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L'autonomia della scienza del diritto e l'autonomia della scienza della morale piuttosto che la autonomia del diritto e della morale

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ETICA, MORALE E DIRITTO di

Eugenio Ripepe*

Questo tema “morale e diritto” lo trovavo insopportabile quando ho cominciato ad occuparmi di filosofia del diritto per la buona ragione che è un tema tradizionale che da millenni i filosofi del diritto affrontano.

Nel parlare di queste cose obbedisco ad una esigenza personale, perché in tutti questi anni mi sono accorto della ingenuità giovanile con cui credevo che questo tema fosse troppo vecchio per essere ancora affrontato; lo ritenevo una questione accademica ed invece mi sto accorgendo che si tratta di un tema fondamentale e non solo per un filosofo del diritto o per un giurista, ma per un uomo.

E’ il problema di ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare; dare una giustificazione non agli altri, ma a se stessi, del proprio agire. La ragione per la quale si deve obbedire o no al diritto credo sia il nodo con cui ognuno di noi si deve cimentare quotidianamente. Si tratta di un tema che in nessun modo non si può far finta che non esista. Detto questo rimango un po’

in sofferenza per l'aspetto tradizionale della questione.

L’insofferenza nasce dal fatto che i filosofi del diritto tradizionali affrontavano la questione in termini puramente astratti: il rapporto tra diritto e morale inteso come una determinazione di confini, e spesso anche un regolamento di conto fra accademici.

L'autonomia della scienza del diritto e l'autonomia della scienza della morale piuttosto che la autonomia del diritto e della morale.

Il modo per affrontare il problema non è questo proprio perché è una questione pratica, riguarda il nostro agire quotidiano. Ecco perché non possiamo non affrontare in termini pratici questo tema.

In passato diritto e morale sono stati affrontati come temi di una questione che era essa stessa pratica. E' stato un fuorviare la questione iniziale la via scelta dagli accademici per affrontare la materia.

La questione era fondamentale e cioè l’autonomia della morale e del diritto. E' così che nasce e si fortifica l'importanza di questo tema. La questione del diritto e morale ed i rapporti fra diritto e morale come autonomia della morale nei confronti del diritto. Il che valeva anche nei confronti del potere politico. Dunque si trattava di escludere il potere politico ed il suo strumento, il diritto, dall'ambito della morale per affermare la sua autonomia e la libertà di coscienza.

A questo indirizzo a cui se ne contrappone un altro che è quello di assoggettare il diritto alla morale, per la verità più nelle pretese che nei risultati pratici, direi che non si può sostituire un atteggiamento diverso, non più la separazione per affermare la reciproca autonomia fra diritto e morale, ma la consapevolezza del nesso fra diritto e morale, del nesso inteso non nel senso tradizionale.

Ho l'impressione che la ragione per la quale oggi siamo sensibili nuovamente alla questione dei rapporti fra diritto e morale nasca non sul piano teorico, della validità del diritto, ma sul piano molto più empirico dell'efficacia e dell'effettività, ed è quello che stiamo constatando tutti è che al diritto non basta il diritto per essere efficace.

Un diritto che in qualche modo non sia in connessione con un minimo denominatore etico è un diritto che non esiste come tale. All'effettività del diritto è necessaria la connessione non

*Ordinario di Filosofia del Diritto. Preside di Facoltà

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con tutti i principi morali che sarebbe un rischio sia per il diritto che per la morale, ma con un minimo di valori comunemente accettato nella comunità. Se manca questa corrispondenza fra il minimo comune etico ed il diritto vigente, il diritto semplicemente non è più vigente, tanto peggio se manca addirittura il minimo comune etico che è l'ombra che grava sulla nostra società.

