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La Terza via di Hart. Diritto, morale e interpretazione giuridica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di laurea

La terza via di Hart.

Diritto, morale e interpretazione giuridica

Relatore:

Candidato:

Prof. Ilario Belloni

Francesca Marchisio

ANNO ACCADEMICO

2019/2020

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RINGRAZIAMENTI

In primis vorrei ringraziare il Prof. Ilario Belloni per i validi insegnamenti ricevuti nel corso dei miei studi e per il sostegno e per la disponibilità nella realizzazione di questo lavoro. Tali insegnamenti hanno contribuito a raggiungere l’obbiettivo da me tanto desiderato. Vorrei ringraziare poi la mia famiglia allargata, partendo dai miei genitori per avermi dato la possibilità di frequentare l’Università e per aver creduto in me più di me stessa, senza di loro mi sarei persa.

Ai miei nonni, i quali sono stati come dei genitori, mi hanno spronato e mi hanno ricordato ogni giorno quanto fosse importante raggiungere l’obiettivo, ma soprattutto diventare Dottore in Legge.

Ai miei zii e ai miei cugini, i quali mi hanno sempre tenuto sotto la loro ala protettiva e con grande intelligenza mi hanno aiutato a non desistere e ad essere sempre orgogliosa di me stessa. Un pensiero in più va al mio zio Paolo, per una questione tempo non potrà essere qui a festeggiare con me, ma ci sarà sempre e gli dedico tutta la parte ottimistica e goliardica del mio percorso di laurea perché avrebbe voluto così. Ai miei amici, in particolare a Diego, Fabrizio, Elisa, Giada, Giulia, Costanza, i miei pochi ma buoni, per esserci sempre stati e per aver reso il mio percorso di studi più divertente, gli aneddoti sono infiniti dalla nozione di nocumento a quella di lesioni personali.

Un pensiero a parte va alla Professoressa Anna Graziadei, è stata il mio Virgilio a partire dal Liceo Classico fino all’Università. Questa volta, come è accaduto per l’esame di maturità, non potrò svegliarmi chiedendole di raccontarmi le Argonautiche, ma questo lavoro e questo obbiettivo è in gran parte merito suo e non smetterò mai di ripetermi, come faceva sempre, che le ore spese a tavolino sono le migliori.

Last but not least, a Giorgio per la pazienza, per l’amore e per la grande

stima nei miei confronti, abbiamo terminato questo capitolo insieme per aprirne un altro insieme alla nostra piccola Elena, che in questi mesi è cresciuta dentro di me, e mi ha dato la forza per lo stacco finale.

Un grazie particolare, infine, me lo dedico per non aver mai smesso di crederci.

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INDICE

RINGRAZIAMENTI ... 5

INTRODUZIONE ... 10

1.DALLE TEORIE GIURIDICHE DI IERI ALLE TEORIE GIURIDICHE DI OGGI ... 11

2.LA TERZA VIA DI HART... 13

2.1.CHE COSA È IL DIRITTO? ... 14

2.2.CHE RAPPORTO ESISTE TRA DIRITTO E MORALE? ... 18

2.3.FORMALISMO O SCETTICISMO?TEORIA MISTA ... 19

2.4.COME IL DIRITTO DOVREBBE ESSERE USATO? ... 21

CAPITOLO I ... 24

POSITIVISMO GIURIDICO CONTEMPORANEO: LA RISPOSTA CONVENZIONALISTA... 24

1.1. CARATTERI ESSENZIALI DEL POSITIVISMO GIURIDICO ... 24

1.2. LE ORIGINI STORICHE DEL POSITIVISMO GIURIDICO ... 25

2.PRESUPPOSTI STORICI DEL POSITIVISMO GIURIDICO ... 28

2.1.LE TRASFORMAZIONI SOCIO-ISTITUZIONALI ... 28

2.2.I MOVIMENTI DI PENSIERO: I PRECURSORI DEL POSITIVISMO GIURIDICO CONTEMPORANEO... 30

2.3.IL POSITIVISMO GIURIDICO DEL ‘900 ... 33

3.SULLA NORMATIVITÀ DEL DIRITTO ... 34

4.IL CONVENZIONALISMO GIURIDICO ... 40

CAPITOLO II ... 53

DIRITTO E OBBLIGATORIETÀ ... 53

1.1. IL DIRITTO TRA IMPERATIVISMO E NORMATIVISMO:HART, IL PENSATORE DELLA TERZA VIA ... 53

1.2. IL DIRITTO È QUALCOSA CHE CREIAMO INSIEME ... 56

2.LA DOTTRINA IMPERATIVISTICA DEL DIRITTO:JOHN AUSTIN... 58

3.1.HART E IL DIRITTO: UNA NUOVA PROSPETTIVA PER IL POSITIVISMO GIURIDICO ... 60

3.2.DISAMINA DEL TERMINE COMANDO ... 61

3.3.IL DIRITTO È QUALCOSA DI PIÙ DI UN INSIEME DI ORDINI SOSTENUTI DA MINACCE ... 63

4.LA SOVRANITÀ COME FONDAMENTO DEL DIRITTO ... 66

4.1.HABIT OF OBEDIENCE E CONTINUITÀ DEL POTERE LEGISLATIVO ... 67

4.2.INTERNAL POINT OF VIEW ... 69

4.3.LIMITI GIURIDICI AL POTERE LEGISLATIVO ... 71

5.IL DIRITTO COME UNIONE DI NORME PRIMARIE E SECONDARIE ... 72

5.1.IL CONCETTO DI OBBLIGO ... 75

5.2.PUNTO DI VISTA INTERNO ED ESTERNO ... 77

6.1.DAL MONDO PRE-GIURIDICO AL MONDO GIURIDICO ... 79

6.2.I CONCETTI GIURIDICI DI VALIDITÀ, EFFICACIA ED ESISTENZA ... 83

6.3.NORMA RICONOSCIMENTO DI HART E NORMA FONDAMENTALE DI KELSEN . 86 CAPITOLO III ... 89

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1.1 DIRITTO E MORALE: UN PROBLEMA PERSISTENTE ... 89

1.2 LA SEPARAZIONE TRA DIRITTO E MORALE ... 91

1.2.1. La riflessione Benthamiana ... 91

1.2.2. Jeremy Bentham e i diritti naturali... 92

1.2.3. Esistono diritti naturali? La posizione di Hart ... 94

1.2.4. Giustizia: una sfera a sé della morale ... 97

1.2.5. La struttura aperta della morale e i suoi elementi esclusivi ... 101

1.3. IL CONTENUTO MINIMO DI DIRITTO NATURALE ... 103

2.1.GLI ASSUNTI FONDAMENTALI DELLA NATURA UMANA ... 107

2.1.1. Vulnerabilità umana ... 107

2.1.2. Uguaglianza approssimativa ... 108

2.1.3. Risorse esigue ... 108

2.1.4. Altruismo limitato ... 108

2.1.5. Comprensione e forze di volontà limitate ... 109

CAPITOLO IV ... 111

INTERPRETAZIONE GIURIDICA ... 111

4.1.L’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO E LA COMUNICAZIONE DEI PROBLEMI DI CONDOTTA ... 116

4.2.LA STRUTTURA APERTA DEL DIRITTO... 117

4.3.NON CONOSCENZA DEI FATTI E INDETERMINATEZZA DI SCOPI ... 119

4.4.IL BISOGNO DI CERTEZZA NELLA MULTIFORMITÀ DEGLI SCOPI SOCIALI ... 120

5.1.THE NIGHTMARE ... 124

5.2.THE NOBLE DREAM ... 127

5.3.IL PIÙ NOBILE FRA I SOGNATORI ... 128

5.4.IL POSTSCRIPT E LA DISCREZIONALITÀ GIUDIZIARIA ... 130

CAPITOLO V ... 135

DIRITTI UMANI TRA LIBERTÀ E DIVERSITÀ ... 135

1.L’INDIVIDUO DI FRONTE AL DIRITTO ... 135

1.2.I CRITERI DI CRIMINALIZZAZIONE DELLE CONDOTTE UMANE ELABORATE NEL PENSIERO ANGLOAMERICANO ... 137

2.IL PRINCIPIO DEL DANNO DI JOHN STUART MILL ... 139

3.WOLFENDEN REPORT 1957 ... 142

4.LORD DEVLIN E IL MORALISMO GIURIDICO ... 144

5.TESI DELLA DISINTEGRAZIONE ... 150

6.LA RISPOSTA DI HART A DEVLIN ... 153

CONCLUSIONI ... 158

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INTRODUZIONE

“Non spereremo, tuttavia, come Austin, di avere successo, ma piuttosto di

imparare dal nostro insuccesso.”

