispondente all’intensità radiante, ed

esprime il flusso luminoso emesso in un angolo solido pari a uno steradiante in una data direzione. L’unità di misura è la candela (cd);

 Luminanza (Lv) rappresenta il flusso luminoso emesso da una superficie di area unitaria della

sorgente (1m2) entro un angolo solido di uno steradiante in direzione perpendicolare alla superficie;

 Emettenza luminosa (Mv) è il flusso luminoso emesso da una superficie di area unitaria della

sorgente (1m2). Si misura in lux= lm/ m2;

 Illuminamento (Ev) è definito come il flusso luminoso che incide su una superficie di area

unitaria (1m2) in direzione perpendicolare. Si esprime in lux (lx) ed è una grandezza molto importante perché la nostra percezione degli oggetti è dovuta proprio alla radiazione riflessa da essi, che è proporzionale all’illuminamento stesso (Di Giulio.,2015);

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2.1) Come viene percepita la radiazione luminosa dall’occhio

umano

Alla visione nitida delle immagini e dei colori sono deputate due regioni diverse della retina, dove sono presenti dei fotorecettori. Nella fovea centralis, che è un avvallamento di forma circolare situato nella zona centrale della retina, sono presenti delle cellule fotorecettive, dette coni (Gonzalez et al., 2002). Mentre, nella zona più periferica di quest’ultima sono presenti i bastoncelli.

La differenza sostanziale tra i due tipi di fotorecettori è che i primi sono deputati alla visione dei colori (fotopica) e alla visione distinta, mentre gli ultimi vengono impiegati per una visione al buio (scotopica).

I coni sono divisibili in 3 tipologie differenti: i coni L (long wavelenghth) più sensibili alla luce rossa (610 nm), i coni M (medium wavelenght) più sensibili alla luce verde (560 nm) e i coni S (small wavelenght) sensibili alla luce blu (430 nm).

Figura 2:picchi di assorbimento spettrali dei coni oculari

Sebbene i vari coni siano più sensibili alle lunghezze d’onda della luce in corrispondenza dei picchi di assorbimento (figura1), riescono a percepire anche altri colori intorno al picco e vi è una sovrapposizione con i colori percepiti dagli altri coni.

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La sensibilità dei tre tipi di coni, quindi, differisce sia in funzione della lunghezza d’onda, che del valore massimo (picco) e la somma delle tre diverse funzioni fornisce la sensibilità foveale relativa.

2.2) Il colore

Il colore nasce dalla luce che colpendo un oggetto viene parzialmente assorbita, a seconda del colore, e parzialmente riflessa.

La parte riflessa viene trasmessa ai ricettori cromatici dell’occhio umano, che la trasformano in impulsi che percorrendo le vie nervose raggiungono il cervello, dove vengono “interpretati” generando così un’impressione cromatica.

Nel caso di un oggetto rosso, ad esempio, è principalmente la parte rossa dello spettro visibile ad essere riflessa, il resto viene assorbito e trasformato in calore.

La colorimetria utilizza la percentuale della luce incidente che è stata riflessa (%R) compresa nell'intervallo del visibile (400-700 nm) per descrivere il colore dell'oggetto. Applicazioni particolari quali la misurazione della fluorescenza, del bianco ed i colori mimetici prendono in considerazione anche le radiazioni UV (350-400 nm) e NIR (700-1300 nm).

Ciascun oggetto colorato, quindi, viene pertanto definito da una curva di riflettanza, similmente alle impronte digitali nell’uomo detta firma spettrale.

Per definire questo valore è utilizzato uno strumento detto spettrofotometro, che illumina l’oggetto da monitorare con una luce artificiale (che riproduce la luce diurna) e che analizza la frazione riflessa tramite un monocromatore (analizzatore di spettro).

All’interno del monocromatore la luce riflessa dall’oggetto viene scomposta nelle sue singole lunghezze d’onda e misurata al fine di determinare il fattore di riflessione spettrale dell’oggetto (R%), a questo punto, tramite appositi software di elaborazione, vengono ottenute le cosiddette curve di riflettanza.

Il colore percepito di un campione dipende, inoltre, dall’angolo di incidenza della luce e da quello di osservazione. Tali aspetti vanno considerati e definiti anche nell’ambito della tecnica di misurazione e degli spettrofotometri impiegati. Si parla pertanto della geometria di misurazione applicata nello spettrofotometro.

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In questo campo vengono distinti due tipi di illuminazione: l’illuminazione diffusa, che non ha un angolo specifico di incidenza e l’illuminazione diretta, che invece giunge sul campione con determinati angoli di incidenza (nell’utilizzazione dello spettrofotometro si utilizzano angoli compresi tra 0°- 45°). A seconda delle diverse applicazioni e delle diverse geometrie di misurazione si utilizzano angoli di incidenza diversi, ad esempio l’industria della carta ricorre solitamente ad una geometria di misurazione con 0° mentre il settore tessile e plastico a quella 8°. L’industria grafica, invece, preferisce l'uso di una geometria che può variare da 0-45°.

2.2.1) La mescolanza cromatica

Esistono due tipi principali di mescolanza cromatica: la mescolanza cromatica additiva e quella sottrattiva.

La mescolanza cromatica additiva, fu dimostrata per la prima volta nel 1861 da James Clerk Maxwell che, durante una lezione al King's College di Londra, proiettò la prima fotografia tricromatica a colori (figura 3). Per produrla furono scattate tre diverse fotografie usando tre tipi di filtri (rosso, verde e blu) che vennero poi proiettate contemporaneamente con proiettori a loro volta muniti degli stessi filtri colorati.

Il termine additivo intende sottolineare come sia possibile produrre qualsiasi colore mescolando in proporzione diverse luci di colore rosso, verde e blu (Red, Green, Blue = RGB).

Questa tecnica trova impiego soprattutto nei settori dell’elaborazione elettronica di immagini e della tecnologia televisiva dove fosfori luminosi rossi, verdi e blu sono disposti sullo schermo. I minuscoli punti luminosi variamente colorati non sono, infatti, distinguibili singolarmente e l'osservatore percepisce un colore dovuto ad una mescolanza cromatica additiva.

