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Innesti cutanei con tecnica frazionale

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE

Prospettiva storica……….……...……pag. 2

Anatomia e fisiologia della cute……….………...pag. 4

Wound Bed Preparatio……….………....……pag. 9

Classificazione ed indicazioni……….…pag. 21 Meccanismo di attecchimento………...pag. 27 Procedure di innesto………...………....pag. 30 Complicanze………..……..….pag. 32 STUDIO SPERIMENTALE Pazienti e metodi………...…..pag. 36 Trattamento………...…pag. 43 Risultati……….………....….pag. 47 Discussione………..pag. 60 Conclusioni….………..pag. 64 RINGRAZIAMENTI………...pag. 65 BIBLIOGRAFIA……….pag. 66

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PROSPETTIVA STORICA

L’innesto cutaneo (skin graft nella terminologia anglosassone) è una tecnica che prevede il trapianto di tessuto cutaneo da una regione del corpo ad un’altra dove è presente una lesione cutanea che non va incontro a guarigione/cicatrizzazione con la terapia conservativa.

Questa tecnica ha affascinato l’uomo sin dall’antichità, esistono infatti prove che in India vi si ricorresse già nel 3000 a.c. per trattare le amputazioni traumatiche nasali. La medicina Occidentale invece non si misurò con la chirurgia ricostruttiva fino agli inizi del 19esimo secolo, quando il chirurgo italiano Giuseppe Baronio sperimentò su una pecora il primo trapianto cutaneo riportando poi i risultati ottenuti nel Degli Innesti Animali [Davis 1941; Hauben et al. 1982; Johnson et al. 1992; Ratner 1998.] . Fra i primi ad effettuare e descrivere nell’uomo un trapianto cutaneo autologo a tutto spessore, usando come sito donatore un braccio, furono gli statunitensi Jonathan Warren e Joseph Pancoast. Progressivamente aumentarono gli studi sui meccanismi alla base dell’attecchimento del tessuto trapiantato, Paul Bert ad esempio evidenziò che la sopravvivenza di tale tessuto dipendesse dalla capacità dei vasi sanguigni del sito ricevente di rivascolarizzarlo. Da un punto di vista tecnico un importante passo avanti fu fatto da uno studente francese, Reverdin. Egli descrisse come prelevando piccoli segmenti cutanei, comprendenti l’epidermide e gli strati più superficiali del derma papillare, e trasferendoli su ampie ferite aperte granuleggianti, essi non soltanto coprissero temporaneamente la ferita ma fossero anche in grado di stimolare la sua guarigione. Nel 1872 Leopold Ollier introdusse il concetto di trapianto

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3 “dermoepidermico”, egli infatti osservò come l’impiego di innesti comprendenti sia l’epidermide che il derma, accelerasse il processo di guarigione e rendesse minima la contrazione della ferita. Successivamente il chirurgo tedesco Carl Thiersch notò l’importanza della preparazione del letto della ferita, sottolineando che la rimozione del tessuto di granulazione potesse facilitare la rivascolarizzazione dell’innesto, mentre nel 1875 l’oftalmologo inglese John Reissberg Wolfe descrisse il primo caso d’innesto a tutto spessore utilizzato per la correzione dell’ectropion palpebrale.

Nell’ambito della chirurgia delle ustioni una vera e propria rivoluzione fu condotta da Tanner che introdusse la tecnica del meshing per espandere il tessuto prelevato e permettere di coprire ferite più ampie limitando al minimo la morbidità del sito donatore. Nel 1914 Davis modificò la tecnica di Reverdin andando a sollevare la cute tramite un ago così da creare un cono di tessuto da sezionare a livello della base per asportare integralmente sia l’epidermide che il derma. Nei due secoli trascorsi dai primi tentativi di trapianto cutaneo in occidente, questa procedura ha subito una ampia e rapida evoluzione che è andata di pari passo con lo sviluppo delle tecniche di biologia molecolare e cellulare. Per comprendere i meccanismi alla base di questa procedura e le sue indicazioni cliniche, risulta necessario ricordare l’anatomia e la fisiologia della cute nonché i protocolli di gestione delle lesioni croniche.

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ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLA CUTE

La cute, o pelle, ha un peso complessivo che rappresenta circa il 10% del peso corporeo ed ha una superficie totale di 1,5-2,2 m^2. Ha uno spessore di 0,5-4,0 mm e ricopre interamente la superficie esterna del nostro corpo, rivestendo anche il meato acustico esterno e la membrana timpanica laterale.

La cute costituisce una vera e propria barriera in grado di proteggere il nostro organismo dai differenti fattori ambientali siano essi fisici, chimici o biologici. La regolazione della temperatura corporea, la sintesi della vitamina D, la funzione immunitaria, la sensibilità esterocettiva, rappresentano soltano alcune delle sue funzioni principali.

La cute ha una complessa struttura tridimensionale caratterizzata da strati sovrapposti di tessuto che differiscono fra loro per derivazione embriologica, struttura, specializzazioni e proprietà.

Epidermide

L’epidermide rappresenta lo strato più esterno o superficiale della cute. E’ un tessuto pluristratificato cheratinizzato di origine ectodermica che appare sottile e semitrasparente.

La sua complessa stratificazione riflette i vari stadi maturativi che attraversano le cellule della sua linea principale, ovvero i cheratinociti. Queste ultime sono cellule che vanno incontro, nell’arco di circa 28 giorni, a una progressiva sequenza di trasformazioni, da elementi ad intensa attività mitotica e metabolica a lamine inerti cheratinizzate. Al livello più profondo dell’epidermide (strato

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5 basale), si individua uno strato di cellule staminali unipotenti disposte a palizzata su un’unica fila che prendono il nome di cellule basali. In seguito alla divisione mitotica di una cellula basale in due cellule figlie, una rimane a livello di questo strato, mentre l’altra differenziandosi risale nello strato spinoso sovrastante. I cheratinociti spinosi si caratterizzano morfologicamente per la presenza di numerosi prolungamenti, definiti spine, provvisti di desmosomi mediante i quali sono tra loro connessi. Inoltre essi producono involucrina, una proteina che dà inizio al processo di corneificazione.

Al di sopra dello strato spinoso si trova lo strato granuloso, che rappresenta la zona di transizione tra i sottostanti cheratinociti, ancora vitali, e gli strati di cellule morte posti superficialmente. Esso è costituito da uno a tre ordini di cellule, che presentano nel citoplasma granuli cheratoialini costituiti prevalentemente da filaggrina, una proteina che svolgerà una funzione essenziale nel completamento della sintesi delle cheratine, e granuli denominati MCG (membrane coating granule) il cui contenuto ad azione cementante ed impermeabilizzante verrà progressivamente versato per esocitosi negli spazi intercellulari.

Infine si trova lo strato lucido, che solitamente è poco sviluppato nell’epidermide umana e risulta distinguibile soltanto nelle regioni più ricche di cheratina, e lo strato corneo che è il più superficiale dell’ epidermide e dell’intera pelle. A questo livello i residui delle cellule degli strati precedenti, assottigliate e ormai prive di nucleo, costituiscono le lamelle cornee, che disponendosi parallelamente alla superficie della cute ed embricandosi irregolarmente fra loro provvedono a formare una barriera che permette di mantenere l’acqua all’interno e gli organismi al di fuori del nostro corpo.

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6 Nell’epidermide frammisti ai cheratinociti si trovano altri tipi cellulari, quali i melanociti, le cellule di Langherhans e le cellule di Merkel. Circa il 10% delle cellule dell’epidermide è rappresentato dai melanociti, complesse cellule dendritiche che producono i granuli di melanina (contenuti nei melanosomi), i quali vengono poi trasferiti a livello dei cheratinociti dove contribuiscono alla colorazione della pelle ed intervengono nella protezione dei nuclei delle cellule basali epiteliali dai danni provocati dai raggi ultravioletti.

Le cellule di Langerhans appartengono alla linea dei monociti/macrofagi e costituiscono la prima linea delle difese cutanee. Sono cellule mobili, collocate a livello dello strato spinoso, particolarmente efficienti nel riconoscere, processare e presentare gli antigeni ai linfociti.

Le cellule di Merckel si trovano a livello dello strato basale dell’epidermide al confine con il derma, esse agiscono da meccanocettori partecipando alla sensibilità tattile.

