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Motion Graphics, ritorno alla manualità e alle sperimentazioni miste: involuzione o evoluzione?

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Academic year: 2021

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Motion Graphics

Ritorno alla manualità e alle sperimentazioni miste:

involuzione o evoluzione?

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“Il futuro è la porta,

il passato ne è la chiave”

Victor Hugo

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Sommario

1 PREMESSA ... 7

2 INTRODUZIONE ... 9

3 ANIMAZIONE E CINEMA DIGITALE ... 15

3.1 IL CINEMA RIDEFINITO ... 20

3.2 LA COMPOSIZIONE DIGITALE ... 25

3.3 ANIMATED CARTOONS, TRA VAUDEVILLE E CINEMA DELLE ATTRAZIONI ... 30

4 DISPOSITIVI D’ANIMAZIONE TRA MAGIA, SPETTACOLO E SCIENZA ... 39

4.1 DOPO IL CINEMATOGRAFO ... 51

4.2 GLI SVILUPPI DI ARTISTI-ARTIGIANI E DI ÉQUIPE CINEMATOGRAFICHE ... 55

5 L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ANIMAZIONE ... 58

5.1 EUROPA ... 58

5.1.1 Le avanguardie degli anni Venti: tra cinema, musica e pittura ... 58

5.1.2 L’animazione in Italia dopo il sonoro ... 64

5.1.3 Il modello stilistico autonomo della Francia ... 70

5.1.4 Il cinema educativo inglese... 75

5.1.5 La satira politica nel cartone animato tedesco ... 80

5.1.6 L’Europa socialista ... 81

5.2 AMERICA ... 85

5.2.1 Gertie, Felix e Mickey Mouse. Da McCay a Walt Disney ... 85

5.2.2 Gli anni d’oro del cartoon hollywoodiano ... 93

5.2.3 La sperimentazione animata ... 97

5.2.4 L’animazione computerizzata ... 101

5.2.5 Lo stile spigoloso della UPA ... 106

5.2.6 Il Canada e l’esperienza del NFB di Norman McLaren ... 107

5.2.7 L’America Latina. Le eccezioni di Cuba e Argentina ... 110

5.3 ASIA ... 112

5.3.1 L’animazione nipponica: manga, anime e fantascienza ... 112

5.3.2 La lunga marcia dell’animazione cinese ... 118

5.3.3 L’animazione sudcoreana contemporanea... 122

5.4 OCEANIA ... 125

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6 CREARE IL MOVIMENTO: TECNICHE DEL CINEMA D’ANIMAZIONE ... 131

1. Il disegno animato o tecnica a fasi ... 132

2. L’animazione “in diretta” ... 136

3. Il disegno diretto su pellicola, DDSP (Draw-on-film animation) ... 152

4. L’animazione al computer ... 153

5. La tecnica mista ... 168

7 NUOVE SPERIMENTAZIONI A TECNICA MISTA ... 172

8 LA CGI E LA NUOVA ESTETICA DELL’AUDIOVISIVO ... 197

9 AUDIOVISIVI SCOLASTICI ... 208

9.1 PROGETTO CARTONI ANIMATI IN CORSIA ... 214

9.2 GIACOMO VERDE, UN TEKNOARTISTA IMPEGNATO NELLA DIDATTICA ... 217

9.3 FILM D’ANIMAZIONE A SCUOLA, IL NOSTRO PROGETTO ... 222

10 CONCLUSIONI ... 226

11 GLOSSARIO ... 231

12 BIBLIOGRAFIA ... 239

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1 Premessa

Le ragioni che ci hanno spinto ad intraprendere lo studio dell’immagine in movimento e a indagare sui differenti processi di composizione grafica nascono da un’esperienza tutta personale: la partecipazione a Milano alla XXV edizione della mostra internazionale di video e cinema oltre, INVIDEO, diretta da Alessandra Lischi e Romano Fattorossi e intitolata Passati/Futuri. Organizzato dal 1990 dall’A.I.A.C.E.1 (Associazione Italiana Amici Cinema

d’Essai), INVIDEO nasce con lo scopo di dotare la città di Milano di un archivio permanente dedicato alla produzione artistica sperimentale nel mondo. Nel 2015 la mostra ha presentato un programma particolarmente ricco e diversificato che ha previsto, accanto alla selezione internazionale, incontri con gli autori, anteprime, dibattiti, retrospettive, performance e video installazioni. Passati Futuri è fatto di “sguardi, voci, suggestioni che attestano l’importanza della memoria da un lato, del sogno e dell’immaginazione dall’altro. L’attenzione al nuovo e all’antichissimo, un andirivieni sapiente, divertito, impegnato, fra memorie e tecnologie innovative, artigianato e calcolo numerico, avanguardie storiche e nuovi linguaggi.”2

In un concentrato di eventi, la nostra partecipazione alla mostra si è limitata a due dei tre masterclass organizzati in collaborazione con lo IED di Milano, ovvero L'animazione espansa di Cristina Diana Seresini: tra videoarte e

progettazione commerciale e Alain Escalle: dalle arti figurative e performative alle nuove tecnologie. Abbiamo, inoltre, assistito all’incontro con Vincenzo

Beschi, Silvia Palermo e Irene Tedeschi di AVISCO – Associazione di Brescia

1 A.I.A.C.E. (Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai) svolge attività di cultura audiovisiva e cinematografica attraverso manifestazioni, conferenze, convegni e pubblicazioni tese a stimolare la produzione di opere audiovisive di ricerca e sperimentazione e a promuovere la conoscenza di nuovi autori italiani ed europei. 2 S. Lischi, E. Marcheschi (a cura di), Passati futuri, Catalogo INVIDEO 2015, Mimesis

Edizioni, Milano, 2015, quarta di copertina. Il sito web della mostra INVIDEO è disponibile all’indirizzo http://www.mostrainvideo.com/ups/2015/10/20/1445348823689.pdf

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per la ricerca, la sperimentazione e l'aggiornamento sugli audiovisivi in ambito scolastico e socio-educativo – e abbiamo partecipato al workshop

Cinema d’animazione a scuola a cura di Milano Film Network in

collaborazione con la stessa associazione di Brescia, presso La Fabbrica del Vapore.

Tra incontri inaspettati, approfondimenti illuminanti e sperimentazioni in prima persona, l’esperienza di INVIDEO si è rivelata unica nel suo genere e, se da una parte, ha provocato in noi una riflessione sulle potenzialità dell’immagine digitale, dall’altra ci ha permesso di sviluppare l’interesse per la sperimentazione videoartistica. Privilegiando le applicazioni in ambito didattico favorite dalla tecnologia digitale leggera e traendo ispirazione dalle esperienze laboratoriali di AVISCO, infatti, abbiamo portato avanti una proposta di progetto intitolato Film d’animazione a scuola accolta con entusiasmo da dirigenti e insegnanti di alcune Scuole Primarie di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta. Gli incontri con il primo istituto coinvolto nel progetto avranno inizio nel mese di Maggio dell’anno corrente (2016) e impegnandoci a portare avanti il nostro operato anche nel sociale, ci auguriamo di poter replicare le attività previste dai laboratori presso gli ospedali (proprio come il progetto AVISCO Cartoni animati in corsia) ma anche presso alcune associazioni di volontariato e di solidarietà, luoghi nei quali evasione, creatività e libertà di espressione diventano principi fondamentali di recupero e benessere psico-fisico.

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2 Introduzione

“La storia delle tecnologie nate al fine di generare immagini in movimento presenta una serie di soluzioni tecniche che si possono riassumere in tre categorie: la tecnologia ottico-meccanica (il film), la tecnologia elettronica (il video) e la tecnologia digitale (il computer)”3. Con queste parole Alessandro

Amaducci apre il libro intitolato Il video digitale creativo e noi, in tale sede, ci serviamo delle stesse per introdurre il panorama che abbiamo esposto nel presente elaborato: le tecniche d’animazione dal cinema al digitale. Muovendoci a cavallo tra la manualità, la magia propria dell’arte di fare animazione primitiva e l’automatizzazione delle tecnologie moderne che oggi integrano le funzionalità più disparate, abbiamo indagato quel terreno di mezzo in cui “l'arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l'arte”4.

