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Giovani adulti in carcere

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Academic year: 2021

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Giovani adulti in carcere

Studente/essa

- Carmen Renata Minoletti

Corso di laurea Opzione

- Lavoro Sociale

- Assistente sociale

Progetto

- Tesi di Bachelor

Luogo e data di consegna

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Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura della tesi con suggerimenti, critiche ed osservazioni.

Le responsabili di stage che sono state sempre disponibili a dirimere i miei dubbi.

Un ringraziamento particolare va ai miei compagni di corso ed agli amici che mi hanno incoraggiato o che hanno speso parte del proprio tempo per leggere e discutere con me le bozze del lavoro.

Vorrei infine ringraziare le persone a me più care: la mia famiglia e il mio fidanzato Vincenzo, per il sostegno ed il grande aiuto che mi hanno dato e a cui questo lavoro è dedicato.

« Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese

li condannerai a cinquemila anni più le spese.

Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo

se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo»

(Fabrizio De André – La città vecchia)

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Indice

 

Indice ... 3

1. Introduzione ... 4

2. L’ufficio dell’assistenza riabilitativa ... 5

3. La problematica ... 6

3.1 La metodologia ... 7

4. I percorsi dei giovani carcerati ... 8

4.1 Introduzione ... 8 4.2 Percorso di N.Y ... 9 4.3 Percorso di C.A ... 12 4.4 Percorso di S.E ... 15 4.5 Percorso di C.V ... 18 4.6 Percorso di M.E ... 20 5. Conclusioni ... 24 6. Riflessioni personali ... 31 Bibliografia ... 33

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1. Introduzione

Durante la mia pratica professionale, presso l’Ufficio dell’Assistenza riabilitativa (UAR), ho avuto modo di incontrare alcuni giovani detenuti al Farera e a La Stampa. Ho potuto seguire giovani, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, in qualità di assistente sociale l’esperienza è stata per me arricchente sia a livello professionale che personale. Nello stesso tempo, però ha suscitato in me alcune perplessità, riflessioni, incomprensioni, a volte stati d’animo contrastanti che oscillano tra la comprensione dei loro vissuti di sofferenza e la rabbia per l’impotenza del mio ruolo quale futura operatrice.

Mi sono soffermata soprattutto sugli aspetti che riguardano la dimensione del cambiamento e dell’identità dei giovani adulti in carcere; ma anche su situazioni di vita quotidiana all’interno delle strutture carcerarie. Ho avuto così modo di riconsiderare e analizzare l’intervento degli operatori sociali all’interno di un carcere.

Spesso mi è capitato di affrontare con l’utenza il discorso del tempo, della libertà, dell’età, degli obiettivi futuri, degli errori fatti, a volte della violenza da loro inflitta, delle loro famiglie e il loro rapporto con il carcere.

Grazie a questi colloqui ho potuto costatare un cambiamento nella loro attitudine: all’entrata nel carcere giudiziario, sono talvolta timorosi, inibiti, spaventati, perché confrontati con la durezza dell’istituzione carceraria e il prossimo trasferimento, nel carcere penale. Dopo qualche mese, però questi giovani si trasformano in “duri”, adottando progressivamente i modi di fare dei carcerati adulti.

Mi sono chiesta diverse volte se questa evoluzione fosse compatibile con il mandato dell’istituzione carceraria e nello specifico con il compito assegnato all’assistente sociale. Credo fermamente che quest’ultimo sia in dovere di ampliare le competenze dell’individuo a diversi livelli al fine di agevolarne l’integrazione nella società, una volta scontata la pena. Lo scopo del lavoro è quindi capire in che misura il carcere paradossalmente rafforzi i giovani in un’identità deviante (invece di contribuire ad una loro risocializzazione, affinché possano ripartire nuovamente).

La struttura del lavoro è la seguente: nei primi capitoli sono presentati il contesto in cui ho svolto la pratica professionale, il quadro teorico che integra le tematiche specifiche del carcere, il ruolo dell’assistente sociale al suo interno, e la metodologia. Ampio spazio è poi dedicato ai racconti degli utenti che contribuiscono, assieme a altri dati e osservazioni raccolti, a ritracciare il loro percorso all’interno del sistema carcerario. Risultati e conclusioni sono oggetto degli ultimi due capitoli, cui si aggiunge una riflessione personale sull’intera esperienza.

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2. L’ufficio dell’assistenza riabilitativa

 

Da gennaio a giugno 2015 ho svolto lo stage formativo, nel ruolo di assistente sociale, presso l’Ufficio dell’Assistenza Riabilitativa (UAR) di Lugano. Questa esperienza è stata per me di forte stimolo e interesse sia per quanto riguarda il lavoro professionale sia per la possibilità di venire a contatto diretto con gli organi del settore: gli operatori penitenziari, il Ministero Pubblico e gli stessi detenuti dentro e fuori il carcere. Il mandato degli assistenti sociali presso l’UAR è di preservare gli assistiti dalla recidiva, promuovendone l’integrazione sociale, prestando e procurando l’aiuto sociale specializzato necessario a tal fine. Essi sono tenuti al segreto professionale1.

Gli assistenti sociali dell’UAR operano prevalentemente nel carcere penale La Stampa ma entrano in contatto con i loro assistiti sin dalla loro ammissione presso il carcere giudiziario La Farera. Quest’ultimo ospita persone in attesa di giudizio, durante la fase istruttoria. Al Farera, i detenuti si trovano in condizione di condividere la cella con altre persone per ventitré ore al giorno con un’ora d’aria.

Invece alla Stampa i detenuti hanno la loro cella in cui però sono rinchiusi solamente in momenti precisi ossia dopo che si torna dal lavoro e quando si va a letto. Nel carcere penale i detenuti sono più liberi di muoversi, di parlare e creare alleanze con chi vogliono. Per tracciare un quadro più specifico della categoria dei giovani nella popolazione carceraria ticinese ho analizzato le ammissioni degli ultimi 4 anni.

Tabella 1 Giovani tra i 18 e i 25 anni ammessi nelle strutture carcerarie ticinesi

Fonte: UAR, dati sintetizzati dall’autrice

Come si può evincere dalla tabella, la maggior parte di loro sono stranieri. Tra questi molti sono senza permesso di soggiorno o di entrata. I reati commessi si possono dividere in                                                                                                                

1  Art.93, Codice Penale Svizzero  

Ammissioni Detenuti ammessi

> 26 anni di età Svizzeri Stranieri

anno n n n 2010 1263 386 [30%] 79 [20%] 307 [80%] 2011 1478 428 [29%] 91 [21%] 337 [79%] 2012 1985 607 [31%] 70 [12%] 537 [88%] 2013 1555 466 [30%] 35 [7.5%] 431 [92.5%] 2014 1492 316 [21%] 51 [16%] 265 [84%]

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quattro grandi gruppi: 1. infrazione alla Legge Federale sugli stupefacenti2, 2. furti, 3. lesioni fisiche ad altre persone e 4. infrazione alla Legge Federale sugli stranieri3 .

Essi sono inseriti con persone di età molto superiore alla loro, con diverse condanne alle spalle e reati più gravi. Questa convivenza non è sempre semplice e di conseguenza adottano un’identità che gli “aiuta” in quello che è il loro percorso interno.

Il lavoro svolto con loro è lo stesso con tutta l’altra fetta di popolazione carceraria, non sono agevolati per l’età, anche perché per legge sono maggiorenni e questo li rende uguali a tutti gli altri.

Il lavoro degli assistenti sociali dell’UAR con detenuti stranieri non è sempre facile poiché, in preparazione alla loro liberazione, occorre elaborare un progetto di risocializzazione all’estero in quanto terminata la pena, devono essere espulsi.

Alcuni di loro non sono alla prima condanna, diversi sono già stati in carcere in altri paesi. Per questo lavoro di tesi ho potuto contare sulla collaborazione di cinque di loro.

3. La problematica

Il mio lavoro di tesi si focalizza su questa specifica fetta di popolazione carceraria, ossia i giovani adulti. A suscitare il mio interesse, è stata una frustrazione legata al lavoro dell’assistente sociale con questi giovani. Infatti, come già menzionato, una volta scontata la pena, essi dovranno essere espulsi dal territorio svizzero. E’ molto probabile che questi giovani ritrovino le medesime situazioni e dinamiche che li hanno visti delinquere. Essi sono però reduci da un’esperienza di reclusione carceraria che li ha senz’altro trasformati. Risulta perciò particolarmente difficile adempiere al mandato di risocializzazione e di prevenzione delle recidive.

