UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e
Chirurgia
Corso di Laurea magistrale in Psicologia Clinica e della Salute
TESI DI LAUREA
DIFFICOLTÀ LEGATE ALL’ ATTENTION DEFICIT
HYPERACTIVITY DISORDER (ADHD), GIOCO
D’AZZARDO E USO DEI VIDEOGIOCHI NEGLI
ADOLESCENTI
RELATORE: CANDIDATO:
Dott.ssa Maria Anna Donati Francesca D’Alessandro
2 INDICE
ELENCO DELLE TABELLE 3
ELENCO DELLE FIGURE 3
RINGRAZIAMENTI 4
RIASSUNTO 5
CAPITOLO 1. L’ATTENTION DEFICIT HYPERACTIVITY DISORDER (ADHD)
(DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITÀ) 7
1.
Il costrutto dell’ADHD 71.1. Evoluzione storica del costrutto 8
1.2. Attuali sistemi di riferimento nosografico per la diagnosi di ADHD 10
1.2.1. Il DSM-5 (APA, 2013) 11
1.2.2. L’ICD-10 (WHO, 1992) 14
1.2.3. DSM-5 e ICD-10 a confronto 17
2.
Prevalenza dell’ADHD 183.
Eziologia 214.
Comorbidità e difficoltà correlate all’ADHD 24CAPITOLO 2. ADHD E COMPORTAMENTI A RISCHIO 31
1.
I disturbi correlati e disturbi da addiction 311.1. Disturbi correlati a sostanze 31
1.1.1. ADHD e disturbi correlati a sostanze 33
1.2. Disturbi non correlati a sostanze 37
1.2.1. ADHD e disturbi non correlati a sostanze 41
1.2.1.1. ADHD e disturbi da gioco d’azzardo 43
3 CAPITOLO 3. LA RICERCA 50 1. Introduzione 50 2. Metodo 57 2.1. Partecipanti 57 2.2. Strumenti 57 2.3. Procedura 60
2.4. Analisi dei dati 60
3. Risultati 61
3.1. Il comportamento di gambling 61
3.2. L’uso dei videogiochi 63
3.3. ADHD, comportamento di gioco d’azzardo e uso dei videogiochi 65 3.4. Spiegazione dei comportamenti patologici a partire dai sintomi core
dell’ADHD e dalle difficoltà correlate 68
CAPITOLO 4. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 72
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ELENCO DELLE TABELLE
Tabella 1.
Correlazioni tra le cinque dimensioni dell’ADHD, il disturbo da gioco d’azzardo, l’uso patologico dei videogiochi, controllando l’effetto dell’età.
Tabella 2. Differenze tra le medie dei gruppi e dimensione dell’effetto.
Tabella 3.
Regressione gerarchica con il comportamento patologico di gioco d’azzardo come variabile dipendente e le variabili genere, inattenzione, iperattività/impulsività, problemi di apprendimento, provocazione/aggressività, problemi nelle relazioni familiari come predittori.
Tabella 4.
Regressione gerarchica con l’uso patologico dei videogiochi come variabile dipendente e le variabili genere, età, inattenzione, iperattività/impulsività, problemi nelle relazioni familiari, provocazione/aggressività, problemi di apprendimento come predittori.
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ELENCO DELLE FIGURE
Figura 1. Frequenza di gioco d’azzardo per tipo di gioco negli ultimi dodici mesi.
Figura 2. Frequenza di gioco per genere di videogames negli ultimi dodici mesi.
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio innanzitutto Maria Anna Donati, che è stata ed è per me un modello di professionalità e credibilità. La ringrazio soprattutto per la disponibilità, la fiducia e l’estrema pazienza.
Ringrazio Carmen Berrocal Montiel per i preziosi suggerimenti.
Ringrazio i miei genitori che mi hanno dato la possibilità di intraprendere questo percorso di studi e che hanno sempre creduto in me, sostendendomi in ogni momento.
Ringrazio i miei amici, lontani e vicini, che mi hanno sempre supportata e sopportata.
Ringrazio Alessio per la sua presenza e la sua pazienza.
Ringrazio il mio Eridan e il suo amore incondizionato.
7 RIASSUNTO
L’Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da un pattern persistente di disattenzione e/o iperattività che interferisce con il funzionamento e lo sviluppo. I sintomi core del disturbo (disattenzione e iperattività/impulsività) risultano essere associati ad altre difficoltà quali problemi di apprendimento, aggressività e relazioni familiari conflittuali, che compromettono ulteriormente il funzionamento. Studi in letteratura hanno riscontrato l’esistenza di un’associazione tra le componenti principali dell’ADHD e il disturbo da gioco d’azzardo e l’uso patologico dei videogiochi. Inoltre, anche le difficoltà correlate al disturbo risultano essere in relazione a tali condotte patologiche. Attraverso uno studio condotto con 304 adolescenti di età compresa tra 12 e 20 anni è stata riscontrata l’esistenza di correlazioni positive e significative tra le cinque problematiche associate all’ADHD (inattenzione, iperattività impulsività, problemi di apprendimento, provocazione/aggressività, relazioni familiari negative), la frequenza di gioco d’azzardo e il comportamento patologico legato al gioco d’azzardo, a eccezione dei problemi di apprendimento, che non correlano con la frequenza di gioco d’azzardo. Per quanto riguarda l’uso dei videogiochi, sono emerse correlazioni positive e significative tra le cinque dimensioni dell’ADHD, il tempo impiegato nell’utilizzo dei videogiochi, la frequenza d’uso e il comportamento patologico legato all’uso dei videogiochi, a eccezione delle dimensioni della provocazione/aggressività e delle relazioni familiari conflittuali che non correlano con il tempo impiegato nell’utilizzo dei videogiochi. I risultati hanno inoltre evidenziato che, delle due componenti principali dell’ADHD, l’inattenzione risulta essere un fattore predittivo significativo di entrambe le dipendenze, mentre, per quanto riguarda le difficoltà correlate al disturbo, è emerso che i problemi di apprendimento e l’aggressività sono predittori significativi del disturbo da
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gioco d’azzardo, a differenza dell’uso patologico dei videogiochi i cui fattori predittivi sono l’aggressività e le relazioni familiari conflittuali. Tali dati sono in linea con la letteratura presente e offrono importanti spunti in ottica di prevenzione.
Parole chiave: ADHD; Difficoltà correlate all’ADHD; Gioco d’azzardo; Uso dei videogiochi; Adolescenti.
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CAPITOLO 1
L’ATTENTION-DEFICIT/HYPERACTIVITY DISORDER (ADHD)
(DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITA’)
1. Il costrutto dell’ADHD
La caratteristica fondamentale del “Disturbo da deficit di attenzione/iperattività” (ADHD) è un persistente pattern di disattenzione e/o iperattività che interferisce con il funzionamento o lo sviluppo (American Psychiatric Association, APA, 2013). Da un punto di vista comportamentale, la disattenzione appare come un’incapacità di sostenere l’attenzione e di perseverare in un compito, pertanto il soggetto tende a distrarsi facilmente dal compito e ad apparire disorganizzato. L’iperattività si manifesta invece in modo diverso a seconda dell’età: nei bambini si osserva un’eccessiva attività motoria in contesti in cui essa non risulta opportuna e/o un’eccessiva loquacità; negli adulti, invece, si riferisce principalmente a un’estrema irrequietezza. Per impulsività si intende compiere azioni senza considerare le conseguenze a lungo termine; questa può derivare da un bisogno irrefrenabile di sperimentare la sensazione di gratificazione nell’immediato e/o dall’incapacità di posticiparla (APA, 2013).
Tali sintomi risultano essere associati ad una serie di altre difficoltà quali deficit nelle abilità sociali, problemi di adattamento scolastico e tendenza a non terminare il percorso scolastico, avere più partner, avere difficoltà nel mantenere un lavoro nel lungo termine e commettere un elevato numero di incidenti stradali. Tale quadro può quindi condurre ad una compromissione del funzionamento scolastico o lavorativo, familiare e sociale della persona. La presenza del disturbo dall’infanzia aumenta infatti il rischio di avere uno scarso rendimento scolastico e di sviluppare difficoltà comportamentali (Simonescu, Antshel, & Faraone, 2012).