In quest’ottica, in primo luogo, abbiamo definito tecnicamente l’animazione e riflettuto sugli effetti della cosiddetta rivoluzione digitale sul panorama dell’immagine in movimento: l’introduzione della tecnologia digitale ha messo in discussione non solo l’opposizione canonica tra cinema d’animazione e cinema dal vero, ma la stessa nozione di cinema, per cui oggi diventa difficile definire “film” un’opera che viene completamente realizzata in digitale e che è riversata in pellicola solo per la sua distribuzione nelle sale. Sembra che “il cinema non può più essere distinto dall’animazione in quanto con il suo ingresso nell’era digitale le tecniche

3 A. Amaducci, Il video digitale creativo, Nistri-Lischi, Pisa, 2003, p.1 Il video digitale creativo è un testo in cui il video digitale viene presentato come un ibrido, un’affascinante terra di mezzo che gode dei vantaggi dell’immagine elettronica ma anche di quelli che derivano da un’informazione analogia codificata matematicamente in sequenze di numeri: in quanto digitalizzata, questo tipo di immagine video può essere manipolata nel dettaglio senza essere ancora un’immagine sintetica. Ponte di transizione tra mondo analogico e digitale, il video digitale trasforma l’immagine elettronica in una sorta di flusso discreto il cui movimento diviene matematico – o come afferma Philippe Quéau – dialettico, di pensiero, non solo di fotogrammi fissi o di elettroni bombardati in sequenza.

4 John Lasseter, dal commento audio del DVD di Toy Story - Il mondo dei giocattoli,

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manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico”5: software

e hardware stanno rimpiazzando la tecnologia del cinema tradizionale in una logica che subordina il fotografico e il cinematografico al pittorico e al grafico, distruggendo così l’identità del cinema come mezzo di registrazione. Dopo aver analizzato i cambiamenti riguardanti il processo di realizzazione cinematografica, abbiamo ripercorso a grandi linee l’affascinante storia dell’immagine animata dai primi, tremolanti, disegni animati della lanterna magica e del disco rotante di Plateau, sino alla più recente computer grafica 3D, passando per la stop motion e le tante tecniche sperimentali. Facendo riferimento agli studi di Newton sulla persistenza retinica dell’occhio umano (principio fisiologico per cui si realizza l’illusione del movimento) abbiamo analizzato le svariate apparecchiature d’animazione introdotte prima e dopo il cinematografo Lumière per giungere, infine, alla CGI, Computer

Generated Imagery, una “grafica in movimento” che nata con il video editing

ha continuato ad evolversi come forma d’arte incorporando elementi 3D e funzionalità che permettono di animare le camere lungo svariati percorsi. L’espressione “immagine animata” – o anche “grafica animata” – di cui ci siamo serviti ampiamente è forse un po’ vaga, ma sicuramente più corretta di “cinema d’animazione”, una definizione che si riferisce limitatamente ai prodotti audiovisivi realizzati in pellicola. Nel nostro excursus storico e tecnico ci siamo occupati non solo di film, ma anche di video e di immagini completamente sintetiche, per tali ragioni l’etichetta che ci è apparsa più consona per indicare in senso generico “opere d’animazione” è quella inglese di Motion Graphics, grafiche in movimento. Dunque, con tale espressione ci siamo riferiti al più comunemente diffuso video-design grafico, ma anche all’animazione più tradizionale prodotta dalla rotazione dei dischetti di un taumatropio o quella generata dal rapido slittamento dei fogli di un flip-book, comprese le animazioni prodotte da tecniche di motion

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capture che – nel cinema come nei videogiochi – registrano movimenti reali

per animare modelli digitali nella computer animation 2D e 3D. In altre parole, di qualunque tipo siano le immagini grafiche di partenza (disegnate, dipinte, fotografiche o sintetiche), che rappresentino soggetti bidimensionali o tridimensionali e in qualunque modo queste siano state acquisite, le “grafiche” prendono letteralmente vita all’interno di un qualche supporto e con il movimento conferitogli finiscono per creare idee in azione.

L’arte di animare le immagini trova un ampio campo d’applicazione: accanto a intenti di libera espressione, essa può possedere finalità sperimentali, o più prettamente informativo-educative e promozionali e nel nostro elaborato abbiamo riportato quelli che, a nostro parere, rappresentano gli esempi più significativi in ognuno di questi ambiti, omaggiando qua e là artisti di ogni genere. A proposito di finalità, sembra che l’intrattenimento per John Lasseter – cofondatore della Pixar con Steve Jobs – sia lo scopo principale dell’animazione: “comunque lavori, a mano o al computer, il primo obbiettivo di un animatore è quello di intrattenere. L'animatore deve avere due cose: un chiaro concetto di cosa esattamente divertirà il pubblico e gli strumenti e le capacità per rendere chiare queste idee”6. Egli aggiunge “gli strumenti, nel senso di hardware e software, non

sono abbastanza” e tra le righe di questa affermazione leggiamo che quando si tratta di animazione la tecnologia non è tutto. Per darne prova lo stesso J. Lasseter ha portato tra i bozzetti dei suoi più grandi capolavori e installazioni in 3D presentati all’esposizione “Pixar e 25 anni di

animazione” in mostra al Padiglione d’Arte Contemporaneo (PAC) di Milano

nel febbraio 2012, anche lo Zoetrope della Pixar, una creazione artigianale che recupera il modo di fare cinema primitivo. Costruito apposta per l’occasione, il modellino si fonda sul principio secondo il quale dei soggetti statici prendono vita e si animano in conseguenza ad una rapida successione

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degli stessi. Si tratta dello stesso fenomeno che permette di vedere un film senza accorgersi dei distinti fotogrammi, con l’illusione della continuità. Si dimentichino dunque gli avanzati programmi di grafica per vedere animarsi i protagonisti della saga di Toy Story 3, basta una ruota su cui piazzare in sequenza le statuine tridimensionali dei personaggi, una bella spinta e il gioco è fatto. Via via che lo zootropio prende velocità, i soggetti cominciano a muoversi ed ecco, nel video indicato all’indirizzo che segue, la cowgirl Jessie far ruotare il lazzo sopra la testa, Buzz che si cimenta in salti acrobatici rimbalzando su una palla e Woody in sella al suo cavallo.

Zoetrope Pixar, 2012

Video dimostrativo disponibile all’indirizzo

https://www.youtube.com/watch?v=5khDGKGv088

Se l’analisi del cinema nell’era del computer si è concentrata principalmente sulle possibilità offerte dalla narrazione interattiva (semplicemente perché il cinema viene identificato con la narrazione e i media digitali vengono concepiti come gli strumenti che permettono al cinema di raccontare le sue vicende) a nostro parere, sembra più importante sottolineare il fatto che i media digitali abbiano ridefinito la stessa identità di cinema: da quando è possibile a tutti “entrare” in uno spazio virtuale tridimensionale, vedere delle immagini proiettate sullo schermo diventa solamente una delle tante opzioni e avendo a disposizione una quantità sufficiente di tempo,

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praticamente tutto si può simulare al computer; filmare la realtà non è che una delle tante possibilità. Dunque il cinema come “supergenere” di film narrativi dal vivo – una nozione che appartiene alle media arts (o recording

arts) che si basano appunto sulla registrazione della realtà – sembra definire,

oggi, le specificità del cinema del ventesimo secolo e, paradossalmente, il cinema dell’era digitale finirebbe per presentarsi più come un sottogenere della pittura che come arte dell’indice (il tentativo di trasformare le tracce in arte). Chiaramente il tema è tuttora in discussione e delle pubblicazioni più recenti abbiamo abbracciato l’idea di Lev Manovich, autore del primo studio sistematico, a livello internazionale, sull’evoluzione dei nuovi media con particolare riguardo all’ultimo decennio: Il linguaggio dei nuovi media – questo il titolo – definito il “libro cult” da tutti gli studiosi e gli attori chiave nel campo delle arti elettroniche, è stato pubblicato dal Massachusetts Institute of Technology e offre la prima visione organica dei nuovi media collocandoli nella traiettoria di sviluppo della cultura contemporanea visiva e mediatica. Le ragioni del successo che il libro ha riscosso sono da cercare nel tentativo di Lev Manovich di essere il primo a sintetizzare le ricerche sui nuovi media da quando l’accelerazione della comunicazione li ha messi in primo piano. Per queste ragioni il testo si colloca a pieno titolo tra i capolavori di Benjamin e McLuhan, tra i saggi di Paul Virilio e Pierre Levy, tra le ricerche di Michael Benedict e Donna J. Haraway.

