• Non ci sono risultati.

Capitolo 5- Paolo Bellezza e la scuola lombrosiana: una diatriba in due atti

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo 5- Paolo Bellezza e la scuola lombrosiana: una diatriba in due atti"

Copied!
22
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo 5- Paolo Bellezza e la scuola lombrosiana: una diatriba in due atti Introduzione

La sempre più indiscreta curiosità dei biografi di fine ‘800 non risparmiò nemmeno un autore da tutti venerato come Alessandro Manzoni. Anche su di lui, infatti, quotidiani e riviste presero a pubblicare le dicerie più strampalate. Da tali notizie infondate prese spunto Paolo Bellezza, celebre critico letterario, che assemblandole a bella posta diede vita a una perfetta parodia delle patografie allora tanto in voga1. Da tale scherzo, poco gradito a Lombroso, prenderà spunto l’ultima delle diatribe che intendo raccontare. Prima però voglio soffermarmi su un altro aspetto della vicenda. Bellezza infatti, negli stessi anni in cui prendeva forma la sua parodia, era impegnato in un’accesa polemica con Cesare Leggiardi-Laura. Quest’ultimo, esponente della scuola lombrosiana, in un suo saggio2 aveva tentato di dimostrare come, nei delinquenti descritti da Manzoni nei Promessi Sposi, si potesse scorgere un’anticipazione delle tipologie criminali proposte dall’alienista veronese. I miti del genio precursore e dell’arte come “preludio” alla scienza erano saldamente radicati nella mentalità degli scienziati positivi. Quello di Leggiardi-Laura non era un tentativo isolato, ma uno studio che si inseriva in un filone di ricerca molto attivo all’epoca. Sono queste indagini, su cui non ho avuto finora modo di soffermarmi adeguatamente, che intendo analizzare nella prima parte del capitolo, per poi dedicare la seconda alla diatriba intorno alla presunta natura patologica del genio manzoniano.

1. Shakespeare, Dante, Manzoni: il genio artistico come precursore 1.1. Spettri, visioni e tragiche passioni

L’ammirazione per la presunta capacità dei letterati di genio di cogliere in anticipo quelle verità che la scienza sarebbe riuscita a dimostrare solo secoli dopo accomunava nel XIX secolo larga parte dei medici europei. Persino uno psichiatra della fama di Brière de Boismont, nel 1868, aveva pubblicato sulle <<Annales médico-psychologiques>> un articolo dedicato a William Shakespeare3. A essere lodata era anzitutto la grande varietà di allucinazioni presentate nel Macbeth: dalle streghe che annunciano al protagonista il suo destino (apparizione frutto delle credenze dell’epoca e della psiche suggestionabile di chi ne era preda) allo spettro di Banquo (espressione di quel rimorso additato dallo stesso Brière come causa frequente di fenomeni allucinatori), si trovavano tutte in perfetto accordo con i principi che la scienza veniva scoprendo in quegli anni. Amleto incarnava invece il perfetto tipo

1 Cfr. P. Bellezza, Genio e follia di Alessandro Manzoni, Milano, Cogliati, 1898.

2 Cfr. C. Leggiardi-Laura, I criminali in Alessandro Manzoni, in <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XIX (1898), pp. 349-373, 537-548.

3 Cfr. A. Brière de Boismont, Shakespeare. Ses connaissances en alienation mentale, in <<Annales médico-psychologiques>>, XXVI (1868), n. 11, pp. 329-345 ; XXVII (1869), n. 1, pp. 1-19.

(2)

melancolico, oltre a introdurre il tema della pazzia simulata. Col principe di Danimarca, poi, Shakespeare dava prova secondo il medico francese di aver colto tre secoli prima di Guislain il ruolo giocato dal dolore nella genesi della follia. Lear era infine l’ennesima dimostrazione dei rischi cui il potere assoluto esponeva la mente dei monarchi, e Brière non mancava di sottolineare come l’esplosione graduale della sua mania fosse stata descritta in maniera perfetta dal drammaturgo inglese.

Non sarà di certo questo l’unico dei tributi resi al genio del sommo bardo, cui anche nel nostro Paese verranno dedicati studi molto interessanti. In particolare, nell’ultimo decennio dell’800, Nicolò D’Alfonso, psicologo vicino alle posizioni della scuola positiva, dedicherà alle opere del drammaturgo d’Oltremanica numerosi studi4. Nel suo Lo spettro dell’Amleto si asseriva che le apparizioni spettrali, descritte nei testi letterari di tutti i popoli antichi e moderni, erano fenomeni confermati dalla moderna psicologia. Non ci si poteva dunque più limitare a ritenere simili eventi delle semplici leggende. Gli spettri erano soliti apparire a individui con peculiari caratteristiche psicologiche, soprattutto in epoche di grande trepidazione degli animi. Tale era il periodo descrittoci nell’Amleto: il popolo di Danimarca, scosso dalla recente morte del re, guardava infatti con apprensione all’esercito che il figlio di Fortebraccio andava radunando, temendo una prossima invasione del regno. Queste le paure che animavano anche Marcello e Bernardo durante il loro turno di guardia. Secondo D’Alfonso la solitudine notturna in cui i due si trovavano immersi, attenuando i legami percettivi col mondo esterno, non poteva che favorire ulteriormente la proiezione esteriore dei moti che dominavano la loro coscienza, contribuendo all’apparizione spettrale5. Ed essendo da loro ignorate le leggi psicologiche che ne regolavano il manifestarsi, non potevano che essere indotti a prestar fede all’esistenza degli spettri. Ciò finiva per rendere più probabile il ripetersi del fenomeno, di cui i due renderanno partecipe in seguito anche Orazio. Non doveva stupire il fatto che nessuno dei tre risultasse in grado di sentire l’ombra del defunto re parlare: a tal fine, infatti, era necessaria un’intimità con la figura spettrale che mancava a tutti loro. Amleto, invece, aveva un ricordo netto della voce del padre, e una cognizione dei suoi valori e delle sue aspirazioni che sfuggiva agli altri tre. Era dunque del tutto plausibile che finisse per percepire lo spettro rivolgergli la parola, ed era un fenomeno perfettamente in accordo con le

4 La quasi totalità di queste ricerche sarà poi raccolta in N. R. D’Alfonso, Note psicologiche,

estetiche e criminali ai drammi di G. Shakespeare, Milano, Società editrice libraria, 1914.

5

Il fatto che due persone esperissero al contempo la stessa visione era ritenuto possibile, per quanto inusuale. Occorreva poi precisare come di solito, di fronte ad apparizioni del genere, la coscienza fosse indotta a interrogarsi, sia intorno alla veridicità di quanto si manifestava ai sensi, sia riguardo alla sua relazione coi sentimenti interiori del soggetto. Questo, nella maggior parte dei casi, accorciava di molto la durata di questi fenomeni. E finché restavano un evento passeggero, pur non rappresentando un fatto normale, non erano secondo lo psicologo un indizio certo di morbosità mentale..

(3)

leggi della fisiologia il fatto che il suo discorso riflettesse dubbi e sospetti che da tempo gravavano sull’animo del principe di Danimarca. Shakespeare dimostrava così di essere un profondo conoscitore della teoria psicologica degli spettri, della quale finiva secondo D’Alfonso per rappresentare un vero e proprio precursore6. Per lo psicologo italiano, del resto, non meno interessanti erano i protagonisti di altre due grandi tragedie shakespeariane. Macbeth, egoista e incline alla superstizione, era un individuo scisso tra la brama di potere e il rimorso morale per i crimini che si accinge a commettere. Tale dissidio lo poneva costantemente sull’orlo della follia, come dimostrava ad esempio l’apparizione dello spettro di Banquo. Si trattava di un personaggio al limite, impossibile da descrivere senza la maestria del drammaturgo inglese. Diverso era il caso di Otello, che nato in Mauritania, risentiva degli effetti del clima africano. In particolare, la grande produzione di globuli rossi lo portava secondo D’Alfonso a dover fare i conti con un temperamento marcatamente sanguigno. Portato per l’azione e la conquista, aveva limitate capacità di giudizio. Tali limiti erano stati rafforzati dalla carriera militare che aveva intrapreso, e che lo aveva condotto a un’esistenza fondata sull’obbedienza. Sbagliavano dunque secondo D’Alfonso gli studiosi che si limitavano a sottolineare l’abilità di Jago nell’irretire Otello nella sua trama, trascurando come quest’ultimo fosse facile da maneggiare in virtù della sua indole. Nessuno meglio di lui si prestava a cadere vittima delle insidie che l’uomo figlio di una civiltà avanzata sapeva tendere a quello proveniente da una civiltà inferiore. Travolto dall’ira e dallo sdegno, finiva dunque per commettere un crimine che non era espressione di una natura corrotta e priva di senso morale, quanto piuttosto di un’indole focosa sottrattasi al controllo razionale7.