10 1.1. Evoluzione storica del costrutto
L’ ADHD è stato individuato come disturbo a se stante in tempi relativamente recenti. Di comportamento iperattivo si cominciò a parlare per la prima volta intorno al 1915, a seguito di una devastante epidemia di encefalite (infezione causata da virus o altri agenti patogeni che causa un’infiammazione dell’encefalo) che colpì l’Europa occidentale. Negli anni successivi all’epidemia gli studiosi si concentrarono sui bambini sopravvissuti, riscontrando che questi ultimi avevano sviluppato un quadro comportamentale caratterizzato da difficoltà nella gestione dell’impulsività e comportamenti iperattivi (Ebaugh, 1923). Questo pattern comportamentale destò la curiosità dei ricercatori al punto che gli studi sono continuati anche nel corso della prima metà del Novecento, periodo durante il quale, per designare i sintomi che insorgevano nei bambini in seguito all’encefalite letargica, fu adottata l’espressione Brain-injured child syndrome (Sindrome infantile da danno cerebrale) (Strauss & Lehtinen, 1947), usata anche per indicare situazioni di ritardo mentale.
Nel corso degli anni, l’attenzione degli studiosi ha cominciato a distanziarsi dalla sfera cognitiva e dallo studio delle difficoltà di apprendimento per focalizzarsi maggiormente sul comportamento iperattivo; infatti, verso la fine degli anni Cinquanta, la definizione di Sindrome infantile da danno cerebrale è andata evolvendosi in quella di Sindrome del bambino iperattivo e, da quest’ultima, in quella di Reazione Ipercinetica del Bambino, categoria diagnostica comparsa per la prima volta all’interno della seconda edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) (DSM, APA, 1968). La scelta di etichettare in questo modo il disturbo sottendeva quindi l’intento di focalizzarsi maggiormente sulla componente comportamentale a scapito di quella cognitiva.
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Intorno agli anni Settanta si assistette ad un cambiamento di prospettiva nell’ambito della ricerca in psicologia: il focus di analisi cominciò infatti a vertere su aspetti cognitivi a scapito di quelli comportamentali soprattutto grazie agli studi di Virginia Douglas, volti all’analisi dei processi cognitivi dei bambini con Reazione Ipercinetica del Bambino, che condussero all’ elaborazione del suo modello (Douglas, 1972). Secondo tale modello erano quattro i deficit primari del disturbo, ovvero debole investimento in termini di mantenimento dello sforzo, deficit nella modulazione dell'arousal psicofisiologico che rende il bambino incapace di raggiungere le richieste dei compiti, forte ricerca di stimolazioni e gratificazioni intense e immediate, difficoltà nel controllo degli impulsi. In conseguenza di questi deficit primari si manifesterebbe un generale deficit di autoregolazione che include carenze a livello di pianificazione, organizzazione, funzioni esecutive, metacognizione, flessibilità cognitiva, automonitoraggio e autocorrezione.
Tale modello determinò un cambiamento di rotta per tutti gli studi successivi, tanto da contribuire anche all’evoluzione nosografica che si verificò nel DSM-III (APA, 1980) in cui la definizione di Disturbo da Deficit dell’Attenzione (DDA) sostituì la precedente Reazione Ipercinetica del Bambino. Un’ulteriore novità specifica del disturbo preso in esame ha riguardato l’inserimento di due sottotipi di DDA, ovvero Con Iperattività e Senza Iperattività. Il quadro diagnostico includeva una lista di sedici sintomi, suddivisi in tre categorie: disattenzione (cinque sintomi), impulsività (sei sintomi), iperattività (cinque sintomi). Per ricevere una diagnosi di DDA, era necessario presentare almeno tre sintomi di disattenzione e tre di impulsività.
Nel 1987 viene pubblicato il DSM-III – edizione rivisitata (DSM-III-R, APA, 1987) in cui la specificazione dei due sottotipi viene eliminata e viene introdotta l’etichetta diagnostica attualmente in uso, ovvero quella di Attention Deficit/Hyperactivity Disorder (ADHD) (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività).
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Un’ulteriore modifica è stata l’eliminazione delle tre categorie di sintomi, a favore di un’unica lista comprensiva di quattordici sintomi comportamentali. Per ricevere tale diagnosi erano necessari almeno otto sintomi, in almeno due contesti diversi (casa, scuola o altro contesto), per almeno otto mesi.
A differenza del DSM-III-R, la quarta edizione del manuale (DSM-IV) (APA, 1994) presentava i criteri specifici per i tre sottotipi di ADHD individuati: un sottotipo di ADHD presentava principalmente il deficit d’attenzione ma non il comportamento iperattivo (Tipo Inattentivo); al contrario, si poteva diagnosticare un altro sottotipo caratterizzato dalla presenza di comportamento impulsivo-iperattivo, ma non da deficit attentivo (Tipo Impulsivo/Iperattivo); infine, si poteva individuare il quadro che coinvolgeva entrambe le dimensioni, quella iperattiva-impulsiva e quella attentiva (Tipo Combinato).
Per porre diagnosi era necessario rilevare la presenza, sia a casa che a scuola, di almeno sei dei nove sintomi, per ciascuna area, per un periodo di almeno sei mesi. I sintomi dovevano essere stati osservati prima dei sette anni di età del bambino e doveva essere riscontrato un disagio significativo nel funzionamento sociale del bambino stesso.
Nel 2000 è stata pubblicata l’edizione rivisitata del DSM-IV, il DSM-IV-TR, in cui non si riscontrano cambiamenti significativi nei criteri per la diagnosi di ADHD.
1.2. Attuali sistemi di riferimento nosografico per la diagnosi di ADHD
Per la valutazione clinico-diagnostica dell’ADHD attualmente si fa riferimento alla quinta e ultima edizione del Manuale (DSM-5, 2013) e alla decima e ultima edizione dell’ICD (International Statistical Classification of Disease and Related
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Health Problems, World Health Organization, WHO) (Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi di Salute Correlati).
1.2.1. Il DSM-5 (APA, 2013)
Nel DSM-5 l’ADHD è stato inserito nella categoria dei Disturbi del Neurosviluppo, mantenendo invariata la differenziazione dei due domini di Inattenzione e Iperattività/Impulsività. Il DSM-5 ha esteso l’età di esordio del disturbo dai sette ai dodici anni, ha reso possibile la diagnosi di comorbidità e ha definito la soglia di sintomi minimi al di sotto dei quali non è possibile porre diagnosi. Ha fornito inoltre degli esempi clinici per meglio definire la diagnosi.
Di seguito si riportano in dettaglio i criteri diagnostici dell’ADHD presenti nel DSM-5.
Criteri diagnostici
A. Un pattern persistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con il funzionamento o lo sviluppo, come caratterizzato da 1 e/o 2: 1. Disattenzione: sei (o più) dei seguenti sintomi sono persistiti per almeno 6 mesi con un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo che ha un impatto negativo diretto sulle attività sociali e scolastiche/lavorative.
a. Spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività (es. trascura o omette dettagli, il lavoro non è accurato).
b. Ha spesso difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco (per esempio ha difficoltà a rimanere concentrato/a durante una lezione, una conversazione o una lunga lettura).
c. Spesso non sembra ascoltare quando gli/le si parla direttamente (per es., la mente sembra altrove anche in assenza di distrazioni evidenti).
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le incombenze o i doveri sul posto di lavoro (per es., inizia i compiti ma perde rapidamente la concentrazione e viene distratto/a facilmente). e. Spesso ha difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività (per es.,
difficoltà nel gestire compiti sequenziali; difficoltà nel tenere in ordine materiali e oggetti; lavoro disordinato, disorganizzato; gestisce il tempo in modo inadeguato, non riesce a rispettare le scadenze).
f. Spesso evita, prova avversione o è riluttante a impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale protratto (per es., compiti scolastici o compiti a casa; per gli adolescenti più grandi e gli adulti, stesura di relazioni, compilazione di moduli, revisione di documenti).
g. Perde spesso gli oggetti necessari per i compiti o le attività (per es., materiale scolastico, matite, libri, strumenti, portafogli, chiavi, documenti, occhiali, telefono cellulare).
h. Spesso è facilmente distratto/a da stimoli esterni (per gli adolescenti più grandi e gli adulti, possono essere compresi pensieri incongrui).
i. E’ spesso sbadato/a nelle attività quotidiane (per es., sbrigare le faccende; fare commissioni; per gli adolescenti più grandi e per gli adulti, ricordarsi di fare una telefonata; pagare le bollette; prendere appuntamenti).