(H. HART, il concetto di diritto, Einaudi 2002, p.26)

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1. Dalle teorie giuridiche di ieri alle teorie giuridiche di

oggi

In un loro recente lavoro, a proposito di Hart1, Viola e Zaccaria affermano che la sua teoria rappresenta il momento di passaggio dalle

teorie giuridiche di ieri alle teorie giuridiche di oggi. Le prime

identificano il diritto «con un oggetto d' esperienza isolabile e

descrivibile»2, quindi, di volta in volta il diritto sarà un insieme di norme, o un insieme di fatti, o un insieme di valori, la cui esistenza prescinde completamente sia dall'intervento dell'interprete sia dagli atteggiamenti di coloro i cui comportamenti il diritto si propone di regolare. Esse, negano che la domanda che cos'e il diritto? possa ammettere una pluralità di risposte, proprio perché il diritto e in qua1che modo un oggetto descrivibile in modo neutrale. Esse, in conclusione, sono accomunate dalla tesi secondo cui <<il diritto, visto come un

oggetto, e un presupposto necessario dell’attività conoscitiva, piuttosto che l’esito, non definitivo, ma perennemente mutevole, di una pratica interpretativa>>3. Ciò che viene trascurato è proprio la dimensione

pratica del diritto, cioè la considerazione di questo come un insieme di ragioni per l’azione. Per esempio, per Kelsen la molla del diritto è solo la minaccia di un qualche svantaggio o la promessa di un premio. Ciò significa che non c’è deliberazione né un soppesare di ragioni, ma solo un meccanismo delle passioni, su cui fa leva la tecnica sociale giuridica. Quello che manca in queste teorie è il punto di vista pratico ossia una descrizione del diritto dal punto di vista di coloro che lo usano; si tratta di concezioni che si collocano all’esterno del diritto e non già all’interno del suo dinamismo. Le teorie giuridiche di oggi, al contrario,

1 Herbert Lionel Adolphus Hart è stato uno dei più importanti filosofi del Novecento.

La sua riflessione sul diritto ha conosciuto una straordinaria fortuna in seguito alla pubblicazione di The Concept of Law, l’opera del 1961 in cui l’autore apre una nuova prospettiva per lo studio e per la comprensione del fenomeno giuridico. Per chi si avvicina alla figura di Hart è senza dubbio imprescindibile la lettura della biografia di Nicola Lacey, A life of H.L.A. Hart The Nightmare and The Noble Dream, uscita nel 2004 presso la Oxford University Press.

2 F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria

ermeneutica del diritto, Giappichelli, Torino,1999 cit., p. 32

3 Cfr. F. VIOLA, La critica dell’ermeneutica alla filosofia analitica italiana del

diritto, in M. lori (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica, Giappichelli, Torino

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sottolineano con forza l'importanza della dimensione pratica del diritto e, di conseguenza, l’insufficienza di tutte quelle ricostruzioni del fenomeno giuridico che guardano al diritto come ad un oggetto passibile di conoscenza prettamente teorica e che mettono tra parentesi il "punto di vista pratico", il punto di vista, cioè, di chi considera il diritto come una ragione per l’azione. La prima teoria contemporanea del diritto, che si apre consapevolmente a questa prospettiva, è senza dubbio quella di Herbert Hart. Il contributo di Hart a questa svolta relativa al modo di intendere il diritto deve certamente rinvenirsi nella sua analisi delle regole sociali. I comportamenti regolari o abitudinari e quelli regolati, cioè basati su regole, condividono l'aspetto esterno, vale a dire la regolarità, empiricamente rilevabile, di comportamenti convergenti. Di conseguenza, un'analisi meramente behaviourista non e in grado di distinguere tra abitudini e regole. Le regole, però, a differenza delle abitudini, presentano anche un aspetto interno. Hart, per spiegare in cosa consista tale aspetto interno, ricorre al ben noto esempio del gioco degli scacchi. Affermare che i giocatori di scacchi hanno l'abitudine di muovere i pezzi sulla scacchiera in un certo modo non costituisce una descrizione adeguata della loro attività. I giocatori, infatti, non si limitano a compiere certe mosse, ma hanno anche delle idee e delle convinzioni riguardo a ciò che le regole del gioco permettono o proibiscono di fare. Tali idee si manifestano attraverso la richiesta di conformità e l'accettazione delle critiche altrui nel caso in cui si sia deviato dalla regola. Le frasi usate in questi casi appartengono al linguaggio normativo: "non avresti dovuto muovere in questo modo", "questa mossa è sbagliata" e così via. In seguito analizzeremo più da vicino la questione, ma in estrema sintesi tutto ciò rappresenta quello che ci consente di definire Hart il traghettatore dalle teorie di ieri a quelli di oggi; per usare le parole di Viola e Zaccaria << il suo intento è quello

di descrivere ciò che viene considerato come diritto in una determinata comunità, facendo riferimento agli atteggiamenti e ai comportamenti di coloro che assumono il diritto come guida delle loro azioni o che almeno lo riconoscono come tale>>4

4 F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria

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2. La Terza via di Hart

L’espressione la terza via non è di nostra creazione, ma va ricondotta ad Aldo Schiavello5, il quale ci ricorda che tra il modello della morale e quello della sanzione esiste la terza via proposta da Hart. Per capire meglio l’oggetto della questione è necessario fare un passo indietro e accennare un problema classico della filosofia del diritto: Il diritto è una convenzione o trova un fondamento in categorie universali e indipendenti dalla volontà umana? Siamo di fronte alla contrapposizione tra il concetto di diritto naturale e quello di diritto positivo.

Le idee di natura e di diritto naturale tendono nel giusnaturalismo a ribadire che il concetto di diritto debba sfuggire alla contingenza delle convenzioni umani (regole di condotta create dall’uomo e derivanti da un accordo), dall’altra parte il concetto di diritto positivo tende nel giuspositivismo a ritenere che il diritto è convenzione perché è essenzialmente una regola di condotta che viene posta dalla volontà dell’uomo. In termini ancora più generali, la questione della natura del diritto ruota introna a due quesiti fondamentali: il diritto positivo è obbligatorio? esistono ragioni che possono prevalere su quelle che rendono il diritto positivo obbligatorio e che giustificano la nostra disobbedienza al diritto? La tradizione giusfilosofica occidentale ha proposto per molto tempo, due modelli principali per giustificare l’obbligatorietà del diritto: il modello della morale e il modello della sanzione.

Secondo il modello della morale, tipicamente difeso dai giusnaturalisti l’obbligatorietà del diritto richiedo che quest’ultimo sia compatibile con la morale che riteniamo corretta e che le sue norme fondamentali trovino in essa una giustificazione specifica. In questa prospettiva certi comportamenti sono giuridicamente doverosi perché sono innanzitutto moralmente doverosi.

Secondo il modello della sanzione, difeso dai giuspositivisti come John Austin ma anche proposto da filosofi come Thomas Hobbes, il diritto è per noi vincolante se sostenuto in modo adeguato dall’uso della forza; ad esempio lo è se la mancata realizzazione di un’azione giuridicamente obbligatoria determina il ricorso a una sanzione che punisce colui o colei che ha violato tale obbligo. La sanzione rende svantaggioso adottare certi comportamenti, in altre parole dobbiamo obbedienza al diritto se

5 A. SCHIAVELLO, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista ed i

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ciò è in sostanza la cosa più conveniente da fare. A questi due modelli ne esiste un altro alternativo che Aldo Schiavello definisce come la terza via di Hart proposta in The Concept of Law, secondo la quale il positivismo giuridico, per fondare l’obbligatorietà del diritto, non ha bisogno che questa derivi necessariamente dalla morale, né che si riduca alla forza della sanzione o all’uso della forza. La terza via di Hart corrisponde a una possibile articolazione di un terzo modello di obbligatorietà del diritto il c.d. Modello del Convenzionalismo o dell’autonomia secondo il quale il diritto esiste ed è reso possibile dalla convergenza inter indipendente di comportamenti ed atteggiamenti: ciò che potremmo considerare come un accordo tra individui che si esprime in una regola o norma sociale o convenzionale6. Adesso bisogna andare a vedere il significato che abbiamo attribuito all’espressione terza via per il nostro lavoro: il nostro elaborato consiste nell’analizzare la posizione di Hart, rispetto al alcuni loci classici della filosofia del diritto, confrontandola con i suoi predecessori. Fin da subito si evince che Hart è il teorico della terza via su tutti gli argomenti e per terza via intendiamo una via alternativa all’interno del positivismo giuridico. Hart con estrema umiltà non ha imposto la sua posizione sulle altre, ma analizzando le teorie dei suoi predecessori ha cercato di costruire la sua tenendo conto dei pregi e dei difetti delle teorie giuridiche di ieri.