Qui il rischio è che ognuno abbia una morale per conto proprio e che manchi questa comunanza di valori morali indispensabile perché una comunità sia tale. E non a caso ci sono tante forze centrifughe nella nostra comunità perché forse si comincia a dubitare, e per certi versi forse è già vero, che il minimo comune etico manchi. Da questo punto di vista allora la prima constatazione da fare è forse questa: la norma giuridica non può vertere sul suo elemento specifico che è la sanzione coercitiva. Questo è ciò che è necessario alla norma giuridica per essere la norma giuridica, ma non è sufficiente la norma giuridica per essere rispettata ed efficace.

In realtà se noi affidiamo il criterio per orientare i comportamenti umani semplicemente alla sanzione coercitiva questa sola corda non basta. Non è sufficiente la minaccia della sanzione perché il comportamento desiderato sia anche praticato. Quali siano le ragioni non è difficile vedere. Se comincia ad essere allentata la consapevolezza o la convinzione della doverosità morale di certi comportamenti ognuno di noi è più libero perché può sperare di farla franca o comunque può sperare di non pagare un prezzo troppo alto attraverso la sanzione coercitiva.

La sola corda della coercizione non basta allora al diritto per essere il diritto. Il diritto ha bisogno della morale anche se non può pretendere che la morale si esaurisca nelle prescrizioni giuridiche, perché in questo caso non ci sarebbe più la morale. Una morale che fosse interamente giuridicizzata ed imposta attraverso quella tecnica giuridica specifica che è la sanzione coercitiva, sarebbe forse diritto, ma non sarebbe più la morale. Ed essendo un diritto senza la morale non sarebbe neanche sufficientemente efficace e dunque in quanto tale negherebbe se stesso. Devo dire però che il nostro tema ha tre espressioni: diritto morale ed etica.

Io sto parlando solo di morale e diritto, dobbiamo affrontare anche la questione dell'etica.

Intanto debbo riconoscere che etica e morale sono due espressioni che vengono utilizzate come sinonimi. Non senza ragione perché anche etimologicamente la parola morale è stata coniata da Cicerone proprio per tradurre la parola etica, eticos greco, poiché essa derivava da etos, costume; Cicerone dalla parola mos, moris, costume trasse la parola moralis. E' quindi la traduzione latina di una parola greca. Non c'è differenza nell'uso etimologico. Nell'uso quotidiano i filosofi morali tendono ad identificare l'etica con la scienza della morale, con ciò che studia la morale. Sebbene ci sia il paradosso che la filosofia morale si chiami filosofia morale e nonostante che essa studi appunto la morale. Dunque è questione, come sempre quando si tratta di parole e di convenzioni, di metterci d'accordo. Vogliamo intendere etica e morale come sinonimi, ed è quello che fanno molti filosofi: se voi leggete molte opere filosofiche ogni tanto per non ripetere la parola morale si usa la parola etica e viceversa come quando invece di dire il Croce si dice il filosofo napoletano, poi qualcun'altro dice il filosofo di Pescasseroli.

In realtà forse potremmo trarre spunto dall'esistenza di due termini diversi per utilizzare questi due termini. Perché una cosa è certa: la parola morale o la parola etica se intese come sinonimi non esprimono sufficientemente il problema di cui stiamo parlando. Perché proprio la storia della riflessione sulla morale ci dice che ci sono almeno due sensi diversi in cui la parola morale è stata usata. C'è la morale sociale, come sistema di valori attraverso i quali una comunità o un gruppo sociale individua il criterio del giusto e dell'ingiusto e c'è un'altra morale, la legge morale in senso kantiano che il singolo trova in se stesso come sua propria gerarchia di valori. Le due morali non possono essere assolutamente in contrasto, cioè nella sua gerarchia di valori l'individuo è influenzato dalla scala di valori della morale sociale cui appartiene. Ma il fatto è che l'individuo non appartiene ad un solo gruppo sociale, le

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comunità cui l'individuo appartiene sono numerose e sempre più numerose perché c'è la famiglia, la polis, l'associazione sportiva, la comunità internazionale e così via.