Giunzione dermoepidermica

L’epidermide aderisce al derma sottostante tramite l’interposizione della membrana basale, definita anche come giunzione dermoepidermica. Tale giunzione ha un caratteristico aspetto ondulato dato dall’alternarsi di creste epidermiche e rilievi di natura connettivale ovvero le papille dermiche. La membrana basale a questo livello svolge due funzioni essenziali, da un lato permette il trasporto di ossigeno e metaboliti dalla matrice extracellulare del derma papillare fino alle cellule epidermiche, dall’altro interviene nel regolare lo sviluppo morfologico, la crescita e la migrazione dei cheratinociti.

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Derma

Il derma è una membrana elastica e distensibile, di colore biancastro, di tessuto connettivo denso ricco di elastina, collagene e glicosamminoglicani. Lo strato superiore del derma ha una particolare organizzazione architetturale si solleva infatti in sporgenze coniche, definite papille dermiche, ricche di fibre collagene, vasi sanguigni e terminazioni nervose. Tali papille ingranandosi a livello della giunzione dermoepidermica con zaffi epiteliali derivanti dalla sovrastante epidermide, aumentano notevolmente l’area di contatto tra l’epidermide ed il derma stesso, garantendo così ad entrambi gli strati una notevole stabilità meccanica ed ampie superfici di scambio per la diffusione.

Più profondamente si individua il derma reticolare che risulta costituito da robusti fasci di fibre collagene le cui direzioni variano nelle differenti regioni corporee dove formano il substrato delle linee di Langer. Lungo tali linee la deformabilità della pelle risulta minima, ed è quindi fondamentale da un punto di vista chirurgico la loro conoscenza, così da eseguire incisioni parallelamente ad esse per evitare l’allontanamento dei margini della ferita e facilitare la cicatrizzazione. Da sottolineare è anche la notevole capacità autorigenerante del derma, garantita dalla presenza e dall’attivazione dei mio fibroblasti in risposta ad un danno.

Vascolarizzazione cutanea

La vascolarizzazione della cute è garantita da reti stratificate di arterie, capillari e vene, tra loro in continuità secondo piani paralleli a disposizione pressoché orizzontale. Fondamentale è la vascolarizzazione del derma, poiché i vasi sono assenti negli strati e nelle strutture metabolicamente più attive quali l’epidermide,

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8 le ghiandole ed i follicoli piliferi. Subito al di sotto della membrana basale, a livello delle papille dermiche, i vasi sono organizzati nel plesso papillare che presenta una ricca rete di capillari che si estendono fino a giungere in prossimità dell’epidermide. Profondamente nel derma si individua il plesso reticolare, dal quale si originano piccoli vasi che si distribuiscono al tessuto sottocutaneo e agli annessi cutanei, compresi i bulbi piliferi. Dai capillari arteriosi si originano poi i plessi venosi che hanno una distribuzione analoga alle strutture arteriose.

I linfatici invece, originati a fondo cieco nel derma, sono connessi al plesso reticolare e ai vasi più ampi del tessuto sottocutaneo. Nella cute il drenaggio linfatico risulta particolarmente attivo, per questa ragione danni di diversa entità a questo livello o a livello del tessuto sottocutaneo, possono tradursi in importanti problematiche di stasi linfatica alle estremità.

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WOUND BED PREPARATION

La “preparazione del letto di ferita” o “Wound Bed Preparation” è un concetto alquanto semplice, inizialmente sviluppato da due esperti nel campo del trattamento delle lesioni croniche, il Dottor Vincent Falanga e il dottor Gary Sibbald, che ha però rivoluzionato in modo significativo l’inquadramento e la gestione delle lesioni cutanee croniche. In particolare per “Wound Bed Preparation” [WBP] si intende la gestione globale e coordinata delle lesioni cutanee, mirata ad accelerare i processi endogeni di guarigione, ma anche a promuovere l’efficacia di altre misure terapeutiche [Falanga 2002], evidenziando l’importanza di un approccio olistico e sistematico per valutare e rimuovere tutti gli ostacoli alla guarigione, in modo tale che la riparazione della ferita possa progredire normalmente [Falanga 2004].

Già nell’antichità diverse popolazioni compresero, seppur in maniera estremamente approssimativa, come il trattamento di una ferita potesse facilitarne la guarigione. Gli Inca erano soliti pulire le ferite con miscele vegetali, per poi coprirle con piume o bende ricavate dalle pelli di animali, gli antichi Egizi usavano invece “pane avariato” e strisce di lino imbevute nella gomma, mentre i Greci impiegavano sostanze minerali e drappi di stoffa. Proprio quest’ultima pratica che determinava spesso l’accumulo di fluidi nella ferita, può aver condotto al concetto di “pus bonum et laudabile”, che divenne popolare presso i guaritori Medievali, i quali credevano che la produzione di pus da parte di una ferita fosse desiderabile. Soltanto a partire dal tredicesimo secolo i chirurghi iniziarono a ricorrere a pratiche tali da evitare la formazione del pus, come ad esempio

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10 bendaggi con stoffa imbevuta nel vino o nell’acqua calda, cauterizzazione delle lesioni o loro trattamento con sostanze caustiche [Lyons et al. 1987].

Oggi grazie alla comprensione dei meccanismi di guarigione delle lesioni acute è stato possibile estrapolare un efficace protocollo di gestione della ferita cronica come il WBP. La guarigione di una ferita acuta generalmente si articola in quattro fasi principali che si susseguono e in parte si sovrappongono l’un l’altra mostrando una stretta interdipendenza, queste fasi sono rappresentate da: coagulazione, infiammazione, proliferazione e epitelizzazione ed infine rimodellamento del tessuto cicatriziale [Hasan et al. 1996; Agren et al. 1999; Cook et al. 2000]. Quando il processo di guarigione di una ferita acuta viene sovvertito o si “ arresta” in una di queste fasi, non riuscendo a progredire e a completare la riparazione del tessuto entro 6 settimane, parliamo di lesione cronica. Risulta quindi essenziale ricordare i meccanismi fondamentali che si susseguono nelle diverse fasi del processo di guarigione.

Coagulazione: si manifesta immediatamente in seguito al danno [Schulz 2004]. Per prevenire il sanguinamento, si osserva vasocostrizione nonché attivazione, adesione ed aggregazione piastrinica. In seguito all’attivazione dovuta al contatto con il collagene, le piastrine rilasciano diversi mediatori solubili, tra i quali fattori di crescita e di migrazione cellulare (PDGF, VEGF, bFGF, TGF-β, TGF-α e IGF-1), e glicoproteine adesive (fibrinogeno, fibronectina, trombospondina e fattore di von Willebrand) che determinano l’aggregazione delle piastrine stesse e la formazione del tappo di fibrina che funge da matrice extracellulare provvisoria [Gailit et al. 1994]. I fattori di migrazione rilasciati diffondono rapidamente

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11 attirando nell’area della lesione diverse cellule infiammatorie. I fattori di crescita invece stimolano la proliferazione di cellule epiteliali, fibroblasti , cheratinociti, e cellule dell’endotelio vascolare e ne regolano inoltre le funzioni, come la produzione delle proteine della matrice extracellulare che forniscono la matrice per il nuovo tessuto di granulazione.