Gli studi di D’Alfonso saranno oggetto dell’ammirazione del giovane Antonio Renda, che come tanti altri coetanei si dimostrava piuttosto attratto dalle ricerche condotte in quegli anni da Lombroso e dalla sua scuola. Nel suo

6

All’Amleto sarà legato anche un altro interessante studio di D’Alfonso, che in La follia di Ofelia individuava nella figlia di Polonio la vittima di un caso di follia comunicata. Il principe di Danimarca trasmette infatti alla giovane il proprio dolore, senza che quest’ultima però sia in condizione di cogliere la catena di pensieri e di riflessioni che hanno contribuito alla sua genesi. Tale sofferenza assume dunque ai suoi occhi una natura oscura e indeterminata. A tutto ciò viene poi ad aggiungersi il rimorso per la follia di Amleto, di cui Ofelia teme di essere stata la causa con i suoi rifiuti e con la propria ritrosia ad accoglierlo nelle proprie stanze. Per quanto simulata, tale pazzia finirà per contagiare la giovane sventurata. A facilitare questa trasmissione sarà il sentimento amoroso che legava i due personaggi, e che secondo D’Alfonso in molti casi contribuiva al prodursi di episodi di questo tipo.

7

Notava a tal proposito D’Alfonso come Otello, nel momento in cui Jago gli svelava l’adulterio di Desdemona, cadesse vittima di una specie di crisi epilettica priva di convulsioni, finendo per svenire. Non bastava però questo a fare del mauritano un “delinquente nato”. La sua crisi infatti, più che l’esito di una fibra nervosa corrotta fin dalla nascita, era il frutto del violento shock emotivo provato. Non aveva dunque alcun legame col futuro gesto criminoso, che manteneva così una natura essenzialmente passionale.

(4)

Psicologia shakespeariana8, si soffermava a esaminare la figura di Pericle di Tiro, nelle cui vicende una visione notturna aveva giocato un ruolo decisivo. Poco importava che Shakespeare ignorasse i disturbi nervosi alla base dei fenomeni psichici da lui mirabilmente intuiti e descritti. Il suo genio, infatti, lo portava a dare una descrizione delle condizioni del principe tanto esauriente da mettere ogni clinico in condizione di stilare un’esatta diagnosi. Credendo morta la figlia, Pericle (che già aveva perso la moglie) era scivolato in un monoideismo luttuoso dal quale sembrava impossibile risvegliarlo. Lo shock dovuto all’inaspettato ritrovamento della figlia non poteva non turbare la sua psiche, per quanto si trattasse di un lieto evento. Eccolo allora assopirsi, asserendo di percepire una musica celestiale, e avere poi nel sonno una visione di Diana che gli annuncia che anche la moglie è ancora in vita. Il susseguirsi di questi eventi allucinatori era più che plausibile. Alla base della melodia udita da Pericle, infatti, stava secondo Renda un’iperemia cerebrale, esito della forte emozione causata dall’incontro con Marina, a cui non di rado si accompagnano sensazioni di natura acustica. Era stata poi la fantasia del principe a trasformarle in musica, assecondando il suo stato d’animo, e preparando il terreno per la visione che avrà in sogno. Come avesse potuto quest’ultima coincidere con la realtà era per Renda un quesito cui la scienza doveva ancora rispondere. Il darsi di simili fenomeni non era posto in discussione, e nemmeno si dubitava del fatto che, da qualche parte nei meandri della psiche umana, si annidasse la risposta9. Gli enigmi ancora in attesa di soluzione non sminuivano del resto la grandezza della rappresentazione shakespeariana. Il grande merito del bardo immortale era stato quello di aver intuito la legge naturale per cui ogni uomo è soggetto all’azione di agenti intimi, psicologici, che determinano la sua natura e influenzano in maniera decisiva il corso delle sue azioni. Col drammaturgo inglese, secondo Renda, il fato aveva smesso di essere una potenza esterna all’uomo, per spostarsi nei recessi più profondi della sua coscienza. Alla forza cieca e irrazionale dei poemi classici si sostituiva così un principio razionale e positivo.

Non molto dissimile sarà il giudizio espresso da Giuseppe Ziino10. Secondo il medico legale di formazione lombrosiana, infatti, andava riconosciuto a Shakespeare il merito di aver intuito con secoli di anticipo tre aspetti fondamentali dell’antropologia criminale11: la necessità per i caratteri fisici

8 Cfr. A. Renda, Psicologia Shakespeariana. Pericle principe di Tiro, Teramo, Tipografia del Corriere Abruzzese, 1895.

9 Renda precisava però come, nella maggior parte dei casi, le premonizioni avessero una natura tanto vaga da adattarsi a un gran numero di eventi. L’esattezza e la rilevanza di simili intuizioni finiva dunque spesso per essere alquanto sopravvalutata. La crescente attenzione per fenomeni come lo spiritismo e le profezie era comunque indice di una moda scientifica cui da ultimo, come è noto, non saprà sottrarsi nemmeno Lombroso.

10 Cfr. G. Ziino, Shakespeare e la scienza moderna: studio medico-psicologico e giuridico, Messina, 1897.

11 Occorre però precisare come, al contempo, Ziino prendesse le distanze dalla concezione lombrosiana della genialità. L’equiparazione di quest’ultima a una nevrosi di natura epilettoide

(5)

teratologici di coincidere in un numero abbastanza consistente in un individuo prima di poterlo definire a ragione un degenerato; l’esigenza di studiare i caratteri esteriori congiuntamente a quelli psichici; la necessità di incentrare l’attenzione soprattutto sui criteri operativi ed etici che regolavano l’operato dei criminali. Queste le intuizioni alla base del realismo delle figure descritte dal celebre drammaturgo, che rendeva elementare per il medico elaborare le proprie diagnosi. Ad esempio, si riscontrava in Amleto una tristimania con sdoppiamento della coscienza, allucinazioni e raptus melanconici ricorrenti, e in Macbeth una paranoia con delirio di persecuzione consecutiva a una psicosi allucinatoria in un delinquente passionale.

Nella follia e nei crimini dei personaggi shakespeariani sembravano dunque preconizzate le moderne scoperte scientifiche. Persino l’elemento sovrannaturale, in apparenza retaggio di un’epoca incline alla credenza nel fantastico, si manifestava nelle opere di Shakespeare secondo modalità perfettamente razionali. Ma aveva davvero senso applicare ai personaggi descritti dal drammaturgo inglese categorie nosografiche distanti anni luce dall’universo concettuale entro il quale si muoveva il loro creatore? Nel passato covava davvero il germe delle future verità? O era necessario tornare a delimitare i confini tra le diverse epoche culturali? Una polemica esplosa in quegli anni dimostrava come l’emergere di simili quesiti fosse inevitabile.

1.2. I criminali danteschi

Alfredo Niceforo, eclettico esponente della scuola lombrosiana12, pubblicò sul finire dell’800 una serie di studi incentrati sulle figure criminali presenti nell’inferno dantesco. Un tributo al genio di Dante destinato a far discutere, in virtù soprattutto delle figure chiamate in causa. Nel 1894, infatti, comparve sulla <<Piccola Antologia>> un saggio dedicato a Paolo e Francesca13. I due adulteri, secondo l’antropologo, rappresentavano il tipico esempio di coppia criminale. Gli studi criminologici avevano dimostrato come, in ogni associazione a due, si assistesse a un fenomeno di suggestione esercitato da uno dei due membri della

avveniva infatti a suo avviso sulla base di indagini biografiche approssimative e tendenziose. Shakespeare, con la sua capacità di cogliere con secoli d’anticipo alcune delle intuizioni fondamentali della moderna scienza antropologica, era la dimostrazione di come il genio fosse un uomo di massima energia, perseveranza e coraggio, doti in virtù delle quali finiva per imporsi sugli altri. Quello di Ziino rappresenta un caso estremamente raro di “opposizione interna” sul tema del genio, e per questo mi è sembrato necessario darne menzione.

12 Niceforo, fedele all’eclettismo del maestro, pubblicò una lunga serie di studi dedicata agli argomenti più disparati. Sostenitore dell’esistenza di “due Italie” e dell’inferiorità antropologica degli abitanti del Meridione, si devono a lui tra l’altro un manuale di criminologia, un noto studio sulla delinquenza in Sardegna e diverse ricerche sul gergo dei criminali. Si interessò anche di sociologia e di questioni legate all’alimentazione, oltre a compiere alcune ricerche pionieristiche sulla diffusione del cancro.

