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La pescatrice in Alaska sul battello ebbro fa invidia a Hemingway,

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Academic year: 2021

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Catherine Poulain, Il grande marinaio, Neri Pozza, p. 404, euro 18.

Il volto è di cuoio, tagliato dai segni del tempo. Nel suo caso, un tempo meteorologico, più che cronologico. Gli anni sono cinquantasei, all’anagrafe. Ma a vederla in fotografia, Catherine Poulain appare oltre qualunque età: le sue scelte di vita – estreme – l’hanno sottratta a logica, estetica e morale. Ed era quello che voleva, quando decise di partire.

Dopo esperienze di comune sbandamento, un giorno decise infatti di lasciare tutto. Ma con un’idea precisa in testa: Catherine Poulain voleva diventare pescatrice in Alaska. Sognava la lotta contro il mare, il tu per tu inesorabile con le forze scatenate della natura, la sfida senza senso. Una specie di roulette russa giocata con l’esistenza.

Si è poi fermata in tempo per sopravvivere, e trasformare in libro i suoi dieci anni trascorsi a bordo di battelli ebbri tanto e più di quello di Rimbaud. Il grande marinaio, ora tradotto per Neri Pozza, con forza ed efficacia, da Margherita Botto – il romanzo scaturito da quell’esperienza – è diventato un caso letterario in Francia, dove riceve premi su premi e continua a venire ristampato.

Se piace così tanto, deve essere per via del titanismo del personaggio. Catherine Poulain, Lili nella trasposizione narrativa, è una specie di super eroina che se la cava sempre, sfiora la morte ma all’ultimo la vince, sprofonda nel putrido più laido per poi riemergere in superficie ricca di una conoscenza che solo quelli come lei possono acquisire e che il lettore, grazie al racconto, può almeno in parte condividere.

I lanci pubblicitari ne parlano come di una Hemingway donna, e promettono appagamento a tutti coloro che hanno amato Il vecchio e il mare. E non c’è dubbio, la si può vedere così. Ma anche in altro modo. Le molteplici avventure che l’intrepida Lili infila, perla dopo perla, nel collier del suo romanzo, sono altrettanto apologhi che fanno di lei un’interprete alternativa del post-femminismo di fine millennio.

Nel ’68 Catherine Poulain era piccola. Le rivendicazioni delle sue sorelle maggiori, madri, zie, o anche nonne, sono faccenda superata per lei. Non ha certo dovuto lottare per emanciparsi sessualmente, gonnelloni e zeppe, canne e pasticche per lei fanno parte di un folklore d’antan. La beat generation le appare come roba che si studia nei manuali di letteratura.

Lei fa parte del mondo che è venuto dopo, forse prodotto da quello là, ma certo poco affine quanto alla ricerca, quanto alle mete. C’è una pagina in cui Lili dice che il suo sogno è sempre stato quello di arrivare al bordo estremo, non si sa neanche bene di cosa, per sedercisi sopra e lasciar penzolare le gambe. In fondo allo sconosciuto per trovare del nuovo. Baudelaire il suo personale sogno di viaggio lo aveva riassunto così. Catherine Poulain, al suo attivo anche lei più ricordi che se avesse mille anni, ha voluto fare di quello stesso viaggio, che un tempo era immaginario e poetico, frutto di paradisi artificiali e di mentali evasioni – un’ esperienza concreta. Ed eccola partita, via da Manosque, lontana da famiglia e amici, fisso in mente lo scopo di imbarcarsi. Merluzzi e halibut in Alaska.

Il linguaggio ha dovuto prenderlo a prestito, appropriarsi – per poi modellarlo a suo uso – di quello imparato sui pescherecci, dai compagni d’avventura, maestri per lei di vita, pratici esecutori di un mestiere d’alto mare, tutto tempeste e palamiti, ami ed aculei.

La prova inziale, quella attraverso cui Lili ha dovuto passare per ottenere il permesso di soggiorno a bordo, ben più arduo da guadagnarsi rispetto a quello che rilasciano gli uffici dell’immigrazione, è stata in effetti la linea rossa: quella che va verso il cuore, portando il veleno della puntura mortale. Nel pulire un pesce killer, Lili venne ferita dall’aculeo alla base del pollice. I segni li porta tuttora, ma ce la fece. Fu la sua iniziazione.

Ora, da tredici anni, è tornata nel sud della Francia dove alleva pecore. Arrestata come lavoratrice illegale, proprio quando era al culmine della sua vita di pesca, dovette infatti rimettere i piedi a terra. Ma quello che è stata, grazie alla scrittura continua a esserlo anche adesso che non naviga più. Gabriella Bosco

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