Abbiamo affrontato i loci classici della filosofia del diritto sottoponendo, il nostro autore britannico, ad una serie di quesiti Che

cosa è il diritto, Che rapporto esiste tra diritto e morale? Formalismo o scetticismo? Teoria mista, Come il diritto dovrebbe essere usato? A

questi interrogativi, Hart, attraverso le sue opere ci ha fornito risposte alternative e pragmatiche rispetto al passato.

2.1. Che cosa è il diritto?

Che cosa è il diritto? Di fronte a tale quesito anche il miglior giurista,

il miglior studente di giurisprudenza si riserverebbe del tempo prima di rispondere. È la stessa difficoltà espressa nelle famose parole di S.

6 J.L. COLEMAN, Incorporation, Conventionality and the Pratical Differnce

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Agostino sul concetto di tempo:<< Che cosa è il tempo? se nessuno me

lo chiede lo so; se desidero spiegarlo a chi me lo chiede non lo so>>7. Un concetto, quello di diritto, dato spesso per scontato o meglio per conosciuto quando invece presenta numerosissimi ostacoli. Per affrontare tale problema, abbiamo deciso di partire dalla filosofia, dall’insegnamento, dal pensiero riformatore e radicale di H. Hart, la cui opera principale è The Concept of law la quale ci consente di aprire questo concetto tanto ostico.

A partire dal titolo abbiamo già un indizio importate: intitolando la sua opera “il concetto di diritto “e non “la definizione del diritto” riusciamo a capire quale è lo scopo principale di Hart, non quello di indicare sinonimi per la parola diritto ma di stabilire ed esaminare le caratteristiche differenziali del diritto rispetto agli altri ordinamenti normativi. Il problema della distinzione del diritto dagli altri fenomeni sociali pervade tutta l’opera e si può dire che in gran parte il libro consiste in una critica intelligente e costruttiva da un lato, alle concezioni che tendono ad assimilare troppo il diritto alle coercizioni come quella di Austin e, dall’altro alle concezioni che riconducono il diritto nell’ambito della morale.

H. Hart rappresenta il punto di incontro tra il tradizionalismo Austiniano e il normativismo europeo Kelseniano e anche nei confronti di quest’ultimo sono numerosissime le differenze, si tratta, quella di Hart, di una revisione critica della teoria di Kelsen. Come vedremo, Hart mette in discussione una delle tesi centrali del positivismo giuridico ossia la teoria imperativistica del diritto, secondo la quale il diritto è costituito da un insieme di imperativi e comandi; secondo la distinzione operata da Norberto Bobbio all’interno dell’imperativismo troviamo due posizione teoriche distinte, l’imperativismo ingenuo di Austin che considera il diritto come un insieme di comandi rivolti dal sovrano ai sudditi, e l’imperativismo critico di Kelsen che oltre a porre l’accento sulla dimensione normativa del diritto, specifica che la norma giuridica è imperativo ipotetico che si rivolge ai giudici e non ai cittadini. Le critiche che Hart rivolge ad Austin e Kelsen vanno tenute separate, perché riguardano due problemi distinti: da un lato, Hart condivide l’idea sostenuta da Austin, che il diritto abbia origine dai fatti sociali, ma ritiene che la spiegazione proposta da Austin della natura dei fatti sia sbagliata; dall’altro, come Kelsen pensa al diritto come un ordinamento normativo, ma è convinto che quest’ultimo abbia fatto l’errore di postulare una norma fondamentale alla base del sistemo giuridico. Da

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queste critiche Hart elaborerà la sua teoria del diritto che, come vedremo, si pone come alternativa tra l’imperativismo ingenuo e imperativismo critico.

Per tornare al nostro interrogativo iniziale, è necessario fare un accenno al ruolo fondamentale che ha avuto la giurisprudenza analitica e la filosofia analitica nel pensiero di Hart; Cosa si intende per Giurisprudenza analitica? Con questo Termine in Inghilterra si indica un tipo di accostamento ai problemi del diritto che consiste nell’analisi dei concetti giuridici e nello studio della struttura formale del diritto.

La giurisprudenza analitica è una corrente tipica del pensiero giuridico inglese: essa ha il suo precursore in Hobbes e i suoi principali rappresentati in Bentham e in Austin; la dottrina di quest’ultimo soprattutto ha avuto una notevole influenza sulla scienza giuridica inglese, creando una vera e propria scuola.8 Ciò che accomuna Austin e Bentham, rappresentanti del positivismo giuridico dell’800, è bandire dalla riflessione dei giuristi tutto quello che non può dirsi giuridico e nel contempo tutto quello può essere provato con metodo scientifico, neutrale ed avalutativo. L’intento era quello di fornire ai giuristi un punto di partenza stabile e certo su cui fosse possibile costruire le proprie elaborazioni teoriche in cui reperire tutte le costanti del diritto, il suo nucleo essenziale. Questo nuovo approccio viene inaugurato da Bentham per poi trovare una compiuta elaborazione in Austin.

Come Bentham e Austin, Hart distingue il compito della teoria del diritto da quello della critica e della politica del diritto. A suo avviso, essi consistono rispettivamente nella descrizione del diritto attraverso l’analisi dei concetti giuridici, e nella valutazione del diritto esistente in base a principi morali o di altro tipo e nell’elaborazione di proposte di riforme.9

In egual misura anche la filosofia analitica ha avuto un ruolo centrale nella crescita del nostro autore. La filosofia analitica è contraddistinta dall’idea che il compito della filosofia consista nell’analisi concettuale e dall’assunto che essa possa essere condotta solo attraverso l’analisi del linguaggio ordinario (il linguaggio naturale, distinto per esempio dal linguaggio formale della logica e della matematica) a partire dall’uso che di esso fanno le persone competenti. Il compito della filosofia analitica è duplice: descrittivo e correttivo. Innanzitutto, essa mira a descrivere i concetti attraverso i quali, al tempo stesso, afferriamo e

8 Introduzione “il concetto di diritto” a cura di Mario Cattaneo Einaudi 2002 pp. XII. 9NICOLA RIVA, Il concetto di diritto e il suo rapporto con la morale: H.L.A. HART,

in Prospettive di Filosofia del diritto del nostro tempo, Giappichelli Editore, Torino, 2010 p.281

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produciamo il nostro mondo nelle sue varie dimensioni, materiale, sociale, interiore e le relazioni tra di essi. Tuttavia, spesso i nostri concetti sono oscuri, vaghi e l’uso che ne facciamo è ambiguo o scorretto; ciò è in parte inevitabile e in genere non costituisce un serio problema (l’iterazione quotidiana è possibile anche in presenza di un certo grado di oscurità e imprecisione nei nostri concetti, nel nostro linguaggio e nell’uso che ne facciamo) ma non è sempre così.