Questo lavoro di tesi offre l’occasione di interrogarsi sulle conseguenze dell’incarcerazione di questi giovani. La domanda su cui verte la tesi è: in che modo l’esperienza carceraria trasforma l’identità di questi giovani? In che modo è possibile attestare di questa progressiva trasformazione?

Il dubbio sorto sin dalle prime osservazioni è che l’esperienza in carcere tenda a trasformare progressivamente questi ragazzi da “giovani delinquenti” a “criminali”. Durante il periodo trascorso in carcere essi finiscono per accettare questa nuova etichetta e aderire ad un’identità deviante. L’esito più evidente di questa carriera deviante è la recidiva.

                                                                                                               

2  Confederazione Svizzera, admin, https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19981989/, recuperato

il 15 giugno 2015.

3  Confederazione Svizzera, admin, https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/20020232/, recuperato

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Il lavoro interroga quindi una fase precedente alla scarcerazione che però potrebbe incidere sugli esiti dell’intero progetto di risocializzazione dell’ UAR.

Vorrei quindi approfondire questo tema anche perché i progetti sul nostro territorio rivolti a questa specifica popolazione sono ancora agli albori. Gli interrogativi sollevati da questo lavoro di tesi sono: quali risposte potrebbero essere efficaci per questa popolazione? Anche se questi giovani stranieri non rimangono sul territorio, ci possiamo permettere di non trovare soluzioni intermedie?

In questo lavoro infine farò delle riflessioni sulla funzione del carcere (risocializzazione, funzione rieducativa) e sul suo mandato chiedendomi quali sono gli ostacoli che sorgono nel perseguire questi obiettivi per i giovani carcerati stranieri.

3.1 La metodologia  

Per rispondere a questi interrogativi ho scelto di ricostruire il percorso all’interno dell’istituzione carceraria di 5 giovani detenuti. Dopo aver identificato alcuni potenziali candidati tra i miei assistiti ho chiesto il loro assenso a prender parte al mio lavoro di tesi. Ho spiegato il contenuto del lavoro di tesi e chiesto se avessero accettato che usassi i loro racconti, in forma anonima e senza divulgarli.

Con questi ragazzi ho quindi svolto delle attività che mi permettessero di raccogliere le loro storie e vissuti sia precedenti al carcere sia al suo interno ma anche la loro visione del futuro. Ho scelto di utilizzare come strumento di rilevazione delle informazioni la narrazione poiché “molti sostenitori della ricerca narrativa sono convinti che gli approcci convenzionali all’intervista (quella strutturata e quella semi-strutturata) solitamente restringono le risposte dei partecipanti e riducono quindi la possibilità dell’intervistato di esprimere la sua reale esperienza o le sue vere opinioni; inoltre l’intervistatore può far fatica a centrare e approfondire adeguatamente la domanda di ricerca4.” Tale strumento

ha consentito di lasciare ampio spazio all’intervistato per l’espressione individuale. I giovani detenuti mi hanno fornito diverso materiale su cui basarmi.

Per completare questi racconti ho anche tenuto un diario di bordo: vi ho annotato i vari incontri, le tematiche affrontate e il loro atteggiamento nei miei confronti. Svolgendo un tipo di ricerca qualitativa ho potuto così esplorare quelli che sono gli atteggiamenti individuali e di gruppo, poiché questo tipo di ricerca esplora a fondo gli atteggiamenti e/o i comportamenti e/o le esperienze dei partecipanti. Si è quindi trattato di ricostruire il percorso raccolto attraverso le loro narrazioni oltre che ai diari di bordi tenuti durante l’accompagnamento di questi giovani in qualità di assistente sociale stagista.

                                                                                                               

4 Carey, M. (2013). La mia tesi in servizio sociale. Come preparare un elaborato finale basato su piccole ricerche qualitative. Trento: Erickson. Capitolo 8.  

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4. I percorsi dei giovani carcerati

4.1 Introduzione

Nella dissertazione esporrò in maniera separata i percorsi dei giovani detenuti così da far emergere per ogni singola persona il suo specifico vissuto.

Oltre ai racconti dei giovani detenuti, ho potuto avvalermi delle mie osservazioni annotate nel diario di bordo tenuto lungo l’intero stage. Vi ho annotato i contenuti dei nostri colloqui ma anche elementi di comunicazione non verbale : atteggiamenti, espressioni, gesti. Come afferma Birdwhistell i segnali del corpo non hanno significato in se stessi, ma assumono dei significati entro dei contesti determinati,5 .

Tutti questi elementi concorrono a tracciare una sorta di “film”. L’osservazione assume la forma di una descrizione narrativa di ciò che accade sotto i nostri occhi. Un insieme di descrizioni comportamentali, legate da relazioni specifiche, che sono state utilizzate per rilevare i comportamenti che interessavano per questo lavoro.6

Un tassello molto importante per questo lavoro è la narrazione ossia la mia richiesta di raccontare liberamente il loro punto di vista, l’azione come si è svolta senza condizionamenti o censure. I ragazzi che ho incontrato hanno ricostruito una loro storia di ciò che hanno vissuto, indipendentemente da ciò che il sistema giudiziario abbia accertato essere “vero”. La narrazione, intesa come racconto di storie, è fondamentale sia per dare un’organizzazione al proprio mondo interiore che per attribuire significati all’esperienza umana7. In queste occasioni la narrazione ha permesso loro di iniziare un’elaborazione dei

loro vissuti. Evidentemente, l’obiettivo non riguarderà l’accertamento di una verità processuale, ma sarà piuttosto orientato a rilevare le costruzioni soggettive, le attribuzioni di senso, l’unicità della prospettiva degli attori che hanno attuato azioni giuridicamente e socialmente ritenute “devianti”. Infine rileverò i comportamenti che sappiamo essere molto influenzati dal gruppo di pari. Quest’ultimo influisce sull’atteggiamento che una persona adotta all’interno del carcere, poiché ogni sotto-gruppo ha le sue dinamiche interne, le interazioni e le sue regole, la struttura dei ruoli e la leadership. L’isolamento e l’autosegregazione di tali gruppi, inoltre, contribuisce ad intensificare ulteriormente lo status deviante dei membri che ne fanno parte. Le persone in interazione evidenziano soprattutto l’unitarietà dei gruppi come attori sociali che condividono uno scopo ma talora anche dei valori, che alimentano un comune modello di azione, sviluppando competenze da usare nello svolgimento dei compiti, si conformano alle norme che definiscono i ruoli

                                                                                                               

5  Serra, C. (2002). Il posto dove parlano gli occhi, come comunicare le emozioni anche nel carcere. Milano:

Giuffrè Editore. Pag.21  

6  D’Odorico, L., e R. Cassibba. ( 2001). Osservare per educare. Roma: Carocci Editore.   7  Pontecorvo, C. (1991). Narrazioni e pensiero discorviso nell’infanzia. In M Ammaniti DN Stern. Rappresentazioni e narrazioni. Roma – Bari: Laterza. Pag.20  

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stabiliti nel gruppo e sviluppano coesione, hanno uno scopo comune e la capacità di organizzarsi per raggiungerlo, guidati da una leadership che si sviluppa al loro interno8.   La teoria cui faccio riferimento nell’analisi delle traformazioni identitarie dei 5 giovani è quella dell’etichettamento sviluppata da Goffman. Ciascun percorso è ricostruito nelle varie fasi di quella che è andata sviluppandosi come carriera deviante. Siccome un ruolo particolare giocano in questo processo di acquisizione di identità deviante le istituzioni totali e il loro potere inglobante che conduce i soggetti alla perdita dell'identità peculiare di cui sono portatori che viene sostituita dall'identità istituzionale9.

4.2 Percorso di N.Y

N.Y è un ragazzo di vent’anni, di nazionalità tunisina ed è in carcere per furto. Il ragazzo è un richiedente l’asilo che era scappato da un centro in cui era stato portato e viveva in giro per la città senza soldi, cibo, acqua e un posto dove dormire. Dice che non gli piaceva il centro e per questi motivi è scappato. Ha vissuto per settimane in strada, dormiva dove gli capitava, su una panchina, nei prati, sotto i portici dei palazzi e, per mangiare quando aveva fame, rubava. Rubava dove e tutto quello che gli capitava, poi è stato fermato dalla polizia e inserito nel carcere la Farera.

Nel diario di bordo tenuto in data mercoledì 11 marzo 2015, lo descrivevo come un ragazzo che trasmetteva una certa ansia. Ho notato che aveva una gamba sola. Alla mia domanda di che cosa fosse successo, mi ha detto che l’aveva persa correndo in moto, ma sapevo che non era vero, nascondeva molto di più.