Con mescolanza cromatica sottrattiva, o sintesi sottrattiva, invece, ci riferiamo ai colori primari dei pigmenti che sono la caratteristica primaria della materia (Minotto, 2015). Ogni materia da noi conosciuta, ogni superficie, ogni oggetto, come già detto, assorbe in maniera selettiva solo alcune lunghezze d’onda della luce riflettendone altre.

Il pigmento percepito è quindi determinato dai colori sottratti dalla luce bianca che percepiamo. I colori principali di questo tipo di sintesi sono ciano, magenta e giallo (Y, C, M). Con la somma di questi tre colori principali si ottiene il nero, che è il risultato della completa sottrazione dei colori al pigmento.

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La mescolanza cromatica sottrattiva viene impiegata per la riproduzione del colore nei settori della fotografia e della stampa, nonché per colorare materiali quali stoffe, plastica, carta o vetro.

Figura 3 : modelli di mescolanza cromatica additiva e sottrattiva

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3) FOTOGRAMMETRIA

La fotogrammetria è una tecnica che consente di determinare metricamente forma e posizione di oggetti partendo da almeno due fotogrammi distinti che riprendono lo stesso oggetto (definiti “coppia stereoscopica”) permettendo di identificare e misurare la posizione spaziale di tutti i punti d'interesse dell'oggetto considerato (V.Girelli, 2019).

Questa tecnica, per quanto originariamente nata per essere utilizzata nel rilievo architettonico, è attualmente utilizzata anche per altre attività, come il rilevamento topografico del territorio, il monitoraggio geologico, ambientale, forestale e, negli ultimi anni, anche in diverse attività di interesse agronomico.

Lo sviluppo di calcolatori in grado di gestire una grande quantità di dati e della grafica computerizzata ne hanno permesso un utilizzo più semplice e rapido e con costi minori. L'avvento di queste tecnologie, infatti, ha reso obsolete le apparecchiature ottiche. In seguito a questi cambiamenti, la fotogrammetria è ora utilizzata anche in ambiti dove raramente era impiegata in passato.

Questa disciplinarappresenta, ormai, uno strumento di acquisizione di dati metrici e tematici tra i più affidabili e più immediati, e va estendendo sempre più la sua diffusione e le sue applicazioni. Essa costituisce infatti una procedura di rilevamento, prospezione e documentazione delle realtà territoriali, ambientali, urbane e architettoniche. Tali peculiari caratteristiche, non invasive e non distruttive, la qualificano meglio di ogni altra metodologia di rilevamento e prospezione nella individuazione e misura delle più minute modificazioni morfologiche degli oggetti considerati, e nella lettura dei vari aspetti attinenti alla loro definizione spaziale, talvolta non evidenti alla normale osservazione visuale (M. Romeo.,2016).

I principi alla base di questa tecnica sono legati alle regole dell’ottica, della fotografia e della geometria descrittiva ed in particolare alla prospettiva inversa. L’immagine fotografica può essere assimilata ad una proiezione centrale e quindi, attraverso costruzioni grafiche, è possibile stimare la posizione nello spazio di punti facilmente riconoscibili nella rappresentazione prospettica di una scena ovvero da una fotografia (Meli, 2014).

Una prima suddivisione di questa tecnica può essere fatta sulla base dei diversi metodi di acquisizione del dato primario (le immagini):

Fotogrammetria aerea quando l’acquisizione delle immagini avviene tramite piattaforme aeree o da satellite;

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Fotogrammetria aerea di prossimità quando l’acquisizione avviene tramite piattaforme di prossimità motorizzate e non (ad es. SAPR);

Fotogrammetria terrestre che presuppone l’acquisizione delle immagini tramite camere posizionate a terra. All’interno di questa tipologia è possibile definire la fotogrammetria close range quando gli oggetti ripresi si trovano ad una distanza mai superiore ai 300 metri dalla camera. Questo particolare tipo di fotogrammetria impiega differenti approcci che si distinguono per numero di immagini e tipologia di presa:

o Approccio monoscopico, da immagine singola; o Approccio stereoscopico, da due o più immagini;

o Approccio multi-immagine, quando la restituzione (definizione dei rapporti tra lo spazio oggetto 3D e quello immagine 2D (Meli, 2014) avviene attraverso più immagini riprese da posizioni differenti;

Il problema fondamentale della fotogrammetria è quello di dover mettere in relazione lo spazio oggetto e lo spazio immagine, per cui è necessario individuare dei punti caratteristici appartenenti a tutti e due gli spazi.

Lo spazio oggetto è quello in cui realmente si trova l’oggetto da rilevare ed è uno spazio tridimensionale, mentre lo spazio immagine è rappresentato dalla presa fotogrammetrica che inquadra l’oggetto ed è bidimensionale.

Esistono dei parametri, detti di orientamento, che stabiliscono le regole che permettono di mettere in corrispondenza i due tipi di spazi (Meli, 2014). Questo processo si compone di diverse fasi:

La prima è la fase di acquisizione, attraverso la quale viene acquisito il dato (cioè l’immagine). Durante questa fase vengono stabiliti due tipi di parametri, le informazioni spaziali riguardanti l’oggetto del rilievo (X, Y, Z) e la posizione della camera al momento dello scatto. Per fare ciò è necessario conoscere alcune informazioni fotogrammetriche utili ad ottenere tali parametri:

 Altezza e posizione del punto di scatto: posizione del punto di acquisizione del sensore rispetto al terreno o ad un sistema di riferimento spaziale;

 Angolo di scatto: angoli di rollio, beccheggio e imbardata che si creano tra il sensore e il piano di riferimento;

 Distanza focale: Distanza tra il centro ottico della camera fotografica e il piano immagine: maggiore è questa distanza minore è la distorsione (ad es. teleobiettivo);

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Dimensioni del pixel a terra (GSD – Ground Sampling Distance o Groundel) che determina la qualità dell’immagine in termini di risoluzione;

La seconda fase è quella di orientamento, durante la quale vengono stabilite le posizioni della camera nelle differenti viste che prendono l’oggetto del rilievo.

A questo punto è possibile attuare la fase di restituzione che permette di passare dalle coordinate immagine nello spazio 2D alle corrispondenti coordinate oggetto nello spazio 3D ricavando così forma e dimensione dell’oggetto rilevato.