La filosofia ha, innanzitutto, il compito di richiamare la nostra attenzione sull’oscurità dei nostri concetti e sul cattivo uso che ne facciamo, ed eventualmente, nei limiti del necessario e del possibile, di correggere l’uno e l’altro. In questo lavoro di descrizione e correzione consiste l’esercizio della chiarificazione filosofica. Non si deve ritenere che l’analisi concettuale sia un esercizio puramente speculativo che non ha nulla a che fare con il mondo reale, non solo perché i nostri concetti sono reali in un senso peculiare: di essi ci serviamo per fare molto di ciò che facciamo e quasi tutto ciò che ci distingue dagli animali non umani. Come affermò Ludwig Wittgenstein<<i limiti del mio linguaggio

significano i limiti del mio mondo>>10 e che non ci sia possibile un accesso alla realtà non mediato da essi. Un ‘analisi dei nostri concetti è sempre, necessariamente, un’indagine sull’uso che ne facciamo e, in ultima istanza, sul nostro mondo. Lo stesso Hart sostenne che il suo libro

The Concept of law può essere anche considerato come un saggio di

sociologia descrittiva:<<L’idea che l’esame del significato delle parole

si limiti a far luce su queste è falsa. Molte importanti distinzioni, che non sono ovvie a prima vista, tra tipi di situazioni e relazioni sociali possono essere messe in luce nel modo migliore mediante un esame degli usi tipici delle espressioni che li riguardano e del modo in cui questi dipendono dal contesto sociale, che resta spesso inespresso>>.11

L’influenza della filosofia analitica sull’opera di Hart appare dal suo modo di intendere il compito e il metodo della teoria del diritto. Secondo Hart, esso consiste nella descrizione del diritto, inteso come fenomeno sociale e dei suoi rapporti con altri fenomeni sociali, attraverso l’analisi dei concetti giuridici a partire da quello di diritto. Infatti, l’analisi del concetto di diritto non è tesa, secondo Hart, a descrivere o valutare il contenuto delle norme di un determinato ordinamento giuridico o a formulare una precisa definizione di quel concetto che consenta di stabilire, per ogni caso in cui esso è usato, se lo è correttamente o meno.

10 L. WITTGENSTEIN, Logisch-philosophische Abbandlung proposizione 5.6;

trad.it. a cura di A.G. Conte, tractus logico philosophicus, Einaudi, Torino 1964

11 “Il concetto di diritto” H. Hart a cura di Mario Cattaneo Einaudi 2002 pp.

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Piuttosto, essa è tesa a individuare i caratteri distintivi che accomunano ciò che chiamiamo diritto, a partire dal caso centrale rappresentato dagli ordinamenti giuridici degli stati per arrivare ai casi più difficili rappresentati per esempio dal diritto internazionale.

2.2. Che rapporto esiste tra diritto e morale?

La questione inerente ai rapporti tra il diritto e la morale è senza dubbio il problema fondamentale della filosofia del diritto in tutti i secoli. Sul rapporto tra diritto e morale si consuma la distinzione e contrapposizione tra il positivismo giuridico e il giusnaturalismo, cioè tra le due famiglie di filosofia del diritto che da alcuni secoli si contendono il campo della riflessione filosofica. All’interno del positivismo giuridico riscontriamo come minimo comun denominatore la tesi della separazione tra diritto e morale. Come Bentham e Austin, Hart ritiene che la grande differenza tra giusnaturalismo e giuspositivismo stia nel fatto che per il primo diritto e morale sono collegati, il diritto giusto è il diritto morale si potrebbe dire, mentre per il secondo sono distinti, ma soprattutto separati. Tuttavia, mentre per i positivisti britannici questa separazione è necessaria, tanto quanto è necessaria per i giusnaturalisti la connessione tra diritto e morale, così per i positivisti diritto e morale devono necessariamente essere separati, per Hart la questione è un po’

diversa: egli afferma che il giuspositivismo sosterrebbe la tesi della

separabilità o della connessione contingente (non necessaria) fra diritto e morale, ritiene che ci siano possibili coincidenze tra il precetto morale e il contenuto della norma di diritto. Questa tesi è stata accolta molto favorevolmente dai giusnaturalisti contemporanei, che vi hanno visto una sorta di cedimento del positivismo giuridico alle regioni del diritto naturale, ma le cose in realtà non stanno così. Hart non crede che esista una legge morale oggettiva e immutabile; però è convinto che spesso le norme giuridiche ripetono il contenuto di norme che appartengono a specifici codici morali, ma è anche convinto che ciò non significhi che quelle norme stabiliscano un obbligo giuridico di obbedire alla morale. Questa posizione hartiana apre la strada a un’ulteriore e importante riflessione, che Hart presenta come il frutto di un semplice ragionamento svolto a partire da alcune ovvietà. Secondo Hart non si può ignorare un dato di fatto oggettivo e cioè che per garantire la propria sopravvivenza

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ogni società deve contenere certe norme di condotta, le quali costituiscono un elemento comune al diritto e alla moralità, stiamo parlando del parlando del contenuto minimo del diritto naturale. Si tratta di un contenuto semplice, poche regole, ma indispensabili per la sopravvivenza della società. Per Hart sia la morale sia il diritto hanno un valore strumentale, un tesi molto distante da quelle giusnaturalistiche, e proprio perché il fine della società è garantire la sopravvivenza, il diritto e la morale hanno un valore se comprendono delle regole che facilitano la cooperazione, indispensabile per l’umanità, e vietano i comportamenti che mettono in pericolo la sicurezza della vita in società.

Le cinque ovvietà sono constatazioni molto semplici sulla natura umana e sulle circostanze ambientali, sul mondo nel quale gli uomini vivono; si tratta di considerazione che, secondo Hart, valgono per tutti i tempi e per tutti i luoghi e sono: la vulnerabilità umana, l’uguaglianza

approssimativa tra gli uomini, l’altruismo limitato, le risorse limitate, la comprensione e la forza di volontà limitate. Qualunque ordinamento

giuridico e qualunque codice morale normativo devono fare i conti con queste semplici verità. Secondo Hart si tratta di una necessità naturale che dischiude <<il nucleo di buon senso contenuto nella dottrina giusnaturalistica>>12

Questo nucleo di buon senso del diritto naturale non deve essere sopravvalutato, Hart, nel saggio Are there any natural Rights? ci ricorda che esso consiste in pochi ed elementari precetti, per esempio nell’egual diritto di tutti gli uomini alla libertà, che vengono accettati da Hart sul piano politico, senza alcuna pretesa che posseggano un fondamento oggettivo, come invece ritengono i giusnaturalisti. Il contenuto minimo del diritto naturale, in altre parole, è il contenuto normativo che ogni ordinamento giuridico deve possedere, indipendentemente da quali altre norme possegga.

2.3. Formalismo o scetticismo? Teoria mista

Per ultimo, ma non di minore importanza, resta da affrontare il tema dell’interpretazione giuridica, la quale occupa ruolo fondamentale nella filosofia del diritto contemporanea. Se prendiamo le teorie del secolo

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scorso vediamo che l’interpretazione viene considerata come un argomento settoriale, ma di importanza decisiva; senza abbandonare il nostro approccio comparativo, possiamo notare da subito una particolare differenza tra Kelsen, Ross e Hart: da una parte, troviamo Kelsen che non la sua Dottrina pura del diritto tratta il tema dell’interpretazione giuridico per ultimo. Per Kelsen l’esistenza del diritto viene accertata indipendentemente dall’interpretazione. Lo stesso discorso vale se prendiamo l’opera di Alf Ross: in Diritto e giustizia13, il capitolo sull’interpretazione è il quarto e trova posto dopo che l’autore ha affrontato il problema dell’esistenza empirica del diritto. Visto che siamo in tema di confronti, se andiamo a vedere l’opera di H. Hart, Il

concetto di diritto14, a nostro avviso il tema dell’interpretazione

giuridica, situato nel capitolo settimo prima della trattazione del rapporto tra diritto e morale, assume un ruolo centrale quasi come se fosse l’anello di congiunzione di tutta la sua opera. Questo per dire, che lo studio dell’interpretazione non è più una delle parti della teoria del diritto che si è già sviluppata prendendo in esame altre nozioni, ma costituisce al contrario un elemento logicamente prioritario rispetto ad altri.

Perché in Hart l’interpretazione giuridica svolge un ruolo centrale?

Il diritto per raggiungere il suo scopo deve comunicare criteri di condotta ai funzionari e ai cittadini; tali criteri vengono comunicati con due mezzi, da una parte, nei sistemi di Civil law con la legislazione, dall’altra parte, nei sistemi di Common law con il precedente. Qualunque sia il mezzo scelto per comunicare, il diritto si esprime riferendosi a classi di atti e a classi di individui, ciò comporta che le disposizioni presentino un certo margine di genericità e di vaghezza; nella maggior parte dei casi, capiamo abbastanza bene se si ricade o meno sotto la fattispecie disciplinata da una determinata norma, e capiamo altrettanto bene che cosa la norma dispone o stabilisce. È però nei casi a margine che la vaghezza e la genericità possono rappresentare un problema, e qui deve soccorrere il lavoro dell’interprete.