In un primo momento il ragazzo non capiva chi fossi e quale fosse il mio ruolo, non capiva la parola “assistente sociale” e mi aveva scambiata per un avvocato. Per questi motivi all’inizio è stato difficile entrare in relazione con lui, poiché la comunicazione non era affatto facile. Parlava solo arabo, capiva qualcosa di italiano, ma non era in grado di esprimersi. Abbiamo potuto comunicare alcune volte in inglese e altre in francese.

All’inizio, visto il suo atteggiamento schivo nei miei confronti, era distaccato, sbuffava ogni volta che gli chiedevo qualcosa e non aveva voglia di parlare con me. Era molto agitato e l’unica cosa che voleva era di ritornare nella sua cella. Questo suo modo di comportarsi l’ho associato al fatto che non avesse capito il mio ruolo, poiché dopo avergli spiegato chi fossi, che non ero lì a interrogarlo, ma il mio scopo era conoscerlo per poter cercare di aiutarlo, ha cambiato atteggiamento. Si è aperto un po’ di più, parlava e ascoltava.

                                                                                                               

8  Vergati, S. (2008). Gruppi e reti sociali. Roma: Bonano editore. Pag. 62.     9  Zanellato, L. (2010). La devianza.  

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Nei colloqui successivi N.Y ha parlato molto dei suoi vissuti al centro richiedenti l’asilo, descrivendolo come luogo in cui non si trovava affatto bene. Non gli piacevano le persone come si comportavano con lui e come veniva trattato. Diceva che non avevano rispetto per la sua situazione e il cibo non gli piaceva, per questi motivi è andato via da lì, perché non aveva altra scelta.

In seguito abbiamo potuto parlare della sua situazione famigliare e di che cosa l’ha spinto a viaggiare oltre confine. Ha espresso un certo disprezzo verso la sua nazione e per la persona che era diventata. Quando mi sono permessa di dirgli che trovavo interessante la sua religione e il suo grande passato, ha alzato il sopracciglio e mi ha detto: io non sono niente, e Allah per me è niente, guarda, guarda dove mi ha portato la religione. Questa risposta ha fatto emergere in me alcune domande. Come mai un ragazzo così giovane poteva parlare in questa maniera della sua nazione? E della sua religione? La risposta è stata tempestiva: era intimorito e allo stesso tempo arrabbiato per la sua situazione. La rabbia gli faceva da compagna in questo percorso. Non poteva comunicare con i genitori, non sapeva il numero o doveva si trovavano in questo momento. Lui parlava della Tunisia come un paese in cui non c’era né speranza né futuro.

Superato il primo periodo N.Y. chiedeva spesso di poter parlare con me come assistente sociale. Purtroppo non sempre potevo andare da lui e quella volta che riuscivo ad incontrarlo il momento del colloquio diventava per lui uno sfogo. Poteva raccontare di tutto sostenendo discorsi molto scollegati tra di loro, che risultavano di difficile comprensione. La disperazione gli faceva da alleata. In data 9 aprile 2015 mi scrive che non riesce più a resistere al regime carcerario di 23 ore al giorno chiuso in una cella, per lui era diventato uno strazio, mi scrive: ho perso la speranza di vivere. Ho trovato questo scritto pieno di disperazione e paura. Non capiva quello che stava accadendo, non sapeva che cosa avrebbe potuto succedere: questo gli creava molta angoscia. Stavamo infatti preparando il suo trasferimento in Tunisia poiché non era in possesso di documenti che gli permettessero di rimanere sul territorio elvetico. Tutto questo non lo trovava concepibile, non voleva tornare in Tunisia. In seguito a questi fatti ci siamo presi del tempo per parlarne. Mi spiegò che per arrivare in Svizzera aveva fatto un viaggio lungo e faticoso e che non sarebbe mai ritornato in Tunisia, ma anche se fossero riusciti a rimandarlo a casa avrebbe comunque trovato un modo per andare via di nuovo. Nel diario di bordo tenuto quello stesso giorno avevo annotato quanto il ragazzo fosse spaventato, sofferente, e non disperato riguardo alla sua vita futura. Quando era arrabbiato o intimorito incominciava ad alzare il tono della voce. In un incontro mi permisi di dirgli quanto la Tunisia fosse una nazione che trovavo interessante. Lui preso dalla rabbia mi disse con toni accesi : tu non puoi capire, a te non volano bombe sopra la testa, tu sei fortunata, sei svizzera e vuoi farmi credere che la Tunisia è bella, ma non è così.

In seguito, dopo circa un mese e mezzo, N.Y fu inserito a La Stampa, poiché aspettavamo un suo trasferimento in Tunisia ma c’erano ancora diversi giorni da scontare. Rileggendo tutti i miei diari di bordo e alcuni suoi scritti in mio possesso, appare un progressivo

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cambiamento nel suo approcciarsi alla vita, dopo il passaggio dal carcere giudiziario a quello penale. Tutta la sua angoscia iniziale, la paura, lo smarrimento, lo sconforto, non sono svaniti ma sicuramente diminuiti. La frequenza dei suoi scritti è andata diminuendo rispetto a quando stava al Farera. Allora mi scriveva spesso anche solo per sfogarsi. Mi scrisse ancora in corrispondenza del passaggio al carcere penale, per dirmi che gli era tornata la voglia di vivere, sentiva che quello non era il suo posto, si sentiva pentito di quello che aveva fatto e i comportamenti che aveva avuto, prometteva di non ripeterli più. Era contento di trovarsi a La Stampa perché poteva disporre di un po’ di soldi da spedire alla sua famiglia. Trascorse due settimane lo chiamai a colloquio perché volevo vedere come stava procedendo il suo inserimento e se stava bene, visto il suo stato d’animo al Farera. Quando giunse mi ha salutò e si sedette. Fu allora che mi rivolse uno sguardo interrogativo come se non capisse perché era lì. Infatti pochi istanti dopo mi chiese se avevo bisogno di qualcosa, se era successo qualcosa e per quale motivo era stato convocato. Nel diario di bordo datato 5 maggio scrivo: oggi ho convocato N.Y perché volevo sapere come stava e se le cose andavano bene, se aveva trovato delle difficoltà. Invece mi sono ritrovata un ragazzo che non capiva perché l’avevo chiamato e soprattutto era infastidito della mia chiamata. Questo atteggiamento mi ha lasciato senza parole, perché non aveva più bisogno di me, o di parlare con qualcuno, se voleva mi poteva scrivere, mi disse, ma non era necessario vedersi ogni volta.

Il ragazzo smarrito che avevo incontrato un mese prima non era più presente, aveva lasciato spazio ad un ragazzo più sicuro e anche indifferente. Quando era al Farera il suo modo di arrabbiarsi dimostrava che mi ascoltava e provava delle emozioni, anche se di rabbia. Nel frattempo era diventato molto apatico.

Nei colloqui successivi il ragazzo mantenne con me un rapporto molto più distaccato, e le sue preoccupazioni durante il colloquio erano più di tipo amministrativo che altro, poiché il suo unico pensiero era il ritorno in Tunisia. I suoi messaggi non verbali durante i nostri incontri mi facevano capire che era annoiato, non voleva essere lì, era scocciato. Il suo alzare gli occhi al cielo quando cercavo di spiegargli le motivazioni del suo futuro trasferimento, lo sbuffare appena chiedevo qualcosa, evitare di incrociare il mio sguardo quando gli parlavo erano atteggiamenti che mi facevano capire che era stufo della situazione(e non solo di me). La sua partenza si avvicinava e passava la maggior parte del tempo a pensare a quello. Non c’era altro, solo la sua liberazione. Nonostante questo comportamento da “duro” per farmi capire che di me non aveva più bisogno, almeno per quanto riguarda il suo stato emotivo continuava a scrivermi. Tramite lettera mi teneva aggiornata, mi diceva che c’era una persona all’interno del carcere, senza dire chi fosse, con cui aveva parlato e che si era trovata nella sua stessa situazione, ma non era dovuta tornare nel suo paese. Si erano create delle alleanze con altri detenuti all’interno del carcere. N.Y veniva molto rinforzato dalla presenza di questi alleati di cui condivideva idee e opinioni che a sua volta riportava a me facendomi capire che poteva cavarsela da solo.