13 Cfr. A. Niceforo, Tipi degenerati e criminali dell’inferno dantesco, in <<Piccola Antologia>>, I (1894), n. 12, pp. 217-228.

(6)

coppia sull’altro. Il ruolo del succube era recitato in questo frangente da Paolo, che non a caso, durante tutta la scena descrittaci dall’Alighieri, rimane muto, perso nell’estatica contemplazione dell’amata, così in morte come in vita. Era dunque Francesca, secondo lo studioso lombrosiano, a rappresentare l’elemento attivo della coppia. E il suo comportamento adulterino non poteva che indurre a ritenerla un’anormale. Quando il senso morale di una donna era intatto, infatti, nessuna passione avrebbe potuto disorganizzarne il complesso, che aveva la sua sede organica secondo Niceforo nel mistero della materia nervosa. Dinanzi al suo dissolversi erano possibili tre diverse spiegazioni: l’assenza completa di senso morale (quale si riscontrava nelle “prostitute nate” descritte da Lombroso); un suo deterioramento, tale da rendere piuttosto semplice qualsiasi cedimento; un senso morale in buona parte integro che aveva ceduto solo in parte. In quest’ultimo caso l’adulterio giungeva dopo un lungo travaglio interiore, e il sussistere del rimorso e di sentimenti di colpa dimostrava come il senso morale non si fosse per nulla estinto. Tale era il caso di Francesca, che ricalcando la nomenclatura criminologica cara a Lombroso, veniva definita una vera e propria “adultera per passione”.

Allo studio di Niceforo replicò in maniera alquanto piccata Abd-el-Kader Salza, noto critico dantesco che affidò le proprie considerazioni a un articolo, comparso a sua volta sulla <<Piccola Antologia>>14. Per quanto lo studio del criminologo lombrosiano non fosse ritenuto privo di pregi, si sosteneva che non avesse senso alcuno voler fare del poeta l’anticipatore delle future scoperte scientifiche. Dante aveva senz’ombra di dubbio una profonda comprensione dei moti dell’animo umano. E questo poteva anche averlo messo in condizione di cogliere dei tipi corrispondenti alle moderne categorie nosografiche. Ma restava pur vero che non era uno psichiatra, e nemmeno un criminologo. Le categorie di cui si pretendeva che le sue intuizioni poetiche fossero state l’anticipazione sarebbero suonate vuote e prive di senso alle sue orecchie. Entrando poi nel merito dell’interpretazione offerta da Niceforo, Salza si rifiutava radicalmente di attribuire a Paolo il ruolo del succube. Il suo silenzio, lungi dall’essere espressione di una natura subordinata, rifletteva il tipico orgoglio mascolino, restio a dar voce al proprio dolore e a condividerlo col prossimo. In Francesca, invece, parlava l’esigenza tutta femminile di condividere con qualcuno le proprie pene, cercando così sollievo nel dialogo. Dante stesso aveva poi asserito esplicitamente come fosse stato il libro a suggestionare i due amanti con le vicende amorose che vi erano raccontate. Perché dunque voler far ricadere la colpa su Francesca? Secondo il critico letterario, Niceforo non faceva altro che svilire l’aura poetica di cui Dante aveva circondato la donna, finendo per farne una semplice criminale.

14

(7)

Chiudeva la polemica un nuovo intervento del criminologo15, che precisava come suo intento fosse stato esclusivamente quello di asserire che il poeta fiorentino era stato capace di cogliere alcuni caratteri obiettivi del soggetto criminale, coincidenti con quelli scoperti in quegli anni dalla scienza positiva. Tra quest’ultima e il grande scrittore non vi era alcuna contraddizione: si trattava solo di diversi criteri di classificazione. Niceforo sosteneva poi di essersi limitato a operare una mera deduzione dal principio (a suo dire inattaccabile) secondo il quale in ogni coppia criminale si dava suggestione, e vi erano dunque un incube ed un succube. Per confutare le sue conclusioni sarebbe stato necessario dimostrare la falsità dell’assioma da cui il suo ragionamento prendeva le mosse. Salza, invece, procedeva a suo dire per mere suggestioni, rifugiandosi da ultimo in una vera e propria “petitio principii”, in base alla quale l’uomo non avrebbe parlato del proprio dolore in quanto uomo e la donna invece lo avrebbe fatto in quanto donna.

Nonostante la tracotante arroganza teoretica di Niceforo sembrasse non lasciare spazio alcuno all’incertezza, le sue parole non possono non suscitare diverse perplessità. Si poteva davvero dire che tra Dante e Lombroso ci fosse solo una differenza di criteri categoriali? E se anche fosse stato vero, il “cambio di etichetta” non avrebbe presupposto un salto tanto radicale da rendere priva di senso ogni comparazione? Dubbi del genere nemmeno sfioravano la mente del criminologo lombrosiano, che nel 1896 pubblicava sul <<Fanfulla della domenica>> un nuovo articolo sull’argomento, dedicato questa volta alla figura di Vanni Fucci16. I caratteri bestiali con cui quest’ultimo veniva descritto erano quelli tipici del delinquente nato. Era dunque un atavismo psico-organico quello che lo spingeva a delinquere, una vera e propria anomalia congenita. Non era un cleptomane, né un ladro per abitudine. Come ogni criminale nato, non dimostrava né rimorso né pentimento. Veniva per contro alla luce la vanità offesa di Vanni, che soffriva profondamente nell’essere colto dall’altrui sguardo in una condizione tanto miserevole. Dalla vergogna nasceva in lui il desiderio di vendetta, cui dava sfogo col presagio di sventura rivolto a Dante, dal cui scoramento traeva piacere. Una creatura infima dunque, meritevole di risiedere per l’eternità nell’inferno dantesco.

I due studi di Niceforo confluiranno nel 1898 nella monografia che rappresenterà l’esito finale dei suoi studi in materia17. Tra le nuove figure presentate in tal sede,

15 Cfr. A. Niceforo, Per Francesca da Rimini, in <<Piccola Antologia>>, I (1894), n. 20, pp. 316-320. 16

Cfr. A. Niceforo, I criminali dell’inferno dantesco. Vanni Fucci, in <<Fanfulla della domenica>>, XVIII (1896), n. 49.

17 Cfr. A. Niceforo, Criminali e degenerati nell’inferno dantesco, Torino, Bocca, 1898. Interessante il modo in cui, nell’introduzione, Niceforo chiariva la sua concezione dell’estro geniale. Richiamandosi a Carlyle, sosteneva infatti che il poeta e il profeta vedessero nell’universo ciò che gli altri non erano in grado di vedere. Dante rappresentava in tale ottica il medioevo che sentiva la propria dissoluzione e prendeva coscienza del proprio avvenire. Aveva inizio con lui

(8)

vi era quella di Filippo Argenti. Non si trattava di un vero e proprio criminale, ma di un semplice degenerato incline all’ira. All’organismo di questi individui bastava una minima sollecitazione esterna per dar vita immediatamente a una sregolata reazione violenta. All’Argenti, ad esempio, era stato sufficiente scorgere due vivi vagare liberamente per gli inferi per cogliere in ciò un’aperta provocazione. Il suo attacco d’ira, al culmine del quale giungeva a prendersela con se stesso, si dimostrava essere un evidente fenomeno epilettoide, ulteriore testimonianza della natura compromessa del suo organismo. E se l’evidente antipatia dantesca aveva spinto il poeta a rendere sin troppo negativo il ritratto di Niccolò III, il Papa simoniaco il cui ritratto finiva così per perdere di credibilità, diverso era il caso del maestro Adamo. Incarnava quest’ultimo il tipo del falsario, ovvero di un delinquente che non era stato spinto al crimine da un impulso irresistibile, ma dalle circostanze ambientali. Come gli alchimisti, era figlio della smania d’oro della sua epoca.

E in un certo senso, anche lo studio di Niceforo era figlio del suo tempo. La scuola lombrosiana prese infatti a mostrare un crescente interesse per questo genere di ricerche, volte al contempo a celebrare la natura divinatoria del genio e la bontà delle intuizioni scientifiche del maestro. E quasi a rendere omaggio al modo spesso “fantasioso” che aveva l’alienista veronese di leggere le opere altrui, anche nei suoi allievi è facile riscontrare la tendenza a travisare il contenuto di quanto analizzavano. Così come il libro galeotto cantato da Dante aveva lasciato il posto al fascino criminale della suggestionante Francesca, altre mistificazioni erano alle porte. E nuove polemiche ne sarebbero conseguite.