2. Iperattività e impulsività: sei (o più) dei seguenti sintomi persistono per almeno 6 mesi con un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo e che ha un impatto negativo diretto sulle attività sociali e scolastiche/lavorative.
a. Spesso agita o batte mani e piedi o si dimena sulla sedia.
b. Spesso lascia il proprio posto in situazioni in cui si dovrebbe rimanere seduti (per es., lascia il posto in classe, in ufficio o in un altro luogo di lavoro, o in altre situazioni che richiedono di rimanere al proprio posto). c. Spesso scorrazza e salta in situazioni in cui farlo risulta inappropriato
(negli adolescenti e negli adulti può essere limitato al sentirsi irrequieti). d. E’ spesso incapace di giocare o svolgere attività ricreative
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e. E’ spesso “sotto pressione”, agendo come se fosse “azionato/a da un motore” (per es., è incapace di rimanere fermo/a, o si sente a disagio nel farlo, per un periodo di tempo prolungato, come nei ristoranti, durante le riunioni; può essere descritto/a dagli altri come una persona irrequieta o con cui è difficile avere a che fare).
f. Spesso parla troppo.
g. Spesso “spara” una risposta prima che la domanda sia stata completata (per es., completa le frasi detta da altre persone; non riesce ad attendere il proprio turno nella conversazione).
h. Ha spesso difficoltà nell’aspettare il proprio turno (per es., mentre aspetta in fila).
i. Spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro confronti (per es., interrompe conversazioni, giochi o attività; può iniziare a utilizzare le cose degli altri senza chiedere o ricevere il permesso; adolescenti e adulti possono inserirsi o subentrare in ciò che fanno gli altri).
B. Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività erano presenti prima dei 12 anni.
C. Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività si presentano in due o più contesti (per es., a casa, a scuola o al lavoro; con amici o parenti; in altre attività).
D. Vi è una chiara evidenza che i sintomi interferiscono con, o riducono, la qualità del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
I sintomi non si presentano esclusivamente durante il decorso della schizofrenia o di un altro disturbo psicotico e non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale (per es., disturbo dell’umore, disturbo d’ansia, disturbo dissociativo, disturbo di personalità, intossicazione o astinenza da sostanza).
Il DSM-5 permette di specificare il tipo di manifestazione del disturbo: si parla di Combined type (Manifestazione combinata) se negli ultimi sei mesi sono soddisfatti sia il
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criterio A1 (Disattenzione) che il criterio A2 (Iperattività-impulsività), di Predominantly inattentive type (Manifestazione con disattenzione predominante) se è soddisfatto il criterio A1 (Disattenzione) ma non il criterio A2 (Iperattività-impulsività) negli ultimi 6 mesi, e di Predominantly hyperactive-impulsive type (Manifestazione con iperattività/impulsività predominante) se il criterio A2 (Iperattività-impulsività) è soddisfatto ma il criterio A1 (Disattenzione) non lo è negli ultimi sei mesi (APA, 2013).
Inoltre il Manuale permette di specificare la gravità attuale dei sintomi: si definisce Mild (Lieve) se sono presenti pochi sintomi oltre a quelli richiesti per porre la diagnosi e se i sintomi comportano solo compromissioni minori del funzionamento sociale o lavorativo; Moderate (Moderata) se sono presenti sintomi o compromissione funzionale compresi tra “lieve” e “grave”, e Severe (Grave) se sono presenti molti sintomi oltre a quelli richiesti per porre la diagnosi, diversi sintomi che sono particolarmente gravi, o sintomi che comportano una marcata compromissione del funzionamento sociale o lavorativo (APA, 2013).
Infine il Manuale permette di definire se il disturbo è in Partial Remission (Remissione parziale), situazione che si verifica quando non tutti i criteri sono stati soddisfatti negli ultimi sei mesi nonostante tutti i criteri fossero stati precedentemente soddisfatti e i sintomi ancora causino compromissione del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo (APA, 2013).
1.2.2. L’ICD-10 (WHO, 1992)
Nell’ICD-10 l’ADHD viene inserito all’interno della sezione “Sindromi e disturbi comportamentali ed emozionali con esordio abituale nell’infanzia e nell’adolescenza”, nella categoria delle “Sindromi Ipercinetiche”, con l’etichetta di “Disturbo dell’attività e dell’attenzione”.
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Di seguito si riportano i criteri diagnostici del Disturbo dell’attività e dell’attenzione presenti nell’ICD-10.
La diagnosi per la ricerca di sindrome ipercinetica richiede la chiara presenza di marcati livelli di disattenzione, iperattività e irrequietezza, che sono evidenti in diverse situazioni e persistenti nel tempo e che non dipendono da altre patologie quali autismo o sindromi affettive.
G1. Deficit dell’attenzione. Almeno sei dei seguenti sintomi persistono da almeno sei mesi in una misura che è inadeguata e incompatibile con il livello di sviluppo del bambino:
1. spesso non riesce a prestare molta attenzione ai dettagli, o commette errori da trascuratezza nello svolgimento dei compiti scolastici, nel lavoro o in altre attività;
2. spesso non riesce a mantenere l’attenzione nello svolgimento di compiti o di attività ludiche;
3. spesso non sembra ascoltare ciò che gli viene detto;
4. spesso non segue le istruzioni o non completa compiti scolastici, i lavori domestici o le mansioni sul luogo di lavoro (non per un comportamento oppositivo o per mancata comprensione delle istruzioni);
5. ha spesso difficoltà ad organizzare compiti e attività;
6. evita spesos o ha una forte avversione per compiti, quali i lavori di casa che richiedono un intenso sforzo mentale;
7. perde spesso le cose necessarie per alcuni compiti o attività come le dotazioni scolastihe, matite, quaderni, giocattoli o utensili;
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9. è spesso negligente nello svolgimento delle attività quotidiane.
G2. Iperattività. Almeno tre dei seguenti sintomi di iperattività persistono da almeno sei mesi in una misura che è inadeguata e incompatibile con il livello di sviluppo del bambino:
1. ha frequenti movimenti nervosi delle mani e dei piedi o si dimena sulla sedia;
2. si alza spesso dalla sedia in classe o in altre situazioni in cui è il caso di stare seduti;
3. spesso corre o si arrampica in situazioni in cui ciò è inappropriato (negli adulti e negli adolescenti, può essere presente soltanto una sensazione di irrequietezza);
4. è spesso eccessivamente rumoroso nelle attività ludiche o ha difficoltà a svolgere silenziosamente attività piacevoli;
5. presenta persistentemente un’eccessiva attività motoria, sostanzialmente non modificata dal contesto o dalle aspettative sociali.
G3. Impulsività. Almeno uno dei seguenti sintomi di impulsività persistente da almeno sei mesi in una misura che è inadeguata e incompatibile con il lvivello di sviluppo del bambino:
1. spesso risponde in maniera sconsiderata a domande non ancora completate; 2. non riesce spesso a stare in fila o ad aspettare il proprio turno nei giochi o
nelle situazioni di gruppo;
3. spesso interrompe o si intromette nelle attività altrui (ad esempio, nelle conversazioni o nei giochi altrui);
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4. spesso parla eccessivamente senza una adeguata adesione alle regole sociali.
G4. Esordio della sindrome entro i sette anni di età.
G5. Pervasività. I criteri dovrebbero essere soddisfatti in più di una situazione, ad esempio la combinazione di deficit dell’attenzione e dell’iperattività dovrebbe manifestarsi sia a casa che a scuola, o sia a scuola che in un altro ambiente dove i bambini vengono osservati, ad esempio in una clinica. (La dimostrazione che i disturbi sono presenti in più di una situazione richiede di norma che le informazioni siano raccolte da più di una fonte; ad esempio, i resoconti dei genitori sul comportamento in classe difficilmente sono sufficienti).
G6. I sintomi descritti in G1 e G3 causano disagio o compromissioni clinicamente significative nel funzionamento sociale, scolastico e lavorativo.