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4.3 Percorso di C.A

C.A è un ragazzo di vent’anni di nazionalità albanese, nato e cresciuto in Albania. Vi ha frequentato tutte le scuole dell’obbligo. Poi tenta di proseguire la formazione in una scuola professionale nel suo paese, ma l’abbandona senza finirla. Comincia a lavorare in un bar nella sua città, perché non voleva più continuare a studiare e non era motivato a farlo. Orfano di padre, vive da solo con la madre e il fratello. La proposta azzardata di uno sconosciuto di trasportare della droga dall’Albania in Italia e dall’Italia in Svizzera lo alletta, ma finisce male. C.A viene arrestato pressoché subito.

Inizialmente il ragazzo non era seguito da me, aveva un’altra assistente sociale. Entrare in relazione con lui è stato diverso da altre situazioni, perché era già in carcere da qualche settimana. Quando gli parlai del mio lavoro di tesi si disse subito disponibile a raccontarsi: parlava al passato, raccontava della sua esperienza e di come l’aveva vissuta. Non era appena accaduto, non era una situazione “fresca” ma le sue parole, nel suo modo di parlare, c’era ancora molto rancore, molta delusione e confusione, un mix di emozioni. Per prima cosa gli chiesi quindi di presentarsi anche perché non lo conoscevo.

C.A mi raccontò che viveva a Durazzo, in Albania, con la sua famiglia. Andava a scuola, ma non era uno dei migliori, non si applicava molto, preferiva andare al parchetto a giocare a calcio con gli amici.

La sua famiglia possedeva un lotto sulla spiaggia, dove affittavano sdraio e ombrelloni. A seguito di un insuccesso nella scuola professionale C.A. comincia a lavorare presso i suoi genitori, ma non è molto soddisfatto così si impegna a trovare un altro lavoro. Dopo alcune trova un impiego come cameriere in un bar della sua città. Mi dice che il lavoro non gli piaceva molto, ma era meglio che non fare nulla. Per questo la situazione che sta vivendo (è ancora in detenzione al Farera) comparata alla sua vita precedente risulta ancora più pesante, dice: “ore senza fare nulla, stare qui sono giorni pesanti e brucianti”.

C. A. mi dice di essere stufo di stare al Farera. Racconta che quando era casa sua, era sempre in movimento, non si fermava mai, era sempre in giro, al lavoro, ma mai a casa. Per lui era molto difficile non poter fare niente tutto il giorno ; per giunta il suo compagno di cella non parlava la sua stessa lingua e nemmeno l’italiano.

Quando lo incontrai per la prima volta, aveva già trascorso alcune settimane in carcere. C.A. aveva potuto sentire la sua famiglia ma non ne parlava molto, non perché non sentisse la loro mancanza. Il padre era morto poco tempo prima e la sua unica persona di riferimento era la madre, la quale soffriva molto per quello che era successo al figlio. Il ragazzo cercava quindi di non pensarci: quando chiamava parlava con il fratello, perché non voleva che la madre soffrisse ogni volta che sentiva la sua voce. Ricordo che in un colloquio mi disse che meno parlava della situazione di sua madre e meno ne soffriva. Non fu quindi un argomento sul quale soffermarci troppo: C.A. preferiva evitarlo.

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In seguito C.A. mi raccontò ciò che successe prima di arrivare in carcere. Mentre lavorava al bar, un giorno lo zio di un suo amico gli propose un lavoro dicendoli che gli avrebbe permesso di guadagnare in fretta molto denaro. Il ragazzo stava vivendo un periodo in cui lui e la sua famiglia non avevano abbastanza soldi. Diventare corriere della droga gli sembrò una via possibile per racimolare un po’ di quattrini: si ripeteva, tra sé e sé, che avrebbe fatto un’unica volta quel tragitto dall’Albania a Milano e poi in Svizzera. Disse che sembrava una cosa facile da come l’aveva descritta quell’uomo, ma non fu così. Le cose non vanno come sperato e appena entra in Svizzera, lo bloccano e lo arrestano. In quel momento del racconto i suoi occhi si riempiono di lacrime che scivolano sul suo volto. La delusione personale e il dolore causato alla famiglia esplodono.

Dopo quella volta furono episodi sporadici quelli in cui il ragazzo pianse. Credo che parlare con qualcuno, in questo caso con l’assistente sociale nella stessa lingua o poter uscire dalla cella e poter passare tempo in un’altra stanza, lo aiutavano. Non in tutti i nostri incontri parlava; a volte si sedeva, mi consegnava ciò che aveva scritto (se lo aveva fatto) e poi rimaneva in silenzio. Questi silenzi duravano a lungo e a volte erano accompagnati da alcune lacrime. Anche altri ragazzi piangevano in sala colloqui. Per molti di loro era l’unico spazio intimo, privato, in cui a parte l’assistente sociale non ti vedeva e né sentiva, soprattutto non c’erano né compagni di cella, altri detenuti o guardie. In sala colloqui hanno la possibilità di riflettere sulla propria situazione. Si guardano attorno, sentono che il carcere non è posto per loro. Così C.A. nell’incontro datato il 30 aprile 2015 C.A mi disse: “Non è posto per me, sto buttando via la mia vita” e allora la disperazione diventa alleata in questa sua continua lotta interna.

Al Farera l’ho seguito per poco perché vi aveva già trascorso 3 mesi prima che mi venisse affidato. Dopo il suo passaggio alla Stampa i colloqui all’inizio avvenivano regolarmente, scriveva di voler incontrare l’assistente sociale quasi ogni settimana. Era stato anche introdotto al lavoro e si trovava bene. Ora aveva qualche soldo che poteva dare alla madre per aiutarla con le spese. Questo per lui era la cosa più importante, sentirsi utile nonostante la sua situazione. Sempre durante il nostro incontro del 30 aprile 2015 mi disse che da quando era a La Stampa si sentiva bene, l’ambiente era completamente differente. Inoltre aveva stretto amicizia con un altro detenuto, per questi motivi voleva incontrarmi per poter cambiare la cella ed essere inserito nella sua stessa sezione (del nuovo amico). Gli dissi che secondo me non era necessario, potevano comunque incontrarsi nel prato senza doversi spostare. C.A. non aveva sentito ragione e insisteva affinché lo aiutassi in tal senso.. Dopo alcuni giorni scoprii che erano riusciti a gestire le celle così che C.A avesse la possibilità di essere vicino al nuovo arrivato. Quest’ultimo era stato trasferito dal carcere di Ginevra e avrebbe dovuto scontare 14 anni. A causa del sovraffollamento del carcere ginevrino venne trasferito a La Stampa. All’inizio andava tutto bene, il nuovo venuto era albanese come C.A, potevano comunicare tranquillamente. C.A era rispettato dagli altri detenuti grazie ai suoi legami di amicizia con il nuovo detenuto proveniente da Ginevra. Anche i colloqui con me erano diventati sporadici e erano

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dedicate essenzialmente allo svolgimento di pratiche amministrative. Mi diceva che andava tutto bene e si sentiva meglio. Erano tutti suoi amici e che questo nuovo detenuto era molto rispettato ed era gentile con lui.

Non ho mai saputo perché il nuovo detenuto abbia deciso di prendere sotto la sua ala C.A. Il primo mese di questo nuova situazione andò bene ma in seguito successe qualcosa che portò C.A nello sconforto più totale.

Alla fine di maggio venni convocata dal vice direttore del carcere che mi avvisava che C.A era stato internato nuovamente al Farera insieme al nuovo detenuto. Ero senza parole, non capivo perché non era stata assegnata una sanzione disciplinare ma un vero e proprio reinserimento. La risposta arriva fulminante: il nuovo detenuto aveva tentato di uccidere qualcuno e C.A era coinvolto nel fatto.

Non sapevo più cosa pensare o fare. Ancora una volta C.A persona molto emotiva e gentile, si sarebbe lasciato coinvolgere in una situazione critica come in precedenza con lo zio del suo amico.