1. 3. Il determinismo del Manzoni: polemiche fin de siècle intorno ai Promessi Sposi

Per la cultura italiana di fine secolo, Manzoni era un caposaldo intoccabile. Per Roberto Puccini rappresentava l’antidoto perfetto al dilagante morbo naturalista, foriero di una sempre più evidente corruzione dei costumi18. Forte di una sensibilità dolorifica acuita da una tempra nervosa oltremodo delicata, l’autore dei Promessi Sposi era descritto come incline in virtù di ciò alla compassione per l’altrui sofferenza. La sua conversione al cattolicesimo, poi, aveva contribuito a perfezionare la sua indagine psicologica e le sue capacità introspettive. Col suo

l’Umanesimo. Fine psicologo, suo merito sarebbe stato quello di spogliare l’uomo delle nebbie ascetiche di cui l’epoca precedente lo aveva ammantato, cogliendo la natura materiale della sua esistenza. La visione della psiche umana di cui si faceva portavoce, secondo la quale si sovrapponevano in essa la sfera vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva, sembrava infine anticipare di secoli le conclusioni cui sarebbe giunto Giuseppe Sergi secoli dopo. Non stupisce che una concezione “profetica” del genio avesse finito per attecchire anche all’interno della scuola lombrosiana. A ben vedere, non rappresentava che un altro capitolo della mitologia romantica. Al tema del genio precursore si allacciava infatti con sin troppa facilità quello del genio incompreso, la cui sublime sofferenza andava ad alimentare ulteriormente il suo mito.

18

(9)

romanzo si propose di offrire al popolo un modello educativo, non tanto istigandolo all’odio dei potenti, ma mostrando degli esempi di virtù in azione. Era questo un tesoro che andava preservato ad ogni costo, in particolare da coloro i quali intendevano travisarne il significato profondo. In tale frangente, l’ira di Puccini si volgeva contro Francesco D’Ovidio, reo a suo dire di aver voluto fare del Manzoni un autore determinista. Quale fosse all’epoca l’opinione in merito del celebre critico letterario emerge con chiarezza in un saggio molto interessante, che sarà pubblicato postumo nel 190819. In tal sede, si chiariva anzitutto come a essere in causa non fossero tanto le convinzioni filosofiche dello scrittore, quanto il suo metodo artistico. Aveva dunque ben poca importanza il fatto che Manzoni credesse nel libero arbitrio. Era piuttosto sull’evolversi della vita psichica dei suoi personaggi che bisognava concentrare l’attenzione. Don Abbondio, ad esempio, era una figura la cui psiche appariva dominata da un meccanismo deterministico incentrato sulla paura. Secondo D’Ovidio, gran parte del godimento estetico procurato da tale personaggio derivava proprio dal modo in cui le sue azioni risultavano prevedibili, una volta che si fosse compreso qual’era la molla intima che lo spingeva ad agire. E anche per quel che riguardava Fra Cristoforo, il cui percorso di vita meglio di ogni altro avrebbe dovuto testimoniare l’esistenza del libero arbitrio, le cose non andavano molto diversamente. Manzoni forniva infatti una continua spiegazione dei motivi determinanti ogni suo atto e ogni sua parola. Si trattava certo di un meccanismo psichico molto più complesso di quello all’opera nel pavido curato di campagna, ma che funzionava comunque alla perfezione. Questi e molti altri gli esempi di come l’arte manzoniana fosse dunque improntata a un marcato determinismo, per quanto non vi fosse una ricerca del fondamento organico soggiacente alle scelte morali. I fattori chiamati in causa dall’autore avevano infatti una natura esclusivamente psicologica20. E secondo D’Ovidio, quanto detto per Manzoni valeva per tutta la grande arte, che anzi a suo dire era tale nella misura in cui era determinista. Nella quotidianità le nostre supposizioni sul comportamento altrui sono destinate spesso a venire smentite dai fatti, essendo il carattere di ciascuno soggetto a mutamenti i cui moventi spesso ci sfuggono. Nell’arte, però, in cui il mondo che esploriamo è una creazione dell’artista, è nostro diritto pretendere un’esattezza assoluta:

19 Cfr. F. D’Ovidio, Il determinismo nell’arte e nella critica, in Nuovi studii manzoniani, Milano, Hoepli, 1908, pp. 645-654. Francesco D’Ovidio nacque a Campobasso il 5 dicembre 1849. Si laureò in Lettere nel 1870, presso la Normale di Pisa. Forse più di ogni altro contribuì a tener viva la tradizione letteraria inaugurata in Italia da critici come D’Ancona e De Sanctis. Noto linguista e filologo di chiara fama, dimostrò al contempo una particolare sensibilità alle tematiche portate alla ribalta dall’avvento della critica positiva.

20

Scriveva a tal proposito D’Ovidio: << Ad esempio, perché Don Abbondio era nato pauroso? Forse che suo padre era stato un ubriacone o che so io? Il Manzoni non lo sa>> (cfr. F. D’Ovidio,

(10)

Se Don Abbondio fosse a un tratto saltato su, non si sa perché, coraggioso, il Cardinale lo avrebbe lodato, noi lo biasimeremmo! Se Jago a un tratto, non si sa perché, avesse receduto dalla sua perfidia, si sarebbe forse salvata l’anima, ma avrebbe certo perduta l’immortalità!21

Alla luce di simili polemiche, si può ben immaginare come fosse quasi inevitabile che anche l’attenzione degli uomini di scienza finisse prima o poi per essere attirata da un tale prodigio di raffinatezza psicologica. Ecco dunque che, nel 1898, Cesare Leggiardi-Laura pubblicava sull’<<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>> un saggio in due parti dedicato alle figuri criminali presenti nei Promessi Sposi22. Punto di partenza non poteva essere che il delinquente nato, categoria della quale il romanzo sembrava offrire numerosi esempi. La natura ferina di questi individui sembrava esser stata colta alla perfezione da Manzoni, che per riferirsi a loro ricorreva spesso a termini di natura animalesca: la voce diventava un ringhio, il volto un muso, e i bravi di ritorno dal fallito tentativo di rapire Lucia erano equiparati ad un “branco di segugi”. Per il Griso il delitto si configurava come un vero e proprio dovere, com’era tipico della psiche criminale. In individui di questo genere si assisteva poi di norma all’assenza o a una completa inversione del senso morale23, e a tal proposito risultava magistrale la trattazione manzoniana del tema del rimorso. L’uomo onesto si trova a provarne per il semplice fatto di aver pensato a un atto delittuoso (come accade a Renzo); il delinquente passionale (fra Cristoforo24) impiega invece un’intera vita ad espiare il proprio errore; nei delinquenti veri e propri, un simile sentimento è del tutto assente, o inefficace. L’impossibilità per individui di tal sorta di cambiare vita era dimostrata alla perfezione dai bravi dell’Innominato, che dinanzi all’improvvisa conversione del loro signore finivano per doverlo abbandonare, incapaci com’erano di opporsi alla loro irresistibile tendenza al delitto. Il loro vecchio padrone incarnava invece il tipo del delinquente d’occasione. I caratteri criminali erano in costui avventizi, figli di un’epoca nella quale l’alternativa era tra sopraffare e venire sopraffatti. In un simile contesto, l’orgoglio dell’Innominato non poteva che condurlo a scegliere la prima delle due strade. La sua conversione, un autentico capolavoro di psicologia, dava vita a una reazione vivissima. Riguardo a tale episodio

21

Cfr. F. D’Ovidio, op. cit., p. 654. 22

Cfr. C. Leggiardi- Laura, op. cit. 23

A tal proposito, Leggiardi-Laura sosteneva che la figura dei monatti sembrava quasi prefigurare la tematica lombrosiana dell’utilità sociale del delitto. Era infatti opinione dell’alienista veronese che i delinquenti nati, proprio in virtù della loro indifferenza morale e della loro notevole sopportazione del dolore, potessero essere indicati per compiti che sarebbero risultati ostici (se non impossibili) per la gran massa dei cittadini normali.

24

Discutendo del crimine che aveva condotto Ludovico alla conversione, Leggiardi-Laura ricordava anzitutto quanto fossero rari, secondo Lombroso, i crimini passionali. Gli autori di simili gesta non potevano certo essere individui apatici come i delinquenti nati. Si trattava per contro di persone caratterizzate da un’eccessiva sensibilità, nelle quali non si riscontravano anomalie somatiche di sorta. Simili figure finivano sempre per suscitare la compassione del pubblico, e non a caso Manzoni aveva colto alla perfezione tale vena simpatetica, che caratterizza in maniera netta il modo in cui la figura di Cristoforo è percepita dal lettore.

(11)

Laura concordava con Arturo Graf, sottolineando come la conversione non avesse mutato il carattere del personaggio manzoniano, ma solo il suo orientamento psichico25.