G7. Il quadro non soddisfa i criteri per la sindrome da alterazione globale dello sviluppo psicologico (F84.), per l’episodio maniacale (F30), per l’episodio depressivo (F32.), o per le sindromi ansiose (F41).
1.2.3. DSM-5 e ICD-10 a confronto
La prima divergenza tra i due manuali correnti nella classificazione e descrizione del disturbo oggetto di studio riguarda l’etichetta diagnostica utilizzata, poiché nell’ICD-10 si parla di Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione anziché di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività, etichetta usata nel DSM-5. Per quanto riguarda le tre dimensioni definitorie del disturbo, ovvero disattenzione, iperattività, impulsività, la
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disattenzione è presa in considerazione in entrambi i Manuali, con gli stessi criteri, a differenza delle altre due, che nel DSM-5 vanno a formare una dimensione unica al cui interno vengono conservati gli stessi criteri dell’edizione precedente, solo modificati nella forma. Un’ulteriore divergenza è riscontrabile nel criterio B: secondo l’ICD-10, i sintomi devono essere riscontrabili prima del settimo anno di età, al contrario del DSM-5 in cui la soglia dell’età aumenta fino al dodicesimo anno di età. Inoltre, nell’ICD-10 non sono specificate diagnosi in comorbidità, al contrario del DSM-5 e delle sue edizioni precedenti.
2. Prevalenza dell’ADHD
I dati internazionali sulla prevalenza dell’ADHD sono estremamente eterogenei. Diversi studi riportano infatti percentuali con un range di variabilità abbastanza ampio, che oscilla dall’1% fino al 20% (Polanczyk, de Lima, Horta, Biederman, & Rohde, 2007). La prevalenza dell’ADHD a livello internazionale, tra bambini e adolescenti, è stimata intorno al 5-10% (Simunescu et al., 2012). Secondo gli studi riportati nel DSM-5, l’ADHD è riscontrabile nella maggior parte delle culture in circa il 5% dei bambini e il 2,5% degli adulti (APA, 2013). A livello europeo, uno studio condotto in Francia da Lecendreux, Konofal e Faraone (2011) con genitori di bambini di età compresa tra sei e dodici anni, ha stimato che la prevalenza del disturbo, tra i bambini francesi, rientra in un range che va dal 3.5% al 5.6%. A livello nazionale, invece, uno studio condotto da Bianchini e collaboratori (2013) con studenti di età compresa tra cinque e quindici anni ha evidenziato che solo il 3% dei bambini e degli adolescenti soddisfaceva i criteri per la diagnosi di ADHD, evidenziando una prevalenza più bassa rispetto alle stime internazionali. La variabilità nei dati sulla prevalenza può essere messa in relazione all’uso di diversi criteri di classificazione. A sostegno di ciò, secondo gli studi che
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hanno adottato il DSM-IV, i pazienti con ADHD sarebbero circa il 5%, mentre secondo quelli che hanno fatto riferimento all’ICD-10, questi sarebbero meno del 2% (Marzocchi, 2003). A conferma dell’influenza del sistema di riferimento diagnostico adottato sulle stime di prevalenza, quando vengono utilizzati gli stessi criteri diagnostici, in paesi diversi, la prevalenza di ADHD appare molto più simile (Rohde et al., 2005), tant’è che è stato osservato che, una volta tenuto sotto controllo il tipo di riferimento nosografico e diagnostico, i fattori culturali giocano un ruolo limitato nella diagnosi dell’ADHD (Meyer, Eilertsen, Tshifularo, & Sagvolden, 2004).
Un’altra variabile implicata nella variabilità circa la classificazione del disturbo dell’ADHD è costituita dalla cultura di appartenenza. Alcuni studi supportano infatti che l’aumento dei sintomi nell’ADHD dipenda dallo sviluppo dei bambini secondo la loro cultura di appartenenza (Burcham & DeMers, 1995). Secondo questa prospettiva è la cultura a stabilire quali comportamenti sono accettabili e questo è un dato importante nel determinare se un bambino può avere diagnosi di ADHD o meno (Barkley, 1995).
Anche il genere gioca un ruolo fondamentale nell’influenzare le stime sulla prevalenza del disturbo. Infatti un dato consolidato in letteratura riguarda la maggiore prevalenza del disturbo tra i maschi. Si stima, infatti, un rapporto di due a nove tra femmine e maschi con ADHD. Diversi studi sono stati condotti con il fine di indagare la causa della maggior prevalenza del disturbo nella popolazione maschile e i risultati ottenuti suggeriscono che il motivo della maggiore prevalenza potrebbe essere dovuto alla componente dell’iperattività, dato che i maschi sono tendenzialmente più aggressivi e impulsivi delle femmine (Arcia & Conners, 1998). L’implicazione è dunque che fare diagnosi di ADHD con le femmine è più complesso dato che queste tendono a mostrare in misura minore, rispetto al sesso maschile, il comportamento iperattivo-impulsivo, che risulta essere l’elemento diagnostico più evidente per riconoscere l’ADHD nei bambini (Adams, 2007).
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Anche la perdita di attenzione viene manifestata in modo diverso nei maschi e nelle femmine: i bambini scarabocchiano sui fogli o si guardano attorno all’interno dell’aula o guardano fuori dalla finestra, mentre le bambine sembrano essere più inclini a fissare l’insegnante, fingendo interesse (Abed, 2014). Date queste differenze, si può dedurre che riconoscere l’ADHD nelle bambine risulta più complesso anche perché in loro la mancanza di attenzione è molto meno evidente rispetto ai maschi.
Un’altra distinzione di genere riguarda la dimensione comportamentale: mentre i maschi sono più inclini a mostrare l’aggressività fisicamente, le femmine sono, tendenzialmente, aggressive verbalmente, nei confronti dei familiari e del gruppo dei pari, con un rischio maggiore di isolamento sociale (Jackson & King, 2004). Si è notato inoltre che, al momento della diagnosi, le femmine hanno generalmente un’età maggiore dei maschi, ad indicare quindi che nelle donne il disturbo viene identificato più tardi (Biederman et al., 2005). Un’ altra variabile legata alla prevalenza di ADHD è costituita dallo status socio-economico. Si è osservato che la prevalenza dei bambini con ADHD tra le famiglie a basso reddito è circa il doppio rispetto a quelle con alto reddito (Currie & Stabile, 2004). Alcuni studi hanno mostrato che la ragione di questa diversità può risiedere nel fatto che le famiglie con alto reddito utilizzano trattamenti a lungo termine, che risultano essere efficaci, a differenza di quelle con basso reddito, che non hanno le possibilità economiche per poterne usufruire (Rieppi et al., 2002; Stevens, Harman, & Kelleher, 2005).
Inoltre uno studio effettuato negli Stati Uniti con genitori di bambini e adolescenti di età compresa tra quattro e diciassette anni, con diagnosi di ADHD riportata dai genitori, ha evidenziato un aumento di tale diagnosi dal 7.8% al 9.5%, dal 2003 al 2007 (Visser, Bitsko, Danielson, Perou, & Blumberg, 2010). La variabilità nei dati sulla prevalenza dell’ADHD (Polanczyk et al., 2007) e l’incremento nel numero di bambini e adolescenti con diagnosi di ADHD (Visser et al., 2010) ha fatto emergere delle
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preoccupazioni circa la validità del disturbo (Singh, 2008; Timimi & Taylor, 2004). A disconferma di queste ipotesi, da uno studio condotto da Polanczyk, Willcutt, Salum, Kieling e Rohde (2014) è emerso che la variabilità nella prevalenza dell’ADHD è spiegata dalle caratteristiche metodologiche degli studi, mentre per quanto riguarda l’incremento nel numero di bambini e adolescenti con ADHD, non sono state riscontrate evidenze significative.
3. Eziologia
L’ADHD è un disturbo multifattoriale ovvero determinato da una molteplicità di fattori diversi. I fattori di rischio che ne sono alla base riguardano fattori genetici, fattori psicobiologici e fattori ambientali.