Incontro nuovamente C.A al Farera: tutto riparte da dove è iniziato, in corridoi asettici, privi di qualunque carattere, tristemente vuoti, un luogo che “spezza” le persone. Quando lo vedo arrivare, è un tuffo nel passato, come se non avesse fatto passi avanti, testa bassa, occhi pieni di lacrime, talmente agitato che giocava con i bordi della maglietta, imbarazzato per essere ritornato al punto di partenza. Appena si siede gli lascio qualche tempo, alla fine gli chiedo direttamente di raccontarmi cos’era successo. Lui mi spiega, si lascia andare, urla; dice che non c’entra niente nella storia, che non è colpevole e che vuole ritornare a La Stampa. Mi racconta che l’equivoco è nato perché lui parla con tutti e a volte è troppo loquace. Dice che era andato da un detenuto a parlare male di un'altra persona, e che quest’ultima si è arrabbiata e aveva cercato di picchiare C.A. Il detenuto proveniente da Ginevra avrebbe assistito a questo tentativo di aggressione e per difendere C.A. avrebbe lanciato contro l’aggressore un peso (di quelli da palestra) ma l’avrebbe fortunatamente solo sfiorato (se l’avesse colpito la persona sarebbe morta). Per questo motivo il direttore l’ha sanzionato come “tentato omicidio” e ha punito anche C.A. Dopo 2 settimane al Farera, il detenuto proveniente dal carcere ginevrino è stato mandato in un altro carcere in Svizzera tedesca e C.A è stato introdotto nuovamente a La Stampa. Dopo alcune settimane dal suo rientro, mi scrive per richiedere un colloquio. Quando ci incontriamo mi dice che vuole cambiare carcere o vuole scontare il resto della pena al Farera ma che vuole andarsene dal carcere la Stampa. Proponeva solo soluzioni impossibili. La Stampa era diventata invivibile per C.A poiché gli altri detenuti lo ritenevano responsabile del trasferimento del detenuto ginevrino. Quando C.A. Passava i detenuti giravano la testa dall’altra parte o quando un nuovo detenuto veniva ammesso in carcere gli parlavano male di C.A dicendo di non diventare suo amico perché è un falso e bugiardo. Tutta questa situazione uccideva letteralmente C.A; per lui era troppo difficile vivere in quelle condizioni. Ad ogni colloquio lo vedevo e sentivo più disperato. Tratteneva le lacrime a stento, mi ripeteva che non era cattivo e non meritava tutto quello, gli

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dispiaceva che il detenuto che si era fatto amico fosse stato trasferito ma riteneva non fosse colpa sua.

La disperazione ormai era perennemente presente in lui. A C.A. era stato detto che scappare non fosse una buona soluzione ma occorreva che affrontasse la situazione, per quanto difficile. In carcere C.A. subiva continue vessazioni dai detenuti: frecciatine o spintoni solo per il gusto di farlo.

Da allora C.A affronta ogni giorno questa sfida e tutto ciò lo sta cambiando molto. Sta diventando alquanto menefreghista, più freddo, cerca di non ascoltare e se qualcuno dice qualcosa fa finta di non aver sentito niente. Tutto questo non fa parte del suo carattere: sta costruendosi una maschera di “duro” per resistere alla nuova situazione carceraria.

4.4 Percorso di S.E

S.E è un ragazzo di ventiquattro anni, di nazionalità albanese ed è in carcere per infrazione alle Legge Federale sugli Stupefacenti. È un ragazzo intelligente e studioso. Prima di entrare in carcere studiava Legge all’università a Tirana. Prima dell’aprile 2015 non era mai stato in carcere né aveva avuto problemi con la legge. In Albania ha la sua famiglia e una ragazza. La sua famiglia è benestante.

E’ stato arrestato mentre attraversava la dogana svizzera con un certo quantitativo di droga. La sua paura e problema più grande è di non far sapere alla madre che si trova in carcere per droga. Lei pensa che il figlio si trovi ancora in Svizzera per problemi con i documenti. Diversi colloqui si sono basati su questo e il suo modo di vivere il carcere. L’incontro con S.E è stato diverso da tutti gli altri. Avevo infatti appreso del suo reato attraverso i media che avevano diffuso la notizia del sequestro di un’importante quantità di droga e me l’ero già immaginato. Mi chiedevo che persona potesse essere, come si sarebbe comportato alla vista di un assistente sociale.

Credevo fosse un ragazzo che non aveva niente da perdere, che provenisse da una famiglia povera, un ragazzo che non aveva mai studiato: i media lo avevano descritto come un poco di buono.

Mi accorsi che mi era stato affidato poco prima del colloquio d’entrata. Lessi il suo verbale e tutto ciò che avevo immaginato nel week end stava riaffiorando. Lo scenario che mi sono trovata davanti, appena incontrato il ragazzo, era però totalmente differente.

Nel diario di bordo del 27 marzo 2015 scrivevo: pensavo di ritrovarmi un ragazzo dalla corporatura robusta, furbo e anche arrogante. Quando hanno accompagnato S.E. nella sala, avevo di fronte un ragazzo del tutto diverso. Alto, capelli folti e neri, corporatura normale, ma ciò che non mi aspettavo di trovare era un ragazzo spaventato, confuso, demoralizzato, distrutto.

Durante il primo colloquio S.E. disse di non parlare molto bene l’italiano e che capiva a fatica. Nel corso dell’incontro seguendo la procedura iniziale spiegai che gli avrei posto

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delle domande per conoscere meglio la persona, che non si trattava di un interrogatorio, ma di un colloquio di conoscenza. Quando giunsi a porre delle domande sulla sua famiglia il ragazzo incominciò a piangere. Rimasi spiazzata dalla situazione, non mi aspettavano una reazione di questo tipo ma S.E. non riusciva a smettere. Il primo colloquio durò molto, ma pochi furono i momenti in cui parlammo. Mi limitai a lasciare al ragazzo il suo tempo e il suo spazio per potersi sfogare. Finito l’incontro gli spiegai cosa avrebbe dovuto fare nel caso avesse voluto parlare nuovamente con me e me ne andai.

Tutto ciò che avevo immaginato riguardo al ragazzo non era vero. S.E. era spaventato, aveva paura, non sapeva niente al riguardo della sua situazione, si sentiva smarrito. Una settimana dopo ricevetti la sua richiesta di colloquio. Mentre percorrevo le scale che portano alla sua cella, cercavo d’immaginare perché mi avesse chiamato, quali potessero essere le domande.

Il ragazzo venne fatto accomodare, si sedette e mi guardò. Gli chiesi come si sentiva, se era riuscito a parlare con la sua famiglia, se aveva parlato con la sua ragazza. Lui iniziò allora chiedendomi scusa per il suo comportamento, scusandosi per aver pianto. Poi mi chiese nuovamente chi fossi e anche quale fosse la mia funzione. Capii così che nell’incontro precedente poco di quanto detto era stato recepito. Rispiegai nuovamente quale fosse il mio ruolo. Lo rassicurai sul carattere strettamente privato del colloquio tra l’assistente sociale e il detenuto poiché avevo capito che era preoccupato che dicessi a qualcuno quello che era accaduto durante il nostro primo incontro.

Nei colloqui seguenti incominciò a raccontarmi la sua storia. Di famiglia benestante, studiava all’università Legge e aveva una ragazza della sua età. Quando ci siamo soffermati sul suo reato, si teneva la testa fra le mani, la scuoteva a destra e a sinistra, non si capacitava di ciò che aveva fatto, non riusciva a spiegarselo, mi diceva che voleva i soldi, pensava solo a quello, non alle conseguenze. Ora che si trovava in carcere era spaventato, non sapeva come comportarsi. S.E. ripeteva in continuazione che gli dispiaceva: questo rammarico contraddistingueva i nostri colloqui, poche volte abbiamo potuto sdrammatizzare la situazione, i momenti “tranquilli” sono stati pochi. Il ragazzo trasmetteva tutta la sua ansia e le sue preoccupazioni. Soffriva molto per la lontananza dalla sua ragazza, ma soprattutto per sua madre, che era all’oscuro di tutto e credeva che il figlio fosse bloccato in Svizzera per i documenti, non poteva tornare in Albania perché non erano validi e aspettava che li convalidassero. S.E. era in contatto unicamente con il padre e la sua ragazza che invece erano a conoscenza della situazione. Le sue giornate non passavano mai, lunghe e monotone. Non leggeva perché non c’erano libri nella sua lingua, aveva qualche conoscenza di base della lingua inglese, ma non abbastanza per poter leggere un libro. Guardava la televisione e dormiva, quando ci riusciva.

I primi mesi al Farera per lui sono stati un incubo, non dormiva e non mangiava. Era molto agitato per la sua situazione, questo l’impediva di riposarsi. Diceva che non ci riusciva, che pensava alla sua famiglia e al dispiacere che gli stava procurando. S:E si trovava così in difficoltà che durante un colloquio nel mese di maggio, malgrado i suoi tentativi di esprimersi non era possibile ritracciare un senso di ciò che raccontava, i discorsi non

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avevano un filo logico, era agitato, continuava a gesticolare, si metteva le mani nei capelli e li attorcigliava tra le dita strappandoseli, fino al punto che l’ho segnalato al servizio medico del carcere. Era in una profonda crisi. Mi chiamava spesso, cercava sempre un momento nel quale poter uscire dalla sua routine.