Sembrava insomma che nemmeno una delle categorie criminologiche lombrosiane fosse sfuggita all’intuito del Manzoni26. La cosa lasciò più che perplesso un critico, Paolo Bellezza, che dell’opera dello scrittore lombardo aveva una conoscenza profonda e dettagliata. E in virtù di ciò non esitò a scagliarsi contro il lavoro di Leggiardi-Laura27. In una recensione alquanto piccata, infatti, il critico faceva rilevare anzitutto come il “branco di segugi” evocato per descrivere i bravi di ritorno dalla loro spedizione non fosse affatto un’immagine volta a sottolineare la natura bestiale di questi criminali. Si trattava piuttosto di una reminiscenza tassiana, dettata esclusivamente dall’efficacia visiva di tale espressione. Del resto, a un lettore meno imparziale non sarebbe poi sfuggito come le metafore animali fossero utilizzate da Manzoni per riferirsi anche a personaggi che non erano affatto dei criminali nati. Esemplare a tal proposito lo sguardo di Cristoforo, i cui occhi inquieti erano paragonati nel quarto capitolo del romanzo a dei “cavalli bizzarri”. Era poi assurdo fare dei bravi l’esempio di come il crimine rappresentasse per il delinquente nato un dovere: per costoro, infatti, eseguire gli ordini del loro signore rappresentava in effetti un obbligo vero e proprio. Quella dello studioso lombrosiano si dimostrava quindi essere una lettura dei Promessi Sposi alquanto sbrigativa e forzata, fondata spesso su citazioni assemblate a bella posta unendo frasi separate nel testo o addirittura modificando passi del romanzo.

Bellezza coglieva soprattutto nel vivo, andando a toccare a mio avviso quello che era il vero nocciolo della questione, là dove notava come in studi di questo tipo ci si ostinasse a voler spacciare per sensazionali scoperte quelle che non erano se

25 Per il grande critico letterario la conversione dell’Innominato, che agli occhi dei protagonisti del romanzo aveva del miracoloso, si conformava alla perfezione alle leggi psicologiche che governavano la formazione, la consistenza e la variazione del carattere. La vista di Lucia non era che la causa immediata di tale processo, che aveva però la propria causa remota nel lento logorio di un’anima ormai spossata. Esito di tale rivolgimento interiore non sarà certo il venir meno dell’antica fierezza, quanto il suo porsi al servizio di ben più nobile cause: <<Per concludere: l’Innominato diventa un santo in virtù di quelle stesse energie che già fecero di lui un demonio. Dopo la conversione gli elementi essenziali del suo carattere non si può dire che sieno mutati: la forza non è più violenza, ma rimane pur sempre forza. Volendo parlare per metafora, e sorpassando alquanto il giusto segno del vero, si potrebbe dire che l’antico tempio rimane, quanto a struttura e proporzioni, immutato; che solo vi sia dora un nuovo Iddio>> (cfr. A. Graf,

Foscolo, Manzoni, Leopardi, p. 104).

26 L’elenco si farà ancora più consistente quando, nel 1899, le ricerche di Leggiardi-Laura confluiranno in una monografia dedicata all’argomento. Venivano ad aggiungersi in tal sede considerazioni sulla coppia criminale, esemplificata alla perfezione da Egidio e Gertrude, sulla folla delinquente in cui Renzo si imbatte a Milano, e sull’Azzecagarbugli, che si sosteneva fosse descritto con tutti i caratteri attribuiti dalla scuola lombrosiana ai truffatori (Cfr. C. Leggiardi-Laura, Il delinquente nei Promessi Sposi, Torino, Bocca, 1899).

27 Per la recensione in questione cfr. <<Giornale storico della letteratura italiana>>, XXXIV (1899). Pp. 409-413.

(12)

non nozioni alquanto banali. Il cinismo e la mancanza di rimorso dei criminali manzoniani, lungi dal rappresentare la geniale intuizione di una profonda verità scientifica, erano semplicemente la raffigurazione di due tratti che il senso comune da sempre associava a tale categoria di individui. Credo che a tal proposito ci si possa anche spingere oltre, e asserire che i criminali lombrosiani assomigliavano tanto a quelli descritti nelle opere letterarie del passato per il fatto che da lì, almeno nei loro tratti generali, erano stati tratti. Dagli studi di Niceforo e Leggiardi-Laura emergeva quindi una volta di più l’evidente matrice romanzesca della teoria lombrosiana. La vocazione letteraria dell’alienista veronese si configura ancora una volta, in virtù di ciò, come una chiave di lettura da cui non si può prescindere, se si vuol cogliere la natura peculiare del suo modo di fare scienza. Gli studi sulle intuizioni psichiatriche di Shakespeare dimostrano come più in generale la psichiatria ottocentesca fosse alimentata da numerose suggestioni letterarie. Per Lombroso e i suoi allievi, però, tale legame sembrava essere ancor più marcato. Ciò metteva ancor più in discussione il rigore scientifico delle loro indagini, che come avrò modo di raccontare nel prossimo paragrafo, finirono addirittura per diventare oggetto di scherno.

2. La scienza e la sua parodia28

Quando nel 1898 Bellezza diede alle stampe il suo Genio e follia di Alessandro Manzoni, aveva l’intento di dar vita a una perfetta parodia delle patografie allora tanto in voga. Tale proposito era del resto reso esplicito sin dall’inizio dall’autore, che premetteva al testo la seguente avvertenza:

In questo scrittarello si vuol denunciare al tribunale del buon senso – per non dire del senso comune – non tanto le teorie lombrosiane, quanto le esagerazioni a cui i loro seguaci le hanno spinte ed il sistema, troppo spesso seguito in simili ricerche, dell’asserire e del conchiudere affrettatamente sopra dati insufficienti e malsicuri.

Si porge insieme un ampio saggio delle notizie insensate o false senz’altro, delle affermazioni erronee o gratuite, delle assurdità d’ogni maniera, che furono emesse, e che tutt’ora si ripetono, circa la persona e l’opera di Alessandro Manzoni29.

La riuscita dello scherzo richiedeva un’aderenza quasi perfetta ai canoni espositivi del genere. E in tal senso, non si poteva che prendere le mosse da una descrizione del retaggio ereditario del Manzoni.

Stando a quel che si evinceva dai racconti riportati da diversi biografi, la famiglia paterna del romanziere, piccoli signorotti di campagna residenti nella zona di Lecco, non godeva certo di una fama positiva. Dispotici e altezzosi, erano

28 Alla diatriba scaturita dalla parodia di Bellezza ho già dedicato un mio precedente studio, del quale la presente sezione della mia tesi rappresenta il naturale sviluppo (cfr. G. Venturini, La

diatriba tra Lombroso e Bellezza circa la follia di Alessandro Manzoni, in M. Frank, Pogliano C. (a

cura di), Scorci di storia della scienza, Pisa, Edizioni Plus, 2010, pp. 145-155). 29

(13)

descritti dagli abitanti del contado come dei veri e propri Caligola di campagna30. Il padre di Alessandro veniva poi ricordato come un uomo incline al bigottismo e dall’intelletto mediocre, che si curò ben poco del figlio.

La famiglia materna, ben più nota, offriva invece numerosi esempi di follia e squilibrio mentale. Cesare Beccaria, nonno dello scrittore, fu tutt’altro che un genio precoce. Sembrava anzi che da ragazzo fosse tanto poco accorto da indurre i genitori a ritenere che fosse inadatto agli studi. Entrato in collegio, dimostrò da subito un’indole varia e mutevole, preludio a un’esistenza costellata da stranezze e contraddizioni. Il suo era un animo preda dell’immaginazione e dell’abulia: vittima di un’impressionabilità estrema, soggiaceva alle superstizioni più assurde. Qui, come in molti altri casi, gli atti della sua vita contrastavano coi dettami della sua filosofia. E non si può certo dire che sul piano affettivo riuscisse a riscattarsi da tanta mediocrità. Perdutamente innamorato della moglie Teresa Blasco, l’aveva sposata in mezzo a mille difficoltà, andando contro la volontà della famiglia. Eppure, quando l’amata morì, attese appena ottantadue giorni prima di convolare nuovamente a nozze. Era a questo punto facile per Bellezza cogliere da subito le analogie che almeno in apparenza accostavano nonno e nipote. Anche il Manzoni infatti si sarebbe risposato poche settimane dopo la prematura dipartita della moglie tanto amata. E anche in lui era facile riscontrare un animo impressionabile e incline all’abulia. Del resto, non meno eccentrica era stata la madre del romanziere. Colta e ribelle, Giulia Beccaria veniva infatti descritta come una donna dall’accesa immaginazione e facile all’esaltazione. A lei rimandava l’esasperata sensibilità di Alessandro, che dimostrava dunque un legame ereditario molto più marcato con la famiglia materna.