Una volta ottenuto questo parametro di orientamento delle immagini detto, orientamento interno, è possibile collocare ciascun fotogramma all’interno di un sistema di riferimento conoscendone 6 valori, gli angoli di presa e la posizione del punto di acquisizione della camera al momento dello scatto, in questo modo si associa ad ogni fotogramma un orientamento esterno. Per fare ciò la procedura attuale prevede il passaggio da un sistema di riferimento arbitrario, detto orientamento

relativo, nel quale ogni fotogramma è orientato nello spazio in relazione solo ai suoi adiacenti, ad un orientamento assoluto che colloca le foto in un sistema di riferimento geografico grazie all’uso di

punti di coordinate note misurati a terra (ad es. con strumentazione GPS).

3.1) Le immagini digitali

Un’immagine fotografica analogica è composta da milioni di pigmenti colorati, molto piccoli e spazialmente irregolari. Questa caratteristica rappresenta la grana della fotografia.

Mentre, un’immagine digitale, è composta da pixel (pictrure element), solitamente quadrati, disposti su una griglia quadrata regolare.

Questo tipo di immagine è detta anche numerica, ed è rappresenta da una struttura matriciale che viene definita raster, dall'inglese trama, reticolo (Meli, 2014). Infatti, essa è costituita da una matrice bidimensionale composta da righe e colonne di pixel che ne descrivono il contenuto radiometrico in funzione della sua variabile spaziale (posizione).

Quindi, ogni pixel di un’immagine ha una dimensione finita e ad ognuno di essi sono associati, univocamente, due numeri interi che indicano la posizione in riga e nella colonna all’interno della matrice.

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In particolare, la formazione dell'immagine digitale è un procedimento che consiste di due operazioni la quantizzazione e il campionamento che sono legate la prima alla risoluzione radiometrica e la seconda a quella geometrica.

Il processo che converte una rappresentazione continua in una discreta si chiama digitalizzazione (digitizing), e avviene campionando le variabili spaziali e quantizzando i valori radiometrici corrispondenti. La radiazione luminosa emessa da una o più sorgenti, colpisce la superficie degli oggetti presenti nella scena, la porzione riflessa di questa radiazione passando attraverso l’ottica della camera giunge al sensore, il cuore dello strumento di digitalizzazione. A questo punto il sensore misura la luce incidente e la converte in tensione elettrica, ad intensità variabile, che a sua volta verrà “trasformata” da un convertitore analogico/digitale (ADC) in un digital number, cioè un bit di informazioni. L'insieme di questi valori viene, quindi, elaborato dal microprocessore della fotocamera e costituisce l'informazione necessaria alla ricostruzione dell'immagine catturata.

La risoluzione radiometrica, da cui dipende la qualità di un'immagine, è un numero intero prodotto dal sensore, memorizzato in corrispondenza di ciascun pixel, e derivante dalla conversione dell'intensità del segnale luminoso in un valore di intensità elettrica. Inoltre, il valore è legato al numero di bit utilizzati per rappresentare il suo valore radiometrico che generalmente varia da 1 a 8 bit. Il numero di livelli è rappresentato da 2numero di bit per pixel.

Quindi si va da una rappresentazione binaria per un'immagine avente 1 bit come risoluzione radiometrica (immagine in bianco e nero) fino ad arrivare alle immagini a 8 bit che presentano 256 livelli cromatici. I 256 livelli vanno dallo 0 che corrisponde al nero al 255 che invece rappresenta il bianco, i valori intermedi determinano le gradazioni di grigio (immagini a livelli di grigio) (Meli, 2014).

Per quanto riguarda invece le immagini a colori, bisogna ragionare diversamente, poiché ogni colore viene scomposto nei tre livelli RGB o in quelli YCM e ciascun componente a sua volta è suddiviso in 256 valori che variano da 0 (assenza di colore) a 255 (saturazione del colore). La radiometria di un pixel, quindi viene rappresentata dalla somma dei tre numeri interi che esprimono la saturazione delle tre componenti principali, quindi tre byte (24 bit) per ogni pixel. In questo modo l'immagine avrà 16.777216 di colori, cioè 224 (Meli, 2014).

Nel momento in cui si vogliono ottenere dei dati metrici dalle immagini, diventa importante conoscere la dimensione dei pixel. Questo valore è ricavabile dalla risoluzione geometrica, che indica il numero di pixel contenuti in una unità di lunghezza che viene solitamente espressa in dpi (dot per inch - punti

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per pollice). Poiché un pollice è pari a 2,54 cm la relazione che permette di calcolare la dimensione del pixel corrispondente è: dpixel µm= 25400/dpi.

3.2) Analisi di immagine

Come detto precedentemente, un’immagine digitale può essere considerata come una griglia di pixel aventi ognuno dei valori spaziali (X, Y) e dei valori colorimetrici, che esprimono il contenuto spettrale del pixel sulla base delle bande utilizzate dal sensore (ad esempio in un’immagine RGB l’informazione spettrale dal pixel è data dai valori di Red, Green e Blu).

Ogni immagine è dunque analizzabile da questi due punti di vista e tramite questa analisi è possibile, quindi, ottenere informazioni spaziali e/o spettrali su di essa.

Il primo passo è dunque capire quale delle due informazioni è più adatta ad ottenere il dato voluto, ad esempio volendo distinguere due elementi differenti nell’immagine, è necessario valutare se la distinzione può essere fatta su base colorimetrica o su base spaziale (forma).

Nel primo caso, i pixel dell’immagine vengono analizzati statisticamente sulla base del loro valore spettrale e divisi in classi secondo il loro grado di somiglianza, chiaramente questa opzione è strettamente legata e dipendente al tipo di sensoristica utilizzata, dal momento che più bande spettrali saranno presenti, più informazioni saranno associate ad ogni pixel e migliore sarà la classificazione che se ne potrà ottenere (RGB: 3 bande, multispettrale: 5 bande, iperspettrale: ad ampio range spettrale). Spesso è utile far precedere questa operazione da un’analisi delle firme spettrali di ciò che si vuole individuare all’interno dell’immagine, ciò permette di valutare oggettivamente se esistono delle reali differenze spettrali utili alla loro discriminazione, evitando, nel caso in cui non ci fossero, di cercare differenze che non esistono.