L’aiuto dell’interprete non dipende dal fatto che il diritto è scritto male, ma è una caratteristica delle norme giuridiche quella di essere, in molti casi, dipendenti quasi del tutto dall’interpretazione dell’operatore, ciò perché le norme sono generali e astratte: si riferiscono a classi di casi e a soggetti indeterminati. La vaghezza e la genericità delle norme giuridiche è inevitabile, perché i legislatori non possono conoscere in

13 A.ROSS, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino,1990, cap. IV 14 H.HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino,2002, cap. VII.

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anticipo tutti i casi e tutte le circostanze che accadranno in futuro. Il diritto perciò possiede una struttura aperta: le norme stabiliscono le circostanze della loro applicazione, ma in ultimo il decidere se e quando una particolare norma debba essere applicata è un compito che spetta all’interprete; sarà l’interprete di volta in volta a decidere se una particolare fattispecie rientra o meno nella previsione di questa o di quella norma giuridica.

Dopo questa premessa, in materia di interpretazione, Hart adotta una

teoria mista, intermedia tra formalismo e scetticismo, che può essere

chiaramente esemplificata con il caso del divieto di accesso nel parco15. Questo passo chiarisce la posizione intermedia: l’attività dell’interprete è necessaria e completa la norma del testo legislativo, tuttavia, ciò non significa che l’interprete sia completamente libero, non è il legislatore. Il risultato della sua attività non potrà consistere in qualsiasi interpretazione, perché si tratta di un’attività che si svolge all’interno dei confini di significato stabiliti dalla norma; nello stesso tempo, però se la trama è aperta (open texture), nel diritto restano molte cose incerte e solo l’interpretazione può farne chiarezza. Hart afferma che in ogni norma giuridica, esiste un significato certo che chiama nocciolo, e un’area di penombra dove i significati non sono del tutto certi. È proprio in questa zona di penombra che agisce l’interprete.

Il rifiuto di Hart tanto del formalismo tanto dello scetticismo interpretativo non deve essere inteso come l’adozione di una posizione ondivaga, che si fa formalista o scettica a seconda dei casi, quanto come l’idea che l’interprete in parte scopre significato delle norme giuridiche, in parte lo crea. Inoltre, per Hart, l’attività creativa del giudice e dell’interprete in generale, è sì creativa, ma entro lo spazio che il legislatore ha lasciato a disposizione; essa non ha tanto la funzione di produrre diritto, ma di creare gli strumenti che consentono al diritto di funzionare, di raggiungere i suoi scopi.

2.4. Come il diritto dovrebbe essere usato?

A questo punto del nostro lavoro, dopo aver analizzato la posizione di Hart in relazione a loci classici della filosofia del diritto, abbiamo

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sottoposto il nostro autore britannico ad un ultimo quesito di estrema attualità ossia: Come il diritto dovrebbe essere usato?

Il tema che abbiamo affrontato insieme ad Hart, riguarda le discriminazioni perpetrate dall’ordinamento giuridico a danno degli individui. Il tema delle discriminazioni rappresenta il perenne problema dei rapporti tra diritto panale e morale, ossia se il diritto, attraverso le sanzioni, deve impedire atti giudicati immorali. Ci sono delle libertà, come la libertà sessuale, che per affermarsi nei giorni nostri sono state oggetto di numerosi scontri non solo istituzionali; si pensi che in Italia la l. Cirinnà, che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso, è entrata in vigore nel vicino 2016. La riflessione ruota intorno al tema dell’imposizione giuridica della morale che riguarda i limiti e la natura del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo. I problemi che nascono intorno ai diversi modi di declinare il rapporto tra pena e moralità sono stati oggetto di un importante dibattito verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Nel 1957 viene presentato al governo inglese il Report of the Committee

on Homosexual Offences and Prostitution, più noto come Wolfenden. Report, un rapporto stilato da una commissione presieduta da Sir John

Wolfenden, in cui si chiedeva che l’omosessualità e la prostituzione non fossero più considerati reati. Quello che ci interessa in merito a questa vicenda è il dibattito tra Hart e Lord Devlin considerato esemplificativo della contrapposizione tra chi rivendica la priorità dell’individuo sulla comunità e chi, invece, riconosce la priorità della comunità sull’individuo. Da una parte; Hart argomenterà facendo riferimento al principio del danno di J.S. Mill, dall’altra, Devlin ricorrerà ad un altro principio di limitazione della libertà personale ossia il moralismo giuridico. Il dibattito Hart-Devlin è citato soprattutto nella giurisprudenza statunitense attuale, tutte le volte che si tratta di illustrare

case studies che riguardano questioni come l’omosessualità, il divorzio

o l’aborto. Per dirlo con le parole di N. Lacey << a quarant’anni dalla

sua pubblicazione, rimane la rivendicazione, di grande risonanza per tutto il ventesimo secolo, di una politica sociale di stampo liberale, che articola il progetto di uno Stato socialdemocratico che dovrebbe usare il diritto penale con moderazione a tutela della libertà individuale.>>16

16 N.LACEY, A life of Hart. The Nightmare and The Noble Dream, Oxford

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Capitolo I

Positivismo giuridico contemporaneo: la risposta

convenzionalista

1.1. Caratteri essenziali del positivismo giuridico

Prima di addentrarci nel dibattito sul positivismo giuridico contemporaneo, torna utile cercare di precisare cosa intendiamo per positivismo giuridico.

Si suole indicare con il termine positivismo giuridico la dottrina di filosofia del diritto, la quale considera come unico possibile diritto il diritto positivo contrapposto al diritto naturale. Per usare le parole di Norberto Bobbio, <<Ad opera del positivismo giuridico avviene cioè la

riduzione di tutto il diritto a diritto positivo, ed il diritto naturale è escluso dalla categoria del diritto: il diritto positivo è diritto, quello naturale non è diritto>>17. La dottrina del positivismo giuridico si pone

in contrapposizione con quella del giusnaturalismo, è giusnaturalista ogni dottrina della connessione tra diritto e morale, per cui il diritto moralmente ingiusto sarebbe neppure diritto ma una pluralità di concezioni tra loro non sempre compatibili18.

È opinione accreditata che il giusnaturalismo sia una dottrina dualista, mentre il giuspositivismo sia una dottrina monista. Ciò significa che il giusnaturalismo ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo e sostiene la supremazia del primo sul secondo , il giuspositivismo ,al contrario, non ammette la distinzione tra diritto morale e diritto positivo e afferma che non esiste altro diritto se non quello positivo; ne consegue che <<Mentre il giusnaturalismo afferma

la superiorità del diritto naturale sul diritto positivo, il positivismo

17 N. BOBBIO, Il Positivismo giuridico, Giappichelli, Torino 1961, p. 15.

18 M.BARBERIS, Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna ,2004,

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giuridico non afferma la superiorità del diritto positivo su quello naturale, ma l’esclusività del diritto positivo>>19 .

A Questo punto per procedere con maggiore sicurezza, riteniamo conveniente anzi necessario ripercorrere a ritroso i punti basilari del concetto di diritto naturale e positivo a partire dal mondo classico che fa da sostrato allo sviluppo del pensiero filosofico nel tempo fino ai giorni nostri.

1.2. Le origini storiche del positivismo giuridico

Se diamo uno sguardo al passato, necessario per il nostro compito di analisi del positivismo giuridico contemporaneo del XX secolo, notiamo che tutta la tradizione del pensiero giuridico occidentale è dominata dalla distinzione tra diritto positivo e diritto naturale, distinzione che, per quanto riguarda il contenuto concettuale, si trova già nel pensiero greco e latino.

Con un breve excursus tentiamo di conoscere lo sviluppo dell’espressione “positivismo giuridico, dalla sua comparsa lessicale nella storia del pensiero e, mano a mano, la sua evoluzione nella forma e nella sostanza.

Dalla contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo nasce l’espressione di positivismo giuridico.Cerchiamo, come presupposto, di chiarire il senso di diritto naturale ed anche quello di diritto positivo, iniziando il percorso di comprensione a partire dal mondo classico e precisamente da Platone e Aristotele.

Nel Timeo, Platone, tratta della giustizia naturale, cioè delle leggi che regolano il cosmo, della creazione dell’universo, e non della giustizia positiva, cioè delle leggi che regolano la vita sociale.