Infiammazione: rappresenta la seconda fase del processo di guarigione che viene innescata dalla coagulazione del sangue e dal processo di degranulazione delle piastrine. Si manifesta entro le prime 24 ore dalla comparsa della lesione e può durare fino a 2 settimane nel caso di una lesione normale, mentre risulta significativamente più lunga nelle lesioni croniche. I mastociti rilasciano i granuli ricchi di enzimi, istamina ed altre amine, le quali sono responsabili dei segni caratteristici dell’infiammazione: rubor, calor, tumor e dolor. Si ha inoltre un’importante vasodilatazione associata ad un aumento della permeabilità capillare che permette alle cellule infiammatorie, richiamate per chemiotassi, di giungere nell’area lesionata. Le prime cellule infiammatorie ad intervenire sotto lo stimolo dei mediatori solubili rilasciati dalla piastrine sono i neutrofili, che fungono da prima linea di difesa contro le infezioni fagocitando i batteri e rimuovendo i il materiale estraneo ed i tessuti non più vitali. Essi migrano dal torrente circolatorio fino a raggiungere la sede della lesione; durante questo percorso, oltre a rilasciare collagenasi ed elastasi per progredire attraverso la membrana basale delle cellule endoteliali, rilasciano anche mediatori dell’infiammazione come TNF-α e IL-1 che promuovono ulteriormente il

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12 reclutamento e l’attivazione di fibroblasti e cellule epiteliali. Una volta giunti a destinazione producono radicali liberi dell’ossigeno, che permettono di uccidere i batteri fagocitati, rilasciano ingenti quantità di proteasi e rimuovono le componenti danneggiate della matrice extracellulare. Generalmente i neutrofili presenti nella lesioni vanno incontro ad apoptosi entro 2-3 giorni per poi esser sostituiti dai monociti tissutali [Chin et al. 2005]. I monociti circolanti, in maniera analoga ai neutrofili, migrano nella sede della lesione divenendo macrofagi attivati. Questi ultimi svolgono un duplice ruolo, sorvegliano l’area della ferita fagocitando i batteri e regolano la distruzione proteolitica del tessuto leso rilasciando inibitori delle proteasi, inoltre sono le cellule maggiormente coinvolte nel passaggio alla successiva fase del processo di guarigione, la fase proliferativa. Infatti rilasciano un ampia varietà di fattori di crescita e di citochine che promuovono l’angiogenesi e l’attivazione dei fibroblasti, i quali sintetizzeranno, depositeranno ed organizzeranno la nuova matrice.

Proliferazione: questa fase del processo di guarigione vede come cellule chiave i fibroblasti, i quali migrano nel sito della ferita in risposta ai differenti mediatori solubili rilasciati inizialmente dalle piastrine e più tardi dai macrofagi. Il movimento dei fibroblasti attraverso la matrice extracellulare provvisoria è facilitato dalla loro secrezione di differenti enzimi proteolitici che fanno parte della superfamiglia delle metalloproteasi di matrice [MPM], fra questi vi è la collagenasi (MPM-1), la gelatinasi (MPM-2 e MPM-9) che degrada il substrato di gelatina ed infine la stromelisina (MPM-3) che agisce nei confronti di differenti

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13 proteine della matrice. Una volta migrati a livello della matrice, i fibroblasti iniziano a sintetizzare i componenti del tessuto di granulazione che includono collagene, elastina, e proteoglicani. Tale tessuto rappresenta un rimpiazzo temporaneo al normale derma ed è caratterizzato da un aspetto granulare ed accidentato dovuto alla ricca rete di vasi sanguigni e capillari neoformatisi per sostituire la vascolarizzazione danneggiata e mantenere la vitalità del tessuto. Questa massiva angiogenesi è stimolata da fattori locali del microambiente che includono una bassa tensione di ossigeno, bassi livelli di pH ed alti livelli di lattati [Bhushan et al 2002]. Il tessuto di granulazione si caratterizza inoltre per una densa popolazione cellulare di macrofagi e fibroblasti e per la presenza di fibre collagene casualmente organizzate, che soltanto nella fase finale del processo di guarigione andranno a costituire una matrice connettivale in cui il rapporto tra collagene di tipo I e di tipo III è a valori più vicini alla norma. Da ultimo si realizza l’epitelizzazione della lesione, un processo multistep che comprende il distacco delle cellule epiteliali, il cambiamento nella loro struttura interna, la loro migrazione, la proliferazione e la differenziazione [O’Toole 2001]. Si osserva che dai margini liberi della ferita le cellule epiteliali iniziano a proliferare e a “scivolare” verso il suo centro, migrano sul tessuto di granulazione e vanno a ricostituire lo strato epidermico, così da garantire una normale organizzazione tissutale per numero di strati e differenziazione. Il completamento della barriera epiteliale induce l’interruzione dei fenomeni reattivi, infiammatori e proliferativi, mentre l’angiogenesi ritorna a valori normali. E’ da sottolineare come

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14 l’epitelizzazione rappresenti il segnale clinico della guarigione ma non costituisca la sua tappa finale, poiché il rimodellamento del tessuto di granulazione deve ancora realizzarsi.

Rimodellamento: è la fase finale del processo di guarigione che si caratterizza per la maturazione del tessuto di granulazione nella cicatrice e per l’aumento della resistenza alla trazione dei tessuti. La maturazione del tessuto di granulazione comprende diversi fenomeni fra i quali una riduzione del numero di capillari che si aggregano a costituire vasi più grandi ed una diminuzione della attività metabolica e della densità di cellule nel tessuto. Inoltre si ha una modificazione nel tipo, nella quantità e nell’organizzazione del collagene, così da aumentare progressivamente la resistenza alla trazione del tessuto. Inizialmente infatti si ha una elevata sintesi di collagene tipo III il quale viene però progressivamente sostituito con collagene tipo I, ovvero la fibra collagene preponderante nella cute. Questa riorganizzazione delle fibre collagene, precedentemente depositate in maniera casuale durante la formazione del tessuto di granulazione, associata al rilascio da parte dei fibroblasti dell’enzima lisilossidasi, che determina la formazione di legami crociati stabili fra le molecole di collagene, determina nel tessuto riparato un lento aumento della resistenza alla trazione che raggiungerà al massimo l’80% di quella riscontabile in un tessuto normale [Chin et al 2005].

Come sottolineato in precedenza in una ferita che non riesce a guarire dopo 6 settimane, una complessa miscela di fattori locali e dell’ospite deve essere valutata per comprendere meglio la natura della mancata guarigione, così da

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15 intervenire sull’ambiente molecolare e cellulare e trasformarlo in quello di una ferita acuta in via di guarigione in modo tale che la riparazione tissutale possa procedere attraverso la successione fisiologica delle fasi appena descritte.

La WBP incorpora tutte le tecniche standard di gestione delle ferite integrandole in maniera coordinata e si focalizza su quattro aspetti essenziali: tessuto e suo management (T) , infezione o infiammazione (I) , macerazione ed equilibrio dei fluidi (M), ed infine avanzamento dell’epidermide sulla ferita (E). Questi quattro aspetti affrontati nella WBP possono essere facilmente ricordati ricorrendo all’acronimo TIME (Tabella 1).

T per tessuto: ovvero il trattamento del tessuto devitalizzato o necrotico della lesione. La sua rimozione dal letto di ferita riduce il numero di microrganismi, le tossine ed altre sostanza che possono inibire il processo di guarigione stimolando l’infiammazione e ritardando la granulazione e l’epitelizzazione [Fowler 1992; Fowler et al. 1995]. La rimozione del tessuto devitalizzato o necrotico, definita come debridement, permette di asportare le cellule senescenti dal letto di ferita e le cellule non migranti dai margini dell’ulcera, così da garantire l’eliminazione dei batteri in eccesso ed una maggior disponibilità di fattori di crescita [Mulder et al. 2002; Trengrove et al. 1999] . La corrente pratica clinica impiega 5 differenti metodi di debridement : autolitico, enzimatico, chirurgico, biologico e meccanico [Donati et al. 1994; Kennedy et al. 1997]. Ciascuno di essi presenta vantaggi e limiti, è quindi necessario scegliere il metodo più adeguato sulla base delle condizioni del paziente, dell’obiettivo del trattamento

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16 globale e delle caratteristiche della soluzione di continuo e della necrosi. Spesso un adeguato debridement risulta sufficiente per promuovere il primo passo del processo di guarigione.