Tra i caratteri fisici che testimoniavano della natura anomala del Manzoni, Bellezza dedicava una particolare attenzione alla balbuzie, un difetto ben noto ai biografi del romanziere, che per primo era solito ironizzare al riguardo. Nasceva da qui la sua difficoltà a parlare in pubblico e il rifiuto di onorificenze e cariche pubbliche. Si trattava a detta dell’autore di una balbuzie psichica, frequente negli individui impressionabili, specie in situazioni di stress31.

Quando passava a tratteggiare il profilo psichico del celebre romanziere che Bellezza dava il meglio di sé, attingendo a piene mani alla messe di aneddoti che

30

Vuole la leggenda che l’obbligo per i contadini del luogo di riverire i membri della famiglia a ogni occasione di incontro si estendesse anche al cane, al quale erano tenuti a rivolgere un cortese saluto ogni volta che passavano di fronte alla residenza dei Manzoni, dove la bestia era solita stanziare. Tali dicerie, di cui si trovava già testimonianza in una lettera di D’Azeglio, vennero confermate ad Antonio Stoppani da un suo corrispondente che risiedeva in zona (Cfr. A. Stoppani, I primi anni di Alessandro Manzoni, Milano, Cogliati, 1894).

31 Bellezza sottolineava come non bisognasse confondere il disturbo di Manzoni con l’afasia di Broca (coincidente con la “paralisi verbale” di Tamburini), che consisteva nell’incapacità di manifestare a voce le proprie idee causata dall’aver smarrito la memoria delle immagini motrici verbali corrispondenti.

(14)

circolavano da tempo32. Quella che si intendeva tratteggiare ad arte era l’immagine di un originale, di un individuo in bilico sull’orlo della follia. Ne dava una prima traccia l’amore manzoniano per i paradossi. Secondo molti di coloro che ebbero modo di conversare con lo scrittore, infatti, era frequente in lui l’adozione di punti di vista che contrastavano apertamente con quelli fatti propri dalla maggioranza delle persone. Guardando poi alla sua opera, era facile trovare ulteriori conferme di tale inclinazione. L’epoca stessa prescelta per il romanzo, “età sudicia e sfarzosa”, “quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e miseria”, era la piena espressione dell’amore manzoniano per i contrasti. Alla vocazione al paradosso si aggiungevano poi le molte contraddizioni che avevano costellato la vita dello scrittore. Come dimenticare che, dopo aver espresso in tenera età una decisa avversione al matrimonio, finì per sposarsi per ben due volte?33 Come giudicare altrimenti il suo ergersi a campione della religione dopo una giovinezza di marcata impronta illuminista? Quest’ultimo aspetto si riconduceva a un altro degli aspetti messi in risalto da Bellezza, che sottolineava come in Manzoni si assistesse a una costante esagerazione dei sistemi di pensiero di volta in volta adottati. Tanto nella vita quanto nella scrittura, il passaggio a una nuova prospettiva portava ogni volta a un radicale stravolgimento di quanto sostenuto fino a quel punto. Nel pieno rispetto dei dettami lombrosiani, poi, si dimostrava come la mente del grande romanziere, capace di sublimi slanci creativi, si rivelasse del tutto inadatta alle mansioni più semplici. Stando a un celebre aneddoto, una volta Manzoni aiutò la nipotina con l’analisi grammaticale di alcuni passi dei Promessi Sposi, finendo per meritarsi un bel quattro in pagella, affibbiato alla piccina dall’ignaro maestro di scuola. La sua

32 Ricorda a tal proposito Natalia Ginzburg come Stefano Stampa, figliastro del Manzoni, prese posizione in maniera piuttosto indignata contro le leggende del tutto infondate che, alla morte del romanziere, comparirono su riviste e giornali (Cfr. N. Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi, 1998). Lo Stampa fu protagonista anche di un noto diverbio che lo contrappose a Cesare Cantù. Il celebre storico e letterato, un tempo assiduo frequentatore del salotto di casa Manzoni, veniva infatti accusato di aver inserito nel suo scritto dedicato all’autore dei Promessi Sposi aneddoti inventati ad arte al fine di screditarne la memoria (Cfr. S. Stampa, Alessandro Manzoni.

La sua famiglia, i suoi amici, Milano, Hoepli, 1885; C. Cantù, Alessandro Manzoni. Reminiscenze,

Milano, Treves, 1882). Intento nobile quello dello Stampa, per quanto mi senta di sottoscrivere in pieno il giudizio che sulla vicenda, che destò all’epoca alquanto scalpore, espresse poi D’Ovidio: <<Se il libro del Cantù è purtroppo tutto fiele, il libro dell’avversario suo è proprio senza sale. Né io, sebben caldo manzoniano, posso leggere senza nausea pagine e pagine consacrate tutte a difendere a spada tratta il Manzoni anche da critiche discrete o innocenti; ad esaltarne pure le debolezze, gli errori, la parte mortale insomma; a raccontarne minuziosamente i più insignificanti particolari della vita domestica. Non era questo il modo di narrare un uomo che fu così ripugnante a narrar sé stesso; di difendere chi fu così schivo dal difendersi. Non è questo il modo di onorare alcun uomo grande, indugiandosi su ciò che fu in lui piccolo e comune>> (cfr. F. D’Ovidio, L. Salier, Discussioni manzoniane, Città di Castello, Lapi, 1886, pp. 134-135).

33

Stando all’aneddoto in questione, all’età di 9 anni Manzoni, nel corso di una cena di gala, rovesciò inavvertitamente un bicchiere colmo d’acqua, attirando con la propria goffaggine l’attenzione divertita di un’anziana convitata, che sorridendogli esclamò: <<Sarete il primo maritato!>>. Tale profezia gettò il piccolo Alessandro nello sconforto più assoluto, che non esitò a ostentare. L’episodio è menzionato da Stoppani nel suo studio dedicato allo scrittore lombardo (cfr. A. Stoppani, op. cit., in part. pp. 172-173).

(15)

quotidianità era poi costellata di stranezze, quale ad esempio la presunta abitudine di pesare la quantità di abiti da indossare in funzione della temperatura esterna e del tasso di umidità dell’aria. A rappresentare però la nota dominante della psiche manzoniana era senz’ombra di dubbio la paura, frutto di quell’estrema impressionabilità che come visto rappresentava un retaggio della famiglia materna34. Stando alle dicerie raccolte da Bellezza, tale sentimento si manifestava in svariate fobie, come la paura del dentista o quella di viaggiare in treno, che gli impedì di andare a rendere omaggio a un vecchio parente morente. Si riscontravano poi in lui tanto la claustrofobia quanto una marcata agorafobia, cui sembrava riallacciarsi anche l’impossibilità per lo scrittore di uscire di casa da solo. Occorre sottolineare come in questo frangente la parodia, condotta con un’aderenza al modello originale davvero impeccabile, lasciasse il posto per un attimo a un rilievo critico d’altra natura. Anche prescindendo da aneddoti poco fondati, infatti, era indubbio che Manzoni fosse un soggetto impressionabile. Ed era molto facile rinvenire traccia di ciò nel suo romanzo. Quasi ogni personaggio dei Promessi Sposi si trova a dover fare i conti con la paura, prima o poi. Don Abbondio sembra poi essere la perfetta incarnazione di tale sentimento, che orienta in maniera incontrastata le sue azioni. Una breve parentesi, quella introdotta da Bellezza nella propria esposizione, che sembrava voler suggerire ancora una volta come dalla conoscenza dell’uomo potessero scaturire spunti per un’inedita comprensione dello scrittore, a patto che si mettessero da parte per un attimo pretese teoriche del tutto infondate35.

Ciò che a questo punto rimaneva da dimostrare, era la natura epilettica del genio manzoniano. Per molti biografi c’era l’epilessia (e quindi il timore di essere colto da una crisi mentre si trovava da solo) a monte dell’esigenza dello scrittore di

34 Dell’impressionabilità manzoniana darà un’inattesa testimonianza anche Paolo Mantegazza, cui si deve un interessante aneddoto. Mentre la madre dell’antropologo era in viaggio per Venezia, all’epoca impegnata in una strenua resistenza contro l’esercito austriaco, passò per Lesa, dove il romanziere si trovava in quei giorni a villeggiare. Recatasi a fargli visita, la madre di Mantegazza chiese anche a lui un sostegno economico a favore dei rivoltosi. Dinanzi a tale richiesta, Manzoni prese a correre come un matto da una parte all’altra della casa, tra strepiti e lamenti. Sottoscrisse poi una donazione di cinque lire, scusandosi per la scenata precedente, affermando che il fatto di non essere in condizione di offrire di più lo faceva uscir di senno (cfr. P. Mantegazza, Parvulae.