La distinzione concettuale fra diritto naturale e diritto positivo, è ancor meglio confermata da Aristotele, il padre della logica, nell’ Etica Nicomachea. Nel testo il diritto positivo è chiamato legale e quello naturale è detto phusikòn ed è quello che ha efficacia dappertutto mentre quello positivo ha efficacia solo nelle singole comunità in cui è posto.20

Procedendo, questa dicotomia la troviamo anche nel diritto romano,

19N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità,

Milano,1972, p. 127.

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precisamente nelle Istitutiones, nei termini di Jus gentium e jus civile. Il primo fa capo alla natura e l’altro alle statuizioni del popolo. I criteri per distinguere il diritto naturale dal diritto positivo erano essenzialmente tre: a) il diritto positivo (jus civile) è limitato ad un dato popolo mentre il diritto naturale è privo di confini; b) il diritto positivo è posto dal popolo, mentre il diritto naturale è posto dalla natura; c) il diritto naturale è immutabile nel tempo, quello positivo muta col passare dei momenti storici appartenenti ad ogni società, in quanto una norma può mutare sia per consuetudine sia ad opera di un’altra legge.21

Rimanendo nel mondo romano, precisamente in un frammento di Paolo nel Digesto, troviamo un altro criterio distintivo fra diritto naturale e diritto civile: il diritto civile è universale e immutabile sempre mentre quello civile è particolare nel tempo e nella spazio, il diritto naturale stabilisce ciò che è buono, mentre quello civile stabilisce ciò che è utile: il giudizio riguardante il primo si fonda su un criterio morale mentre il secondo si fonda su un criterio economico o utilitaristico.

Sulla base dell’eredità scolastica e in relazione alla dinamica della storia e del pensiero, il primo uso della formula jus positivum si ritrova in un filosofo medioevale e precisamente in Abelardo. Nel Dialogus

inter philosophum, judaeum et christianum si evince che per Abelardo

la caratteristica principale del diritto positivo è quella di essere posto dagli uomini, in contrasto con il diritto naturale che non è posto da essi stessi, ma da qualcosa che sta al di là di essi, come la natura. Anche S. Tommaso nella Summa Theologica parla dei vari tipi di leggi: Lex

Aeterna, Lex Naturalis, Lex Umana, Lex Divina. Si evince che la Lex Naturalis è l’espressione del diritto naturale e la Lex Umana si riferisce

al diritto positivo ed aggiunge che essa deriva da quella naturale ad opera del legislatore che la pone e la fa valere.

Bisogna, tuttavia, procedere storicamente e arrivare a Grozio il quale nel suo De iure belli ac pacis formula la più celebre distinzione tra diritto naturale e diritto positivo nei termini di jus naturale e jus voluntarium. Il diritto naturale è per Grozio un dettame della ragione, mentre lo jus volontariun deriva dal potere civile, intendendo con quest’ultimo quello che sovraintende allo stato inteso come associazione perpetua di uomini liberi, con lo scopo di godere dei propri diritti e perseguire la comune utilità. Troviamo nell’affermazione di Grozio una interessante indicazione sull’origine del diritto positivo cioè che esso è posto dallo Stato. In tale autore, lo stato, è solo una delle tre istituzioni

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che possono porre lo jus volontarium, le altre due sono: la famiglia, inferiore allo stato, e la comunità internazionale superiore allo Stato.

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2. Presupposti storici del positivismo giuridico

2.1. Le trasformazioni socio-istituzionali

Dal breve panorama storico che abbiamo presentato fino al termine del Settecento il diritto viene definito individuando due specie: naturale e positivo. Queste due forme di diritto non sono considerate diverse per quanto riguarda la loro qualificazione, piuttosto sono poste su due piani differenti. Diritto naturale e diritto positivo sono qualificati come diritto nella stessa accezione del termine. Il positivismo giuridico è una concezione del diritto che nasce quando diritto naturale e diritto positivo non sono più considerati alla stessa stregua, ma viene considerato diritto in senso proprio soltanto lo jus positivo, e il diritto naturale è escluso dalla categoria. Seguendo, Norberto Bobbio, sono diversi i fattori che hanno favorito la nascita e l’affermazione del positivismo giuridico22.

Possiamo distinguere due tipologie di fattori che hanno determinato il sorgere di questa tradizione di ricerca giusfilosifica, i primi rientrano nella categoria delle trasformazioni socio-istituzionali, mentre i secondi possono essere considerati movimenti di pensiero.23 La prima trasformazione socio-istituzionale è legata alla formazione dello stato moderno che sorge sulla dissoluzione dello stato medioevale. La società medioevale era una società pluralista, in quanto costituita da una pluralità di raggruppamenti sociali ciascuno dei quali aveva un proprio ordinamento giuridico: il diritto si presentava come un fenomeno sociale, come prodotto non dallo stato ma dalla società civile. Con la formazione dello stato moderno la società assume una struttura monista, nel senso che lo Stato accentra in sé tutti i poteri, in primis quello di creare diritto. Si assiste al fenomeno della monopolizzazione della produzione giuridica da parte dello Stato. A questo trapasso nel modo di formazione del diritto segue un cambiamento nel modo di concepire il diritto stesso. Per capire questa evoluzione, è interessante andare a vedere il modificarsi della posizione e della funzione sociale del giudice

22 N. BOBBIO, Il Positivismo giuridico, Giappichelli, Torino 1961 pp. 3-126. 23 A. SCHIAVELLO, La crisi del positivismo giuridico: l’anti-giuspositivismo di

Lon Fuller e Ronald Dworkin. In Il positivismo giuridico contemporaneo,

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dalle quali cogliamo il trapasso dal diritto non statuale al diritto statuale e di conseguenza il passaggio dalla concezione dualistica del diritto a quella monistica. Prima della formazione dello Stato moderno, lo stato si limitava a nominare il giudice il quale non era vincolato, per dirimere le controversie, a scegliere esclusivamente norme emanate dall’organo legislativo dello stato, ma aveva una certa libertà di scelta nel determinare la norma da applicare. Poteva desumerla dalle regole del costume oppure da quelle dei giuristi, oppure poteva risolvere il caso in base ai criteri equitativi. Tutte queste regole stavano sullo stesso piano, erano tutte alla stessa stregua fonti del diritto. Ciò permetteva ai giuristi di parlare di due specie di diritto, naturale e positivo, in quanto il giudice poteva ricavare la norma da applicare sia da regole già preesistenti nella società (diritto positivo) sia da principi equitativi e di ragione (diritto naturale).

Con la formazione dello stato moderno il giudice da libero organo della società diventa organo dello Stato, anzi un vero e proprio suo funzionario e gli si impone l’obbligo di applicare solo le norme poste dallo Stato, che diventa l’unico creatore di diritto. Ecco perché il diritto naturale e il diritto positivo non sono più considerati alla stessa stregua; il diritto positivo, posto dallo Stato, è il solo vero diritto: esso è l’unico che trova applicazione nei tribunali.

Il secondo fattore riconducibile alla categoria delle trasformazioni socio-istituzionali è il fenomeno della codificazione, la cui massima espressione è la promulgazione del Code Napoleon nel 1804. L’idea che sta dietro alla codificazione è quella di un diritto semplice, chiaro, coerente ed accessibile a tutti. A questa idea si può certamente associare la concezione, tipicamente giuspositivista, di una scienza giuridica che si limita a descrivere in modo avalutativo il suo oggetto e cioè il diritto positivo e la concezione dell’interpretazione giuridica come attività meramente meccanica; concezione che affonda le sue radici nel giusrazionalismo illuminista.