Tornando alla nozione di cinema come genere pittorico più che narrativo, affermiamo che, date le moderne possibilità di generare scene realistiche con un sistema di animazione tridimensionale, di modificare fotogrammi e intere sequenze con un programma di grafica, o ancora, di tagliare, distorcere, allargare e montare immagini digitalizzate ottenendo una assoluta credibilità fotografica senza aver di fatto filmato nulla, il processo di costruzione manuale delle immagini che caratterizza il cinema digitale sembra identificarsi con il ritorno alle pratiche pre-cinematografiche del XIX secolo, quando le immagini erano dipinte e animate a mano. È vero che nel

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cinema commerciale l’animazione tradizionale, il mapping, i ritocchi e il montaggio sono tecniche utilizzate soprattutto per risolvere problemi tecnici (cancellare i cavi che sollevano un attore in una scena pericolosa, aggiungere uno stormo di uccelli in un paesaggio, etc.), ma anche la colorazione dei fotogrammi diviene manuale: proprio come accadeva nel cinema delle origini, i frame sono ridipinti per creare filtri o per far rivivere personaggi come il presidente Kennedy in Forrest Gump che torna a parlare grazie all’alterazione delle sue labbra ritoccate, appunto, fotogramma per fotogramma.

Per riassumere, ciò che prima veniva registrato automaticamente con la macchina da presa, ora viene ricostruito, dipinto a mano frame-by-frame così una parte di quello che viene chiamiamo cinema digitale finisce per presentarsi come un epifenomeno di un processo più complesso: il ritorno a tecniche di rappresentazione pre-cinematografiche.

Il bello della manualità nella produzione audiovisiva – concepita anche come parte di un processo produttivo che si avvale della combinazione di tecniche differenti e che sperimenta, così, modi nuovi e originali di fare “cinema” – ha trovato piena realizzazione, in una logica socio-didattica, nel progetto da noi presentato alle Scuole Primarie di San Cataldo. Film

d’animazione a scuola, questo è il titolo, si presenta come un progetto che

abbraccia l’approccio del learning by doing e che prevede attività di sperimentazione tese verso la familiarizzazione degli studenti con il linguaggio audiovisivo. Al fine di rendere i piccoli animatori fruitori consapevoli, critici e attivi di produzioni audiovisive (quale può essere il cartone animato) il progetto prevede una serie di unità didattiche pianificate secondo un graduale crescendo verso una piena consapevolezza delle immagini in movimento.

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3 Animazione e cinema digitale

Il ritorno a tecniche di rappresentazione pre-cinematografiche

Tecnicamente, l’animazione è definita come “il processo fisico, basato sull’effetto denominato fenomeno phi che consiste nel rapido accostamento in successione di immagini statiche per dare l’illusione del movimento”7. Più

correttamente, si tratta di un fenomeno psicologico che attiene alla persistenza percettiva degli oggetti e per cui si tende a integrare gli stimoli che continuamente arrivano agli organi di senso, dall’ambiente circostante, come se questi fossero sempre originati da singoli oggetti permanenti (anche quando non lo sono). L’effetto phi si manifesta concretamente attraverso la presentazione in rapida sequenza di una serie di stimoli visivi fissi che, distanziati tra loro da una frazione di secondo, produce la percezione di un solo elemento che si muove nello spazio. Il fenomeno phi è considerato uno dei fondamenti della Gestaltpsychologie in quanto concretizza, con grande evidenza, la natura costruttiva della percezione: ciò che avviene nel mondo mentale dell’individuo, infatti, non è altro che la generazione automatica di una rappresentazione, come assolutamente reale, di un movimento che nel mondo fisico evidentemente non esiste. A descrivere questa percezione illusoria fu proprio uno dei massimi esponenti della Psicologia della Gestalt, il ceco Max Wertheimer che nel 1912 pubblicò i suoi Studi sperimentali sulla

percezione del movimento (Experimentellen Studien über das Sehen von Bewegung). Egli ipotizzò che le immagini in successione non venissero fuse

nella retina – come teorizzava la persistenza retinica di Joseph Plateau – ma che ciò avvenisse a un livello superiore, infatti, ingannare l’apparato visivo umano è un fenomeno cognitivo oltre che primariamente fisiologico. Nonostante abbia contribuito a fondare una concezione nuova e sperimentale in psicologia, il fenomeno phi, in se stesso, non è certo una

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scoperta della psicologia scientifica, dato che questo era perfettamente noto alla psicologia concreta in azione, oltreché già utilizzato da vari decenni nell’ambito della produzione cinematografica: ben oltre trent’anni prima del lavoro di Wertheimer, il noto fotografo inglese Eadweard Muybridge (1830-1904) fornì, attraverso l’invenzione della cronofotografia (1878), la prima presentazione concreta di quella che sarebbe divenuta l’illusione del movimento. Grazie all’impiego di una batteria di 24 fotocamere posizionate in fila, Muybridge fotografava in sequenza i movimenti di un cavallo e del suo fantino e poi assemblava la serie ottenuta in una sequenza continua. La tecnica del movimento apparente realizzata da Muybridge ha trovato applicazione in svariati contesti ed è la stessa che sta alla base del modo con cui, da allora a oggi, si costruisce un filmato: una carrellata continua di una serie di frame fissi al secondo che, grazie al loro assommarsi sulla retina dell’occhio umano, producono nello spettatore la (falsa) percezione di un movimento che appare continuo e del tutto naturale.

Da quanto affermato sinora sul fenomeno phi deriva che il meccanismo che genera l’illusione artificiosa dell’animazione è esattamente lo stesso di quello delle pellicole dal vero: la rapida successione di pose, a una velocità che supera il tempo di percezione dell’occhio umano (approssimabile a 10-16 Hz ovvero 10-10-16 Fps), restituisce l’impressione di osservare qualcosa in movimento. Ciò che distingue l’illusione dell’animazione propriamente detta da quella cinematografica è la natura delle pose che anziché raffigurare attori in recita, sono tipicamente costituite da disegni o da fotografie di vari soggetti bidimensionali o tridimensionali. In quello che viene definito “cinema d’animazione”, la realtà da riprendere – disegni, pupazzi, soggetti in argilla, plastilina, e quant’altro – è statica, non dinamica: la cinecamera (oggi sostituibile da un qualsiasi dispositivo moderno dotato di una camera) ha la funzione di un apparecchio fotografico, realizza cioè una tecnica di ripresa cosiddetta “a scatto singolo”, fotogramma per fotogramma, e solo al momento della proiezione della pellicola gli oggetti ripresi si animano (di qui

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l’espressione “cinema d’animazione”). Poiché il movimento virtuale è ottenuto non attraverso la riproduzione del movimento reale ma grazie allo scorrimento della pellicola nel proiettore e alla sua conseguente proiezione sullo schermo, è possibile utilizzare la pellicola stessa come materia plastica su cui disegnare figure, dipingere forme e incidere segni. Spingendosi oltre i confini della riproducibilità del movimento reale, dunque, il cinema d’animazione si sviluppa nell’ambito della creazione di tratti grafici, linee e colori che colti nella loro riproducibilità statica potevano anche non avere alcun rapporto con la realtà fenomenica. Di qui, la sperimentazione tecnica e formale di certe avanguardie, la realizzazione di film astratti, non figurativi e soprattutto la grande libertà creativa rispetto a quelli che possono essere definiti i condizionamenti realistici del cinema “dal vero”. Per comprendere l’animazione e la storia culturale delle immagini in movimento, dunque, non si può prescindere dalla storia del cinema, concepito fin dalle sue origini come l’arte del movimento. Guardando al cinema da questa prospettiva – come l’arte che era riuscita finalmente a creare un’illusione convincente della realtà dinamica (anziché come l’arte della narrazione audiovisiva, l’arte dell’immagine proiettata, l’arte della rappresentazione collettiva, etc.) – è evidente la continuità che lo lega alle tecniche precedenti di costruzione e montaggio delle immagini in movimento. Abbracciando a pieno il pensiero di Lev Manovich sulle origini del cinema, facciamo presente che, come è ben noto, prima dell’avvento di sistemi meccanici in grado di generare e proiettare automaticamente le immagini, le tecniche d’animazione si basavano su immagini dipinte, disegnate e animate a mano, su azioni “a circuito” e sulla natura discreta dello spazio e del movimento. Le lastre della lanterna magica, ad esempio, furono dipinte a mano almeno fino agli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo, proprio come le immagini usate nel Phenakistoscope, nel