Ecco da dove nascono alcuni problemi: dalla difficoltà di conciliare alcune morali sociali delle quali tutte l'individuo è parte con la morale individuale che deve essere una gerarchia di valori che fa i conti con queste morali sociali. D'altra parte non si potrebbe neanche immaginare una piena identità di morale individuale e morale collettiva o sociale, per la buona ragione che se così fosse dovremmo rinunciare ad essere individui. Se tutti gli individui condividessero fino in fondo tutti i valori del gruppo sociale al quale appartengono non ci sarebbero più individui ma ci sarebbe il gruppo come individuo e non è neanche la soluzione preferibile per ognuno di noi.

Per tutta comodità allora potremmo forse utilizzare il termine etica per indicare la morale sociale, la morale nel senso di Iurcain, il sistema di norme che in qualche modo fa da trama, da tessuto unificante di una comunità; la parola morale per indicare il principio che regge il comportamento di ognuno, di noi, di ciò che ognuno trova nella sua coscienza.

E’ in questa contrapposizione, o comunque articolazione fra morale sociale ed individuale, una delle ragioni dell'insoddisfazione che si prova di fronte alle soluzioni tradizionali del problema diritto e morale. In genere si è contrapposto al diritto la morale individuale e quindi si è fatto della morale ciò che riguarda l'interiorità e del diritto ciò che riguarda l'esteriorità, della morale qualcosa di assoluto, di universale e del diritto qualcosa di cangiante, di relativo e così via.

Fino a fare della morale qualcosa di universalizzabile e del diritto qualcosa di diverso. Se invece teniamo conto della nozione di morale sociale che è quella più direttamente connessa con il diritto ci accorgiamo che non è affatto vero che la morale sia completamente autonoma ed il diritto completamente eteronomo perché la morale sociale è anch'essa in qualche modo vincolante per l'individuo e non è frutto della sua libera scelta; il diritto non è necessariamente l’esteriorità che trascura l'intenzione perché molti aspetti del diritto hanno a che fare proprio con l'interiorità e con l'intenzionalità. In ogni caso la contrapposizione non funziona abbastanza se non si tiene conto che in realtà diritto e morale, intesa come morale sociale, hanno molto più in comune di quanto non si immagini: hanno in comune il fatto di essere criteri di orientamento del comportamento nella società sulla base dell'indicazione del lecito e dell'illecito.

Che cosa hanno di diverso? L'unica indicazione rimane quella classica tradizionale, di diverso hanno che lo strumento in virtù del quale il diritto cerca di ottenere i comportamenti desiderati è la sanzione coercitiva, lo strumento della morale è invece il criterio di giustizia, la conformità o meno ad un ideale di giustizia.

Stando così le cose ci sono molti punti di scontro, ma anche di incontro tra diritto e morale.

Il problema è interessante perché alle volte la morale ci dice di fare determinate cose che il diritto ci vieta e viceversa. Per cui lo scontro è quello che più ci interessa, ma c'è anche una possibilità di incontro. Di fatto c'è un incontro, non solo in termini di esigenza generica, che il diritto rispecchi certi convincimenti morali diffusi, ma anche in termini di articolazione concreta, pensate per esempio a quanti principi o concetti morali sono fatti propri dal diritto, giuridicizzati, senza per questo essere concetti e principi morali.

Pensate al senso del pudore e possiamo aggiungere il criterio della buona fede e la diligenza del buon padre di famiglia. Il diritto può far propri dei contenuti originariamente morali e renderli giuridici semplicemente accogliendoli al suo interno. Ma anche la morale può far propri non dei generici comportamenti secondo il diritto, ma in generale l'obbedienza al diritto come valore morale. L'insegnamento principale di Socrate quando gli viene proposta la fuga dal carcere per sottrarsi alla condanna a morte è questo: è meglio subire ingiustizia che commetterla. Con ciò significando che la disobbedienza alla legge è ingiustizia ovvero qualcosa contrario alla morale.