Per quanto riguarda invece l’informazione spaziale dell’immagine, può essere considerata o insieme a quella colorimetrica, valutando cioè il valore spettrale in relazione a quello spaziale, oppure separatamente. Nel secondo caso vengono valutate le forme di ciò che è presente nell’immagine, classificando i pixel sulla base non solo della loro posizione ma anche su quella dei pixel adiacenti. Questo aspetto solitamente, più che sulle immagini è utilizzato sulle “nuvole di punti”, modelli tridimensionali ottenuti tramite software appositi che processando più immagini (stereoscopiche) individuano punti in comune tra queste. Essendo modelli tridimensionali è chiaro come l’aspetto spaziale possa assumere un’importanza maggiore rispetto ad immagini bidimensionali.

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Figura 5: rappresentazione numerica del valore dei pixel (sinistra) ed il relativo risultato visivo (destra)

4) LE PIANTE INFESTANTI

La definizione di pianta infestante cambia a seconda del punto di vista dalla quale viene valutata. Infatti, da punto di vista strettamente produttivo, è considerata come una pianta che cresce in luoghi dove non è desiderata e che va, quindi, ad interferire con gli obbiettivi e le esigenze dell’agricoltore. Mentre da un punto di vista ecologico è definita come una pianta abile a colonizzare gli agroecosistemi e in grado di svilupparsi anche in condizioni di disturbo ripetuto.

Per quanto riguarda, invece, una classificazione delle infestanti si possono ricordare due diverse suddivisioni:

 botanica: che divide le malerbe in dicotiledoni (a foglia larga) e monocotiledoni (a foglia stretta);

 biologica: che si basa sulle diverse modalità di superamento della stagione sfavorevole da parte della pianta infestante, dal tipo di propagazione (per seme o per gemma) e dal posizionamento delle gemme rispetto alla superficie del terreno (Raunkiaer,1934). Prendendo in considerazione tali caratteristiche si distinguono diversi gruppi biologici:

o Terofite, che possono essere annuali con superamento della stagione sfavorevole allo stato di seme (ad es. Poa annua L, Cuscuta europaea L e Tribulus terrestri L); o Emicriptofite, che si riproducono sia per seme che per gemma poco interrata,

portamento a rosetta o cespuglioso, germogliano in primavera e disseminano a fine estate inizio autunno (es. Taraxacum spp. e Rumex spp.);

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o Geofite, perenni, con gemme sotterranee portate da organi vegetativi profondi (bulbi, rizomi, stoloni, gemme avventizie) (es. Cynodon dactylon L, Achillea millefolium L, Convolvulus arvensis L,).

L’incidenza percentuale dei diversi gruppi biologici definisce lo spettro biologico della comunità di malerbe e può fornire utili informazioni circa le modalità con cui uno specifico agroecosistema viene gestito.

L’ecologia delle malerbe comprende diversi aspetti come la durata del ciclo biologico e il periodo in cui si svolge, i meccanismi di propagazione, i meccanismi di diffusione e le associazioni floristiche in base al tipo di terreno e alla pressione antropica. La loro conoscenza risulta dunque determinante per l’impostazione di un buon piano di difesa agronomico.

La durata del ciclo biologico permette di dividere le malerbe in 3 differenti classi:

 Piante annuali che nascono da seme in epoca vicina all’emergenza della coltura e disseminano prima della raccolta (ad es. Papaver rhoeas L);

 Piante biennali, che fioriscono e disseminano al secondo anno di vita, prima di esaurirsi (ad es. Dacus carota L, Bromus arvensis L);

 Piante poliennali vivono per più anni grazie alla capacità di ricaccio o alla presenza di organi di riproduzione vegetativa (ad es. taraxacum spp, rumex spp, Sorghum halepense, Ranunculus L);

Per riuscire a germinare e/o a fiorire le malerbe necessitano del soddisfacimento di alcune esigenze ecofisiologiche, le più importanti delle quali sono le esigenze fototermiche.

I fabbisogni espressi dalle differenti specie permisero a Montegut nel 1975 di individuare 5 gruppi ecofisiologici nei quali dividere le varie specie in base alle differenti richieste, in termini di temperatura e fotoperiodo, dei diversi tipi di malerbe.

 INDIFFERENTI, Emergono in qualsiasi stagione dell’anno e solo durante i mesi più freddi le emergenze si diradano. A loro volta si possono dividere in 3 sottoclassi:

o totalmente indifferenti, malerbe da 100 giorni – più di una generazione l’anno (ad es. Poa annua L, Senecio vulgaris L, Stellaria media L);

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o parzialmente indifferenti – no emergenza per T < 4°C (ad es. lolium spp, matricaria spp, veronica spp);

o apparentemente indifferenti – semi con livelli molto elevati di dormienza, emergenza in ogni momento dell’anno (ad es. Rapistrum rugosum L, Sinapis arvensis L);

 AUTUNNALI, emergono da fine estate e si dividono in 3 sottoclassi:

o autunnali strette, cessano di germinare all’arrivo dei primi freddi, fioriscono ad inizio primavera con giorno lungo e maturano i semi ad aprile;

o autunnali preferenziali, emergono anche a fine inverno, inizio primavera, hanno un ciclo vegetativo simile al frumento e pertanto sono dette specie mimetiche;

o invernali: emergono tra fine autunno e inizio inverno in quanto sono in grado di soddisfare, nei periodi più freddi, particolari esigenze come la richiesta di ossigeno, infatti con le basse temperature, la concentrazione di O2 nella soluzione circolante del

suolo tende ad aumentare;

 PRIMAVERILI: emergono da fine inverno a inizio primavera e si dividono in 2 sottoclassi:

o primaverili strette, hanno un periodo per l’emergenza più stretto, con dormienza indotta alla temperatura soglia di 21-23 °C;

o primaverili prolungate, presentano una dormienza a temperature maggiori (24-26 °C), si possono sovrapporre con le estive;

 ESTIVE: emergenza a fine primavera, necessitano di alte temperature, acqua e disponibilità in azoto.

Questa suddivisione permette di delineare un calendario delle emergenze in campo nell’arco dell’anno, che sovrapposto alla coltura di interesse può consentire di individuare quelli che potrebbero essere i problemi di infestanti ai quali si va incontro.