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2.2. I movimenti di pensiero: i precursori del positivismo

giuridico contemporaneo

La nascita del positivismo giuridico è convenzionalmente associata alla pubblicazione, nel 1798, del Trattato del diritto naturale come filosofia del diritto positivo di Gustav Hugo. Che cosa vuol dire questo titolo? Esso significa che il diritto naturale non è più concepito come un sistema normativo a sé stante, staccato dal sistema di diritto positivo, ma come un insieme di considerazioni filosofiche sullo stesso diritto positivo.24Va per altro ricordato che importanti elementi di anticipazione sono rinvenibili nel pensiero di T. Hobbes. Per chiarire le origini del positivismo giuridico è interessante lo sviluppo del diritto in Inghilterra. In questa realtà non troviamo la distinzione fra diritto naturale e diritto positivo, ma tra due forme di diritto positivo, precisamente tra la common law, diritto consuetudinario e lo statute law cioè il diritto statutario. La common law è il diritto di elaborazione giudiziaria, costituito da regole accolte dai giudici per risolvere singole controversie, a questa si contrappone il diritto statutario posto dal potere sovrano. Le tendenze autoritarie e assolutistiche in Inghilterra ebbero una delle loro tipiche manifestazioni nella polemica contro la common law. Sul piano dottrinale uno degli aspetti della polemica è la critica che T. Hobbes, teorico del potere assoluto mosse alla Common law, affermando che solo il sovrano ha il potere esclusivo di elaborare il diritto, in quanto ciò è indispensabile per assicurare l’assolutezza del potere statuale. Ciò che Hobbes dice per giustificare la sua posizione contro il diritto comune è molto importante, tanto che può essere considerato il diretto precursore del positivismo giuridico. Nello stato di natura hobbesiano non vige un diritto oggettivo naturale ma la pura forza, si tratta di uno stato di anarchia permanente, in cui ogni uomo lotta contro l’altro. In questo stato di natura possiamo dire che vi hanno vigore la legge della forza e il diritto del più forte. L’uomo avverte la necessità di uscire da questa condizione per assicurare la propria conservazione. Per uscire da questa condizione, occorre creare lo Stato, cioè si deve attribuire tutta la forza ad una sola istituzione: il sovrano; perché le leggi di natura in quanto norma dettata della ragione, è uno strumento a servizio della natura egoistica e utilitaristica dell’uomo e

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non è in grado di assicurare la pace e l’ordine. Le passioni degli uomini possono essere contrastate solo dal timore di un’autorità. In base a questa concezione Hobbes nega la legittimità della common law cioè di un diritto preesistente allo Stato e indipendente da esso. A questa polemica contro la common law l’autore dedicò un’opera intitolata

Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra

in cui il legista è un discepolo di Coke, sostenitore della common law, e il filosofo è lo stesso Hobbes che combatte il diritto di elaborazione giudiziaria. In questa opera Hobbes pone sulla bocca del filosofo la seguente esplicita affermazione:<< Non è la sapienza ma l’autorità a

creare la legge>>25. Il diritto è espressione di chi ha il potere per Hobbes, e per questo nega valore alla common law che è il prodotto della sapienza dei giudici. Nello stesso Dialogo troviamo una definizione data dal filosofo, che possiamo considerare tipica della concezione positivistica: <<Il diritto è ciò che colui o coloro i quali

detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi, proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose posso e quali non possono fare.>>26 In questa definizione troviamo due caratteristiche

tipiche della concezione positivistica del diritto: a) il formalismo in quanto nella definizione non è fatto riferimento né al contenuto, né al fine del diritto, viceversa, non viene definito con un riferimento alle azioni che sono disciplinate o al contenuto di tale disciplina. Viceversa, la definizione del diritto è data solo in base all’autorità che pone le norme, e quindi in base a un elemento puramente formale. b) l’imperativismo. Il diritto è definito come il complesso di norme con cui un sovrano ordina o vieta dati comportamenti ai sudditi: il diritto è un comando.

Lasciandoci alle spalle il pensiero di Hobbes, necessario e interessante per il nostro tentativo di analisi dell’evoluzione del positivismo giuridico, lo sviluppo del concetto è indubbiamente ottocentesco e investe più ambienti culturali. Tra i movimenti di pensiero che hanno reso possibile la nascita e l’affermazione del positivismo giuridico vanno ricordati l’imperativismo di Jeremy Bentham e John Austin, e infine la Scuola storica del diritto radicata soprattutto in Germania.

Partendo dalla scuola storica del diritto, il cui principale esponente è Savigny, rappresenta un fattore decisivo per la nascita e lo sviluppo del positivismo giuridico, essenzialmente per le sue critiche radicali al

25 T. HOBBES Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune

d’Inghilterra, ed. Ascarelli, Milano,1960, p. 74.

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giusnaturalismo, così come lo intendeva l’illuminismo, cioè come un diritto universale e immutabile ricavato dalla ragione. Al diritto naturale la scuola storica contrappone il diritto consuetudinario considerata come la forma genuina del diritto, in quanto espressione immediata della realtà storico- sociale. Bisogna rilevare che la scuola storica del diritto deve considerarsi precorritrice non tanto del positivismo giuridico, quanto di certe correnti filosofico-giuridiche, come la scuola sociologica e realistica, che alla fine del secolo XIX e inizio del XX assunsero una posizione critica nei confronti del giuspositivismo.

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2.3. Il positivismo giuridico del ‘900

La teoria del diritto del Novecento si caratterizza per l’abbandono dell’imperativismo largamente diffuso nel secolo precedente. In essa la concezione del diritto come insieme di norme dipendenti dalla volontà del sovrano viene sostituita da una concezione del diritto come insieme di norme dipendenti da un’idea o una norma, oppure da una pluralità di idee o norme, presupposta o condivisa dai giuristi, o dai giudici, o più in generale da chi dà esistenza al diritto, individuandone, applicandone o osservandone le norme. Ciò accomuna ad esempio, al di là delle loro differenze, la tesi di Hans Kelsen della norma fondamentale come presupposto della scienza giuridica, la tesi di Alf Ross dell’ideologia dei giudici come base della loro attività di applicazione del diritto, la tesi di Herbert Hart della regola di riconoscimento come fondamento del sistema giuridico.

Il momento di massima affermazione del positivismo giuridico è costituito, a partire dalla seconda decade del ‘900, dal pensiero di Hans Kelsen. La kelseniana dottrina pura del diritto, si caratterizza fin dall’inizio, come Teoria del diritto positivo, animata dallo scopo di <<liberare il diritto da quel legame da cui è stato sempre legato alla

morale>>27. Legare il diritto alla morale significa, per Kelsen, legare il

diritto all’ideale di giustizia che però è un ideale irrazionale, inaccessibile alla conoscenza umana. Per tale ragione la dottrina del diritto naturale è fallace, essa non è rivolta a conoscere il diritto, ma a produrre una giustificazione del medesimo. Tanto la conoscenza del diritto non deve essere influenzata dai giudizi morale quanto il significato giuridico di una disposizione non dipende dal valore morale del suo contenuto ma dall’essere sussunta una struttura formale, (la norma giuridica come giudizio ipotetico che collega un comportamento ad una sanzione), aperta ad ogni contenuto. La separazione tra diritto e morale si chiarisce così, come punto nevralgico del positivismo giuridico del novecento, sul quale non tarderanno ad arrivare dubbi teorici a seguito dei crimini avvenuti con la Seconda guerra mondiale. È alto il numero di filosofi che cedono al richiamo di un ritorno al giusnaturalismo, asserendo che la legge non acquisirebbe mai validità giuridica qualora fosse intollerabilmente ingiusta. Il compito di fornire una versione equilibrata del positivismo giuridico sensibile alla problematica etica, ma ferma nel ribadire la separazione tra diritto e

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morale, viene assunta da Herbert Hart, la cui teoria, perfezionata in The

Concept of law, ammette che norme giuridiche e morali possono avere

come contenuto comune quei principi di condotta evidenti al fine della sopravvivenza e della pacifica convivenza minima (contenuto minimo di diritto naturale), ma riporta senza esitazioni la giuridicità delle regole non al loro contenuto ma alle modalità con cui sono state elaborate ed adottate ovvero al fatto che tali regole trovino il loro fondamento nella norma di riconoscimento consentendogli di far parte dell’ordinamento giuridico.

Non sarà questa la seda per analizzare dettagliatamente la teoria di Hart, il nostro intento è di presentare l’autore inglese partendo da temi comuni della filosofia del Novecento, mostrando passo per passo la posizione assunta da Hart e l’elaborazione delle sue tesi.

3. Sulla normatività del diritto

Senza addentrarci nel mare magnum del positivismo giuridico contemporaneo, vogliamo entrare in medias res con il tema dell’obbligatorietà del diritto, uno dei temi principali della filosofia del diritto e della filosofia politica contemporanea.