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Un principio morale, in determinate situazioni, può non essere necessariamente la disobbedienza alla legge giusta, ma l'obbedienza alla legge ingiusta. E non perché la legge non sia giusta, ma semplicemente perché Socrate ritiene che disobbedendo alla legge ingiusta, assumendosi le conseguenze negative di questo comportamento si porta alla luce il carattere ingiusto della legge. Si fa toccare con mano anche a coloro che non ne sono consapevoli che quella legge è ingiusta. Dunque diritto e morale possono avere dei punti di incontro proprio perché può essere un canone morale semplicemente l'obbedienza al diritto vigente.

Resta il fatto che l'aspetto che più ci interessa e ci coinvolge è questa consapevolezza che il nostro ordinamento giuridico presenta una serie di lacune e di problemi in termini di effettività che in qualche modo ci rimandano a qualcosa che non si esaurisce nell'ambito strettamente giuridico. Non c'è nulla di più illusorio che ritenere che la crisi del diritto sia una questione strettamente giuridica. Nelle coscienze di ognuno di noi si diffonde la consapevolezza che la crisi del diritto nasce da un'altra crisi che è proprio la crisi della morale sociale della quale parlavamo. E' quella ad essere in crisi e conseguentemente è in crisi il diritto.

Ora ci chiediamo perché il diritto deve essere l'unico strumento per orientare i comportamenti, se lo strumento morale non funziona più, il diritto da solo non ce la fa.

Se ci interroghiamo sulla crisi della morale direi che ancora una volta ci può servire l'etimologia: morale viene da mores, dovrei parlare di etica a questo punto perché proponevo di chiamare etica la morale sociale, ma continuo ad utilizzare questa espressione per maggior chiarezza.

Morale, si è detto, viene da mores, mores sono i costumi, sono ciò che si fa; in qualche modo la morale nasce dal comportamento diffuso, dal comportamento dominante, ma questa è la morale di una società statica nella quale la saggezza dei popoli ha dato vita alla ripetizione di certi comportamenti; è il criterio ancora nel presente valido per orientare i comportamenti: il problema nasce quando la saggezza dei popoli, il passato dei popoli non basta più, quando i mores, l'essere nei comportamenti non è tale da fondare un dover essere, una doverosità di questi comportamenti semplicemente perché si tratta di comportamenti che non tengono conto di problemi o di valori, o di scontri che prima non c'erano.

A questo punto il grande problema e la facilità illusoria della soluzione è una società nella quale sono in crisi i valori, ci vogliono nuovi valori, ma i nuovi valori morali non nascono a tavolino, se sono valori morali nascono dai mores e sono appunto quello che è venuto meno come strumento con cui forgiare i valori morali.

A questa ragione di crisi morale direi che se ne deve aggiungere un'altra; non come in questo caso l'anomia che è la nozione diffusa, la mancanza di criteri di comportamento, ma al contrario la polinomia, l'eccesso di criteri di giustizia con i quali si deve far i conti.

Quanto più l'individuo si affranca dal regno della necessità, chiamiamolo così, o meglio dal gruppo sociale, quanto più appartiene a più gruppi sociali, non c'è più solo la famiglia, c'è anche il gruppo di amici, l'associazione culturale, quella sportiva: tutti gruppi sociali i cui valori morali non sono necessariamente coincidenti fra loro, la cui gerarchia di valori è spesso in contrasto; l'appartenenza alla famiglia e alla polis possono comportare criteri di legittimità diversi. Addirittura criteri diversi può comportare l'appartenenza alla polis e semplicemente l'appartenenza al genere umano. Per cui può essere necessario per salvare la polis dire no a qualcuno che bussa alla nostra porta ed è al tempo stesso un comportamento, in quanto membri del genere umano, inqualificabile.