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Figura 6: Calendario delle emergenze in campo nell’arco dell’anno

Un altro fattore che rende complicata la gestione delle infestanti all’interno dell’agroecosistema è l’eteroblastia, che consiste nella produzione da parte delle malerbe di semi aventi caratteristiche morfo-fisiologiche diverse, tali da condurre ad una scalarità di emergenza difficile da gestire.

Anche il numero di semi prodotto è un fattore che può variare a seconda delle condizioni pedo-climatiche nelle quali si trova la pianta ed essendo di fondamentale importanza per la conservazione e diffusione della specie, può determinare condizioni differenziate di infestazione nell’agroecosistema.

Si definisce seed bank (banca semi) l’insieme dei semi contenuti nel terreno e capaci, potenzialmente, di dare origine a nuove piante, annuali o perenni.

Questa riserva di semi rappresenta di fatto l’inoculo delle infestanti in campo e l’obbiettivo di una buona gestione agronomica deve essere quello di ridurre al minimo il numero di semi della banca tramite interventi mirati. La dinamica della seed bank è definita dal bilancio tra apporti e perdite di semi nel terreno e la sua conoscenza consente di individuare i momenti in cui concentrare gli interventi di controllo. Gli apporti sono rappresentati essenzialmente dalla dispersione semi prodotta dalla pianta madre, ma possono contribuire anche altri vettori come irrigazioni, concimazioni organiche, vento e uso di sementi inquinate. L’impoverimento della banca semi del terreno può essere dovuto innanzitutto alla predazione dei semi in post-dispersione; quelli poi che riescono a raggiungere

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il terreno per entrare a far parte della seed bank vanno, in buona parte, incontro ad una morte in sito, mentre quelli che arrivano a germinazione possono essere, o predati in fase post-germinazione oppure dare origine ad una pianta che a sua volta potrà crescere indisturbata o morire in seguito a competizione, parassitismo o azioni di disturbo messe in atto dall’agricoltore.

Un discorso diverso riguarda le infestanti che si propagano vegetativamente. Queste utilizzano la riproduzione sessuale per la diffusione a distanza, ma una volta colonizzato un ambiente si diffondono molto velocemente per via vegetativa. Hanno uno sviluppo iniziale molto rapido e germogliamento in maniera scalare rendendo difficili le azioni di controllo.

I danni dovuti alle piante infestanti possono essere:

 Danni quantitativi con minori rese unitarie dovute a competizioni per luce, acqua e nutrienti, soffocamento, parassitismo ed emissione di tossine con alterazione della microflora;

 Danni qualitativi con inquinamento sementi e loro inevitabile deprezzamento, presenza di materiale umido nel frumento che porta un sapore sgradevole delle farine;

 Minore efficienza delle tecniche colturali;  Possibile diffusione di malattie e insetti.

4.1) Le infestanti del mais

La presenza di erbe infestanti nella coltivazione del mais, specialmente nelle sue prime fasi di sviluppo, può causare ingenti perdite produttive. Tale problema si aggrava ulteriormente se le malerbe presentano un ritmo di crescita superiore a quello del mais, generando perdite, che a seconda della densità e della natura delle infestanti, possono variare dal 30% al 70% della produzione (Raparrini et al., 2010). Oltre alla perdita produttiva dovuta alla competizione, le erbe infestanti possono rappresentare un ostacolo fisico durante le fasi di raccolta e nel caso in cui la coltura venga utilizzata per insilato, compromettendo la purezza di quest’ultimo (Campagna et al., 2010).

Tra le specie infestanti più comuni del mais possiamo annoverare:

Sorghum halepense L. Si tratta di una graminacea pluriennale che si riproduce sia per seme che da rizoma, è una specie molto diffusa, che riesce ad adattarsi a climi anche molto differenti tra loro. È tra le infestanti più pericolose per il mais per il suo impatto sulla resa e per la

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capacità di produrre sostanze allelopatiche (inibitrici dello sviluppo di piante concorrenti). Una singola pianta può produrre una gran quantità di semi, che germinano in primavera. Le piante nate da seme sono in grado di produrre rizomi già dopo 3 settimane dall’emergenza. L’emergenza delle plantule che si originano dai rizomi è precedente a quella delle plantule che nascono dai semi (Ruminantia, 2017);

Chenopodium Album L. È una chenopodiacea diffusa su tutto il territorio nazionale, con una grande capacità di produrre semi (da 40.000 a 100.000 per pianta), che possono rimanere vitali nel terreno dai 20 ai 40 anni. La germinazione avviene nei mesi di marzo e aprile con temperature del terreno superiori a 8°C, predilige terreni fertili, da cui asporta notevoli quantità di elementi nutritivi, a scapito del mais (Ruminantia, 2017);

Amaranto retroflexus L. Si tratta di una amarantacea annuale, una delle specie maggiormente diffuse. La capacità di produrre semi è molto elevata (fino a 100.000 per pianta), quest’ultimi possono rimanere vitali nel terreno fino a 40 anni. La germinazione inizia con temperature del terreno superiori a 12 gradi, predilige terreni permeabili e molto fertili, l’asportazione di elementi nutritivi è molto elevata e può risultare tossica per gli animali da allevamento (Ruminantia, 2017);

Solanum nigrum L. Solanacea a ciclo annuale, molto diffusa in Italia. Ogni pianta è in grado di produrre fino a 100 semi che hanno una capacità di sopravvivere nel terreno fino a 20 anni. La germinazione è primaverile e caratterizzata da grande scalarità. Le lavorazioni superficiali del terreno spesso ne favoriscono la germinazione. Questa malerba è particolarmente pericolosa nel caso che il mais venga utilizzato per l’insilato a causa della sua potenziale tossicità per gli animali;

Polygonum persicaria L. Poligonacea a ciclo annuale, diffusa in tutte le zone temperate europee. Ogni pianta è in grado di produrre fino a 800 semi che rimangono vitali nel terreno per circa 20 anni. Predilige suoli fertili e ricchi di azoto, infesta tutte le colture e risulta particolarmente competitiva in quelle a sviluppo primaverile-estivo (Ruminantia, 2017);

Abutilon theophrasti M. Appartenente alla famiglia delle malvacee, è stata introdotta accidentalmente in Italia e si è diffusa molto rapidamente. Ogni pianta è in grado di produrre fino a 1.000 semi che rimangono vitali nel terreno fino a 10 anni. La germinazione è

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primaverile, caratterizzata da scalarità con temperature comprese tra 10 e 30 gradi. Colonizza tutti i tipi di terreni, anche se predilige quelli fertili e irrigui (Ruminantia, 2017).