Thaumatrope, nello Zootrope, nel Praxinoscope e in numerosi altri dispositivi

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a seguire. Anche le celebri conferenze di Muybridge (anni Ottanta del XIX secolo), che utilizzavano lo Zoopraxinoscopio, non presentavano vere e proprie fotografie, ma solo disegni colorati che le riproducevano. Le immagini, non erano solo create manualmente, ma anche animate manualmente: nella Phantasmagoria di Robertson, che venne presentata per la prima volta nel 1799, gli animatori della lanterna magica, si spostavano dietro lo schermo per far andare avanti e indietro le lastre, benché nella maggior parte dei casi, l’addetto alla proiezione muoveva solo le mani, e non tutto il corpo (per far muovere le immagini bastava spostare lentamente le lastre davanti all’obiettivo del dispositivo). Anche i giochi ottici sperimentati nel XIX secolo richiedevano l’azione manuale per creare l’effetto del movimento: bisognava, ad esempio, attorcigliare le corde del Thaumatrope, ruotare il cilindro dello Zootrope e girare la manopola del Viviscope. Tipica di queste primitive forme d’animazione era, anche, l’azione “a circuito”, ovvero quella prodotta dai loop, sequenze d’immagini che riproducevano delle azioni complete e in continuità.

Solo quando nell’ultimo decennio del XIX secolo, l’occhio meccanico si abbinò a un cuore meccanico e la fotografia incontrò il motore, per parafrasare Manovich8, nacque il cinema, un particolare regime del visibile.

La combinazione di proiezione automatica e generazione automatica delle immagini portò all’omologazione delle stesse, partorite da una catena di montaggio che uniformava il prodotto finale: avevano tutte lo stesso aspetto, le stesse dimensioni ed erano proiettate alla stessa velocità. Oltre ad eliminare l’irregolarità, la mancanza di uniformità, il caso e le altre tracce del corpo umano che in precedenza avevano accompagnato inevitabilmente le rappresentazioni baste su delle immagini in movimento, il cinema escluse anche il carattere discreto della spazialità e del movimento delle immagini animate: prima del cinema, il movimento non coinvolgeva l’intera immagine

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ma era limitato a una figura ben definita e visualmente separata da un fondo statico. Le sfilate di lastre meccaniche del Praxinoscope Théâter di Reynaud, ad esempio, raffiguravano, semplici vettori tratteggiati su un’immagine fissa e i movimenti tipici erano i rimbalzi di una palla, il movimento di una mano o di un occhio, il volo di una farfalla.

Una volta stabilizzatosi come tecnologia, il cinema rivendicò la sua autonomia lasciando al suo “parente povero”, l’animazione, tutto ciò che aveva caratterizzato le immagini in movimento prima del Novecento. In altre parole, l’animazione divenne una sorta di deposito di tutte quelle tecniche di rappresentazione che prevedevano la costruzione manuale delle immagini, le azioni a circuito, la natura discreta dello spazio e del movimento, scartate da un cinema che aveva rimpiazzato la sua primitiva natura artificiosa con quella fotografico-meccanica.

La contrapposizione tra animazione e cinema ha definito la cultura delle immagini in movimento del Novecento: l’animazione ne sottolineava il carattere artificioso, ammettendo apertamente che le sue immagini erano mere rappresentazioni, il cinema, invece, intendeva cancellare ogni traccia del suo processo di produzione, comprese quelle che avrebbero potuto indicare che le immagini visualizzate erano state costruite anziché registrate. Il linguaggio visivo dell’animazione, inoltre, ricordava la grafica piuttosto che la fotografia (la sua natura discreta e volutamente discontinua prevede addirittura personaggi disegnati rozzamente) e, il cinema, da parte sua, negava la costruzione di immagini attraverso modelli, specchi e fondali e nascondeva la combinazione di immagini attraverso la stampa ottica, fingendo di essere la semplice registrazione di una realtà già esistente. L’immagine pubblica di un occhio cinematografico che cattura il vero imprimendo la realtà sulla pellicola, ma che mai crea artificiosamente, ha portato storici, critici e gli stessi professionisti della pellicola del cinema

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narrativo a spingere alla periferia del cinema gli effetti speciali9 – dall’uso di

specchi e miniature a quello di filtri e trucchi in fase di sviluppo – proprio perché espedienti che dimostravano che il cinema non era molto diverso dall’animazione. Rimaste a lungo nascoste dietro le quinte, proprio queste tecniche marginalizzate sono state svelate e portate avanti dai media digitali negli anni Novanta e un esempio tangibile di questo cambiamento è rappresentato dal nuovo ruolo che gli effetti speciali digitali hanno assunto recentemente nell’industria hollywoodiana che addirittura ha creato un nuovo mini-genere, quello del “The Making of …” che proprio agli antipodi del cinema classico vuole rivelare i trucchi della finzione. Se fino a poco tempo fa, inoltre, solo i grandi studi di produzione potevano acquisire gli strumenti digitali e tecnici per la realizzazione degli effetti speciali, la diffusione della tecnologia digitale ha ormai sostituito la tecnologia cinematografica tradizionale a livello universale, ridefinendo, così, la logica stessa del processo filmico.

3.1 Il cinema ridefinito

Date le premesse del paragrafo precedente, la storia dell’immagine in movimento sembra percorre un cerchio perfetto: “nato dall’animazione, il cinema ha costretto l’animazione a un ruolo marginale, ma solo per trasformarsi, infine, in una particolare forma di animazione.”10 Ma cosa è

9 Alcuni esempi che dimostrano il disconoscimento degli effetti speciali durante il cinema classico riguardano il fatto che in svariati testi e manuali come ad esempio Cinema di Kenneth W. Leish (Newsweek Books, New York, 1974) e Film Art: An Introduction di Bordwell e Thompson, i capitoli dedicati ai processi di produzione cinematografica non citano mai, o solo pochissime volte, le tecniche degli effetti speciali. Ciò riflette la mancanza generale d’interesse, storico o teorico, per la materia da parte degli studiosi della settima arte. Un altro dato significativo è che la Biblioteca della University of California di San Diego contiene 4.273 titoli catalogati sotto l’etichetta “Cinema” e appena 16 sotto “Effetti speciali nel cinema”.

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cambiato con esattezza? Per definire il cinema digitale, Manovich si è servito di un’equazione semplice e di chiara interpretazione che esplica nel VI capitolo di Il linguaggio dei nuovi media:

Cinema digitale = ripresa dal vivo + pittura + elaborazione delle immagini + montaggio + animazione + animazione computerizzata a 2D + animazione computerizzata a 3D

Vediamo, allora, di capire meglio come questi elementi hanno contribuito, insieme, alla ridefinizione di un “nuovo” cinema.

Oggi si possono realizzare scene cinematografiche direttamente al computer con l’aiuto dell’animazione cinematografica in 3D, di conseguenza la ripresa dal vivo, che rappresentava la materia prima nella costruzione cinematografica tradizionale, perde il ruolo di fondamento cinematografico e diviene il principio di un’ulteriore attività, quella di composizione, animazione e morphing. L’uso che il cinema digitale fa di un filmato live è solo funzionale alla creazione di una scena definitiva costruita al computer: la ripresa è tipicamente animata, combinata con delle scene in 3D e ritoccata; non è altro che uno dei diversi elementi attraverso i quali vengono generate le immagini finali.