Pagine sparse, Milano, Treves, 1910).

35 Simili implicazioni in realtà sembreranno non sfuggire neanche a Lombroso, che in una breve recensione comparsa sul suo <<Archivio>> darà menzione di una discussione sul tema che aveva visto protagonisti Emilio Bertana ed Enrico Carrara. Stando al primo, le opere manzoniane erano pervase di paura per il fatto che tale sentimento giocava un ruolo decisivo nell’animo umano, di cui il grande romanziere fu cantore impareggiabile. Carrara invece sosteneva che vi fosse un legame tra la psiche dell’artista e la sua opera: la paura da cui le opere manzoniane erano compenetrate nasceva dall’inquietudine profonda che dominava la sua natura. L’alienista veronese propendeva ovviamente per la seconda ipotesi (cfr. << Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XXI (1900), p. 315). Ciò di cui il padre dell’antropologia criminale non si renderà mai conto è quanto l’esasperazione delle sue teorie avrebbe finito per ostacolare il diffondersi di studi di questo genere.

(16)

essere sempre accompagnato durante le sue uscite. E per quanto il figliastro del Manzoni avesse negato di aver mai assistito a una vera e propria crisi epilettica del patrigno, era noto che lo scrittore andasse soggetto a svenimenti, vertigini e cefalee. Si trattava di fenomeni gravitanti nell’orbita dei “fenomeni epilettoidi” tanto cari a Lombroso, che rappresentavano un equivalente delle crisi convulsive. Rientrava nella stessa categoria anche l’alternarsi nell’autore dei Promessi Sposi di una memoria prodigiosa e di incredibili smemoratezze36. A risultare però decisivo era il modo in cui l’estro manzoniano si esternava. Stando a Bellezza, lo scrittore milanese lavorava a sbalzi, e ai familiari sembrava spesso che mentre componeva si trovasse in preda a un vero e proprio impeto di follia. Celebre a tal proposito l’episodio relativo alla composizione del 5 maggio. L’immagine evocata dalla leggenda era quella di un Manzoni preda per giorni di una smania creativa insopprimibile, che lo condusse ad aggirarsi inquieto per le stanze della sua residenza di campagna, in cerca di ispirazione. Costrinse la moglie a suonare il pianoforte per ore, e sull’onda del proprio impeto emotivo, alimentato da quella musica incessante, giunse infine a dar forma compiuta al proprio capolavoro37. Alla luce di un simile aneddoto e di quelli che lo avevano preceduto era impossibile confutare la natura epilettoide dell’estro manzoniano. Il povero Alessandro non era un pazzo, e nemmeno un epilettico. Ma le vicende della sua vita, assemblate a bella posta, dimostravano come fosse un soggetto bizzarro, debole di nervi e incline a disturbi di evidente matrice epilettoide. In una patografia degna di questo nome, sarebbe bastato molto meno per saltare a delle conclusioni. E Bellezza non si esimeva certo dal fare lo stesso, conscio di inserirsi in una tradizione di ricerca che aveva già prodotto numerosi risultati:

Venne ora la volta del Manzoni, né certo è questa l’ultima sorpresa che si possa attendere dalla psichiatria. Sebbene, una volta dimostrato che Alessandro Manzoni, il genio sano per eccellenza, come volgarmente si ritiene, fu per lo meno un degenerato, ci sembra pure intrinsecamente dimostrata, <<al modo che si dimostra>>, la degenerazione di tutti gli altri uomini geniali, maggiori e minori, d’ogni classe, d’ogni tempo, d’ogni Paese38.

Lo scherzo era dunque stato confezionato. Le sue conseguenze, come spesso accade, andarono ben oltre le aspettative del suo autore.

36

Era questo un altro degli equivalenti epilettici segnalati da Tonnini e Lombroso, al quale sapientemente Bellezza si richiamava, cavalcando alla perfezione uno dei cavalli di battaglia più cari alla scuola dell’alienista veronese. Il critico letterario affermava infatti che, per quanto Manzoni fosse in grado di citare a memoria pagine intere delle opere altrui a lui più care, era capace al contempo di citare un’immagine o una massima contenuta in una sua opera senza rendersene conto. Risultava a questo punto impossibile per i suoi interlocutori convincerlo del fatto che fosse lui l’autore della frase da lui richiamata con tanta ammirazione.

37 L’episodio avvenne di luglio, e Bellezza non mancava di sottolineare come ciò confermasse l’ipotesi lombrosiana secondo la quale i mesi più caldi favorivano l’espletarsi dell’attività geniale. 38

Cfr. P. Bellezza, Genio e follia di Alessandro Manzoni, p. 248. La natura iperbolica delle asserzioni che chiudono l’opera, tale da sfociare quasi nella megalomania, ricalca a tal punto l’impeto lombrosiano da rappresentare forse uno dei passaggi più riusciti di tutta la parodia.

(17)

3. Il crepuscolo di una scuola

Come sia potuta sfuggire a Lombroso la natura parodica del saggio di Bellezza è un mistero intorno al quale già diversi dei suoi contemporanei si sono interrogati invano39. Fatto sta che l’alienista veronese, convinto di aver trovato un nuovo compagno d’arme, inviò al critico letterario una lettera colma di elogi40. Accortosi infine delle sue reali intenzioni, lo sdegno di Lombroso fu pari all’iniziale entusiasmo. In una recensione del testo incriminato pubblicata sull’«Archivio di Psichiatria» sottolineò come il Bellezza, nel tentativo di parodiare le sue teorie sull’uomo di genio, avesse accumulato tanti indizi certi della nevrosi di Manzoni da dimostrare proprio la tesi di cui intendeva prendersi gioco41. Alla luce di un simile convincimento, la replica che Bellezza pubblicò di lì a poco sulla «Rassegna Nazionale» era destinata a non fargli cambiare idea. In tale articolo il critico letterario esponeva apertamente i suoi intenti e il modo in cui li aveva perseguiti, assemblando a bella posta aneddoti infondati o del tutto falsi42. Commentando questo articolo nel suo «Archivio», Lombroso definì quello di Bellezza «uno scherzo da preti», tornando a ribadire l’evidenza di quella verità che inutilmente egli aveva tentato di screditare. A tal proposito, non esitava a disquisire delle fonti biografiche chiamate in causa per svelare l’infondatezza degli aneddoti riportati. Veniva soprattutto messa in discussione l’affidabilità dello Stampa43. In un nuovo articolo di risposta, l’autore della sin troppo riuscita parodia non risparmiava nuove critiche a Lombroso. Si sottolineava anzitutto l’assurdità di voler porre in dubbio l’autorità di quello che era considerato all’epoca il più

39

La cosa stupì in maniera particolare Rodolfo Renier, che ricostruendo la vicenda sul <<Giornale storico della letteratura italiana>> non riusciva a capacitarsi di come lo scherzo avesse potuto essere frainteso da Lombroso: <<Veramente l’accorgersene non doveva esser difficile, e fa meraviglia che un ingegno acuto come quello del Beltrami abbia potuto dire nel Corriere della

Sera che lo studio del Bellezza pare scritto sul serio, postoché non si osservino l’avvertenza

proemiale e la chiusa. E sarà, quando si sia avvezzi a libri scritti sul serio come quelli di certi psichiatri, che hanno tutta l’apparenza di essere scritti per burla. Ma chiunque abbia qualche pratica dei veri e buoni e severi studi critici, trova la parodia ad ogni pagina, nella mancanza di discernimento nell’accozzare aneddoti svariatissimi, nell’accostamento di fonti torbide ad attestazioni sicure, nel fare d’ogni erba un fascio purché si tratti di trovar puntelli alla propria prevenzione, nel procedimento, insomma, passionale, superficiale, antiscientifico dell’avventare un giudizio e poi cercarne le prove nei fatti dovunque presi e comunque stiracchiati, concludendo senz’esser punto licenziati a conchiudere>> (cfr. R. Renier, Rassegna Bibliografica, p.395). Il recensore sottolineava poi come il libro di Bellezza contenesse nonostante tutto anche spunti interessanti ai fini di una migliore comprensione della psiche e dell’opera del Manzoni. Questo dimostrava come le potenzialità insite in questo approccio non fossero sfuggite nemmeno a lui. 40

La lettera è riportata nel fondamentale saggio di Andrea Rondini dedicato agli studi lombrosiani sull’uomo di genio (cfr. A. Rondini, Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura, Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, in part. pp. 73-74). L’autore sottolinea al contempo come la natura parodica del saggio di Bellezza non fosse invece sfuggita a Graf, che in una lettera inviata al collega lo invitava a riconoscere comunque le potenzialità insite nell’approccio psicoantropologico.