4.1.1) Controllo delle infestanti del mais

Un buon piano di controllo delle infestanti del mais richiede la conoscenza delle interazioni tra le infestanti e la coltura al fine di scegliere il principio attivo e l’epoca di intervento ottimali. Particolare importanza riveste la conoscenza del periodo critico di competizione PC (Periodo Critico) che rappresenta l’intervallo di tempo durante il quale si rende necessario il controllo delle malerbe per prevenire perdite di produzione significative da parte della coltura. Tale periodo è funzione di due variabili della competizione: la DCT (Durata della Competizione Tollerata), cioè il periodo di massima permanenza delle infestanti all’interno della coltura perché si abbiano danni produttivi inferiori ad una soglia limite fissata a priori e il PRAM (Periodo Richiesto di Assenza delle Malerbe) che rappresenta il periodo minimo di tempo a partire dall’emergenza, durante il quale la coltura deve rimanere priva di malerbe affinché non subisca danni produttivi superiori alla stessa soglia limite (Knezevic et al., 2002; Meriggi et al., 2008).

La conoscenza del PC ha una notevole importanza nella impostazione di programmi sostenibili di gestione delle malerbe basate sull’uso di mezzi meccanici e sull’applicazione, nel momento ottimale, degli erbicidi di post-emergenza (Ferrero et al., 1996). Tuttavia la sua durata è influenzata dal quadro malerbologico, dalle pratiche agronomiche e dalle condizioni ambientali di una determinata località e quindi necessita di una determinazione a scala locale.

In linea di massima il periodo critico si protrae dalla germinazione fino alle 7-8 foglie. A seguito della levata, il mais diventa molto competitivo nei confronti delle erbe infestanti grazie alla sua altezza e alla capacità di copertura del suolo (Crivellari et al., 2010).

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Per quanto riguarda le tecniche di controllo delle erbe infestanti su mais, attualmente la più utilizzata è quella del diserbo chimico, che interessa circa il 98% dei terreni coltivati a mais. Questa tecnica, a seconda del periodo di esecuzione, si può suddividere in diserbo di pre-emergenza e diserbo di post-emergenza. Una stima rivela che, circa il 90% dei trattamenti viene effettuato in pre-emergenza, di cui un 30% subisce in seguito un’integrazione in post-emergenza. Mentre solo il 10% restante della stima è trattato unicamente in post-emergenza (Dekalb, 2017).

Trattamenti pre-emergenza in cui il trattamento avviene prima della nascita della coltura e delle

infestanti. In questo tipo di strategia vengono utilizzati erbicidi che penetrano a livello delle radici o del colletto in modo da impedire la germinazione e l’emergenza delle malerbe. Si utilizzano erbicidi ad ampio spettro d’azione o miscele di erbicidi con spettro complementare (Rapparini e Campagna, 2010).

Un esempio dell’applicazione di questa tecnica di lotta è quella contro certe erbe infestanti del mais come Polygonum aviculare L, Fallopia convolvulus L, Veronica spp., Matricaria chamomilla L, Stellaria media L, Papaver rhoeas L. e Alopecurus myosuroides H. , che si sviluppano nelle semine precoci (dai primi di marzo e addirittura, in alcuni casi nella Pianura Padana, da fine febbraio). Essendo dotate di una maggiore resistenza termica, questo tipo di infestanti è in grado di competere fortemente con il mais durante le prime fasi di sviluppo.

I programmi di pre-emergenza, stanno tuttora subendo un costante processo evolutivo, dovuto alla proibizione di alcune molecole dal consolidato utilizzo, e all’introduzione di nuove, dotate di caratteristiche eco-tossicologiche più favorevoli, che si prestano a sostituirle.

Il vantaggio di questo tipo di strategia è rappresentato dalla possibilità di intervenire nelle condizioni migliori dal punto di vista della portanza del suolo, con la possibilità di prolungare l’azione diserbante più a lungo, cosa che non sarebbe possibile con trattamenti di post-emergenza che risultano più tardivi e sottoposti all’alea di andamenti climatici piovosi.

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Il successo di questo tipo d’intervento è dovuto principalmente alle condizioni del suolo, in quanto gli erbicidi utilizzati sono assorbiti per via radicale o a livello di ipocotile (dicotiledoni) o coleoptile (graminacee), e la loro efficacia è legata quindi alla possibilità di disciogliersi nella soluzione circolante e poter essere così assorbiti dalle infestanti. In condizioni di scarsa umidità del terreno invece vengono prevalentemente adsorbiti dai colloidi e quindi sottratti all’assorbimento da parte delle infestanti. Questo implica la necessità di almeno un evento piovoso in seguito all’esecuzione del trattamento, per permettere agli erbicidi di raggiungere la soluzione circolante.

Risulta possibile, sfruttando i diversi spettri di azione dei vari principi attivi dei diserbanti e i loro diversi livelli di persistenza, formare miscele che permettano di contenere l’infestazione con un solo intervento diserbante di pre-emergenza seguito da una buona sarchiatura o rincalzatura meccanica quando la coltura differenzia la sesta/settima foglia.

La scelta dei principi attivi e delle dosi da applicare viene fatta considerando le caratteristiche del terreno, le caratteristiche chimico-fisiche dei principi attivi stessi in relazione all’epoca di semina e al tipo di infestazione da combattere non solo nei primi stadi di sviluppo del mais ma anche successivamente (Rapparini e Campagna, 2010).

Nei trattamenti post-emergenza l’erbicida viene distribuito dopo l’emergenza della coltura. Vengono utilizzati erbicidi a penetrazione principalmente fogliare, scelti in base alla flora avventizia effettivamente presente. Possono essere effettuati anche per completare l’azione diserbante di un trattamento di pre-emergenza non andato a buon fine.