La nozione di cinema digitale come arte della pittura (strettamente legata a quella dell’elaborazione delle immagini) riguarda, invece, la mutabilità intrinseca dell’immagine digitale. Così come William J. Mitchell affermava a proposito della fotografia digitale “la caratteristica essenziale delle informazioni digitali è la manipolazione, facile e rapida. Si tratta semplicemente di sostituire nuove cifre alle vecchie … Gli strumenti di calcolo automatico che permettono di trasformare, combinare, modificare e analizzare le immagini sono essenziali per l’artista digitale come i pennelli e

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i pigmenti per il pittore”11. Le scene digitalizzate, dipinte a mano con l’ausilio

del computer, rappresentano probabilmente l’esempio più significativo del nuovo status raggiunto dal cinema che si apre all’immagine pittorica; la colorazione digitale, poi, è l’esempio più clamoroso del ritorno del cinema alle sue origini ottocentesche, quando le immagini erano dipinte manualmente. In genere si associa la computerizzazione all’automazione, ma in realtà è esattamente l’opposto: ciò che in precedenza veniva registrato automaticamente da una cinepresa, oggi deve essere dipinto scena per scena e non si tratta più di una dozzina di immagini, come avveniva nel XIX secolo, le immagini adesso sono migliaia. Pensiamo anche al fatto che gli effetti digitali più sofisticati dal punto di vista visivo si ottengono oggi tramite lo stesso metodo, ovvero modificando accuratamente a mano migliaia di inquadrature. Le scene vengono rielaborate a mano per creare toni cromatici diversi o per modificare direttamente le immagini come è accaduto nel film Forrest Gump, già citato in apertura.

Per rimanere in tema di pittura, interessante è la metafora di cui Manovich si serve per spiegare il passaggio dalla produzione cinematografica analogica a quella digitale: come il pittore medievale che dipingeva un affresco a tempera poteva modificare o rielaborare l’immagine solo attraverso un processo lento e meticoloso (che teneva conto del tempo d’asciugatura dopo la quale non era più possibile modificare ulteriormente l’immagine), anche il regista tradizionale aveva a disposizione dei mezzi molto limitati per modificare le immagini dopo essere state registrate sulla pellicola. Il passaggio alla pittura a olio ha portato con sé una serie di vantaggi, in primis la possibilità di lavorare il colore “nel bagnato”: applicare un colore fresco (cioè bagnato) sopra un colore non ancora asciugato ha consentito la sovrapposizione dei colori in fase di lavorazione e ha permesso,

11 W. J. Mitchel, The Reconfigured Eye, pag. 7 in MANOVICH, Il linguaggio dei nuovi media, cit., p. 374

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conseguentemente, di evitare riprese successive di pittura e di terminare il dipinto in un’unica sessione. Ecco, la tecnologia digitale ha permesso al regista di trattare l’immagine filmica come un dipinto a olio e ha fatto della composizione digitale un’estensione delle tecniche d’animazione “a cellula” (le immagini composte vengono impilate in parallelo, come le cellule dell’animazione).

In merito all’elaborazione delle immagini, terzo principio costitutivo del cinema digitale, possiamo aggiungere che il computer non distingue tra immagini ottenute attraverso l’obiettivo fotografico, immagini create con un programma di montaggio o immagini sintetizzate tramite un software di grafica tridimensionale: tutte e tre sono costituite dal medesimo “materiale”, i pixel, pertanto il ritocco, l’elaborazione delle immagini e l’animazione al computer appartengono tanto all’elaborazione di immagini già esistenti, quanto alla creazione di nuove immagini.

A proposito del montaggio, possiamo affermare che il computer ha eliminato la rigida distinzione tra il lavoro del montatore che ordinava le sequenze e quello degli addetti agli effetti speciali, ai quali spettava l’esclusiva competenza di ritoccare le immagini. Le due attività erano nettamente separate nella produzione cinematografica tradizionale, ma oggi la manipolazione delle singole immagini al computer o l’elaborazione algoritmica delle immagini sono operazioni che hanno definito un nuovo tipo di montaggio: nella composizione digitale gli elementi non sono contrapposti come nel mosaico di inquadrature diverse prodotte dal montaggio temporale (inizio XX secolo), ma miscelati; i loro confini vengono cancellati e non enfatizzati. In effetti, la distinzione tra creazione e modificazione – o meglio tra produzione e post-produzione cinematografica – non è più valida per il cinema digitale poiché ogni singola immagine, indipendentemente dalla sua origine, viene manipolata attraverso una serie di programmi prima di essere inclusa definitivamente nel film. La realtà non è più modificata in diretta in fase di ripresa e l’occasionale manipolazione

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della pellicola registrata è stata sostituita da costanti processi di modifica all’interno della stessa fase di produzione. In sostanza la produzione diventa solo la prima fase della post-produzione.

Il nuovo metodo di post-produzione digitale rende la ripresa in fase di pellicola subordinata all’animazione. Con questo metodo le immagini fotografiche dal vivo e/o gli elementi grafici vengono posizionati in uno spazio virtuale in 3D dando così al regista la possibilità di spostare liberamente la cinepresa virtuale attraverso questo spazio, di fare carrellate e panoramiche. Dunque la cinematografia viene subordinata all’animazione in 3D realizzata al computer. Possiamo considerare questo metodo un’estensione della cinepresa a piani molteplici utilizzata a suo tempo per l’animazione, tuttavia, se la cinepresa montata su un sistema multipiano si poteva muovere solo perpendicolarmente alle immagini, oggi si può muovere liberamente con una traiettoria arbitraria. Il nuovo modo di post-produzione rappresenta il passo logico successivo verso rappresentazioni in 3D generate per intero dal computer: invece dello spazio bidimensionale della composizione “tradizionale” adesso abbiamo dei livelli di immagini in movimento posizionate in uno spazio virtuale in 3D.

Tutte queste non erano forse le nuove possibilità esplorate dai registi d’avanguardia che operavano alla periferia del cinema commerciale sia sul piano estetico che su quello tecnico? Uno degli impulsi più significativi presenti in tutta la produzione cinematografica d’avanguardia era quello di combinare l’elemento cinematografico con quello pittorico e grafico usando un filmato dal vivo e l’animazione nello stesso film (o addirittura nella stessa scena), modificando lo stesso filmato in vari modi. Oggi l’avanguardia sembra essersi materializzata nelle possibilità insite nel digitale: un interessante effetto della rivoluzione digitale sul cinema e sull’animazione si può riassumere proprio nell’assimilazione delle strategie estetiche delle avanguardie nelle interfacce e nei software. Se la tecnica sperimentale del collage è riemersa nel comando “taglia e incolla”, l’idea di dipingere sulla

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pellicola è ormai parte delle funzioni di colorazione di programmi per l’editing cinematografico e, infine, l’innovazione che consiste nel combinare più immagini all’interno di una stessa inquadratura (come in L’uomo con la

macchina da presa) viene legittimata dalla stessa tecnologia, dato che tutti i

programmi di montaggio – Photoshop, Premiere, After Effects, Flame e Cineon – presuppongono che l’immagine digitale consista di una serie di livelli separati. In definitiva, quelle che erano delle eccezioni per il cinema tradizionale sono diventate le tecniche normali e naturali della regia digitale.

3.2 La composizione digitale

Partendo proprio dalla nozione di “livelli di immagini” con cui abbiamo chiuso il paragrafo precedente, affrontiamo adesso quello che si è rivelato un passo in avanti nella storia della simulazione visiva, ovvero il processo di composizione digitale che ha permesso la creazione di immagini in movimento di mondi inesistenti.

Il termine “composizione digitale” ha un significato ben definito in campo mediale: esso indica quel processo che consiste nel combinare più sequenze di immagini in movimento, eventualmente anche ferme, in un’unica sequenza con l’aiuto di un apposito software di composizione. Definita formalmente in un documento pubblicato nel 1984 da due scienziati della Lucasfilm, la composizione sembra presentare un’interessante analogia con la programmazione informatica:

L’esperienza ci ha insegnato a suddividere dei grossi blocchi di codici di fonte in moduli separati, in modo da risparmiare tempo sulla compilazione. Un eventuale errore comporta solo la ricompilazione di quel modulo e la reinstallazione dell’intero programma. Analogamente, piccoli errori di colorazione o di design in un oggetto non dovrebbero comportare la “rielaborazione” dell’intera immagine.

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La scelta di separare l’immagine in una serie di elementi che si possono riprodurre indipendentemente è utile per risparmiare tempo. Ogni elemento ha una tabella di riferimento, ovvero una serie di informazioni che definiscono la forma dell’elemento stesso. La composizione di questi elementi comporta l’uso delle tabelle per arrivare a costruire l’immagine finale12.