Ecco la polinomia, l'essere il singolo individuo contemporaneamente parte di sistemi di valori contrastanti e comunque diversi, ed è una ragione ulteriore di sbandamento. Cosa viene meno: l'illusione kantiana che quella legge morale, questa volta individuale, di cui abbiamo cercato di far vedere la contrapposizione nei confronti della morale sociale e c'è l'illusione che questa legge morale sia una sola, la ragione ci dice che cosa fare. Purtroppo non è così perché ogni individuo è sottoposto nella formulazione della sua propria legge morale dall'azione di

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tanti elementi contrastanti e la risposta che egli darà a questi elementi contrastanti non è necessariamente identica a quella che darà un altro individuo. Non è più la ragione astratta che dice fare.

E' troppo facile dire in astratto che cosa il soggetto morale deve fare: il difficile è dire che cosa in concreto, nel nostro tempo, nelle nostre condizioni deve fare il singolo individuo.

A questo punto il grande problema è come può nascere una nuova morale. Anzi dobbiamo chiederci, ma può nascere una nuova morale?

Qui mi sembra che l'atteggiamento più discutibile del nostro tempo sia l'errore che molti maitres à penser, che sono molto spesso dei maitres a ne pas penser, hanno diffuso l'errore che l'obsolescenza, parola cara a questi personaggi, il venir meno dell'efficacia di una morale, sia la superfluità della morale. Il fatto che la vecchia morale non è più efficace dimostra che si può fare a meno della morale, anzi il fatto che la vecchia morale si rivela niente altro che ipocrisia, copertura di interessi materiali e così via dimostra che la morale è sempre questo. In realtà nella migliore delle ipotesi questo rifiuto della morale sulla base di un rifiuto di una morale, mi pare che sia l'esigenza radicata di una vera morale, poiché il rifiuto di quella morale nasce dall'insoddisfazione del carattere non abbastanza morale di quella morale. Il fatto che ci siano fini egoistici, ed interessi privati la fa scadere come morale, ma questo conferma che si è alla ricerca di una morale. Quale è invece purtroppo la risposta spesso data, la morale come qualcosa di legato al mondo delle ipocrisie che limita l'individuo.

La nuova morale che dovrebbe nascere dalle macerie della vecchia sarebbe l'assoluta superiorità del singolo nei confronti della specie: ognuno deve fare quello che vuole per esprimere la sua individualità. Questo era il principio dell'abbazia di Telem, di cui parla Rabelaire nella sua opera Gargantua e Pantagruel. In questa abbazia c'era un solo principio:

ognuno deve fare quello che vuole.

Ora se noi ci pensiamo, questo principio è una norma che significa una cosa sola: nessuno deve impedire all'altro di fare quello che vuole. Questa pseudo antimorale che nascerebbe dalle macerie della vecchia morale contrapporrebbe l'assoluta libertà individuale al legame della vecchia morale; in realtà è essa stessa necessariamente una morale perché comporta un dovere morale: se vuoi fare quello che vuoi, devi consentire agli altri di fare quello che vogliono, il che significa che non puoi fare quello che vuoi.

Allora l'universalizzabilità è il carattere che consente alla morale di essere la morale, allora l'alternativa non è più tra la vecchia morale in generale ed una vita al di fuori dalla dimensione morale che si affranca dalla schiavitù di questi valori imposti e così via.

La vera alternativa sarebbe fra la vita in comune, nella quale il principio, ognuno deve fare quello che vuole, comporta il dovere di consentire agli altri di fare quello che vogliono e la vita assolutamente priva di rapporti con l'altro.

Nel momento in cui si sceglie la vita nella società, nel momento in cui si è consapevoli che vivere è convivere, esistere deve essere coesistere, un esistere come coesistere comporta un criterio di orientamento del comportamento che deve tener conto dell'altro.

Per cui fare quello che si vuole significa che si deve consentire all'altro di fare quello che vuole. Ecco che allora è illusorio ritenere che l'umanità sia matura per fare a meno della morale. Un'umanità che facesse a meno della morale non sarebbe certamente un'umanità.

L'etica sarebbe etologia, sarebbe studio dei comportamenti come quelli animali, ma non sarebbe lo studio del comportamento umano che, se Dio vuole, è il comportamento di chi si determina non secondo necessità o istinto, ma secondo criteri, valori da lui liberamente assunti come orientamento del suo comportamento.