Gli interventi di post-emergenza possono essere effettuati con applicazioni uniche alle 4-5 foglie o frazionate (a 2-4 foglie e successivamente a 5-6 foglie del mais) in terreni molto infestati o con elevato contenuto di sostanza organica

Nel primo caso il diserbo viene fatto come intervento unico alle 4-5 foglie in assenza di applicazioni preventive o più tardivamente prima della sarchiatura fino alle 8 foglie. Questa ultima tipologia vien

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effettuata, in genere, a seguito di applicazioni di pre-emergenza, per il controllo di malerbe perennanti di difficile contenimento, ma anche qualora l’attivazione degli erbicidi residuali non sia stata completa, in particolare con dosi di applicazione ridotte.

Nei terreni molto infestati o con elevato contenuto di sostanza organica, si può intervenire in post-emergenza precoce, su infestanti ai primi stadi di sviluppo e con mais alle 2-4 foglie, sfruttando ad esempio l’azione graminicida di mesotrione, un principio attivo con elevata efficacia contro numerose dicotiledoni ed attivo contro alcune graminacee. Agisce prevalentemente per via fogliare, dove il prodotto viene assorbito e rapidamente traslocato nei tessuti in accrescimento, e presenta un complementare assorbimento radicale. I sintomi sulle malerbe appaiono dopo 3-4 giorni e si manifestanto come imbiancamenti, seguiti dal completo disseccamento delle infestanti (Syngenta, 2018).

Una valida alternativa è rappresentata dal tembotrione, una sostanza appartenente alla famiglia chimica degli inibitori dell'enzima 4-idrossifenil-piruvato-diossigenasi, che condivide il meccanismo di azione con i trichetoni. Questi trattamenti devono essere poi ripetuti sulle emergenze successive, impiegando le solfoniluree graminicide, sostanze che agiscono per assorbimento fogliare bloccando la crescita delle malerbe (Sandroni, 2012), in miscela con trichetoni.

Seguendo una strategia di intervento frazionata, invece, il trattamento più precoce solitamente è indirizzato, soprattutto nei terreni più infestati, al controllo delle infestanti annuali con dosi ridotte di solfoniluree graminicide in miscela con dicotiledonicidi, tra cui trichetoni o bromoxinil, che agisce per contatto fogliare nei confronti delle plantule infestanti. In questa fase di anticipata di applicazione può essere utilizzata anche la terbutilazina che grazie alla sua azione garantisce una rapida attività erbicida verso numerose specie annuali a foglia larga (comprese le precoci infestazioni di Fallopia spp, ma anche graminacee.

Il secondo intervento viene fatto alle 5-6 foglie del mais, ed è finalizzato al contenimento delle perennanti, oltre che delle infestanti che emergono più tardivamente e di più difficile contenimento

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(Xanthium strumarium L), in genere viene effettuato con i più economici composti ormonici fenossiacetici a base di MCPA, 2,4-D + MCPA e MCPA + dicamba.

Il più diffuso risulta essere fluroxipir da solo o in miscela con florasulam. La loro applicazione deve essere effettuata con temperature inferiori a 22 °C, preferibilmente entro lo stadio delle 5-6 foglie del mais per ridurre gli eventuali sintomi di fitotossicità (Fabbri e Campagna, 2018).

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PARTE SPERIMENTALE

5) SCOPO DELLA RICERCA

La ricerca è stata svolta con l’intento di valutare l’efficacia e l’applicabilità del remote sensing nel monitoraggio delle erbe infestanti su una coltura di mais, tramite l’utilizzo di diverse tipologie di sensori disponibili sul mercato, mediante l’uso di droni (S.A.P.R).

Il lavoro è stato focalizzato sui seguenti punti:

 Valutare quantitativamente e qualitativamente le informazioni ottenute tramite i diversi tipi di sensori utilizzati (RGB, multispettrale e termico);

 Classificare, sia in maniera supervisionata che automatica, le immagini. Dividendo cioè i pixels di quest’ultima, inizialmente in due classi (terreno, vegetazione) e successivamente suddividendo la classe vegetazione in due sub-classi (mais e infestanti);

 Individuare, da un punto di vista spettrale, le lunghezze d’onda alle quali le classificazioni, precedentemente descritte, risultano più efficaci;

 Individuare tecniche alternative per poter distinguere la copertura del mais da quella delle infestanti;

 Valutare l’efficienza del monitoraggio, fatto con i dati ottenuti dall’analisi delle immagini acquisite da drone, rispetto ad un monitoraggio fatto con metodologie più tradizionali;  Individuare gli accorgimenti tecnici utili ad ottimizzare l’attività di monitoraggio, al fine di

renderla più efficiente.

Il presente lavoro di tesi affronta principalmente il problema della distinzione fra mais e infestanti, consentendo una valutazione quantitativa del reale livello di infestazione.

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6)

MATERIALE E METODI

La sperimentazione è stata svolta tra giugno e settembre 2020 presso il presso il Centro di Ricerche Agro-Ambientale “E. Avanzi” dell’Università di Pisa, nell’area denominata “Sodi”.

Figura 7: foto aerea dell’appezzamento sul quale è stata svolta l’attività

L’appezzamento destinato ad ospitare la ricerca è stato coltivato con mais, varietà PIONER P1547 classe FAO 600, sul quale sono stati effettuati gli interventi agrotecnici riportati nella tabella 1.

Tabella 1: principali interventi agrotecnici effettuati sulla superficie utilizzata per la ricerca.

Lavorazioni principali Aratura (40-45cm) 20/04/2020

Frangizollatura 20/04/2020

Fertilizzazione 8-24-24 NPK 400 kg/ha 27/04/2020

Urea 200 kg/ha 4/05/2020

Lavorazioni secondarie Erpicatura

Semina 7/05/2020 (75cm interfila)

Diserbo chimico Dicamba 1 l/ha + Nicosolfuron 0,5 l/ha

3/06/2020

2° Fertilizzazione Urea 2q/ha 15/06/2020

Lavorazioni complementari Sarchiatura 15/06/2020

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L’area interessata dalla ricerca si estende su un unico appezzamento di circa 1 ha, che è stato suddiviso in due aree distinte (figura 7):

Area DIS sulla quale è stato effettuato l’intervento di diserbo;

Area TEST (testimone) dove invece non è stato effettuato alcun trattamento;

All’interno di queste dell’appezzamento sono state individuate 8 parcelle, 4 per ognuna delle due tesi, di dimensioni pari a 3 m2 (1,50 x 2 m) (Figura 8).