Per quanto riguarda i fattori genetici, gli studi hanno indicato che fattori di rischio sono rappresentati dalla presenza di genitori con ADHD e da un peso alla nascita inferiore a 1500 g, fattore che raddoppia o triplica il rischio di esibire il disturbo (APA, 2013). E’ importante sottolineare che non sembra esservi una relazione causale e lineare tra fattori genetici e disturbo; piuttosto esso deriverebbe da una loro interazione (APA, 2013). Evidenze a sostegno dell’ipotesi che ci sia una base genetica alla base del disturbo arrivano innanzitutto dal fatto che l’ADHD non “scompare” mai nel corso della vita (Abed, 2014). A conferma di ciò, i risultati delle indagini su famiglie dimostrano che in una famiglia con un figlio con ADHD il 25% degli altri membri familiari presenta la stessa diagnosi (Strock, 2003). Sempre nell’ambito delle indagini sulle famiglie, sono stati condotti studi sui gemelli, i cui risultati hanno stimato un’ereditabilità pari al 70-80% (Burt, 2009). Ulteriori studi hanno dimostrato che il 30-35% dei gemelli di bambini con ADHD ha l’ADHD, mentre la percentuale presente nella popolazione è considerevolmente inferiore (Biederman, Faraone, Keenan, Knee, &
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Tsuang, 1990; Faraone et al., 2000). Anche gli studi sulle adozioni offrono evidenze sull’eziologia genetica dell’ADHD. Ad esempio, uno studio di Sprich, Biederman, Crawford, Mundy, e Faraone (2000) ha mostrato che genitori adottivi di bambini con ADHD ottenevano punteggi di ADHD simili a quelli ottenuti dai genitori di bambini con sviluppo tipico; al contrario, i punteggi dei genitori adottivi risultavano più bassi rispetto a quelli ottenuti dai genitori biologici di bambini con ADHD non adottati. Un altro studio condotto da Alberts-Corush, Firestone, e Goodman (1986) ha mostrato che genitori adottivi di bambini con ADHD ottenevano risultati più elevati in performance che misurano il livello attentivo rispetto a genitori biologici di bambini con ADHD.
E’ quindi possibile concludere che il rischio genetico può predisporre all’ADHD, tant’è che è stato riscontrato che la componente genetica spiega circa l’80% della varianza del fenotipo dell’ADHD (Albayrak, Friedel, Schimmelmann, Hinney, & Hebebrand, 2008; Thapar, Holmes, Poulton, & Harrington, 1999).
Per quanto riguarda i fattori psicobiologici, l’ADHD è stato identificato come una condizione associata al sistema della ricompensa (Weinstein & Weizman, 2012); è stato infatti considerato un sottotipo di un disturbo conosciuto come Reward Deficiency Syndrome (RDS, Sindrome da Deficienza della Ricompensa), che risulta essere legato a una riduzione nella quantità di dopamina (Blum et al., 2008), che è il neurotrasmettitore primario del sistema della ricompensa ed è implicato nel controllo dei sentimenti di soddisfazione e benessere (Blum, Cull, Braverman, & Comings, 1996). La dopamina interagisce inoltre con altri neurotrasmettitori, quali la serotonina e gli oppioidi, che risultano implicati nel controllo del tono dell’umore (Weinstein & Weizman, 2012). Gli individui che presentano una carenza di dopamina, e quindi una bassa attivazione dopaminergica a livello del sistema della ricompensa, mostrano comportamenti a rischio (ad esempio abuso di alcol e droghe), sono maggiormente suscettibili allo stress (Faraone, 2003) e sono maggiormente predisposti a comportamenti di dipendenza,
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impulsivi e compulsivi. Altri studi hanno inoltre evidenziato alterazioni neurali a livello della corteccia prefrontale, del cingolo anteriore e dello striato, in soggetti con ADHD (Frodl, 2010).
Per quanto riguarda i fattori ambientali, alcuni studi hanno indagato l’influenza dell’ambiente familiare sull’ADHD e hanno riportato che l’attaccamento insicuro è implicato nell’eziologia dell’ADHD (Clarke, Ungerer, Chahoud, Johnson, & Stiefel, 2002). L’attaccamento si riferisce a quell’insieme di comportamenti infantili che vengono attivati da stressors esterni e che hanno come obiettivo la riduzione dell’arousal e il ripristino di un senso di sicurezza (nella prima infanzia spesso questo viene raggiunto con un riavvicinamento fisico e un contatto con la figura di attaccamento) (Bowlby, 1969). L’importanza del sistema di attaccamento risiede nel fatto che esso costituisce la base per lo sviluppo, nel bambino, di rappresentazioni mentali interne, le quali consentono la costruzione della sua visione di sé e delle relazioni (Thorell, Rydell, & Bohlin, 2012). Uno studio recente ha evidenziato una relazione tra i sintomi ADHD dei bambini riportati dagli insegnanti e l’attaccamento disorganizzato, il quale è caratterizzato da un’assenza di coerenza nei comportamenti di attaccamento tra caregiver (figura di attaccamento) e bambino, e dall’assenza di una strategia di organizzazione delle risposte per soddisfare il bisogno di comfort e sicurezza nelle situazioni fortemente stressogene (Pinto, Turton, Hughes, White, & Gillberg, 2006). Da studi longitudinali è emerso che l’attaccamento disorganizzato rende vulnerabile il bambino allo sviluppo di difficoltà nella gestione dello stress e allo sviluppo di disturbi esternalizzati intorno ai sei anni di età (Van Ijzenedoorn, Schuengel, & Bakermans-Kranenburg, 1999).
26 4. Comorbidità e difficoltà correlate all’ADHD
Diversi studi hanno riportato un’associazione tra ADHD e problemi di apprendimento. Nello specifico uno dei primi studi a questo proposito, condotto da Cantwell e Satterfield (1978), ha messo in evidenza un’alta prevalenza di problemi nelle prestazioni scolastiche in ragazzi con ADHD rispetto a ragazzi con un QI simile ma che non manifestavano la stessa sintomatologia. Studi successivi si sono focalizzati sull’indagine delle performance scolastiche di bambini e adolescenti con ADHD riportando che i bambini con iperattività tendono ad avere uno scarso rendimento scolastico, problemi di apprendimento, e/o disturbi dell’apprendimento (Holborow & Berry, 1986; Huessy & Cohen, 1976).
I Disturbi dell’apprendimento sono un gruppo eterogeneo di disturbi caratterizzati da difficoltà significative circa l’acquisizione e l’uso dell’ascolto e dell’espressione verbale, della lettura, della scrittura, del ragionamento e delle abilità matematiche (Cantwell & Baker, 1991). Diversi studi hanno evidenziato che i problemi di apprendimento non sembrano essere associati solamente all’ADHD, ma anche ai disturbi esternalizzanti; è stato infatti visto che bambini con disturbi della condotta e con comportamenti devianti e antisociali avevano un alto rischio di sviluppare problemi di apprendimento, in particolare le difficoltà nella lettura si sono rivelate molto comuni (Lewis, Shanok, Balla, & Bard, 1980; Meltzer, Roditi, & Fenton, 1986; Zinkus & Gottlieb, 1978). Considerando questi dati, si è supposto che i disturbi esternalizzanti potessero essere amplificati dai problemi di apprendimento e dallo scarso rendimento scolastico (Cantwell & Baker, 1991).
Per quanto riguarda la natura dell’associazione tra ADHD e problemi di apprendimento, ci sono varie ipotesi. In primo luogo, sembra che l’ADHD conduca allo sviluppo dei problemi di apprendimento a causa del suo core sintomatologico; infatti un
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dato atteso è che i bambini con deficit d’attenzione così come i bambini con difficoltà nel controllo degli impulsi e i bambini iperattivi abbiano più probabilità di avere difficoltà scolastiche. In secondo luogo, è stato suggerito che i problemi di apprendimento conducano allo sviluppo di sintomi ADHD. E’ stato infatti osservato che bambini con difficoltà di apprendimento significative e persistenti hanno un rischio maggiore di sviluppare difficoltà comportamentali (McGee, Share, Moffitt, Williams, & Silva, 1989). In terzo luogo è sembra che l’ADHD e i problemi di apprendimento siano in relazione tra loro perché condividono fattori comuni. In particolare si è visto che bambini con ADHD presentano dei deficit nelle abilità di problem solving che sono fondamentali per l’apprendimento (Douglas, 1999). Le abilità di problem solving sono sotto il controllo del funzionamento esecutivo, ovvero quei processi cognitivi implicati nel controllo della working memory, delle capacità inibitorie, delle abilità di pianificazione e di problem solving appunto. La working memory è la capacità di ritenere e elaborare l’informazione momentaneamente ed è un requisito importante per il rendimento scolastico. E’ stato osservato che i soggetti con ADHD presentano un deficit cognitivo proprio a livello del funzionamento esecutivo (Barkley, 1997); questo potrebbe spiegare la loro sintomatologia e le difficoltà scolastiche associate.