La composizione digitale esemplifica un’operazione più generale tipica della cultura del computer: assembla insieme una quantità di elementi per creare un unico oggetto integrato. Una volta che un oggetto viene parzialmente assemblato può verificarsi la necessità di aggiungervi o rielaborare alcuni elementi e ciò è reso possibile proprio dall’organizzazione modulare del nuovo oggetto mediale. Per tutta la durata del processo di produzione, gli elementi mantengono le loro identità separate e quindi si possono facilmente modificare, sostituire o cancellare. Quando l’oggetto è completo, esso si configura come un “flusso” unico in cui i singoli elementi non sono più accessibili; un esempio di operazione in grado di “collazionare” i vari elementi in un flusso unitario è il comando “appiattisci immagine” di Adobe Photoshop 5.0, o un altro esempio è la registrazione di una sequenza cinematografica composta con la tecnica digitale (una procedura tipica nelle produzioni hollywoodiane degli anni Ottanta e Novanta).

La combinazione di elementi visivi provenienti da fonti separate in singole immagini serve, tipicamente, a creare l’illusione che tutti quegli elementi sino parte della stessa scena: allineati in prospettiva, modificati in modo da presentare lo stesso contrasto e la stessa saturazione cromatica, sfumati o messi a fuoco per simulare la profondità di campo, gli elementi vengono assemblati e l’immagine finale mostra qualcosa che non esiste.

12 T. Porter e T. Duff, “Compositing Digital Images”, Computer Graphic, 18 n.3 (luglio 1984), pp. 253-259 in MANOVICH, Il linguaggio dei nuovi media, cit., p. 177

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Il compositing digitale riguarda primariamente la creazione di immagini in movimento: tutti gli effetti speciali del cinema, dei videogiochi e dei mondi virtuali sono resi unicamente tramite questa tecnica. Che si tratti di mondi creati attingendo a diversi elementi o derivati dall’aggiunta di elementi a una ripresa dal vivo, la composizione digitale presenta un falso mondo tridimensionale in cui per accrescere “l’effetto realtà” basta aggiungere la ripresa effettuata da una cinepresa virtuale che si muove attraverso lo spazio simulato. Potremmo dunque affermare che la composizione digitale appartiene alle tecniche di simulazione con le quali personaggi generati al computer possono muoversi all’interno di paesaggi reali e, specularmente, attori reali possono spostarsi e recitare all’interno di ambienti sintetici. Se l’animazione in 3D viene usata per creare ex novo uno spazio virtuale, la composizione digitale, invece, si fonda sulla costruzione di uno spazio tridimensionale integrato attingendo a diversi filmati preesistenti.

La composizione digitale per la creazione di immagini in movimento risale alla rielaborazione video e alla stampa ottica del XIX secolo, ma quella che in precedenza era un’operazione abbastanza particolare (la tecnica del montaggio temporale era più diffusa di quella del montaggio all’interno di una stessa inquadratura), diventa oggi la norma. Inoltre, consentendo il controllo della trasparenza dei singoli livelli e la combinazione di un numero potenzialmente infinito di essi, la composizione digitale ha ampliato enormemente la sua gamma di possibilità e opzioni, rimanendo però un’attività difficile e onerosa in termini di tempo, nonostante la tecnologia dei set virtuali consenta la combinazione automatica dei livelli in tempo reale13.

13 La tecnologia dei set virtuali permette di comporre all’istante immagini video ed elementi tridimensionali. In effetti, data la pesante elaborazione della creazione di elementi virtuali, l’immagine finale trasmessa al pubblico è sfasata di alcuni secondi rispetto all’immagine originaria della cinepresa. Una tipica applicazione di set virtuali consiste nel comporre l’immagine di un attore sullo sfondo di un set creato al computer. Il computer legge la posizione della cinepresa e usa questa informazione per riprodurre l’immagine

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A prima vista, i computer non portano tecniche di nuova concezione per la creazione di realtà artificiali, in quanto si limitano a espandere le possibilità della tecnica del montaggio all’interno di una stessa inquadratura. Anziché combinare insieme le immagini provenienti da due fonti video mediante il

keying14, oggi possiamo comporre un numero illimitato di livelli di

immagine: un’inquadratura può consistere di decine, centinaia, migliaia di livelli d’immagine e ognuna di esse può avere origini completamente diverse (possono essere “inserti live” – riprese in esterno – o set creati al computer, attori virtuali, sfondi digitali, filmati d’archivio e così via).

Quindi, da un punto di vista storico, l’immagine composta con tecnica digitale – come l’immagine assemblata elettronicamente – si può considerare la fase successiva al montaggio all’interno di una scena, ma, mentre la modulazione elettronica, crea spazi disconnessi che ricordano i collage avanguardisti degli anni Venti e si presenta palesemente allo spettatore con un evidente contrasto visivo, la composizione digitale richiama le tecniche ottocentesche delle “stampe combinate” tese a creare l’illusione di uno spazio coerente.

La logica dell’estetica postmoderna degli anni Ottanta e la logica su cui si basa la composizione digitale degli anni Novanta sono chiaramente diverse: gli strumenti elettronici e i primi strumenti digitali dell’estetica post-moderna (centraline video, pannelli di controllo, dynamic voice exchange,

del set nella giusta prospettiva. L’illusione è resa ancora più convincente generando le ombre e/o i riflessi intorno all’attore e integrandoli nella composizione.

14 Il keying (modulazione) è la tecnica particolarmente utilizzata oggi nelle produzioni video e televisive. Esso consiste nel combinare due diverse fonti d’immagini: ogni area cromatica uniforme di un’immagine video può essere eliminata e sostituita con una diversa. Questa nuova fonte può essere una cinepresa live posizionata da qualche parte, un nastro preregistrato o un’immagine grafica generata al computer. Negli anni Settanta il keying elettronico diventa la normale prassi televisiva quando la costruzione delle immagini si basava generalmente sul montaggio all’interno di una stessa inquadratura: la proiezione di sfondi in movimento e di altri effetti speciali, che avevano un ruolo marginale nel film classico, divennero la norma in televisione. Pensiamo al meteorologo davanti alla carta del tempo, l’annunciatore davanti al notiziario filmato, il cantante davanti all’animazione del suo video musicale.

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schede per la grafica a bassa risoluzione) consentivano operazioni di “taglia e incolla” piuttosto facili, non certo composizioni sofisticate multilivello; la composizione degli anni Novanta supporta, invece, un’estetica diversa, caratterizzata da scorrevolezza e continuità le cui migliori espressioni si rintracciano proprio negli spot televisivi e negli effetti speciali dei film realizzati attraverso la composizione digitale: i dinosauri generati al computer nel film Jurassic Park, ad esempio, sono costruiti in modo da integrarsi perfettamente nel paesaggio, allo stesso modo, nel film Titanic (James Cameron, 1997; gli effetti speciali sono della Digital Domain), gli attori veri, gli attori virtuali in 3D e la nave creata al computer sono costruiti per mescolarsi perfettamente. L’estetica della continuità è presente anche in altre aree dei nuovi media, ad esempio, il morphing consente un affetto che in precedenza si poteva ottenere solo attraverso la dissolvenza o il taglio, o ancora, pensiamo alla navigazione ininterrotta di molti videogiochi che dall’inizio alla fine, senza cesure, presentano una traiettoria continua che attraversa uno spazio tridimensionale. Indipendentemente dall’oggetto mediale in cui si realizza, la continuità è ottenuta tramite la sovrapposizione di forme digitali perfettamente miscelate.

La rivoluzionaria tecnica di assemblaggio della composizione digitale sembra aver ridefinito il concetto stesso di immagini in movimento: la composizione pone sullo stesso piano il montaggio temporale e il montaggio interno alla scena e cancella la loro vecchia e rigida separazione tecnica e concettuale. Consideriamo il modello d’interfaccia che si trova in molti programmi di editing e composizione: la dimensione orizzontale rappresenta il tempo, mentre la dimensione verticale rappresenta l’ordine spaziale dei diversi strati che formano un’immagine; la sequenza di un’immagine in movimento appare come una serie di blocchi sovrapposti, ognuno dei quali rappresenta un determinato strato dell’immagine. Un’interfaccia che invece di mostrare la linea monodimensionale del montaggio guarda anche alla dimensione spaziale eguaglia, per importanza,

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i due tipi di montaggio (temporale e interno) e se Premiere concettualizza l’editing come operazione in 2D, l’interfaccia di After Effects vi aggiunge una terza dimensione.