I per infezione/infiammazione: sottolinea come una ferita, a causa della perdita della continuità cutanea e della presenza di tessuto necrotico, costituisca un terreno ideale per la moltiplicazione di germi. L’ambiente microbiologico di una ferita può influenzare in modi differenti la guarigione, ad esempio essa può essere ritardata dalla presenza anormale di batteri che allungano notevolmente la fase infiammatoria. I batteri presenti nella lesione infatti consumano glucosio ed ossigeno determinando anossia tissutale, che associata ad un basso pH promuove la lisi cellulare [Corum 1993]. Mentre nelle lesioni acute è spesso assente una componente batterica, nella maggior parte delle lesioni croniche sono presenti batteri, e tale presenza viene definita come carica batterica (bioburden) per indicare il carico metabolico imposto dai batteri stessi nel letto della ferita [Stotts et al. 1999]. Sulla base della carica batterica, della virulenza e delle difese immunitarie dell’ospite si possono sviluppare quattro differenti condizioni che possono anche succedersi temporalmente nella medesima ferita: contaminazione, colonizzazione, colonizzazione

critica ed infezione. Per contaminazione si intende la presenza nella

lesione di microrganismi che non sono in attiva replicazione; con

colonizzazione si indica invece la presenza di microrganismi che si

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17 comuni commensali della cute che in molte circostanze hanno dimostrato di incrementare la probabilità di guarigione delle ferite [Rodeheaver et al. 1995]. La colonizzazione critica corrisponde invece ad una importante presenza di batteri in attiva replicazione che provocano un ritardo nella guarigione della ferita [Browne et al. 2001; Sibbald et al. 2001]; infine vi è la vera e propria infezione ovvero la presenza di microrganismi in attiva replicazione accompagnata da danno tessutale. Il controllo delle infezioni costituisce un tema centrale nel trattamento delle lesioni croniche. La terapia si compone dell'impiego locale di antisettici (antimicrobici aspecifici che agiscono su più siti bersaglio del microrganismo) seguita o meno dall'applicazione di antibiotici (antimicrobici che agiscono su specifici siti bersaglio); l’utilizzo degli antibiotici viene riservato nei casi in cui sono presenti i segni clinici di infezione, per ridurre al minimo il rischio di farmaco-resistenza.

M per macerazione: indica come un ambiente umido, favorendo la migrazione dei cheratinociti e la conseguente riepitelizzazione della ferita, arrivi ad accelerare anche del 50% il processo di guarigione della ferita rispetto all’esposizione all’aria [Geronemus et al. 1982]. Il riequilibrio del bilancio dei fluidi costituisce infatti una fase importante della preparazione del letto di ferita, poiché una eccessiva presenza di essudato può favorire la colonizzazione batterica ed ostacolare il processo di guarigione, mentre una eccessiva disidratazione dei tessuti può impedire la migrazione cellulare.

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18 Attualmente non esistono medicazioni avanzate che siano in grado di rispondere a tutte le esigenze , ma sono disponibili diverse soluzioni con caratteristiche specifiche per i vari tipi di ferita. La scelta del tipo di medicazione deve basarsi sulle condizioni globali del paziente e sull’osservazione clinica della ferita. Numerosi studi hanno ad esempio dimostrato come le ferite trattate con medicazioni occlusive abbiano minore probabilità di infettarsi rispetto a quelle trattate con medicazioni convenzionali [Hutchinson et al. 1991]. Le medicazioni occlusive oltre a ristabilire una corretta umidità nell’ambiente della ferita, riducono il carico di tessuto necrotico e promuovono l’accumulo di sostanze naturali che inibiscono la crescita batterica nell’essudato. Nel caso di lesioni croniche risulta invece essenziale il controllo dei livelli di essudato, poiché esso contiene sostanze che degradano le proteine della matrice extracellulare, inibiscono la proliferazione cellulare e bloccano l’azione dei fattori di crescita. In questo caso medicazioni ad alto grado di assorbenza o bendaggi compressivi contribuiscono alla rimozione dell’essudato in eccesso, limitandone gli effetti negativi, ed al tempo stesso mantengono umido il microambiente accelerando la guarigione della ferita.

E per epidermide: ricorda che l’aspetto della ferita ed in particolar modo dei suoi margini e della cute perilesionale è il principale indice di progressione del processo di riepitelizzazione. L’assenza di migrazione epidermica potrebbe esser dovuta alla presenza di cellule non responsive o senescenti e ad alterazioni dell’attività delle proteasi

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19 che degradano la matrice extracellulare non appena si forma, un margine sottominato potrebbe invece essere un segno di colonizzazione critica o di infezione. Un monitoraggio clinico della ferita è quindi essenziale nella gestione delle lesioni croniche, così da ricorre a debridement, medicazioni bioattive, skin grafts o terapie adiuvanti, per correggere il più rapidamente possibile il difetto che arresta il normale processo di guarigione.

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20 Tabella 1. Osservazioni cliniche e opzioni gestionali nella WBP

Osservazioni cliniche Problemi sottostanti Obiettivi

interventi clinici Interventi clinici Tessuto necrotico o devitalizzato -Promozione proliferazione batterica -Blocco migrazione cellulare

-Arresto attività dei fattori di crescita -Fondo della lesione deterso -Ripristino funzionalità cellulare -Debridement occasionale o di mantenimento: chirurgico, enzimatico, autolitico, meccanico o biologico Infezione o infiammazione -Rilascio tossine batteriche -Prolungamento infiammazione -Danno tessutale -Ristabilire bilancio batterico -Controllo infiammazione

-Rimozione foci infetti tramite terapie locali/sistemiche: antimicrobici, antinfiammatori, inibitori delle proteasi

Macerazione o secchezza-squilibrio dei fluidi -Essudato in eccesso: macerazione margini ferita -Secchezza: inibizione attività cellulare e formazione di escara -Controllo dell’eccesso di essudato e riduzione edema -Ripristino migrazione delle cellule epiteliali

-In base al grado di essudazione utilizzo medicazioni assorbenti -Medicazioni

biologiche: allograft

-P negativa

-Terapia sistemica per controllare l’edema e l’infiammazione -Bendaggi compressivi Epidermide margini non proliferativi o sottominati -Arresto migrazione cheratinociti -Anormalità nell’attività delle proteasi -Migrazione cheratinociti -Ripristino di un appropriato profilo delle proteasi -Debridement -Terapie di supporto -Innesti cutanei

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CLASSIFICAZIONE ED INDICAZIONI

Per innesto si intende il trasferimento di una porzione di tessuto (privato di tutte le connessioni vascolari) dalla sua sede di origine ad un'altra sede [Falanga 2000]. Gli innesti cutanei rappresentano ancora oggi il gold standard per ricoprire ampie aree andate incontro a perdita di tessuto cutaneo. Il concetto alla base di questa procedura è quello di prelevare la cute da un’area in cui il sito donatore potrà guarire lasciando cicatrici minime, e trapiantarlo laddove risulti necessario, così da garantire un risultato clinico riparativo. Gli innesti cutanei possono essere classificati sulla base dell’origine biologica dell’innesto, in relazione al sito anatomico del prelievo e del trapianto ed in base allo spessore del tessuto prelevato. La scelta fra essi si basa sul tipo di lesione e sul quadro clinico e le comorbilità del paziente.

Da un punto di vista dell’origine biologica dell’innesto si distinguono [Andreassi et al. 2005] :

innesti autologhi (autografts): il donatore ed il ricevente sono lo stesso soggetto

innesti omologhi (allografts): il donatore ed il ricevente sono soggetti differenti appartenenti alla stessa specie

innesti eterologhi (xenografts): il donatore ed il ricevente appartengono a specie diverse

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22 Gli innesti eterologhi prevedono l’utilizzo di cute di origine suina che viene impiegata come copertura temporanea di una lesione con lo scopo di fornire uno stimolo biologico al letto di ferita e promuovere la formazione del tessuto di granulazione. E’ da sottolineare come anche gli innesti omologhi svolgano una funzione transitoria, infatti a meno che il paziente non sia fortemente immunosoppresso vanno incontro a rigetto nell’arco di un breve periodo; tali innesti sono quindi impiegati generalmente per rivestire ampie aree di cute e ristabilire temporaneamente la barriera cutanea. Sono soltanto gli innesti autologhi a garantire un attecchimento definitivo [Jones at al. 2013; Chandrashekar et al. 2014].

In relazione alle sedi anatomiche del sito donatore/ricevente si distinguono innesti:

isotopici: il sito donatore e quello ricevente sono analoghi (es. il trasferimento di cute da un braccio all'altro);

ortotopici: il sito donatore e quello ricevente non sono analoghi ma si tratta dello stesso tipo di tessuto;

eterotopici: il tessuto del sito donatore è diverso rispetto a quello del sito ricevente.