Alcuni studi hanno evidenziato il contributo singolo della disattenzione e dell’iperattività/impulsività nella relazione con le difficoltà associate al ADHD, quali i problemi scolastici. E’ stato visto, ad esempio, che la disattenzione era maggiormente associata alle difficoltà scolastiche; nello specifico, uno studio longitudinale ha seguito un gruppo di soggetti dall’asilo fino ai dodici anni di età e ha riscontrato che la disattenzione, al contrario dell’iperattività, era un predittore significativo del raggiungimento del diploma di scuola superiore (Pingault et al., 2011).
Un altro ambito di indagine è stato quello delle difficoltà interpersonali in soggetti con ADHD. Uno studio, ad esempio, ha mostrato che i bambini con ADHD avevano
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molte difficoltà relazionali con il gruppo dei pari, dovute al fatto che tendevano ad essere maggiormente rifiutati ed emarginati. Questo è stato confermato dal fatto che i bambini con ADHD, a causa della loro disattenzione, avevano molte più difficoltà nell’apprendere le abilità relazionali; inoltre, la componente impulsiva e iperattiva contribuiva a generare un comportamento sfrenato e prepotente, che amplificava l’avversione da parte dei coetanei. Questi comportamenti e le relative difficoltà relazionali sono stati riscontrati in entrambi i sessi all’interno del gruppo con sintomi ADHD (Hoza, 2007). Altri studi hanno mostrato l’eterogeneità legata ai problemi relazionali, la quale risulta essere estremamente influenzata dall’espressione fenotipica della sintomatologia. Ad esempio, in preadolescenti di sesso femminile con manifestazione combinata (disattenzione associata a iperattività/impulsività) risultavano livelli maggiormente elevati di aggressività relazionale e avversione, rispetto a coloro con manifestazione con disattenzione predominante (Hinshaw, 2002). Dati di ricerca mostrano che i bambini con sintomatologia ADHD tendono a sviluppare comportamenti socialmente aggressivi quali criminalità nel corso della adolescenza e prima età adulta, comportamenti oppositivo-provocatori e Disturbo Antisociale di Personalità (DAS) (Biederman et al., 2006; Fischer, Barkley, Flecther, & Smallish, 1993; Hecthtman, Weiss, & Perlman, 1984). Studi longitudinali condotti su bambini con ADHD hanno mostrato che l’esordio precoce e la persistenza di comportamenti aggressivi risultano essere predittori dello sviluppo di comportamenti violenti in età adulta e/o del DAS (McKay & Halperin, 2001). Tuttavia la relazione tra ADHD e comportamento aggressivo risulta essere complessa in quanto l’ADHD si presenta frequentemente in comorbidità con il Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC). Infatti il 35% dei soggetti con ADHD presenta la comorbidità con il DOP e il 30-50% risulta in comorbidità con il DC (Biederman, Newcorn, Sprich, & 1991). La presenza di queste frequenti condizioni di comorbidità rende dunque
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complessa la comprensione della manifestazione dei comportamenti aggressivi che si presentano in relazione all’ADHD.
Diversi studi hanno suggerito che i comportamenti aggressivi precoci sono in relazione con i sintomi del DC ma non con l’iperattività, e che sono predittori primari dell’aggressività in adolescenza e del comportamento antisociale in età adulta (Lahey, Loeber, Burke, & Applegate, 2005). E’ stato inoltre suggerito che è l’interazione tra i sintomi ADHD e DC a predire lo sviluppo dei comportamenti antisociali (MacDonald & Achenbach, 1996).
Da altri studi è emerso invece che la persistenza dell’ADHD nel corso dell’adolescenza è in grado di predire il decorso verso il comportamento antisociale, indipendentemente dall’infanzia (Mannuzza, Klein, Bonagura, Konig, & Shenker, 1988). In particolare uno studio ha preso in considerazione le traiettorie di sviluppo in un gruppo di bambini con disturbi del comportamento dirompente (ovvero ADHD, DOP e DC). Questi bambini presentavano i sintomi di questi disturbi in continuità tra loro, dall’infanzia all’adolescenza. In particolare, l’ADHD sembrava predisporre allo sviluppo dei sintomi di DOP, mentre il DOP sembrava predire la successiva progressione verso i sintomi di DC e verso una sintomatologia ansioso-depressiva. Tale studio ha quindi mostrato che l’ADHD è legato allo sviluppo dei sintomi DOP, per il quale le difficoltà vengono espresse soprattutto verbalmente, mentre il DOP sembra essere maggiormente in relazione con l’esordio delle difficoltà comportamentali del DC (Burke, Loeber, Lahey, & Rathouz, 2005).
Quello che si è riscontrato in uno studio condotto con adolescenti diagnosticati ADHD nel corso dell’infanzia e con sintomi persistenti, è che il comportamento aggressivo non risulta puramente associato alla comorbidità con DOP o DC, ma risulta piuttosto mediato dalla disregolazione emotiva, in particolare da sentimenti di rabbia,
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legati alla persistenza dei sintomi di ADHD nel corso dell’adolescenza (Harty, Miller, Newcorn, & Haplerin, 2008).
E’ stata inoltre riscontrata una relazione tra aggressività e modalità di parenting adottata (Patterson, Reid, & Dishion, 1992). E’ emerso infatti che i genitori di soggetti con disturbi esternalizzanti, compresi i genitori di soggetti con ADHD, presentano alti livelli di stress e insoddisfazione verso il ruolo genitoriale (Baker & Heller, 1996), sembrano inoltre essere inclini a mettere in atto strategie genitoriali disfunzionali e ad avere un atteggiamento negativo verso i loro figli (Woodward, Taylor, & Dowdney, 1998).
Oltre all’associazione con il comportamento aggressivo, è stata frequentemente riscontrata la relazione tra ADHD e difficoltà relazionali familiari. Si è osservato che la presenza di ADHD nell’infanzia è associata a interazioni genitore-figlio conflittuali e alti livelli di stress familiare (Johnston & Mash, 2001). Per quanto riguarda la relazione genitore-figlio, è emerso che i bambini con ADHD, nei confronti delle loro madri, sono meno complianti e tendono a richiedere più aiuto e assistenza, rispetto ai bambini senza sintomi ADHD (Danforth, Anderson, Barkley, & Stokes, 1991). Per quanto riguarda le madri, invece, si è riscontrato che queste hanno la tendenza ad essere maggiormente direttive e meno interattive, ad offrire un sostegno più fisico che psicologico e ad esprimere una maggiore disapprovazione nei confronti dei loro figli, rispetto alle madri di bambini senza sintomi ADHD (Barkley, Karlsson, & Pollard, 1985). Un altro studio ha esaminato la relazione madre-bambino dalla prima infanzia alla prima età scolare e ha messo in evidenza che l’insensibilità materna e la non responsività fisica nelle interazioni nel corso dell’infanzia possono predire la disattenzione e l’iperattività (Carlson, Jacobvitz, & Sroufe, 1995). Ad ampliare questi dati, uno studio longitudinale su bambini seguiti dall’età prescolare ai tredici anni di età, condotto da Campbell e collaboratori, ha evidenziato che alcune avversità (quali, ad esempio appartenenza ad
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una classe sociale bassa, depressione materna, stress genitoriale) e un comportamento materno direttivo risultano dei fattori di mantenimento della sintomatologia iperattiva e aggressiva del figlio, a prescindere dal grado di gravità iniziale di questa (Campbell, March, Pierce, Ewing, & Szumowski, 1991). Un aspetto rilevante in relazione allo stress legato al parenting materno consiste infine nel fatto che alcuni studi hanno riscontrato bassi livelli di soddisfazione e di efficacia legati al parenting nelle madri di bambini con ADHD (Anastopoulos, Guevremont, Shelton, & DuPaul, 1992).