In altri termini mentre la logica tradizionale del montaggio filmico privilegiava il montaggio temporale di un’immagine in movimento, la nuova logica della composizione rende le dimensioni dello spazio (quello illusorio 3D derivato dalla composizione e quello in 2.5D formato da tutti gli strati che vengono composti) e della cornice (immagini separate che si muovono in 2D all’interno dell’inquadratura) importanti quanto il tempo. Per parafrasare l’ipotesi di Manovich, quasi contro l’estetica di Ejzenstein – che pur avendo usato la metafora dello spazio multidimensionale in uno dei suoi articoli

Kino cheturekh izmereneii (La quarta dimensione filmica) ha elaborato teorie

che si concentrano prevalentemente sul tempo15 – la tecnologia dei computer

sembra privilegiare le dimensioni spaziali. In effetti il problema non è più come generare delle singole immagini convincenti ma come combinarle e ciò che conta davvero è quello che accade nei punti di giunzione delle immagini, i confini tra i quali le diverse realtà si riuniscono.

3.3 Animated Cartoons, tra vaudeville e cinema delle

attrazioni

L’introduzione della tecnologia digitale, come abbiamo attestato sinora, ha rivoluzionato il panorama dell’animazione mettendo radicalmente in discussione l’opposizione canonica tra cinema dal vero e cinema d’animazione. Sebbene l’animazione nasca insieme al cinema e la tecnica del passo uno (fondamento tecnologico del genere) sia parte integrante

15 Ci riferiamo alla formulazione di una serie di principi (come quello del contrappunto) che si possono applicare per coordinare i cambiamenti temporali nelle diverse dimensioni visuali e a quella di alcuni “metodi di montaggio” (come quello metrico che impiega determinate lunghezze per creare un battito, o quello ritmico, che si basa su un certo tipo di movimento all’interno dell’inquadratura).

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dell’arsenale di trucchi del cinema delle origini (ma sempre all’interno di film in live action), come scrive Donald Crafton – uno dei maggiori studiosi di cinema d’animazione – essa si definisce quale genere cinematografico autonomo solo con l’introduzione del disegno animato, per opera di Emile Cohl, e Winsor McCay, tra il 1908 (quando Cohl realizza il suo primo film,

Fantasmagorie) e la Grande Guerra. Tale periodo coincide con

l’affermazione del modo di rappresentazione istituzionale (l’espressione è di Noël Burch), ovvero il cinema hollywoodiano classico. All’intero dello stile canonico – i cui principi erano una compattezza narrativa fondata su nessi logici-causali, personaggi caratterizzati in termini psicologici e la ricerca del verosimile e dell’illusione di realtà – si realizza un paradosso inaudito: le gag visive prive di collante narrativo tipiche del cinema delle origini da cui l’animazione aveva ereditato il carattere attrazionale, confluiscono negli

animated cartoons dei cosiddetti “anni d’oro del disegno animato

americano”, mettendo così in discussione la natura tutt’altro che rigida delle leggi del cinema classico. L’assimilazione della tradizione del “primo cinema” da parte di Hollywood non ha potuto non creare delle zone grigie, dei territori di confine tra il vecchio e il nuovo e proprio qui si colloca il cinema d’animazione.

Mostrando la convivenza nel cinema hollywoodiano della linearità e della compattezza narrativa con l’entropia delle attrazioni, qui di seguito affrontiamo il rapporto tra animazione e cinema classico individuando i veri punti di svolta della storia del cartoon: l’introduzione del lungometraggio animato, il passaggio dalle sale cinematografiche agli schermi televisivi e la comparsa dell’immagine digitale.

“Per molti spettatori cinema d’animazione vuol dire Disney e Disney vuol dire Stati Uniti, ovvero un paese in cui l’industria cinematografica si è

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sviluppata e consolidata fin dai primi decenni del Novecento.”16 È proprio ad

opera della Disney che avviene l’introduzione del lungometraggio animato17,

il primo snodo importante nell’evoluzione dei cartoons, quello che effettivamente ha spinto l’animazione verso l’assimilazione del modello classico. Se per concorrenti diretti o sperimentatori solitari l’introduzione del lungometraggio rimase un’esperienza isolata all’interno di filmografie fatte quasi unicamente di corto o mediometraggio, l’attività del colosso Disney (la sola casa di produzione che dagli anni Trenta in avanti lavora sistematicamente con il lungometraggio) pose al centro della storia del disegno animato il problema del passaggio della durata. Fino ai primi anni Trenta, l’animazione americana rimaneva fortemente legata al modello attrazionale e presentava, più o meno consapevolmente, una serie di punti di contatto con il percorso delle avanguardie storiche, ma il salto che ha condotto i cartoons verso l’omologazione al pattern istituzionale è rappresentato dall’uscita di Biancaneve e i sette nani (1937). Per la prima volta, il cartoon riuscì a fare concorrenza a un film dal vero, collocandosi a pieno titolo nel pantheon dei grandi film della fine degli anni Trenta, da Il

mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939) a Ombre rosse (Stagecoach, 1939), da Via col vento (Gone with the Wind, 1939) a Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939) che rappresentano il tipo ideale della produzione

della Hollywood classica. Biancaneve e i sette nani, dunque, rappresenta un punto di non ritorno: da una parte segna il momento terminale del processo di assimilazione del modello classico da parte del disegno animato, messo in

16 A. Antonini e C. Tognolotti, Mondi possibili. Un viaggio nella storia del cinema d’animazione, Il Principe Costante Edizioni, Milano, 2008. p. 177

17 In realtà Biancaneve e i sette nani non è il primo lungometraggio d’animazione. Negli anni Dieci ne viene realizzato uno in Argentina, El Apóstol (1917) di Quirino Cristiani, andato perduto, mentre Die Abenteuer des Prinzen Achmed (Le avventure del principe Achmed) di Lotte Reiniger, della durata di 66 minuti, anticipa Disney di un decennio. Ad ogni modo è indubbio che è l’attività della Disney a porre al centro della storia del disegno animato il problema del passaggio della forma lungometraggio.

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atto da Disney nel corso degli anni Trenta18 e al contempo l’inizio di una

nuova fase, in cui Walt Disney si insedia stabilmente nel territorio del lungometraggio. Biancaneve e i sette nani assume a pieno le caratteristiche estetiche del cinema classico, quello dell’età d’oro di Hollywood (1927-1963), teso verso una grammatica primariamente realistico-narrativa, di cui David W. Griffith è considerato il padre: presenta schemi narrativo-figurativi tipici del live action, i personaggi umani sono disegnati in modo realistico e caratterizzati psicologicamente, vi è una netta opposizione tra buoni e cattivi, essi parlano un registro aulico19 e lo spazio è tridimensionale,

esplorato dalla macchina da presa. Tendere verso un simile modello cinematografico, però, non ha significato per l’animazione rinnegare completamente il proprio legame con il cinema delle origini, quello dei

vaudeville, delle attrazioni, che puntava a mostrare più che a raccontare,

tanto è vero che il lungometraggio Biancaneve mostra, qua e là, una serie di scarti rispetto alla norma che sono diretta derivazione del cinema primitivo delle spettacolarizzazioni: sebbene costruito secondo la regola hollywoodiana, Biancaneve e i sette nani incarna comunque un genere “debole” sul piano della struttura narrativa, il musical, fatto di numeri di ballo e canto indipendenti che segnano una sorta di pausa all’interno del flusso narrativo. Caratterizzati da una simile frammentarietà erano i numeri dei vaudeville, il genere di teatro agli antipodi di quello “serio” basato sull’intrattenimento e sul gusto del bizzarro in cui, attingendo alla tradizione circense, all’illusionismo e alle attrazioni da fiera, si susseguivano spettacoli

18 Pensiamo al cartoon precedente, I tre porcellini (Three Little Pigs, 1933): esso era dotato di una storia in senso pieno, con tanto di conclusione e morale, sviluppata in uno spazio che obbediva alle leggi del mondo fisico, proprio come accadeva nel live action.

19 La risposta dello specchio magico della regina che domanda chi è la più bella del reame, ad esempio, cita “She is more fair than thee”. Essa riporta la formula shakespeariana thee, per you, e serve a trasmettere l’idea di un’epoca antica, in un mondo arcaico.