41 Cfr. «Archivio di Psichiatria», XIX (1898), pp.478-482. 42

Cfr. P. Bellezza, Alessandro Manzoni e le nuove dottrine psichiatriche, in «Rassegna Nazionale», XX, (1898).

43

(18)

attendibile biografo del grande romanziere. Vi era poi un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della scuola lombrosiana, rea in primo luogo di fondare le proprie conclusioni su procedimenti speciosi. Si rilevava la tendenza dei suoi esponenti ad inserire le questioni trattate entro cornici concettuali che rendevano impossibile una discussione obiettiva, conducendo inevitabilmente a prese di posizione estreme. Uscire ad esempio dalla rigida dicotomia tra l’essere un bigotto o un libero pensatore, sottolineava Bellezza, avrebbe reso possibile inquadrare in maniera più obiettiva il senso religioso del Manzoni e l’evolversi nel corso degli anni della sua vita spirituale. Analogamente, sarebbe stato sufficiente soffermarsi a studiare un poco il tema delle piccole amnesie cui Manzoni andava soggetto per accorgersi che simili sviste erano comuni a molti scrittori. Tali fenomeni, che sembravano verificarsi soprattutto nel corso della fase creativa, potevano benissimo essere spiegati con cause che, chiamando in causa dinamiche mentali proprie della fase ideativa, non conducevano affatto a vedere nel loro palesarsi segni di degenerazione44. Era ormai evidente però come i due parlassero linguaggi tra loro incomunicabili. Nell’ennesima replica, che chiuse il loro scambio polemico, Lombroso si soffermava essenzialmente sulle considerazioni operate da Bellezza riguardo alle amnesie dell’uomo di genio, asserendo che la frequenza di tali lapsus tra gli uomini di lettere, lungi dal negare validità agli assunti della scuola positiva, finiva per conferire loro portata universale45.

Non rappresentava certo una novità il fatto che il padre dell’antropologia criminale si ostinasse a vedere delle prove laddove gli altri non avevano indicato che fatti destituiti di ogni valore. Stavolta però c’era un’onta da vendicare, e la posta in gioco era troppo alta per potersi limitare a un semplice riesame dei dati proposti dall’avversario. Dimostrare la natura patologica del genio manzoniano, infatti, avrebbe significato far crollare il mito del genio sano per eccellenza. Ecco allora tutto il clan lombrosiano mobilitarsi, andando in cerca di nuovi elementi probanti.

Le ricerche si concentrarono sul versante ereditario, e la cosa non stupisce di certo. Infatti in questo ambito era più semplice reperire aneddoti calzanti, che dimostrassero una volta di più la china degenerativa che conduceva al manifestarsi del genio. Nel caso di Manzoni, come visto, vi era poi una ben nota ascendenza geniale, rappresentata dal nonno Cesare Beccaria, al quale Paola Lombroso aveva dedicato uno studio prima ancora che lo studio di Bellezza vedesse la luce46. Si diceva del celebre pensatore che faticasse a imparare a

44 P. Bellezza, Ancora il Manzoni e gli psichiatri, in «Rassegna Manzoniana», I (1898), pp.532-536. 45 Cfr. «Archivio di Psichiatria», XX (1899), pp.623-624.

46

Cfr. P. Lombroso, La psicosi di Beccaria, in <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XVIII (1897), pp. 233-245. La data di pubblicazione del saggio dimostra in effetti come la famiglia del Manzoni stesse già attirando in quegli anni le attenzioni della scuola

(19)

leggere e scrivere e che già durante la giovinezza fosse vittima di illusioni e allucinazioni. Abulico e sospettoso, il suo tono sentimentale (che era del tutto incapace di dominare) oscillava di continuo tra la tristezza e l’esaltazione. Fonte di quasi tutti gli aneddoti che circolavano su Beccaria erano le lettere dei fratelli Verri, che commentavano spesso le stranezze di cui era costellata la quotidianità di quel compagno di mille battaglie. A loro si rifaceva anche la nostra autrice, che ricavava dai loro scritti importanti informazioni relative alla fase ideativa del nonno del Manzoni, che sembrava andare soggetta a rapide impulsioni improvvise:

Faceva insomma i suoi libri come il poeta improvvisa un sonetto. Questo stato di trance appunto in cui entrano alcuni uomini di genio al momento dell’inspirazione e da cui ricadono esaurito il momento, alla media ordinaria e al disotto, anzi, della ordinaria, come era il caso appunto di Beccaria, che dall’altezza della filosofia passava alla puerilità, è ben quello che disorienta i più perspicaci indagatori, come i Verri, che non conoscevano la genesi epilettoide del genio. Essi non riescivano a spiegare la coesistenza della genialità con quel complesso di puerilità, di paure, d’impulsività, che costituisce veramente un grado d’inferiorità psichica, di imbecillità

epilettoide47.

A questo studio si sarebbe poi affiancato quello condotto da Capelli su Giulia Beccaria, commentato da Lombroso sulle pagine dell’ <<Archivio>>48. Nata da una madre dalla salute cagionevole, morta a soli 29 anni, la figlia di Cesare crebbe senza che il padre si curasse particolarmente di lei. Non doveva dunque stupire il modo in cui evitò di curarsi a sua volta tanto del figlio quanto dell’anziano marito, ben presto abbandonato per un amante facoltoso col quale si trasferì a vivere a Parigi. Madre e moglie degenere, la sua movimentata vita sentimentale completava quello che nell’ottica lombrosiana era il ritratto perfetto della prostituta nata, della donna alienata nella quale il senso morale aveva subito un completo pervertimento.

Sulla scia di tale descrizione, era poi facile intuire come il vecchio Manzoni non fosse affatto il vero padre di Alessandro. Quale migliore occasione per inventarsi un padre che fornisse al romanziere una seconda ascendenza geniale? Ecco dunque Lombroso sostenere, sulle pagine della rivista da lui fondata e diretta,

lombrosiana. Alla luce di ciò, si comprende come il saggio di Bellezza cadesse perfettamente a puntino.

47

Cfr. P. Lombroso, op. cit., p. 244.

48 Cfr. <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XIX (1898), p. 650. Lo stesso Capelli ebbe poi modo di rispondere sulle pagine della rivista lombrosiana alle perplessità espresse da Bellezza in merito al suo studio (cfr. <<Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali>>, XX (1899), pp. 190-191). Credo che Marta Boneschi avesse perfettamente ragione quando sottolineava il modo in cui, per oltre un secolo, Giulia Beccaria fosse stata oggetto di un’unanime condanna morale, fondata su giudizi sommari e intrisi di pregiudizi. Era questo un altro dei lasciti ingombranti ereditati dalla stagione positivista. Solo nella seconda metà del XX secolo, ricollocando la vicenda umana della madre del Manzoni in una cornice più adeguata, si è giunti a comprendere il senso autentico delle scelte di vita spesso avventurose da lei compiute (cfr. M. Boneschi, Quel che il cuore sapeva. Giulia Beccaria, i Verri, i Manzoni, Milano, Mondadori, 2004).

Riferimenti

Documenti correlati

Con riferimento ai capitoli/articoli dell’entrata del bilancio dello Stato ove sono contabilizzate le riscossioni a mezzo ruolo (incluse quelle relative a interessi e

Quando si presentano applicazioni in regime laminare con scambio di calore, gli static mixer possono favorire lo scambio rispetto al classico tubo vuoto o senza

- l’INAIL, nelle “Linee di Indirizzo 2017” della Direzione Centrale Prevenzione, riconduce alle macroaree della “Promozione e Informazione” la realizzazione

Motivazione: Semplificazione del sistema fiscale e lotta all'evasione Contenuto di alcune delle misure: Proroga per tutto il 2017 dei termini per la presentazione delle istanze

DDL delega collegato alla LdS 2016, recante norme per il contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali

Quanto alle nascite, i Comuni inviano a questo Ufficio un prospetto riassuntivo del numero dei nati e dei nati-morti in ciascun mese dell'anno, divisi per sesso

Aquila degli Abruzzi. AvelUno Benevento Casel'ta. Bari delle Puglie. Reggio di Calabria.. - MORTI SECONDO IL SESSO E SECONDO LO STATO CIVILE, PER

È possibile che fra i bambini di stato civile ignoto, che abbiamo compreso nella stE'ssa categoria degli illegittimi non riconosciuti, alcuni siano figli di persone