S.E era ben lontano di poter convivere con la sua situazione. Non riusciva ad accettare il fatto di essere in carcere non solo per quel periodo, ma anche per il futuro. Soprattutto quando realizzava che avrebbe forse dovuto trascorrere lunghi anni dentro il carcere. A fine giugno 2015 si aprì la possibilità di poter passare al carcere penale, poiché era stato emanato un anticipo di pena. Questo permise al ragazzo di poter cambiare aria e soprattutto persone con cui potersi relazionare. Nei successivi colloqui ho visto un ragazzo più tranquillo. Ciò che mi ha lasciato spaesata è stato il suo cambiamento fisico, che si notava più di ogni altra cosa. S.E. non aveva più la folta chioma di capelli neri; al loro posto era rimasto il nulla, dato che il ragazzo si era rasato a zero e il suo viso appariva ancora più magro con le guance incavate.

Benché non fosse il ritratto della felicità, ero rassicurata dal fatto che sembrasse stare abbastanza bene mentalmente, che riuscisse a riposarsi e mangiare qualcosa. Durante il giorno poteva lavorare ed eravamo riusciti ad organizzare un incontro con la sua ragazza e il padre.

All’interno del carcere La Stampa era riuscito ad instaurare qualche relazione con persone provenienti dell’Albania e tra di loro c’era molta complicità. Siccome in carcere sono praticamente divisi per etnia, religione, per gli stessi reati, ecc., non è difficile trovare subito il tuo gruppo, il difficile è rimanerci ed essere accettato. Ciò che giocava a favore di S.E era che provenisse da una famiglia benestante, il suo cognome lo aiutava molto. Nei vari nostri incontri mi diceva che stava bene, anzi molto meglio che al Farera e qualche volta lo vedevo sorridere con gli altri detenuti. Era però anche evidente che fosse accaduto qualche cosa, che fosse avvenuta una trasformazione: S.E. infatti stava sempre vicino a un detenuto che aveva un po’ più di potere all’interno della sezione. Quando quest’ultimo chiedeva qualcosa, era S.E che si alzava a prendere ciò che lui desiderava. Erano piccolezze, ma in un contesto come quello carcerario erano molto di più. Quello che stava cambiando in lui era il suo modo di comportarsi, di camminare e parlare. Ora si trovava più a suo agio, parlava con altre persone nella sua lingua, camminava con la testa alta e non più guardandosi i piedi. Sembrava più sicuro di sé, i colloqui, infatti, non servivano più per dare libero sfogo alle sue emozioni ma erano spesso incontri che programmavo io stessa per seguirlo. Infatti dopo averlo segnalato a maggio al servizio medico volevo assicurarmi che stesse bene. Inoltre gli appuntamenti servivano a programmare eventuali incontri con i suoi famigliari. Questa metamorfosi è stata molto rapida, in un solo mese dal suo trasferimento a La Stampa S.E ha integrato il ruolo di detenuto, conformandosi alle regole di questo nuovo status.

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4.5 Percorso di C.V

C.V è un ragazzo di ventitré anni, di nazionalità albanese con permesso di soggiorno in Italia. È in carcere per infrazione alla Legge Federale sugli Stranieri. Ha un divieto d’entrata in Svizzera fino al 2022, ma nonostante ciò, continua imperterrito a varcare le frontiere visti anche i suoi legami affettivi. Ha, infatti, un figlio a Como, uno nel Locarnese e rapporti amicali sul territorio svizzero. In passato ha avuto precedenti legali (multe per spaccio di stupefacenti, uso di cocaina, entrata illegale, resistenza a pubblico ufficiale) e di conseguenza è stato allontanato dalla Svizzera.

Ho incontrato C.V a marzo 2015 : aveva infranto il divieto di entrata in Svizzera. Era la sua prima volta in carcere ma a suo carico aveva multe per spaccio di stupefacenti, uso di cocaina, entrata illegale e per essere scappato dagli agenti di polizia.

Viste le multe precedenti elencate, erano stati emanati già altri divieti d’entrata della durata di uno o due anni ma C.V non ne aveva mai rispettato uno. Per questi motivi è stato deciso di prolungare l’ultimo divieto emanato per altri 7 anni.

Dopo alcuni minuti di colloquio C.V. mi disse di essere padre di due bambini nati da due relazioni diverse. Il primo figlio nato da un matrimonio durato due anni e il secondo da una successiva relazione di tre anni. Mi spiegò che ciò che lo spinge a rientrare in continuazione in Svizzera è il figlio che abita a Locarno. La madre infatti non lo voleva accompagnare fino a Como, allora per vederlo C.V. più volte la frontiera. Gli chiesi allora se avesse già contattato qualcuno, chi fosse il suo punto di riferimento. Il ragazzo infatti aveva il permesso di telefonare trattandosi di un reato per il quale non vi era un’inchiesta aperta. Mi disse che aveva informato la sua ragazza e il cugino dal quale abitava a Como. Dopo alcuni giorni dal nostro primo colloquio ricevo una richiesta di incontro da C.V; dice di volermi parlare urgentemente riguardo alla sua situazione. Quello stesso giorno, il 25 marzo 2015, riesco ad incontrarlo. Quando ci ritroviamo nella sala colloqui, gli chiedo quale sia la richiesta urgente. C.V. mi mostra un foglio del Giudice nel quale si comunica che la sua pena del ragazzo potrebbe venire prolungata di 90 giorni, poiché le multe ricevute negli anni precedenti non erano mai state pagate. Se non le avesse saldate si sarebbero trasformate in una pena detentiva.

Da quel momento tutta la tranquillità mostrata da C.V. durante il primo colloquio era svanita, il ragazzo era agitato, arrabbiato, incredulo. Continuava a ripetermi che non sarebbe rimasto fino ad ottobre in carcere, non aveva ammazzato nessuno. Mi disse che lui non faceva niente di male, che entrava in Svizzera solo per vedere suo figlio. Dopo alcuni minuti di sfogo cercai di spiegare meglio al ragazzo la sua situazione. Gli ripetei che aveva commesso degli errori e gli erano state comminate delle multe che però erano tuttora pendenti. Inoltre dovetti ricordargli che purtroppo aveva il divieto d’entrata sul territorio svizzero. Per questi motivi per C.V varcare la frontiera era un reato sanzionato con una pena detentiva. Il giovane, nonostante avesse capito che pagando le multe, non

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avrebbe dovuto scontare la pena per intero, era arrabbiato, non si capacitava di quella che lui riteneva una decisione ingiusta.

L’8 aprile 2015 fui chiamata da alcune guardie, che mi chiesero se potevo incontrare C.V perché ultimamente era agitato e stava tirando pugni contro il muro della cella. Risposi loro di comunicare a C.V. che l’avrei visitato solo nel pomeriggio poiché la mattina dovevo sbrigare altre urgenze.

Lo incontrai quindi qualche ora più tardi nella sala colloquio. Il ragazzo non aveva un bell’aspetto: aveva occhiaie scure come se non dormisse da giorni, era spettinato e non era curato come al solito. Gli chiesi allora cosa stesse succedendo e che le guardie mi avevano chiamato poiché erano preoccupate per il suo comportamento. Mi disse allora che stava impazzendo, che non ne poteva più della situazione, di non poter parlare con nessuno e non saper che cosa fare durante il giorno. Aggiunse che aveva anche parlato con la sua ragazza, madre del secondo figlio, che era arrabbiata con lui e aveva deciso metter fine alla loro relazione. Era combattuto: avrebbe voluto incontrare i suoi figli ma non voleva che avvenisse in carcere. Aveva pensieri contrastanti: prima voleva una cosa poi quella stessa cosa desiderata non lo era più. Si vergognava di se stesso: si rammaricava del fatto che questa situazione lo avesse portato a perdere tutto e peggiorare la sua vita. Ripeteva che quello che aveva fatto era sbagliato ma che erano anni che combatteva per la sua famiglia. Prima di terminare il colloquio gli chiesi se gli piacesse scrivere. Avrebbe così avrebbe potuto esprimere la sua rabbia, le sue emozioni tramite la scrittura invece di sferrare pugni al muro. Il ragazzo mi guardò perplesso ma annuì e uscì dalla stanza. L’indomani nella mia cassetta della posta trovai una busta di C.V contenente una lettera di ben 5 pagine.

Visto la sua pena “corta” C.V. passò a La Stampa nel mese di maggio dopo un primo periodo trascorso nelle celle che si trovano in accettazione, molto simili alle vecchie pretoriali. Sia al Farera sia a La Stampa il ragazzo continuò a scrivere e a ripetere che era stanco e che non avrebbe resistito a lungo in queste condizioni.