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di ligthning sketchers20, numeri musicali di creature di confine come le

famose sorelle siamesi Violet e Daisy Hilton, e performance di cantanti stonati (come le sorelle Cherry, note come “America’s Worst Act”) cui il pubblico era autorizzato a lanciare uova e ortaggi. Paradossalmente, proprio la natura sconnessa di questi sketch autonomi presentati in sequenza ricordano il genere disorganico del musical di quel lungometraggio d’animazione che è stato il pioniere dell’assimilazione del modello classico21.

Inoltre, in Biancaneve si individua anche il gusto per gli “scherzi di natura” che venivano esibiti di fronte al pubblico degli anni Dieci: i nani, seppur percepiti come creature certamente non inquietanti (sono soltanto “piccoli uomini”, nelle parole della protagonista) racchiudono l’essenza dell’antico spirito del vaudeville.

Come per Biancaneve, i film di molti animatori americani prodotti e distribuiti da quelle case che avevano creato lo stile classico risultano, spesso, estranei a quel paradigma. Ma allora, quanto classico si può definire un modello standard che non sempre resiste alla norma e che spesso attinge al repertorio attrazionale del cinema delle origini?

Non solo la Disney, ma anche le major concorrenti Warner Brother e MGM continuavano a mostrare avversione al paradigma classico e facendo spesso

20 Disegnatori satirico-umoristici tracciavano molto rapidamente i propri schizzi su una lavagna o una tela dinanzi al pubblico.

21 Tale riflessione ricalca il pensiero di Giaime Alone e Alessandro Amaducci in Passo uno. L’immagine animata dal cinema al digitale, Lindau, Torino, 2003. Al fine di dimostrare che sarebbe scorretto considerare la storia della produzione Disney come una marcia, continua e convinta, verso l’omologazione del cartoon al modello narrativo del live action, gli autori affermano che il passaggio di Disney al lungometraggio non fu una semplice resa alle regole di Hollywood ma una sorta di compromesso in cui, all’adozione del découpage, dell’assimilazione dei criteri del verosimile cinematografico e della costruzione della vicenda su precisi nessi logici-causali, permangono elementi per così dire “primitivi” o comunque estranei al cinema americano degli anni Trenta quale, ad esempio, la natura frammentaria del film (un musical) che ricorda tanto il susseguirsi dei numeri diversi e indipendenti previsti dagli spettacoli dei vaudeville. La stessa logica “corta”, propria del cartoon, emergerà nel 1940 in Fantasia, un film a episodi che, per altro, relativizza la dimensione narrativa presentandosi come un corrispettivo visivo-cinetico del ritmo classico; un midcult che si muove nella direzione opposta di Biancaneve, “una nuova forma di sperimentazione”, come annuncia la voce over a inizio film.

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parodia dei film concorrenti mantenevano ugualmente un filo rosso col passato: la comicità violenta e ipercinetica, il gusto per le trovate surreali, il sistematico sabotaggio dell’illusione di realtà, la forte presenza di gag a carattere sessuale, furono i tratti distintivi dei loro film, agli antipodi di

Biancaneve e i sette nani. “In generale, i disegni animati della Warner e della

MGM rimasero imparentati con quelle forme di spettacolo – dall’illusionismo agli stand-up comedians, passando per i Keystone cops – che rifiutavano la compattezza del racconto, l’approfondimento psicologico e l’illusione di realtà, a favore di un insieme disarticolato di «attrazioni»”22. Nulla è più

attrazionale delle serie Road Runner fondata sulla ripetizione all’infinito dello stesso sketch: Wile Coyote fallisce miseramente l’inseguimento (schema portante delle comiche delle origini) del velocissimo pennuto, cadendo ogni volta nella sua stessa trappola e il tutto senza che nessuno dei personaggi pronunci una battuta, a esclusione del famoso “beep beep”. Se il vaudeville visse strettamente con il cinema muto, quando l’avvento del sonoro gli portò via il pubblico, oltre che gli attori migliori (i corrispettivi inglesi dei vaudeville, i music hall partorivano Charlie Chaplin e Stan Laurel), esso lasciò forti tracce nelle produzioni degli anni Trenta. Ad esempio, nei film di Betty Boop, incarnazione del mito della flapper (la giovane donna dai capelli a caschetto, dalle gonne corte e libera dalle costrizioni della morale

22 Giaime Alone e Alessandro Amaducci, Passo uno. L’immagine animata dal cinema al digitale, Lindau, Torino, 2003, p. 54. Corsivo nel testo originale. Stand-up comedians è un'espressione in lingua inglese che indica quel comico che in piedi (da qui il termine «stand-up») e in assenza della quarta parete – ovvero il muro immaginario che divide l’attore dagli spettatori – interpreta uno spettacolo di umorismo. La stand-up comedy privilegia l'artista armato solo di microfono, senza l'ausilio di altri accessori (con alcune eccezioni) e i temi affrontati vanno dalla comicità di osservazione, alla satira politica, religiosa o sociale. I Keystone Cops, spesso scritti anche Keystone Kops, erano un gruppo di poliziotti maldestri protagonisti di una serie di commedie agli inizi degli anni 1900 durante l'era del cinema muto. Nati da un'idea dell'attore Hank Mann, i personaggi interpretarono dal 1912 al 1917 una serie di film prodotti da Mack Sennett, direttore della Keystone Pictures Studio. Esponenti dello slapstick, essi divennero celebri per le loro scene di inseguimento. Da Passo Uno sono tratti gli esempi di Road Runner, Betty Boop, e Bugs Bunny che seguono.

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vittoriana) la dimensione acustica dei film consisteva di un flusso di musica e rumori che fungeva solo da accompagnamento delle gag visive; la partitura – tipicamente jazz – prevaleva su tutto il resto, dialoghi compresi, e l’animazione faceva semplicemente da cornice alla performance di un cantante. L’interazione diretta del personaggio con il pubblico violava la regola del cinema classico che non voleva lo sguardo in camera, e la bouncing

ball23 che segnava il ritmo delle canzoni saltando da una parola a un’altra

rappresentava un ulteriore sintomo d’invito diretto a cantare insieme. In controtendenza rispetto al modello del live action, nei cartoons emergeva, da un lato, la svalutazione della parola, ridotta spesso a semplice verso inarticolato (l’animazione abbonda di personaggi che farfugliano frasi incomprensibili da Donald Duck sino a Kenny di South Park), dall’altro un utilizzo anti-mimetico del suono che giungeva all’impossibilità di distinguere tra piano diegetico ed extradiegetico. La spiccata sensualità di Betty non verrà perduta nei cartoons dopo di lei, almeno fino a che l’animazione non passerà quasi totalmente in TV: pensiamo ai casi di travestitismo di Bugs Bunny, che in buona parte dei suoi film indossa biancheria da donna per disorientare gli avversari, o a quelli di omosessualità de I tre caballeros della Disney in cui Paperino è “insidiato” da Josè e Panchito (“We’re three gay

caballeros” recita la canzone guida del film). Non dimentichiamo, poi, che in

concomitanza all’irriverenza di alcuni cartoni emergevano anche le tracce di quello spirito “moderno” proprio del cartoon del periodo tra le due guerre mondiali: nella produzione di Tex Avery degli anni ’40 e ’50, ad esempio, accanto a Magical Maestro24 che si presentava come un omaggio ai

23 L’originale sistema di sincronizzazione dei cartoon con la musica in sala fu inventato dai fratelli Fleischer e si tratta dello stesso sistema che si pone alla base del moderno karaoke. 24 Magical Maestro racconta di un illusionista, Misto the Magician, il quale tenta di farsi assumere dal grande cantante Poochini. Si esibisce in numeri di illusionismo pensando evidentemente che sia possibile inserire uno sketch da vaudeville all’interno di uno spettacolo d’opera, ma finisce per essere letteralmente cacciato a calci. Misto si vendica: si sostituisce al direttore d’orchestra e grazie alla sua arte magica rende impossibile l’esecuzione della più famosa delle arie del Barbiere di Siviglia da parte del Maestro.

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Guarda il video e, in caso, rileggi il testo a pagina 61: quali elementi in più hai ricavato dal video rispetto a quelli che già conoscevi2. Usa la tabella sotto e poi confrontati

costituiscono il file (il numero di caratteri per il testo, il numero di pixel per l’immagine -sfruttando la risoluzione, il numero di campioni per il file audio - sfruttando