La classificazione più importante è quella che permette di distinguere gli innesti cutanei sulla base della quota di derma prelevata durante l’asportazione del tessuto e si parla infatti di innesti a tutto spessore o ful-thickness skin graft [FTSG] e di innesti a spessore parziale o split-thickness skin graft [STSG]. Gli innesti a tutto spessore (FTSG) definiti anche come Wolfe-Krause grafts , hanno uno spessore

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23 superiore agli 0,6 mm, e sono composti dall’epidermide e dall’intero derma con le strutture annessiali. Quelli a spessore parziale (STSG) sono costituiti da epidermide e da una parte di derma di spessore variabile [Padgett 1967; Johnson et al. 1992; Stephenson et al. 2000], che permette di suddividerli in:

1. innesti sottili o di Thiersch-Ollier che hanno uno spessore di 0,15-0,3 mm e sono costituiti dall’ epidermide e dalla parte più superficiale del derma 2. innesti ad un terzo di spessore o di Blair-Brown che hanno uno spessore di

0,3-0,45 mm e sono costituiti dall’ epidermide e dal terzo superiore del derma

3. innesti a due terzi di spessore o di Padgett che hanno uno spessore di 0,45-0,6 mm e sono costituiti dall’ epidermide e dai due terzi superiori del derma

Inoltre vi sono gli innesti con sostituti cutanei, gli innesti epidermici o Pure Epidermal Sheet Grafts [PESG] e gli innesti composti o Composite Grafts [CG] che sono costituiti da almeno due tessuti tra: cute, tessuto adiposo, cartilagine, tessuto muscolare o osseo.

Ciascun tipo di innesto presenta caratteristiche ed indicazioni notevolmente differenti (Tabella 2), a partire dal sito donatore a livello del quale effettuare il prelievo, infatti per innesti sottili e medi si considerano le cosce, i glutei e l'addome, per quelli più spessi si prediligono zone di cute morbida e uniforme come la regione della piega del gomito, la superficie interna del braccio e così via [Audrain et al. 2015].

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24 Gli innesti a tutto spessore (FTSG) vengono impiegati in tutto il corpo per lesioni cutanee profonde che si estendono fino alla fascia e per lesioni del volto in particolare a livello del naso, delle palpebre o delle orecchie poiché garantiscono un miglior risultato estetico, mentre non sono indicati per tessuti avascolari come ad esempio ossa esposte in quanto tali tessuti non possono fornire un supporto vascolare adeguato per garantire la vitalità dell’innesto.

Gli innesti a spessore parziale (STSG) sono efficaci nel trattamento di ulcere poiché il loro minore spessore richiede un supporto vascolare ridotto [Kirsner et al. 1993; 1997], come sottolineato da Skouge [Skouge 1987] inoltre questi innesti possono essere utilizzati per coprire ampie lesioni per le quali la guarigione per seconda intenzione risulterebbe troppo lenta. Gli innesti epidermici, come verrà discusso nella parte finale di questo lavoro, trovano indicazione nel trattamento della vitiligine [Njoo et al. 1998] e delle ulcere croniche di piccole dimensioni.

Oggi trovano anche largo impiego i sostituiti cutanei bioingegnerizzati (Tabella 3). Essi hanno risolto problemi legati alla disponibilità di donatori, da un'area di 2 cm2 di cute infatti si può ottenere in un breve periodo una superficie tale da rivestire gran parte del corpo di un uomo, nonché hanno risolto i problemi legati al rischio infettivo ed immunologico dei vari innesti, poiché le colture vengono create con cheratinociti autologhi [Cai et al. 2014; Sparks et al. 2015]. Risulta però da sottolineare come essi abbiano un ruolo principalmente nel fornire una copertura transitoria e fattori di crescita necessari per la guarigione di una lesione, ma non siano in grado di sostituire i tradizionali innesti autologhi a causa di varie difficoltà tra le quali: la ridotta vascolarizzazione, la fibrosi ai margini dell'innesto ingegnerizzato, la mancanza degli annessi cutanei, la lentezza della crescita

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25 cellulare nelle colture in vitro, le scarse risorse di cellule staminali, la persistenza di cellule negli innesti eterologhi (anche se purificati), la biocompatibilità, le proprietà meccaniche e i costi [Constantin et al. 2014]. Per quanto riguarda le modalità di realizzazione dei sostituti cutanei essi si possono ottenere tramite colture in vitro, come la coltura cellulare su supporti di materiali biocompatibili, oppure in vivo impiantando impiantando i surrogati tessutali direttamente sul paziente. Le cellule staminali epidermiche da coltivare si prelevano direttamente dai follicoli dei capelli eliminando la necessità di eseguire una biopsia, inoltre vi è anche la possibilità di conservare sia i cheratinociti che il tessuto coltivato attraverso la crio-conservazione. I differenti sostituti vengono classificati in base alla composizione in analoghi epidermici, dermici o dermo-epidermici [Kim et al. 2014; Nair et al. 2014].

Tabella 2. Scelta di trattamento per differenti lesioni cutanee Scelta terapeutica Caratteristiche lesione Piccola superficiale Piccola profonda Larga superficiale Larga profonda Seconda intenzione +++ ++ ++ PESG + + STSG + ++ FTSG ++ ++

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26 Tabella 3. Principali sostituti cutanei in commercio

Componenti Nome commerciale

Gel di collagene+ cheratinociti in coltura allogenici

Apligraf®

Cheratinociti in coltura autologhi Epicell® Matrice extracellulare + ossido di

politiene

Transcyte®

Silicone + collagene Integra®

Derma acellulare AlloDerm®

Membrana di acido ialuronico perforato+cheratinocini in coltura Laserskin® Fibroblasti allogenici+ Ossido di politilene Dermagraft® Collagene+cheratinociti allogenici+fibroblasti allogenici Orcel®

Cheratinociti in coltura autologhi + fibrina sigillante

Bioseed®

Cheratinociti in coltura + fibroblasti autologhi+

Ossido di politilene

Polyactive®

Acido ialuronico microperforato+ fibrobasti umani

Hyalograft®

Silicone + collagene+ nylon Biobrane®

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MECCANISMO DI ATTECCHIMENTO

Il tessuto che va incontro a trapianto negli innesti cutanei, mantiene intatta la propria organizzazione anatomica mentre perde in seguito all’asportazione il supporto vascolare che ne garantisce normalmente la sopravvivenza. Il meccanismo alla base dell’attecchimento e della guarigione degli innesti viene suddiviso in tre fasi sulla base del supporto vascolare nei componenti dermici: l’imbibizione serica, la rivascolarizzazione e la maturazione.

Imbibizione serica

Nei giorni iniziali che fanno seguito al trapianto, prima che si realizzi la rivascolarizzazione dell’innesto, l’ossigeno ed i nutrienti si diffondono attraverso il plasma che scorre tra il letto della ferita e lo stesso tessuto trapiantato garantendone temporaneamente un adeguato nutrimento. Huebscher e Goldmann furono i primi a teorizzare che nelle fasi iniziali, antecedenti alla vascolarizzazione, l’innesto ricevesse il proprio nutrimento dai fluidi del paziente e definirono questo fenomeno come “circolazione plasmatica” [Huebscher 1888; Goldmann 1894]. Successivamente si evidenziò come il fibrinogeno si trasformi in fibrina e fissi l’innesto alla lesione senza che vi sia la presenza di un reale flusso plasmatico, si iniziò quindi a parlare di “imbibizione serica”. Diversi studi hanno mostrato che nelle prime 24 ore il tessuto trapiantato va incontro a questo processo di imbibizione serica ed aumenta infatti il proprio peso fino ad un 40% in più del peso originale [Converse et al. 1989]. E’ da sottolineare che questo processo di assorbimento passivo del siero dal letto della ferita provoca edema del tessuto che però si risolve in seguito al ristabilirsi vascolarizzazione.