Nei colloqui seguenti parlammo spesso dei suoi figli e mi sembrava seriamente giù di morale. Fu per questo che lo segnalai al servizio Pollicino10. Dopo aver incontrato i suoi figli, C.V mi chiese se avrebbe potuto riconoscere il figlio di Locarno. Dopo aver sentito la mamma del figlio che non voleva che lo riconoscesse mentre era in carcere accertammo l’esistenza di tale possibilità una volta scontata la pena. Questa notizia non rincuorò C.V, anzi aumentò la sua rabbia.

Nel colloquio successivo al suo trasferimento a La Stampa datato 15 maggio 2015, C.V arrivò con gli occhiali da sole, orologio dorato, vestito per bene e con i capelli sistemati. Prima di accomodarsi posò in maniera brusca gli occhiali sul tavolo e mi chiese: “Hai fatto il tuo lavoro”? Fui sorpresa da tanta tracotanza: il carcere penale aveva fatto emergere un                                                                                                                

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Èun Luogo intra-muros di Accoglienza e di Incontro genitori-bambini che in ambito carcerario si prefigge di favorire e mantenere le relazioni del bambino con il genitore detenuto e non, e famigliari.  

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lato di C.V. che non conoscevo. Il ragazzo arrabbiato e disperato aveva lasciato il posto a uno molto più sicuro di sé che si rivolgeva a me con fare arrogante, come se fossi al suo servizio e che tutto gli fosse dovuto. Era una persona differente dal ragazzo conosciuto mesi prima, benché avesse solo 23 anni.

A metà maggio fui chiamata a redigere il suo preavviso di liberazione condizionale, in cui occorre far menzione della storia personale del detenuto. Durante un colloquio spiego quindi a C.V. a cosa serva il preavviso, perché lo richiedono, chi lo richiede e quali sono i contenuti. Il giovane si disse d’accordo a collaborare e cominciammo assieme il lavoro. C.V iniziò allora a raccontarmi la sua storia.

Avevo già abbozzato un preavviso: benché non fosse negativo, metteva in risalto alcuni aspetti della vita sui quali sicuramente il ragazzo avrebbe dovuto lavorare. Si trattava di costruire solide basi per il futuro, partendo da relazioni stabili, un lavoro e un’abitazione propria. Una volta terminato il documento fu inviato e se la richiesta fosse stato accettata, la sua scarcerazione sarebbe dovuta avvenire tra luglio e agosto. Non fu così. Il giovane poté uscire prima del previsto poiché pagò la multa. C.V. non mi disse mai nulla in merito . Mi chiesi dove avesse trovato i soldi, visto che era richiesta una somma decisamente importante per una persona in carcere e senza risparmi. Scoprii inoltre che nonostante avesse un documento d’identità italiano questo non era valido per l’estradizione. Fu così che venne mandato in Albania, suo paese natale. Questo avvenne in pochi giorni, tempo di prenotare e pagare il biglietto aereo. Pensai che il mio percorso con il giovane fosse finito lì, senza saluti e auguri per il futuro.

Quando l’ho rivisto varcare nuovamente la soglia del carcere non era passato neanche un mese, sapeva a cosa andava incontro se avesse varcato nuovamente il confine svizzero, ma questo non l’ha fermato. C.V non è passato dal Farera, l’hanno inserito direttamente alla Stampa e questa volta alla sua pena si sono aggiunti i 90 giorni sospesi. Era però cambiato: ora sapeva come muoversi e conosceva le persone all’interno del carcere, più passavano i giorni e più era spavaldo e sicuro. In uno degli ultimi colloqui mi disse che aveva una ragazza nuova, una macchina nuova e che “non era colpa sua” se era entrato in Svizzera. L’ultima volta che lo vidi prima di salutarci mi disse: “Carmen non possiamo fare come la scorsa volta, io pago ed esco?”. Solamente che era diverso, questa volta con i soldi non avrebbe sistemato niente ma la trasformazione di C.V. in “detenuto scafato” era ormai palese.

4.6 Percorso di M.E

M.E è un ragazzo albanese di diciannove anni, viveva a Tirana. Ha frequentato le scuole dell’obbligo e la sua intenzione era quella di iscriversi all’università, ma non è riuscito. Il ragazzo ha violato la Legge Federale sugli Stupefacenti, poiché ha trasportato droga illegalmente dal suo paese in Svizzera. Per questi motivi sta scontando la sua pena. I suoi

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pensieri sono rivolti a sua mamma e alla sua sorellina più piccola con la quale ha contatti telefonici. È la prima volta che ha problemi con la legge. La sua famiglia in Albania non è ricca e non sempre riescono a venire a trovarlo per via dei costi del biglietto. Lavora all’interno del carcere per poter mandare qualche soldo a sua madre.

Anche M.E è un assistito che ho ereditato da un’altra assistente sociale. Il ragazzo è il più giovane dei cinque ragazzi. Mentre è seduto davanti a me e mi racconta la sua storia, osservo la sua postura, come gesticola, le parole che usa per esprimersi. Ha delle difficoltà linguistiche poiché non parla bene l’italiano, ma è una persona educata, a modo, per niente arrogante, non è volgare.

Nelle sue lettere quando descrive la sua storia, parla della sua sorellina, di sua madre, degli errori, di com’è il carcere, ma in tutto questo non c’è rabbia, smarrimento, paura. Ragiona su quello che è successo, esamina la sua vita e prende coscienza di quello che accade. E’ in grado di riflettere su tutto ciò poiché si trova in carcere da ben 10 mesi. Da quando è inserito a La Stampa ha interiorizzato quello che sono le norme carcerarie, le relazioni, conosce come muoversi, sa a chi rivolgersi quando ha bisogno, lavora, va a scuola, e quando i famigliari possono permetterselo incontra un cugino o altri parenti. Ha già la consapevolezza di dover stare a lungo in carcere, convivere con altre persone e dover crearsi un’identità che lo faccia sopravvivere all’interno di questo universo. Nei suoi racconti M.E. mostra una grande consapevolezza della sua situazione. Dice che fin dal primo giorno sapeva che fosse sbagliato trasportare droga e che un giorno lo avrebbero arrestato, ma l’adrenalina e i soldi hanno avuto il sopravvento. Così all’incirca dopo un mese e mezzo dall’inizio di questa sua attività venne arrestato e portato al Farera. Nelle lettere M.E. dice che i primi tempi nel carcere giudiziario aveva paura, era terrorizzato, non sapeva come funzionasse, non parlava l’italiano, era lontano dalla sua famiglia. Il suo primo mese fu molto difficile: in cella non aveva la TV ed era solo. Non poteva parlare con nessuno e nemmeno ascoltare altri parlare. Era praticamente solo in un luogo sconosciuto di un paese di cui non conosceva niente. Nel suo racconto però emerge che dopo qualche tempo si fece alla situazione e comprese meglio come funzionano le strutture carcerarie. Durante la sua carcerazione a La Stampa ha potuto imparare l’italiano.

M.E è l’unico che accenna alle guardie carcerarie: dice che erano un po’ cattive, che non erano gentili e alcune volte anche arroganti. Si approfittavano del loro ruolo. Però per il giovane la peggior sofferenza era la fame e il fatto che il cibo non gli bastasse mai. M.E. mi racconta di aver perso circa 10 kg in 4 mesi. “Il Farera”, dice, “è una cosa orribile, ti distrugge. Devi sempre stare chiuso, puoi uscire solo per un ora al giorno, mangi poco. Ti senti soffocare nonostante tu abbia aria per respirare”. Al ragazzo non piace ricordare questo periodo in quanto l’ha vissuto come un incubo nel quale non vuole ritornare. La paura e lo spavento di quel periodo, nonostante il tempo passato, è ancora visibile sul suo volto. Dopo quattro mesi di Farera M.E. è stato trasferito a La Stampa.

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Nel carcere penale ha potuto cominciare a lavorare, parlare con gli agenti, che a suo parere sono diversi da quelli del Farera e si relazionano con i detenuti in maniera differente. Da quando è stato trasferito ha iniziato a conosce meglio come vanno le cose nel carcere ed è pronto ad affrontare ogni difficoltà. Nei nostri colloqui abbiamo parlato delle sue relazioni all’interno del carcere. Vista la già lunga permanenza per un ragazzo cosi giovane, gli chiedo se ha qualche amicizia, se si fida di qualcuno, se ha contatto con gli altri detenuti oppure cerca di non instaurare nessun tipo di rapporto. Mi dice di aver conosciuto dei bravi ragazzi e altri di poco valore che ti parlano dietro alle spalle. M.E. ne parla in modo rassegnato, dice che è parte della vita e non si può fare nulla.