Prendendo in considerazione la triade padre-madre-bambino, si sono riscontrate interazioni più avversive ed esigenti nelle famiglie di bambini con ADHD rispetto a quelle di bambini che non presentavano tali sintomi (Johnston & Mash, 2001). Per quanto riguarda invece lo stress familiare, è stato riportato che lo stress legato al ruolo genitoriale era significativamente più elevato nelle madri dei bambini con ADHD rispetto a quelle dei bambini che non presentavano i sintomi, per tre domini inerenti alle caratteristiche del bambino, della genitorialità e dell’interazione tra queste caratteristiche (Mash & Johnston, 1983). Gli elevati livelli di stress sembravano essere legati alle difficoltà nelle interazioni con i figli con ADHD (Mash & Johnston, 1983); inoltre tali livelli sono stati riscontrati nei bambini nel corso di età diverse, in entrambi i sessi, con diversi livelli di gravità della sintomatologia, e in entrambe le figure genitoriali (Johnston & Mash, 2001).
Alcuni studi si sono concentrati sulle differenze tra le diverse manifestazioni del disturbo, riscontrando che i bambini con manifestazione Combinata riportano la presenza di un contesto familiare più disfunzionale rispetto ai bambini che non presentano i sintomi ADHD e rispetto ai bambini con manifestazione di Disattenzione predominante e di Iperattvità/Impulsività predominante; inoltre si è visto che le famiglie in cui i bambini manifestavano solo i sintomi di disattenzione presentavano un ambiente familiare più funzionale rispetto alle famiglie di bambini con sintomi di iperattività e
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disattenzione o rispetto alle famiglie in cui è presente una condizione di comorbidità con comportamento aggressivo; per cui la manifestazione Combinata risulta essere associata alla compromissione del funzionamento familiare rispetto a quella con disattenzione predominante (Johnston & Mash, 2001). Infine un filone di studi si è concentrato sulle famiglie dei bambini con ADHD per evidenziare il contributo del funzionamento familiare nella relazione tra ADHD e dipendenza da sostanze. A questo proposito è stato osservato che la presenza di un figlio con ADHD aumentava la probabilità perturbare il funzionamento familiare e aumentava i livelli di stress genitoriale, in particolare in casi di comorbidità con disturbo della condotta (Harpin, 2005; Johnston & Mash, 2001). Questi dati sono particolarmente rilevanti considerando che le strategie di genitoriali e le interazioni genitore-figlio sono predittive dell’uso di sostanze in età adolescenziale e in età adulta (Raudino, Ferguson, & Horwood, 2013).
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CAPITOLO 2
ADHD E COMPORTAMENTI A RISCHIO
1. I Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction
Fino alla precedente edizione del DSM la categoria diagnostica di riferimento era “Disturbi correlati a sostanze”, che includeva i disturbi derivanti dall’assunzione di una sostanza, dagli effetti collaterali di un farmaco e dall’esposizione di tossine. Con la pubblicazione del DSM-5, i “Disturbi correlati a sostanze” sono stati sostituiti dai “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”. Questa nuova categoria comprende sia i Disturbi correlati a sostanze che i Disturbi non correlati a sostanze (APA, 2013).
1.1. Disturbi correlati a sostanze
I Disturbi correlati a sostanze includono dieci classi di sostanze: alcol, caffeina, cannabis, allucinogeni, inalanti, oppiacei, sedativi, ipnotici e ansiolitici, stimolanti, tabacco e altre sostanze. Tali disturbi si dividono in Disturbi da uso di sostanze e Disturbi indotti da sostanze. I soggetti con disturbo da uso di sostanze presentano un quadro comportamentale legato all’uso della sostanza, che si manifesta con la compromissione del controllo dell’uso della sostanza e con la compromissione sociale. La compromissione del controllo si può manifestare con l’assunzione della sostanza in quantità maggiori o per periodi più lunghi rispetto alle intenzioni del soggetto, con l’impiego di un lungo periodo di tempo per ottenere la sostanza o per usarla e con il
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craving, ovvero il desiderio intenso e irresistibile nei confronti della sostanza. La compromissione sociale, invece, si può manifestare con l’uso ricorrente che può portare a trascurare la scuola, il lavoro o la famiglia. Altre caratteristiche cliniche del disturbo sono il piacere e il sollievo dati dall’assunzione, la dominanza (ovvero il pensiero costante di assumere la sostanza), l’instabilità dell’umore generata dalla sostanza, la tolleranza (il bisogno di aumentare l’uso della sostanza per ottenere piacere e sollievo), l’astinenza (ovvero un intenso disagio psichico e fisico causato dall’interruzione dell’assunzione) (Marazziti, Presta, Picchetti, & Dell’Osso, 2015).
Tratti riscontrati in soggetti con disturbo da uso di sostanze sono l’impulsività, la sensation seeking e la disregolazione emotiva (deCastro, Fong, Rosenthal, & Tavares, 2007). In questi soggetti la ricerca della sostanza è un modo per ridurre ansia e indurre un umore più positivo (Grant, Potenza, Weinstein, & Gorelick, 2010).
Da un punto di vista neurobiologico qualsiasi sostanza assunta in dosi eccessive ha un effetto a livello cerebrale, agendo con l’attivazione del sistema della ricompensa, producendo un effetto di gratificazione e quindi rinforzando il comportamento. L’attivazione generata da queste sostanze e il successivo senso di gratificazione sono così intense che le attività quotidiane possono venir trascurate in favore di una costante ricerca della sostanza per rigenerare il senso di gratificazione (APA, 2013). I dati epidemiologici più recenti hanno attestato un incremento notevole del numero di soggetti con dipendenza da sostanze. Infatti i dati a livello internazionale hanno rilevato che, dal 2006 al 2014, c’è stato un incremento, dal 4.9% al 5.2%, nell’uso di sostanze in soggetti di età compresa tra i 15 e i 64 anni (United Nations Office on Drugs and Crime, World Drug Report, 2016). Anche i risultati di una ricerca condotta nel corso del 2016, a livello nazionale, hanno mostrato che il 33% della popolazione fra i 15 e i 64 anni ha provato almeno una sostanza illegale nel corso della propria vita e, nel range di età tra 15 e 34 anni, la percentuale diventa del 44%. La
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cannabis è risultata essere la sostanza più utilizzata ed è stato rilevato un aumento della diffusione rispetto ai dati risalenti al 2014; infatti il 33% degli studenti italiani ha riferito di aver assunto almeno una sostanza illegale e, di questi, il 32% ha utilizzato la Cannabis. Il 23% degli studenti consumatori di cannabis ha un consumo problematico (Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, 2017,<http://www.politicheantidroga.it/media/2153/relazione-alparlamento_2017.pdf>). La categoria dei Disturbi indotti da sostanze, invece, comprende l’intossicazione, l’astinenza e altri disturbi mentali indotti da sostanze/farmaci, quali, ad esempio, il disturbo psicotico indotto da sostanze o il disturbo depressivo indotto da sostanze (APA, 2013). Per quanto riguarda l’intossicazione, la caratteristica principale è lo sviluppo di una sindrome reversibile specifica per una sostanza, dovuta all’assunzione recente di quest’ultima. Durante un’intossicazione possono generalmente riscontrarsi alterazioni della percezione, della vigilanza, dell’attenzione, del pensiero, della capacità critica, del comportamento psicomotorio e interpersonale (APA, 2013). Per quanto riguarda l’astinenza, invece, le caratteristiche centrali sono: lo sviluppo di un’alterazione comportamentale dovuta alla riduzione o all’interruzione dell’assunzione prolungata della specifica sostanza, e il desiderio intenso e irrefrenabile di assumere nuovamente la sostanza al fine di ridurre il disagio causato dall’interruzione dell’assunzione di questa (APA, 2013).