Quali valori? E' possibile creare a tavolino i nuovi valori, questo è il grande problema del nostro tempo. Ma i mores non si creano a tavolino. C'era una sola possibilità di imporre i mores e cioè che l'autorità che li impone sia in qualche modo coercitiva. Solo che se la coercizione è quella giuridica abbiamo il diritto e non più la morale, con le conseguenze già dette. Se l'autorità è esclusivamente psicologica, c'è un solo modo per imporre la morale e

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cioè far discendere la morale da una fonte superiore, dalla religione. Non a caso le morali del passato sono state in gran parte, come le più efficaci di oggi, fondate su questo principio.

Sull'autorità religiosa che garantisce della bontà del comportamento richiesto come doveroso.

Nel momento in cui anche questa fonte di autorità sembra avere difficoltà a imporsi come tale, nel momento in cui il singolo pretende di essere lui a decidere il criterio del giusto e dell'ingiusto c'è un'unica via perché la morale si affermi ed è convincere il singolo. Ma convincere il singolo non basta ancora se il singolo non traduce questa convinzione ideale in comportamento, perché solo il comportamento, i mores possono dar vita alla morale.

Potremmo paradossalmente dire, da questo punto di vista, che nessuna commissione possa codificare i principi morali e potrebbe aver successo se non fosse in qualche modo fondata sulla democrazia.

Sembra che si stia mettendo insieme elementi diversi, politici ed etici, non è così. In realtà se noi ci pensiamo una morale che non sia di derivazione religiosa ha una sola possibilità di affermarsi, quella di tradursi in comportamenti, per tradursi in comportamenti diffusi deve essere interiorizzata da coloro che si comportano da membri della società.

Solo se tutti o comunque la maggioranza dei membri della società si comportano in modo tale da creare dei mores che siano a loro volta la base della morale solo allora nasce la nuova morale quindi in qualche modo si potrà anche cercare di individuare dei criteri astratti di comportamento, non li si può imporre perché se li si impone in termini giuridici non sono valori morali.

Se li si impone per vie diverse da quelle della coercizione bisognerebbe utilizzare un'autorità che non si ha e, pertanto, si possono semplicemente proporre.

Tutto ciò che si può fare a tavolino è cercare di specificare i principi astratti, cioè individuare se ci sono quei principi che informano il comportamento dominante in una società o comunque quello accolto come doveroso come giusto nella società e da questi ricavare il comportamento accolto come giusto nel singolo caso, ma con questa remora che anche una specificazione di questo genere non potrebbe tradursi in una sorta di codice vincolante se non al prezzo di trasformarsi in diritto. E ha bisogno per essere fonte di una morale del convincimento, della spontanea adesione di coloro che dovrebbero uniformare il loro comportamento a questi principi. In sostanza la morale dipende dalla responsabilità di ognuno e non è una questione di principi proclamati: è una questione di principi attuati.

Come possiamo fare una analogia della varietà di sistemi morali con i quali dobbiamo fare i conti con la varietà di sistemi giuridici, in fondo le teorie istituzionistiche da tempo hanno individuato la compresenza, la pluralità di ordinamenti giuridici che possono stare in rapporto di indifferenza di contrasto di superiorità ed inferiorità così anche la pluralità di gruppi sociali con conseguente pluralità di sistemi morali comporta la possibilità di rapporti di indifferenza di contrasto e così via.

Ebbene come tutto questo consenta un parallelo con il mondo del diritto e qui dobbiamo smetterla di pensare, o siccome abbiamo spesso da pensare che la costituzione formale per esempio, sia quella che conta, piuttosto che la costituzione materiale, abbiamo capito in Italia, prima degli altri, che dobbiamo guardare alla costituzione materiale, al diritto costituzionale e non a quello formale; così dobbiamo finirla di scambiare la morale di un popolo per la morale proclamata, professata a parole. La morale è quella attuata, quello che dobbiamo sforzarci di fare è che l'attuazione di questa morale cerchi in qualche modo di andare verso il meglio; ma il giudice del meglio in ultima istanza è l'insieme dei singoli con il loro comportamento.