Figura 8: schema dell’organizzazione della superficie di lavoro

Ogni parcella è stata, poi, divisa in 4 settori (A, B, C, D) di 0,50 m x 1,50 m (figura 8), al fine di poter valutare più dettagliatamente le informazioni raccolte.

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Figura 8: fotografia aerea di una parcella presa sull’appezzamento.

6.1) Caratteristiche pedologiche dell’appezzamento

Il terreno è stato analizzato presso il laboratorio del centro “E.Avanzi”, per quanto riguarda la parte chimica delle analisi (pH, conducibilità, CN, P Olsen), mentre le analisi dei parametri fisici sono state condotte presso i laboratori dell’università di Siena.

I campioni sono stati prelevati ad una profondità di circa 20 cm con distribuzione variabile lungo l’appezzamento (al di fuori delle parcelle)

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35 DIS TEST pH - 7,65 7,58 Conducibilità microS 52,13 34,25 Azoto totale ‰ 1,43 1,29 Sostanza Organica % 1,89 1,85 Fosforo assimilabile (metodo Olsen) ppm 11,14 12,52 Sabbia % 58,45 65,22 Limo % 20,80 16,20 Argilla % 20,75 18,58

Tabella 2: Caratteristiche fisiche e chimiche del terreno all’inizio della ricerca

6.2) Attività di rilievo a terra

Le attività di rilievo a terra sono state svolte gli stessi giorni nei quali sono stati effettuati i voli con S.A.P.R, al fine di avere dati temporalmente confrontabili. I primi rilievi sono stati fatti nel giorno del primo volo in data 03/06/2020 ed hanno previsto diverse attività di campionamento all’interno delle parcelle. In particolare sono stati valutati per ciascun quadrante:

o Numero e specie delle piante infestanti: ottenuto tramite conteggio e classificazione manuale delle diverse infestanti presenti all’interno dell’area di saggio;

o Peso secco totale delle piante infestanti;

o Investimento delle piante di mais;

o Peso secco totale delle piante di mais all’interno delle parcelle;

o Superficie fogliare media del mais: ottenuta misurando l’area fogliare delle piante presenti in 8 quadranti (uno per ciascuna parcella);

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Inoltre, durante questa fase della sperimentazione sono state acquisite le firme spettrali del mais, del terreno e delle specie più rappresentative la flora infestante, replicando adeguatamente l’osservazione. La seconda parte dei rilievi è stata svolta in data 29/06/2020, successivamente al trattamento di diserbo ed alla sarchiatura fatta sulla coltura. Durante questa fase sono state ripetute le operazioni fatte durante il primo rilievo, anche se, in questa fase, la superficie di lavoro è stata divisa in quattro parti (diserbato sarchiato, diserbato non sarchiato, non diserbato sarchiato e non diserbato non sarchiato) al fine di poter valutare l’influenza delle possibili situazioni di campo sul mais e sulla flora infestante. Inoltre, è stata fatta un’estrazione dei pigmenti contenuti in frammenti fogliari di alcune piante di mais e delle specie più rappresentative la flora infestante.

L’ultima fase dei rilievi è stata fatta in data 03/08/2020, poco prima della trinciatura del mais, durante la quale sono stati registrate informazioni riguardanti la produzione della coltura, in termini di biomassa e granella prodotta nei quattro diversi settori del campo indicati prima.

In questo lavoro di tesi si affronterà maggiormente la prima fase dei rilievi ed il primo volo del drone, mentre le fasi successive saranno affrontate più nello specifico in un successivo lavoro di tesi.

6.3) Attività di rilievo tramite S.A.P.R.

Le attività di rilevo tramite drone, sono state effettuate dal Centro di Geo-Tecnologie (CGT) dell’Università di Siena e sono consistite in una serie di rilievi multiparametrici eeguiti tramite appositi strumenti di telerilevamento montati sul velivolo.

I voli, come già detto, sono stati divisi in tre campagne principali. Nel corso del primo volo (03/06/2020) sono stati fatti rilievi RGB, Multispettrali e Termici.

Il rilievo RGB è stato fatto utilizzando il drone DJI MAVIC 2 PRO (figura 9 A) munito di camera Hasselblad. I voli con questo tipo di sensoristica sono stati effettuati a due quote differenti, 15 m e 30 m, e sono stati ripetuti nello stesso giorno dopo aver provveduto al taglio del mais all’interno delle parcelle, allo scopo di eliminare la copertura attribuibile alla coltura. In termini di risoluzione spaziale delle immagini il volo a 15 m aveva una dimensione dei pixel a terra di 3,5 mm di lato, mentre per il rilievo fatto a 30 m la dimensione del pixel è aumentata proporzionalmente raggiungendo la lunghezza di 7 mm di lato.

Il rilievo multispettrale è stato effettuate con le stesse modalità descritte in precedenza. Utilizzando sempre il drone DJI MAVIC 2 PRO sul quale è stata montata una camera multispettrale PARROT

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SEQUOIA (figura 9 B) a quattro bande spettrali (Green, Red, Red-edge, NIR) con una risoluzione spaziale in termini di pixel size di 14 mm di lato per il volo a 15m e 28 mm per quello a 30 m di quota. Per il rilievo termico, invece, è stato utilizzato il drone AIBOTIX X6 v1 (figura 9 C), munito di camera termica OPTRIS PI 450 (figura 9 D). I voli sono stati ripetuti per le due quote comuni a tutti i rilievi (15 m, 30 m), anche se in questo caso il volo dopo il taglio del mais è stato effettuato solo alla quota di 15 m. La risoluzione spaziale, in questo caso è decisamente minore rispetto agli altri sensori con un pixel size di 34 mm di lato a 15 m e di 68 mm a 30 m.

Figura 9: A) drone DJI MAVIC 2 PRO; B) camera multispettrale Parrot sequoia; C) drone AIBOTIX X6 v1; D)camera termica Optris pi 450

Le attività di rilievo sono state precedute dall’individuazione a terra, tramite l’utilizzo di una stazione totale, di 12 Ground Control Point (GCP), a coordinate note, utili alla georeferenziazione di tutti i rilievi in un sistema di riferimento comune (ETRF2000 UTM 32N). Questi punti sono poi stati materializzati con dei “target” ben visibili da drone, utili alla georeferenziazione dei modelli e delle ortofoto ottenute dal processamento delle immagini aeree.

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