Prima di entrare nel vivo della questione è necessario soffermarci su di un tema preliminare il quale riguarda la nozione di normatività del

diritto. Cosa intendiamo per normatività del diritto? Generalmente la

nozione di normatività viene assimilata alla nozione di ragione. I discorsi in termini di normatività richiedono che si individuino ragioni per credere o per fare qualcosa. Da qui possiamo distinguere tra ragioni esplicative e ragioni giustificative. Le prime, dette anche motivi, spiegano perché qualcuno ha posto in essere un determinato comportamento. Le seconde giustificano i comportamenti e consentono di distinguere i comportamenti corretti dai comportamenti scorretti.

Questa distinzione tra ragioni-spiegazioni e ragioni-giustificazioni riveste un’importanza cruciale in rapporto alla nozione di normatività. In relazione alla normatività, la nozione di ragione coincide con quella di giustificazione.28

28 A. SCHIAVELLO perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista e i

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Da queste poche definizioni è difficile a nostro avviso capire concretamente di cosa stiamo parlando, per questo motivo riteniamo che sia utile iniziare da una accezione ampia di normatività per tentare di risolvere il problema.

Considerando l’accezione ampia possiamo dire che la nozione di normatività del diritto individua la capacità del diritto, più specificamente delle norme giuridiche, di rendere i comportamenti dei destinatari delle norme, non più liberi ma sottoposti a vincoli.29

Definire la normatività in questi termini equivale ad affermare che il diritto è una ragione esplicativa in relazione a determinati comportamenti ossia il motivo per cui alcuni comportamenti umani sono posti in essere è l’esistenza di norme giuridiche.

Vi è da precisare che l’esistenza del diritto rende certi tipi di condotta non più facoltativi ma non implica di per sé che il diritto sia una ragione giustificativa della condotta umana.

Qualsiasi concezione giusfilosifica deve fare i conti con la constatazione empirica che il diritto, di fatto, viene osservato dai consociati e anche con la pretesa del diritto di rappresentare una ragione giustificativa dell’azione. Per risolvere la questione della normatività è necessario spiegare perché il diritto vincola il comportamento e perché avanza la pretesa di guidare il comportamento.

Ci sono alcune teorie invece che riconoscono al diritto solo una normatività debole, ossia, sebbene il diritto vincoli il comportamento tuttavia la sua pretesa di rappresentare una ragione giustificativa dell’azione non è legittima, stiamo parlando del realismo giuridico. Per fare qualche esempio prendiamo A. Ross, in un articolo molto celebre,

Tù-tù, Ross riferisce di uno studio antropologico, in realtà del tutto inventato30, su uno dei popoli più primitivi della terra, i Noit-cif. Tra questi membri di questa tribù vige la credenza che nel caso in cui vengano infranti alcuni tabù, come mangiare il cibo preparato al capo della tribù, l’autore dell’infrazione diviene tù-tù.

È difficile spiegare quale sia il significato di tù-tù per i membri della tribù, probabilmente essi usano tale parola per indicare una forza di origine magica e soprannaturale che investe chi ha infranto uno dei tabù.

29 Per una analisi introduttiva della nozione di “normatività del diritto” cff. VILLA,

il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore, Giappichelli, Torino,2004

pp. 47- 49.

30 Ross attribuisce la paternità di questo lavoro all’antropologo Ydobon (il cui nome

letto al contrario è “nobody”); la tribù primitiva è quella dei Noit-cif (“fiction” al contrario) che vive nelle isole Noisulli (“illusion” al contrario).

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Quello che riusciamo a dedurre è che chi ha infranto un tabù deve essere sottoposto ad una cerimonia di purificazione.

Per usare le parole di A. Ross <<il discorso intorno al tù-tù è un puro

nonsenso>>31. La credenza nell’esistenza di un qualcosa come tù-tù è

frutto della superstizione su cui è fondata la vita della tribù primitiva. Da quanto appreso possiamo evincere che il passaggio dallo status di Noit-Cif a quello di Tù-tù è dovuta dalla violazione di alcuni tabù. L’essere Tù-tù, precisando che tale parola è priva di significato ed ha un’origine magica, comporta sottomettersi alla cerimonia di purificazione per non essere estromessi dalla tribù, quindi costituisce il motivo per il quale è necessaria tale cerimonia; è la ragione esplicativa dell’azione. La parola Tù-tu riveste una forza magica e induce i soggetti a porre in essere in modo automatico determinati comportamenti senza costituire una ragione esplicativa dell’azione. Quello che vuole mostrare A. Ross attraverso questa allegoria è che anche noi siamo spesso vittime inconsapevoli della superstizione.

Secondo Ross, i Noit-cif siamo noi. Come loro, anche noi attribuiamo ad alcune parole una forza magica e mistica.32 È quello che facciamo quando usiamo alcune espressioni o parole come proprietà, pretesa etc. Ad esempio, le frasi <<se si concede un prestito nasce una pretesa” e

se esiste una pretesa il pagamento deve essere fatto alla scadenza dovuta possono essere sostituite dalla frase se si concede un prestito, il pagamento deve essere fatto alla scadenza dovuta>>33. A guardar bene la parola “pretesa” è una parola priva di riferimento semantico come tù-tù però svolge un’importante funzione: induce negli uomini la credenza che porre in essere certi comportamenti sia qualcosa di inevitabile.

In A. Ross rinveniamo ciò che possiamo definire “normatività del diritto in senso debole”, il diritto è una ragione esplicativa dell’azione ma non una ragione giustificativa. La spiegazione della normatività del diritto proposta da A. Ross si caratterizza per considerare il diritto come un vincolo che agisce dietro le spalle degli individui. Il diritto riduce la libertà degli individui, ma i vincoli effettivi sul comportamento umano imposti dal diritto possono essere colti solo dall’esterno, da un osservatore, ma non dall’interno, da chi cioè a quei vincoli è soggetto.

31 A.ROSS, Tù-Tù(1957),trad.it. di M Piantelli rivista da M. Jori, in U. SCARPELLI,

Diritto e analisi del linguaggio, Edizioni Comunità, Milano 1976, p. 166.

32 A. SCHIAVELLO perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista e i

suoi limiti Jura, Edizioni ets, 2010, p. 45.

33 A.ROSS, Tù-Tù(1957),trad.it. Di M Piantelli rivista da M. Jori, in U. SCARPELLI,

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Accanto alle concezioni deboli della normatività del diritto troviamo le concezioni forti che si caratterizzano per il fatto di prendere sul serio la prospettiva del partecipante e ritengono che il diritto sia una ragione giustificativa dell’azione. Chi sostiene che il diritto è normativo in questo senso, intende marcare la legittimità e l’obbligatorietà delle azioni e dei comportamenti posti in essere per ottemperare quanto richiesto dal diritto.

All’interno della concezione forte della normatività del diritto possiamo distinguere tre possibili modi per inquadrare che tipo di ragione giustificativa per il comportamento sia il diritto:

A) la normatività del diritto dipende dalla coazione (Modello del bandito)

B) la normatività del diritto dipende da ragioni morali (Modello della morale)

C) la normatività del diritto è indipendente sia dalla coazione sia dalla morale e deve poter essere ricondotta a quelle che possiamo denominare

ragioni giuridiche (modello dell’autonomia)

Il primo modello si attaglia a tutte le concezioni imperativiste del diritto. Si può ricordare Austin, Bentham i quali condividono la tesi secondo cui il diritto è <<un complesso di comandi rivolti dal sovrano

ai cittadini>>34. In base al primo modello, il diritto sarebbe una ragione prudenziale che agisce sull’ordine gerarchico delle preferenze degli individui attraverso la minaccia dell’uso della forza. In generale gli esseri umani preferiscono tenere per sé il proprio denaro piuttosto che consegnarlo a terzi, per esempio la pistola del rapinatore puntata alla tempia di un passante modifica le sue preferenze, egli preferirà rinunciare al proprio denaro pur di salvare la sua vita. Il diritto, per chi adotta questo modello, funziona in modo simile: nessuno pagherebbe le tasse se all’evasione fiscale non fosse accompagnata una sanzione.35

In base a questo modello ciò che rende obbligatorio il comportamento prescritto dalla norma giuridica è il desiderio di sfuggire alle sanzioni che si applicano alle trasgressioni.

I restanti due modelli, quella della morale e dell’autonomia, sono accumunati dalla stessa insofferenza nei confronti del modello del bandito. Il limite principale di questo modello è quello non distinguere il diritto dagli ordini del bandito.

34N.BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità,

Milano, 1972, p. 200.

35 A. SCHIAVELLO perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista e i

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