Il ragazzo è molto legato alla sua famiglia, a sua madre e a sua sorella, due persone molto importanti nella sua vita, ma dalle quali è costretto a vivere lontano. Non hanno abbastanza soldi da poterlo venire a trovare, perciò ormai è un sacco di tempo che M.E non le vede. Dice che la sua famiglia è molto stressata per quello che è gli è successo e la madre è sempre triste e piange molto. La sua sorellina ha 8 anni : chiede sempre di parlare con lui e gli chiede dove si trova. Questa domanda dice M.E gli fa male, perché non vuole dire la verità alla bambina perché si vergogna. Allora quando la sorellina gli chiede com’è il posto dove vive il ragazzo risponde che “ è un posto dove si lavora per fare i soldi e per imparare la lingua italiana.”

In alcuni suoi scritti M.E. riporta “ho solo 19 anni e per me è troppo difficile stare senza la mia famiglia”. Il giovane è molto attaccato alla sua famiglia, per questi motivi, vuole essere estradato in Albania una volta processato. Non è solo M.E. a formulare una tale richiesta. Altri detenuti chiedono di terminare la loro condanna nei paesi dove sta la loro famiglia, così da poter stare vicino ai propri cari e poterli vedere più spesso senza spendere cifre esorbitanti per farsi venire a trovare. I detenuti, oltre a convivere con i sensi di colpa per il dolore inflitto alle proprie famiglie, costringono per così dire queste ultime a spendere tempo e denaro per venirli a trovare in carcere. Questo fatto non fa che peggiorare i loro sensi di colpa..

M.E mi ripete sempre che non farà mai più quello sbaglio, mi dice che è stata la prima e l’ultima volta, perché ora sa cosa rischia e cosa può perdere nella vita, e non vuole mai più trovarsi in una situazione del genere.

Nei suoi primi mesi di detenzione a la Stampa M.E era un ragazzo minuto, smagrito, spaventato; non sapeva cosa doveva fare, ha dovuto imparare ad arrangiarsi. Ben presto ha iniziato a far palestra e i cambiamenti si sono visti in pochi mesi. Tra gennaio, data del nostro primo incontro e luglio quando ci siamo salutati era completamente un'altra persona, il viso acceso, lo sguardo spavaldo, il corpo muscoloso.

Alcuni episodi vissuti durante i primi mesi in carcere hanno certamente segnato M.E. Tra questi l’esperienza della cella d’isolamento in cui è stato rinchiuso tre giorni Ho visto il ragazzo quando è uscito: era giù di morale, occhiaie nere e stanco; mi disse che stava impazzendo e che si sentiva soffocare. La cella è pensata per contenere giusto un letto e

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una toilette alla turca. M.E. ne è uscito rafforzato nel carattere, perché sono giorni che lasciano il segno.

Un secondo episodio è accaduto alla festa organizzata per i famigliari a fine maggio. In questa occasione le famiglie possono venire a trovare i loro cari e trascorrere un intero pomeriggio interno. M.E lavorava alla festa, faceva il caffè e serviva ai tavoli, io e gli altri operatori aiutavamo. Con la coda dell’occhio ero attenta a quello che faceva, vedevo che impartiva ordini agli altri. Malgrado la giovane età, gli altri detenuti seguivano i suoi ordini. Finita la festa, era giunto il momento di smontare i tavoli e a quel punto anche i detenuti che non avevano potuto parteciparvi, sono scesi dalle varie sezioni per aiutare a riporre. Fu allora che lo scopino11 della sezione di M.E prese in mano la situazione e iniziò a sua volta a impartire ordini agli altri detenuti: il riordino procedette così sotto la sua direzione e vi parteciparono tutti, M.E compreso.

Non saprei dire come e perché ma il giovane M.E. aveva un certo potere all’interno del carcere: come si fosse guadagnato il rispetto degli altri, un giovane partito all’inizio magro e spaventato, non lo so. Certo era che questo ragazzo si era trasformato: avevo ora di fronte un ragazzo robusto, che si era guadagnato il rispetto di detenuti.

Nella sua ultima lettera M.E non si rivolge non a me (sapeva che oramai stavo concludendo lo stage) ma lancia un messaggio ad altri giovani come lui. La lettera termina così: “Non lo farò mai più e dico anche agli altri di lasciar perdere queste cagate perché la galera è una merda. Non la consiglio a nessuna persona questa cosa. Vi consiglio di lavorare e lasciare perdere le cavolate che vi rovinano la vita perché un giorno di carcere è come 100 giorni fuori. Non è mai troppo tardi per cambiare le cose, anche se hai 80 anni. Voglio uscire al più presto possibile e non voglio tornare mai più in galera, solo qua dentro puoi capire cosa vuol dire “LIBERTÀ”. Una parola facile da dire però difficile da fare. Questo è un 19 enne che parla e vede la galera come la cosa peggiore della sua vita. Vivi la vita e ama la libertà questo sono due cose che posso dirvi a voi che siete fuori”.                                                                                                                                  

11  È il detenuto che, armato di ramazza, si occupa delle interminabili “pulizie domestiche” del carcere: scale,

corridoi, salette, celle. Il quale è il portavoce della propria sezione, non è un ruolo intercambiabile, c’è una sola persona ed è lei sempre, è una regola implicita del carcere.

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5. Conclusioni

 

Dopo aver ricostruito i percorsi dei 5 giovani detenuti si tratta ora di fornire una risposta all’interrogativo che ha orientato il mio lavoro: in che modo l’esperienza carceraria trasforma l’identità di questi giovani?

Lo scopo del lavoro era quello di capire in che misura il carcere paradossalmente rafforzi i giovani in un’identità deviante (invece di contribuire ad una loro risocializzazione, affinché possano ripartire nuovamente).

Il mandato del carcere è quello di “rieducare” le persone e reinserirli nella società ripuliti del carattere di devianza e nella prospettiva di una reintegrazione sociale. Questo coincide con quanto perseguito dagli assistenti sociali dell’Ufficio dell’Assistenza Riabilitativa in collaborazione con le strutture carcerarie. Lo scopo è di agire sul detenuto, e quando è possibile, poterlo seguire anche sul territorio una volta scarcerato.

Il compito è arduo, l’obiettivo finale non è sempre quello in cui si è sperato inizialmente e purtroppo capita anche a La Stampa che un ragazzo vi ritorni dopo una prima incarcerazione.. La detenzione quel punto avrà agito non come deterrente per nuovi reati bensì come una luogo di apprendimento di comportamenti devianti.

Numerosi studi interrogano questa variazione nell’identità personale, sociale dei giovani detenuti e il parallelo apprendimento di attività criminali in carcere. Il comportamento delinquenziale dei giovani è un fenomeno individuale e sociale e per molti aspetti dev’essere valutato diversamente dalla criminalità adulta. Anche nei reati gravi però deve essere presa in considerazione la teoria educativa. Abbiamo poca conoscenza di che cosa significhi una pena detentiva per i giovani adulti e per la loro vita. Diversi di loro entrano a contatto con le strutture carcerarie nel periodo in cui si sta costruendo la loro identità adulta. Pertanto non solo dobbiamo sapere di più sul fatto che la detenzione penale svolge un ruolo importante nei tassi di recidiva, ma anche esaminare i meccanismi esatti e le dinamiche che sono prodotte da tali effetti.

Sappiamo bene come l’ambiente e il contesto influenzano sempre le persone e fino a quando essi si trovano in carcere e possono essere tenuti sotto controllo, seguiti, molte cose funzionano, ma il difficile è quando saranno liberi. La realtà carceraria, quella del recluso è fatta di privazioni della libertà, di assenza assoluta di privacy, di estrema solitudine e un misto di sentimenti, tra cui paura e rabbia. Una volta rilasciata la persona si scontrerà con la propria identità. Quest’ultima è molto cambiata nel periodo di detenzione l’identità assunta in carcere non è invece funzionale alla vita fuori dalla prigione. Nella realtà occorre che la persona riesca ad organizzarsi e muoversi da sola, libera di comportarsi come meglio crede. È lì che possiamo notare, capire, osservare se è cambiato qualcosa nella persona, e se sì, come sia cambiata. Riguardo ai differenti effetti di una pena detentiva sui giovani adulti si sa ancora poco, ma quanta incidenza il carcere abbia in tutto questo è molta. L’incarcerazione con detenuti adulti rafforza questa loro

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