Ecco che dall'essere nasce il dovere essere, dalla doverosità della morale nasce il passaggio ai mores. Il vero grande problema è che noi cerchiamo, e forse non riusciamo a fare il contrario, a far nascere il comportamento effettivo “l'essere dal dover essere.”

Questo è molto più difficile ed eccede le forze di ognuno di noi, ma certo bisognerebbe finirla di immaginare che un popolo abbia come morale quella professata a parole: è questo il

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nodo con il quale forse si devono fare i conti. E l'altro nodo è quello che se la morale è quella del comportamento quotidiano dei singoli, il comportamento diffuso normale diventa il metro della moralità e della doverosità. Se questo è vero dobbiamo allora in qualche modo rassegnarci ad aspettarci che sia ognuno di noi che in qualche modo si assuma questo compito di fare, e non di dire, quello che ritiene morale e sulla base di quello che fa di assistere se possibile alla nascita di questa nuova morale e di questo dover essere.

Certo la via è abbastanza difficile da trovare, ma è una questione che in qualche modo pare impegna la responsabilità di ognuno di noi. E siamo arrivati finalmente ad un altro concetto:

c'è un'altra autocritica che molti dovrebbero fare, la cosa più facile è criticare gli altri, pochi fanno vere autocritiche, e quello che veramente dovremo fare è l'errore di prospettiva nel quale siamo incorsi in molti ed ha comportato una sostanziale deresponsabilizzazione degli individui. E' singolare che proprio le forze che miravano alla liberazione dell'uomo, al recupero della dignità umana, siano state anche contemporaneamente le forze che invece di rivendicare a quest'uomo liberato la sua responsabilità come uomo, la sua dignità di uomo, il che significa la sua capacità di scelta, hanno progressivamente diffuso una sorta di indulgenza plenaria, perché ognuno con le sue cognizioni ed i suoi condizionamenti non poteva far altro che quello che ha fatto.

E c'è una logica, anche se resta il fatto che il progresso dell'umanità, ammesso che ci sia, deve essere essenzialmente liberazione dell’individuo, potenziamento dell’attività umana, deve anche significare potenziamento della legge del dovere perché la morale, il diritto, hanno questo di comune che non sono pensabili se non c'è la libertà di scelta, se non c'è la possibilità di un comportamento alternativo, non c'è spazio né per l'imputabilità morale né per quella giuridica.

Se noi lottiamo perché aumenti la possibilità di scelta, perché ognuno di noi sia individuo, non sia vincolato alla sua terra, al suo gruppo di appartenenza, e con il fatto stesso di far parte di più gruppi si diventa più liberi dai condizionamenti, se tutto questo è vero chi si batte per la dignità dell'uomo si deve battere anche per la responsabilità dell'uomo, perché affronti le conseguenze di quello che ha fatto.

Bisogna che ognuno di noi sia disposto ad assumere le conseguenze di quello che ha fatto.

Se non si realizza questa condizione minima perché le leggi della morale si verifichino è inutile parlare di legge, di dovere, di diritto e di morale.

E assumersi le conseguenze del proprio comportamento nel vivere quotidiano. Nessuno di noi sarà forse mai esposto alla tentazione di violentare i bambini, ma non è morale il fatto che non violentiamo i bambini, perché non è la tentazione alla quale quotidianamente siamo esposti. La tentazione è non fare bene quello che facciamo quotidianamente: essere padre, o figlio, o fare il proprio mestiere. Bisognerebbe che ognuno che cosa si deve fare ma è il singolo che deve scegliere di volta in volta che cosa lui deve di noi non cercasse indulgenze per i suoi errori in quello che fa, ma accettasse le conseguenze degli errori che ha fatto e solo allora potrà avere il diritto di criticare gli altri per gli errori che hanno fatto.

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