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Rivascolarizzazione

La rivascolarizzazione inizia dopo 24-48 ore dal trapianto e rappresenta una fase critica nel processo di attecchimento, da essa infatti dipende la sopravvivenza a lungo termine dell’innesto [O’Ceallaigh et al. 2007]. Il meccanismo alla base della rivascolarizzazione è rimasto a lungo sconosciuto, sono state quindi avanzate in letteratura tre differenti ipotesi ciascuna delle quali oggi si ritiene contribuisca in maniera variabile a questo processo: l’anastomosi, la neovascolarizzazione e l’ingrowth delle cellule endoteliali. L’anastomosi è il processo di connessione tra i vasi sanguigni esistenti nel sito ricevente e quelli presenti nell’innesto [Marckmann 1966; Smahel 1967; Clemmesen1968]. Con neovascolarizzazione si indica invece un processo caratterizzato dalla crescita nel sito ricevente di nuovi vasi sanguigni che poi si estendono progressivamente nel tessuto trapiantato. L’ultimo meccanismo invece prevede la proliferazione delle cellule endoteliali del sito ricevente ed il loro scivolamento lungo la preesistente lamina basale dei vasi, mentre prevede a livello dell’innesto una progressiva degenerazione delle cellule endoteliali inizialmente presenti [Converse et al.1975; Goretsky 1995]. Oltre a questi meccanismi appena descritti, studi recenti hanno evidenziato anche altri processi potrebbero intervenire nella rivascolarizzazione, ad esempio si è osservato che dopo 24-240 dall’innesto si realizza un innalzamento dei livelli dei fattori di crescita legati all’angiogenesi ipossia-indotta [Lindenblatt et al. 2008].

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Maturazione

Una volta che l’innesto si è completamente integrato, l’innesto stesso ed il tessuto circostante vanno incontro a rimodellamento e contrazione, così come accade nel processo di guarigione delle lesioni acute. Gli innesti cutanei richiedono almeno un anno di tempo per giungere a completa maturazione, tempo che può anche allungarsi notevolmente nei soggetti ustionati e nei bambini. E’ da sottolineare come le cicatrici che residuano da un trapianto cutaneo, vadano incontro a miglioramento per anni, quindi può risultare utile valutare una prolungata terapia conservativa.

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PROCEDURE DI INNESTO

Gli innesti cutanei di spessore differente necessitano di considerazioni diverse al momento del prelievo del tessuto ed anche in sede postoperatoria per la scelta di un adeguato trattamento del sito ricevente. Quando si effettuano innesti cutanei a spessore parziale molti chirurghi, allo scopo di ridurre il sanguinamento, ricorrono ad infiltrazioni sottocutanee di epinefrina diluita in soluzione salina. Il prelievo del tessuto può essere effettuato in tutte le aree del corpo così da sostituire un tessuto con uno il più simile possibile. Si possono impiegare due metodi differenti: con la tecnica a mano libera utilizzando bisturi, lame di rasoio, coltelli chirurgici (coltello di Humby o di Blair) e il coltello oscillante di Goulian, oppure con la tecnica che prevede l’impiego del dermatomo elettrico o quello meccanico. Lo svantaggio della tecnica a mano libera risiede nella maggior difficoltà a mantenere uno spessore costante durante il prelievo, determinando successivamente sia a livello del sito donatore che di quello ricevente un risultato estetico non soddisfacente.

Nel caso di innesti a tutto spessore il prelievo viene effettuato con il bisturi in aree nelle quali vi è sufficiente cute per ottenere successivamente una chiusura diretta. La maggior parte di questi innesti richiede in seguito al prelievo la rimozione del grasso dal tessuto così da facilitarne la rivascolarizzazione e l’attecchimento.

Una volta che il tessuto autologo è stato prelevato e posizionato sul sito della lesione uno dei fattori più importanti per garantirne l’attecchimento è l’immobilità del tessuto stesso durante il processo di rivascolarizzazione. Una tecnica open

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31 richiede il monitoraggio intensivo dell’innesto, quindi generalmente si ricorre alla sutura e ad un bendaggio compressivo. Nel caso di innesti ampi e multipli come per i soggetti ustionati, il fissaggio può esser effettuato con le graffette così da ridurre i tempi dell’intervento. Il trattamento a pressione negativa che si realizza con dispositivi che permettono un’applicazione continua e localizzata di una pressione sub atmosferica in corrispondenza del sito del trapianto permettono un rapido attecchimento dell’innesto e sono quindi indicati nei pazienti che necessitano una rapida mobilizzazione [Korber et al. 2008; Rozen et al. 2008; Barendse-Hofmann et al. 2009]. Per il fissaggio dell’innesto può anche risultare utile la colla di fibrina che in alcuni casi viene applicata direttamente sul tessuto prelevato prima di posizionarlo sul sito della lesione. Tale colla crea una vera e propria rete che probabilmente agisce da matrice extracellulare temporanea al di sotto dell’innesto [Foster 2008].

Quando l’innesto ha creato connessioni stabili con il letto di ferita e si è quindi realizzata la rivascolarizzazione, cioè dopo 5-10 giorni dal trapianto, si può procedere alla prima medicazione. In alcuni casi si effettua anche una prima medicazione a 3 giorni dall’innesto per valutare il tasso di attecchimento, tale procedura risulta però rischiosa poiché a causa della forza di trazione esercitata si può determinare la rottura delle connessioni vascolari nascenti determinando una perdita dell’innesto.

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COMPLICANZE

Le complicanze degli innesti cutanei sono strettamente correlate alle condizioni generali del paziente( pazienti defedati, arteriopatici etc.), alle condizioni loco regionali che possono ostacolare il normale processo di cicatrizzazione e, di conseguenza, a tutte quelle condizioni che possono interferire con il normale processo di attecchimento.

Ematoma

Qualsiasi liquido presente tra la ferita e il tessuto trapiantato può impedire l’attecchimento dell’innesto. Il sanguinamento rappresenta una delle più importanti complicanze dopo il prelievo e l’innesto, con una perdita di sangue che può raggiungere i 100-200 ml ogni 1% di superficie corporea escissa con il bisturi [Cartotto 2000]. Il chirurgo deve quindi accertarsi che il sanguinamento si arresti prima di procedere al bendaggio della lesione. La cauterizzazione può essere utilizzata per controllare il sanguinamento dei vasi più ampi, mentre incisioni dell’innesto possono esser utili per permettere l’evacuazione dei fluidi tramite un bendaggio compressivo.

Sieroma

L’imbibizione sierica è essenziale per la sopravvivenza precoce dell’innesto. Un’eccessiva presenza di siero però come accade nel sieroma può ritardare o impedire l’attecchimento. I sieromi risultano possono però esser prevenuti attraverso un’adeguata fenestrazione dell’innesto.

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Infezioni

Quando compare un’infezione in seguito ad innesto, il pus spesso si accumula al di sotto del tessuto trapiantato e può rapidamente diffondersi.Se l’infezione viene riconosciuta precocemente può esser sufficiente un’incisione ed il drenaggio del fluido al di sotto dell’innesto per permetterne la sopravvivenza. Sono stati comunque sviluppati numerosi bendaggi dotati di agenti antimicrobici topici. Bendaggi con nitrato d’argento o con ioni d’argento sono risultati utili, poiché i batteri sembrano sviluppare difficilmente una resistenza ad essi. Alcuni microrganismi come Pseudomonas possono contaminare la lesione determinando infezioni non purulente. Inoltre è stato osservato che anche infezioni sistemiche possono impedire l’attecchimento dell’innesto.

Mancato attecchimento

Condizioni sfavorevoli quali malnutrizione, vasculiti, patologie maligne, steroidi e farmaci chemioterapici sono causa o possono accelerare il rigetto di un innesto.

Instabilità

Trazioni esercitate sull’innesto sono una delle cause principali del suo rigetto poiché possono determinare la rottura delle fragili connessioni vascolari in via di formazione.

Sito donatore

A livello del sito donatore possono svilupparsi infezioni dovute a contaminazioni batteriche durante il prelievo o in fase postoperatoria. Tali infezioni vengono trattate con antimicrobici topici. Il ritardo nella guarigione del sito donatore,

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34 dovuto all’infezione, può portare alla formazione di una cicatrice ipertrofica. Cicatrici ipertrofiche e cheloidi possono comparire anche in soggetti che presentino una propensione alla formazione di cicatrici. Inoltre una reazione comune che si può osservare a livello del sito donatore è il prurito e lo sviluppo di ipersensibilità ai cambi di temperatura.

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PAZIENTI E METODI

Sono stati reclutati 10 pazienti giunti presso la U.O. Dermatologia dell’Università di Pisa con diagnosi di ulcere cutanee di vario tipo e 5 pazienti con vitiligine in fase di stabilità. I pazienti sono stati reclutati per lo studio dopo aver informato il Comitato Etico ed aver ottenuto la loro approvazione ed il loro consenso.