1.1.1. ADHD e Disturbi correlati a sostanze
Le prime indagini che hanno messo in relazione l’ADHD con i Disturbi correlati a sostanze erano studi longitudinali che avevano l’obiettivo di indagare i fattori di rischio alla base della genesi del Disturbo da uso di sostanze. Gli studi sono stati condotti su soggetti privi di diagnosi e seguiti dall’infanzia all’età adulta. I risultati
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hanno riscontrato che i comportamenti precoci sovrapponibili alla sintomatologia dell’ADHD potevano predire lo sviluppo successivo del Disturbo da uso di sostanze. Uno studio condotto da Block, Block, e Keyes (1988) ha riscontrato che comportamenti predittivi dell’uso di sostanze erano individuabili in difficoltà nell’autoregolazione comportamentale, emotiva e nel rispetto sociale. Gli studi sull’argomento sono giunti a delineare una serie di tratti identificabili in soggetti con dipendenza, come la disinibizione (Iacono, Malone, & McGue, 2008). Poiché tali tratti erano identificabili anche in soggetti con ADHD, gli studi si sono poi indirizzati verso l’analisi della relazione tra ADHD e dipendenza da sostanze.
Tali studi hanno confermato che, in confronto alla popolazione generale, i soggetti con dipendenza da sostanze hanno un rischio maggiore di avere l’ADHD (Wilens & Spencer, 2010). Ad esempio, in uno studio sull’uso patologico di cannabis, il 38% degli adolescenti, indistintamente dal genere, riportava la sintomatologia dell’ADHD (Dennis et al., 2004). Si è osservato che tra i soggetti con sintomi di ADHD il rischio di sviluppare un disturbo da sostanze è il doppio rispetto alla popolazione generale (Wilens et al., 2011). Tali dati sono stati confermati da ulteriori studi che ne hanno dimostrato la relazione in modo indiretto, infatti sono stati rilevati alti tassi di disturbi da uso di sostanze tra i genitori di bambini con ADHD (Biederman et al., 2008); altri studi hanno analizzato il rapporto genitore-figlio e hanno ipotizzato che i soggetti con figli con ADHD usassero l’alcol per mediare e ridurre lo stress generato dai sintomi del bambino (Pelham et al., 1997).
La ricerca si è interrogata a lungo su quali fossero le cause alla base della relazione tra ADHD e disturbo da uso di sostanze. Dal punto di vista neurobiologico, ADHD e disturbo da sostanze condividono anomalie strutturali cerebrali, quali una riduzione del volume frontale, cerebellare, e a livello sottocorticale (Wilens & Spencer, 2010) e alterazioni del sistema dopaminergico (Frodl, 2010). Inoltre, così come nei casi
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di ADHD, in soggetti con disturbo da uso di sostanze che manifestano il craving, cioè la sensazione di crescente tensione che precede l’inizio dell’assunzione della sostanza si sono riscontrate alterazioni a livello fronto-striatale (Frodl, 2010).
Altri studi si sono concentrati sull’aspetto comportamentale, sull’analisi degli stili di coping messi in atto da soggetti con disturbo da sostanze e soggetti con ADHD. Il termine coping indica lo sforzo, cognitivo e comportamentale, da parte degli individui, per organizzare le proprie risorse, interne ed esterne, nel momento in cui le richieste ambientali sono percepite come eccessive (Folkman & Lazarus, 1984). Si è riscontrato che i soggetti con ADHD sono attratti dall’assunzione delle sostanze e ne diventano dipendenti perché sono costantemente in cerca di emozioni intense oppure perché, assumendo la sostanza, alleviavano i sintomi dell’ADHD (Kronenberg et al., 2015; van Emmerick et al., 2012).
Per quanto riguarda le condizioni di comorbidità, si è riscontrato che l’associazione dell’ADHD con un’altra diagnosi prevedeva un’insorgenza precoce e un decorso più grave del disturbo da uso di sostanze (Arias et al., 2008). In particolare, nell’ambito della dipendenza da sostanze, la comorbidità con il Disturbo della condotta (DC) è stata quella più a lungo studiata. Uno studio ha riscontrato che in soggetti con co-presenza di ADHD e DC la probabilità di sviluppare un disturbo da uso di sostanze era quattro volte superiore rispetto alla popolazione generale; il rischio risultava quindi essere maggiore rispetto anche ai soggetti con ADHD (Zulauf, Sprich, Safren, & Wilens, 2014). Questi dati confermano le evidenze riportate da altri studi secondo cui i soggetti con ADHD tendono a sviluppare difficoltà comportamentali (Barkley, 2008). Un altro ambito di analisi è quello delle difficoltà scolastiche. Molti studi si sono interrogati circa il ruolo svolto e il contributo apportato dai problemi scolastici, all’interno della relazione tra ADHD e uso patologico di sostanze. Ad esempio, durante la scuola elementare, i bambini con ADHD tendono a star fuori dalla classe molto più
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tempo rispetto ai coetanei, falliscono nei tentativi di portare a termine i compiti a casa, tendenzialmente non riescono a raggiungere gli obiettivi, violano le regole della classe, disobbediscono frequentemente, e infastidiscono i compagni di classe più degli altri bambini della stessa età. Nel corso della scuola media ricevono molte note per il cattivo comportamento e persistono i fallimenti nel portare a termine i compiti. Questo pattern persiste anche nel corso delle scuole superiori, dove risulta molto alto il rischio di abbandonare la scuola.
Le difficoltà scolastiche renderebbero i bambini con ADHD più vulnerabili all’uso di sostanze (Molina & Pelham, 2014). Diversi studi hanno infatti indagato la relazione tra difficoltà scolastiche e uso di sostanze mettendo in evidenza che i fallimenti accademici nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza risultano predire l’uso di sostanze in età avanzata (Brook, Whiteman, Cohen, Shapiro, & Balka, 1995). E’ emerso infatti che il ridotto impegno scolastico, manifestato ad esempio con un elevato numero di assenze, era un predittore dell’abbandono del percorso scolastico durante l’età adolescenziale e, nel corso dell’età adulta, risultava predittivo del comportamento delinquenziale e dell’utilizzo patologico di sostanze (Henry, Knight, & Thornberry, 2012).
Inoltre studi longitudinali hanno evidenziato che bambini con difficoltà relazionali sovrapponibili a quelle riscontrate in bambini con ADHD, quali cattiva gestione del conflitto e bassi livelli di accettazione dai pari (Hops, Davis, & Lewin, 1999), aggressività, e timidezza (Kellam, Ensminger, & Simon, 1980) risultavano fattori predittivi dell’uso di sostanze in età adolescenziale (Molina & Pelham, 2014).
39 1.2. Disturbi non correlati a sostanze
L’idea che la dipendenza possa esistere anche in assenza di sostanze psicotrope è stata diffusa da Peele (1979), secondo cui i soggetti con comportamento dipendente sono dipendenti da un particolare set di esperienze piuttosto che dalle sostanze (Peele & Brosky, 1975). Le dipendenze comportamentali fanno riferimento a una vasta gamma di comportamenti caratterizzati da forti componenti impulsive e compulsive, tra cui rientrano il Disturbo da gioco d’azzardo (Gambling Disorder) (APA, 2013), la new technlogies addiction, che include la dipendenza da TV, da Internet, dai social network, dai videogiochi, lo shopping compulsivo, la dipendenza dal lavoro, la dipendenza dal sesso e la dipendenza affettiva, anche se queste sindromi non sono state incluse nell’apposita sezione del DSM-5. La caratteristica centrale di tali dipendenze è l’incapacità della persona di resistere all’impulso o di controllare la tentazione di mettere in atto il comportamento pericoloso per sé o per gli altri (Grant et al., 2010). La caratteristica delle dipendenze comportamentali consiste quindi nella messa in atto ripetitiva del pattern comportamentale specifico ed è la reiterazione ricorrente di tale comportamento a determinare la compromissione del funzionamento del soggetto.
Le dipendenze comportamentali hanno molti aspetti in comune con le dipendenze da sostanze: in entrambi i casi, infatti, l’esordio è nel corso dell’adolescenza e della prima età adulta, si riportano alti livelli di arousal prima di eseguire il comportamento e alti livello di piacere e gratificazione dopo averlo eseguito (APA, 2000). Da ciò ne deriva la natura egosintonica dei disturbi, nelle prime fasi, in entrambe le forme di dipendenza, che, con il tempo, assumono sempre più un aspetto egodistonico, in cui diminuisce il piacere legato alla sostanza e aumenta la componente compulsiva (Grant et al., 2010). Anche su un piano comportamentale si possono riscontrare manifestazioni sovrapponibili nelle dipendenze comportamentali e in quelle da sostanze, quali il