I pazienti (Tabella 4)erano 6 di sesso femminile e 4 di sesso maschile, con un’età compresa tra i 49 e gli 89 anni, ed un’età media di 66,6 anni. Essi presentavano vari tipi di ulcere, in particolare 5 erano di natura venosa e 5 atipiche, ma erano tutte caratterizzate da un adeguato letto di ferita con buon tessuto di granulazione, dall’assenza di infezione, dalla presenza di essudato in compenso. Per quanto riguarda le ulcere atipiche sono state trattate : una deiscenza postchirurgica dopo innesto autologo, un’ulcera da terapia con idrossiurea in paziente con policitemia vera, un’ulcera iatrogena in paziente con dipendenza da eroina, un pioderma gangrenoso e un paziente con mieloma multiplo in terapia con inamitib monidrato. Le lesioni si situavano tutte a livello dell’arto inferiore, di queste, una in particolare a livello della caviglia destra ed una a livello del piede destro.

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37 Tabella 4 . Caratteristiche e comorbilità nei pazienti con ulcere venose ed atipiche

Caso Sesso Età Tipo di ulcera Sede Comorbilità

1 M 53 Venosa Caviglia destra No

2 F 84 Venosa Arto inferiore No

3 F 56 Venosa Arto inferiore Diabete

4 F 66 Venosa Arto inferiore Artrosi

5 F 62 Venosa Arto inferiore No

Caso Sesso Età Tipo di ulcera Sede Comorbilità

6 M 57 Deiscenza

postchirurgica

Piede destro Melanoma

7 F 78 Atipica Arto inferiore Pioderma gangrenoso

Ipertensione

8 M 49 Iatrogena Arto inferiore Dipendenza da eroina 9 F 89 Atipica Arto inferiore Policitemia vera

Tp con idrossiurea

10 M 72 Venosa Arto inferiore Leucemia mieloide

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38 Le lesioni avevano dimensioni non elevate con un’ area compresa tra 1,38-27,73 cm2, misurata attraverso il Klonk Image Measurement, un software che permette, a partire da un’immagine digitale, di misurare gli assi, il perimetro e l’area dell’immagine stessa. Le dimensioni delle lesioni, riportate nella tabella sottostante (Tabella 5), risultavano inoltre stabili da almeno 1 mese nonostante terapia standard.

Tabella 5. Dimensioni lesioni rilevate tramite Klonk Image Measurement

Paziente Area Lesione Perimetro Lesione

1 3,21 8,42 2 2,20 6,39 3 2,94 8,85 4 27,73 43,51 5 1,38 6,02 6 3,26 8,3 7 14,98 18,96 8 2,07 10,82 9 3,19 10,50 10 20,82 39,86

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39 Di ciascuna lesione è stato valutato il letto di ferita ed è stato fornito uno punteggio sulla base del Falanga Wound Bed Score [WBS] ( Tabella 6).

Tabella 6 . Falanga Wound Bed Score

Caratteristiche 0 1 2

Guarigione dei bordi No 25-75% >75%

Escara >25% della superficie 0-25% No

Profondità dell'ulcera/ tessuto di granulazione

Molto depresso o in rilievo rispetto alla cute perilesionale

Moderato Arrossamento

Essudazione Severa Moderata Assente o

minima

Edema Severa Moderato Assente o

minimo

Dermatite perilesionale Severa Moderata Assente o

minima Callo/Fibrosi

perilesionale

Severa Moderata Assente o

minima

Letto della ferita rossso No 50-75% >75%

Le immagini delle lesioni con i relativi punteggi ottenuti attaverso il WBS sono state riportate nella tabella alla pagina seguente.

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40

Tabella 7A. Immagini lesioni e WBS

Caso Ferita

WBS

1

15

2

13

3

12

4

13

5

14

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41

Tabella 7B. Immagini lesioni e WBS

Caso Ferita

WBS

6

15

7

14

8

12

9

12

10

13

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42 Sempre presso la U.O. Dermatologia dell’Università di Pisa, sono stati reclutati 5 pazienti con vitiligine in fase di stabilità. I pazienti avevano un’età compresa tra i 23 e i 67 anni con un’età media di 40,2 anni, di questi 3 erano uomini e 2 erano donne. Essi presentavano una stabilità di malattia da almeno 12 mesi nonostante fossero state eseguite tutte le terapie standard. Dei pazienti soltanto uno presentava comorbilità, mentre le sedi delle lesioni risultavano notevolmente variabili.

La caratteristiche dei pazienti sono state raccolte e riassunte nella tabella sottostante.

Tabella 8 . Caratteristiche e comorbilità nei pazienti con vitiligine

Caso Sesso Età Sede Comorbilità

1 F 24 Regione pretibiale sinistra Celiachia 2 M 26 Gomito No 3 F 23 Gomito destro No 4 F 61 Mano Sinistra No 5 M 67 Collo No

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TRATTAMENTO

I pazienti sono stati sottoposti ad un innesto cutaneo epidermico autologo impiegando il sistema CelluTome™ (Figura 1). Quest’ultimo è uno strumento automatizzato per il prelievo di micro calotte epidermiche che si caratterizza per la minima invasività e la possibilità di impiego in ambiente ambulatoriale.

Figura 1: CelluTome™

CelluTome è composto da un’unità di controllo ( Figura 2 ), da una testa di aspirazione con i relativi tubi ( Figura 3 ) che fungono da collegamento con l’unità di controllo stessa e da un’unità monouso, definita come raccoglitore ( Figura 4 ) , che presenta una griglia per la formazione delle micro calotte.

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44

Figura 2: Unità di controllo Figura 3: Testa di aspirazione Figura 4:

Raccoglitore

L’unità di controllo dell’apparecchio genera una pressione negativa e un aumento di temperatura che tramite i tubi erogatori vengono trasferiti fino a livello della testa di aspirazione dove si raggiunge una pressione negativa di -400/-500 mmhg e una temperatura compresa tra i 37 e i 41 gradi. Queste condizioni determinano a livello del raccoglitore, adeguatamente posizionato sul sito donatore, un sollevamento delle microcalotte epidermiche (Figura 5) , facilitato dalla presenza della griglia per microrilievi.

Figura 5: Sollevamento microcalotte epidermiche.

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45 Il sito donatore stabilito è rappresentato dall’interno coscia, in quanto non soltanto permette una maggior aderenza della testa di aspirazione durante il processo di sollevamento delle microcalotte, ma anche perché la gestione della ferita, che fa seguito al prelievo, risulta più semplice.

Il sito donatore, prima di procedere all’applicazione della testa di aspirazione, viene deterso con soluzione fisologica e se necessario viene effettuata una tricotomia, mentre non si effettua alcun tipo di anestesia. Il sollevamento delle calotte epidermiche, che si realizza in un tempo compreso tra i 30 e i 40 minuti, risulta valutabile attraverso una finestra presente sulla testa di aspirazione. Durante il prelievo si valuta il dolore del paziente impiegando la Wong-Baker FACES® Pain Rating Scale. Quando si raggiungono le condizioni ideali delle microcalotte si sgancia la testa di aspirazione dal raccoglitore che viene invece lasciato sulla cute del paziente. Sulla griglia del raccoglitore viene posizionato una pellicola (ad es. Tegaderm®), precedentemente forata con un ago calibro 18 cosi da facilitare il drenaggio di un eventuale essudato, o una garza non aderente (ad es. Adaptic ®).

Tramite un’ adeguata pressione si fa aderire la pellicola o la garza alle microcalotte così da garantir loro una spaziatura costante. Si attiva quindi la maniglia presente sul raccoglitore per prelevare le microcalotte dalla cute e catturarle sulla pellicola o sulla garza. I microinnesti così ottenuti vengono quindi posizionati sul sito ricevente attraverso la pellicola che permette loro di mantenere un corretto orientamento. Si termina procedendo ad un bendaggio del sito donatore e di quello ricevente. A distanza di 1, 2, 3, e 4 settimane si effettua il controllo delle lesioni per valutare l’efficacia dell’innesto. (Figura 6)

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46 Figura 6: Innesto epidermico frazionale tramite sistema CelluTome™

E’ da sottolineare come la procedura presenti alcune variazioni in base al tipo di lesione da trattare, sia al momento della preparazione del sito ricevente, sia nel bendaggio che si realizza al termine della procedura stessa. In particolare nel caso dei pazienti con vitiligine a livello del sito ricevente, rappresentato dalla zona acromica, si effettua un’ anestesia locale con lidocaina al 2% e successivamente si prepara il letto di ferita con dermoabrasione meccanica con curettage superficiale.

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47

RISULTATI

Sono stati trattati 10 pazienti con ulcere, dei quali 5 presentavono ulcere venose e 5 ulcere atipiche, tutte però caratterizzate da un adeguato letto di ferita, assenza di infezione e buon tessuto di granulazione.

A distanza di 3 settimane dall’innesto 6 ulcere su 10 (60 %) sono andate incontro a guarigione, mentre le restanti 4 (40 %) hanno subito una riduzione delle dimensioni (Tabella 9 ).

Tabella 9. Dimensioni lesioni rilevate con Klonk Image Measurement

Paziente Area iniziale

ulcera Perimetro iniziale ulcera Area ulcera dopo 3 settimane Perimetro ulcera dopo 3 settimane 1 3,21 8,42 Guarito Guarito 2 2,20 6,39 1,4 5,2 3 2,94 8,85 Guarito Guarito 4 27,73 43,51 24,39 30,32 5 1,38 6,02 Guarito Guarito 6 3,26 8,3 Guarito Guarito 7 14,98 18,96 8,42 30,43 8 2,07 10,82 Guarito Guarito 9 3,19 10,50 Guarito Guarito 10 20,82 39,86 19,14 41,88

Si è osservato inoltre che nello stesso periodo di tempo, ovvero tre settimane, il WBS è migliorato in tutte le ulcere, sia quelle venose sia quelle atipiche (Tabella pagina seguente)

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48 2 13 15 3 12 14 4 13 15 5 14 15 1 15 16

Caso Ferita iniziale WBS

iniziale

Ferita dopo innesto WBS

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49 7 14 15 8 12 14 9 12 16 10 13 14 6 15 16

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50 Per quanto riguarda la sede del prelievo, ovvero il sito donatore , venendo rimosso il solo strato epidermico, non si è osservato sanguinamento e la guarigione si è manifestata entro le due settimane dal prelievo senza esiti cicatriziali (Figura 7).

Figura 7: Riepitelizzazione del sito donatore

Tra le ulcere di tipo venoso risultati ottimi si sono ottenuti anche nel caso di lesioni di grosse dimensioni, pur non essendo questa una indicazione specifica per questo trattamento. In particolare è stata sottoposta alla procedura una paziente (nelle tabelle paziente 4) di 66 anni che presentava un’ulcera venosa (Figura 8), con un’area di 27,73 cm2 e un WBS di 13, precedentemente trattata con terapie standard ed innesto autologo senza però ottenere buoni risultati clinici .

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51 Figura 8: Ulcera tempo 0

Sono stati eseguiti 3 prelievi tramite CelluTome nel tentativo di coprire l’intero letto di ferita, quindi l’innesto è stato ricoperto con garza non aderente e bendaggio adesivo elastico. Sono stati effettuati controlli a 7 giorni, 14 giorni, 21 gorni e 30 giorni. Nel controllo a 3 settimane si è osservata una riduzione dell’area dell’ulcera fino a 24,39 cm2, inoltre si ha avuto un miglioramento del WBS che si è ridotto da 13 a 15 e si è evidenziata la presenza di bottoni di tessuto epidermico indici dell’inizio di guarigione della ferita (Figura 9).

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52 I pazienti con ulcere atipiche sottoposti alla procedura presentavano condizioni notevolmente diverse tra loro che necessitano di esser approfondite per valutare i risultati del trattamento.

Un paziente di 57 anni (tabelle paziente 6), con melanoma trattato presso altra sede, presentava una deiscenza post chirurgica dovuta al mancato attecchimento di un innesto autologo effettuato a livello della lesione nel piede destro. La lesione aveva dimensioni di 37,21 cm2 ed è stata inizialmente trattata con medicazioni avanzate, bendaggi compressivi anelastici e terapia a pressione negativa per 2 settimane, il tutto accompagnato da sedute di terapia iperbarica. Seppur notevolmente ridotta fino a raggiungere i 3,26 cm2, la lesione non mostrava ulteriori segni di miglioramente negli ultimi due mesi, ed inoltre il paziente riferiva un intenso dolore (Figura 10).

Figura 10: Lesione tempo 0

Il paziente è stato quindi sottoposto a innesto epidermico frazionale, quindi è stata valutata la lesione a distanza di 3 giorni, di 7 giorni, di 14 giorni e di 21 giorni.

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53 Dopo 14 giorni era osservabile la riepitelizzazione della ferita (Figura 11), e dopo 21 giorni la lesione risultava completamente guarita (Figura 12).

Figura 11: Lesione dopo 2 settimane

Figura 12: Guarigione dopo 3 settimane

Una paziente di 78 anni con pioderma gangrenoso (nelle tabelle paziente 7) nonostante terapia standard per la malattia ovvero medicazioni avanzate, bendaggi e terapia cortiscosteroidea a scalare, presentava un’ulcera stabile da un mese con un’area di 14,98cm2 e un WBS di 14 (Figura13).

Dopo 3 settimane dall’innesto epidermico frazionale si è avuta una riduzione a 8,42 cm2 dell’area dell’ulcera e una riduzione a 15 del WBS (Figura 14).

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54 Figura 13: Ulcera tempo 0

Figura 14: Ulcera dopo 3 settimane

E’ stata trattata anche una paziente di 89 anni con policitemia vera che presentava un’ulcera sovramalleolare laterale della gamba destra, con un’area di 3,19 cm2. La paziente era in terapia con idrossiurea, un farmaco in grado di determinare la comparsa di ulcere a stampo caratterizzate dal’intenso dolore e dalla difficoltà di guarigione, se non attraverso la sospensione o la sostituzione del farmaco stesso. Non essendo percorribile la strada della sostituzione o della sospensione del farmaco, si è ricorsi all’innesto tramite CelluTome. Inizialmente il letto della ferita è stato adeguatamente preparato con curettage, così da rimuovere la fibrina presente, per garantire un buon attecchimento dell’innesto (Figura 15).

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Figura 15: Ulcera da idrossiurea dopo curettage

Al controllo dopo 14 giorni dall’innesto il fondo della ferita risultava nuovamente fibrinoso (Figura16), ma nonostante ciò, al controllo successivo ovvero dopo 3 settimane si osservava la chiusura dell’ulcera e la paziente riferiva una notevole diminuzione del dolore (Figura 17).

Figura 16: Fondo fibrinosos dopo 2 settimane

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Figura 17: Guarigione dopo 3 settimane

Nel caso dell’ulcera iatrogena da iniezione di eroina, il paziente, un’uomo di 49 anni, presentava una lesione stabile da 2 mesi con un’area di 2,07 cm2 (Figura 18). A distanza di 3 settimane dall’ innesto epidermico frazionale la ferita risultava chiusa e si è mantenuta invariata anche al controllo successivo a 3 mesi (Figura 19).

Figura 18: Ulcera iatrogena tempo 0 Figura 19: Ferita chiusa dopo 3 mesi

Nel caso dei pazienti con vitiligine si è effettuata anestesia locale con lidocaina e dermoabrasione meccanica con curettage superficiale della zona acromica così da preparare il letto di ferita per l’innesto( Figura 20).

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Figura 20: Dermoabrasione meccanica zona acromica

Si è quindi effettuato follow-up a 7 giorni, 14 giorni, 21 giorni e dopo 1 mese. Tra i sette e i 14 giorni si è osservato sia clinicamente (Figura 21) che dermoscopicamente (Figura 22) l’attecchimento dei microinnesti .

Figura 21: Attecchimento clinico Figura 22: Attecchimento dermoscopico

Si è inoltre potuta osservare, ad 1 mese dall’innesto, la parziale ripigmentazioe delle aree trattate (Figura 23), in attesa di una ripigmentazione completa che richiede dai 2 ai 4 mesi ed in alcuni casi una stimolazione dei melanocti con UVB PUVA terapia.

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