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Attitudine alla collaborazione e Job Satisfaction all'interno del P.O di Livorno: studio osservazionale

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE

INFERMIERISTICHE E OSTETRICHE

Presidente: Prof. LORENZO GHIADONI

“ATTITUDINE ALLA COLLABORAZIONE E JOB

SATISFACTION ALL’INTERNO DEL PRESIDIO

OSPEDALIERO DI LIVORNO: STUDIO OSSERVAZIONALE”

ANNO ACCADEMICO 2018/2019

RELATORE

Dott. ANDREA CAIAZZO

CANDIDATO

THOMAS LUCHI

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INDICE

Introduzione 5

Cap1.La collaborazione Medico – Infermiere 8

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.1 La Collaborazione: Etimologia e fattori determinanti

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1.2 La Collaborazione secondo l’American Nurses Association

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1.3 Il Dirigente Inf.co e l’orientamento alla collaborazione

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1.4 Fattori influenzati la Collaborazione Interprofessionale

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Cap.2 Evoluzione della professione: l’Infermiere Dirigente 17

2.1 Il dirigente: Trait d’Union tra attività, persone e risorse

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2.2 Profilo normativo dell’Infermiere Dirigente

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2.3 Management in quadro POLC: creazione di condizioni operative

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2.4 La legge 251/00: aspetti salienti

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2.5 Profilo di competenza del Dirigente Infermieristico

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2.6 L’importanza della motivazione

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Cap.3 La Job Satisfaction

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3.1 La soddisfazione lavorativa : costrutto e definizione di Locke

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3.2 Principali modelli legati alla soddisfazione lavorativa

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3.3 Fattori influenzanti la Job Satisfaction

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3.4 Principali scale della soddisfazione: McCloskey Mueller Satisfaction Scale

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Cap.4 Attitudine alla Collaborazione e Job Satisfaction all’interno

del Presidio Ospedaliero di Livorno: studio osservazionale 39

4.1 Preambolo Introduttivo

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4.2 Procedura

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4.3 Strumenti: Jefferson Scale of Attitudes Toward Physician -Nurse Collab.

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4.4 Strumenti: McCloskey Mueller Satisfaction Scale

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4.4 Partecipanti

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4.5 Analisi dei dati

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4.6 Discussione

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4.7 Conclusioni

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Bibliografia 81

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ricordare tutti coloro che mi hanno aiutato nella

stesura di questo elaborato di tesi con suggerimenti, critiche

ed osservazioni: a voi la mia più sincera gratitudine e stima.

Ringrazio anzitutto il Dottor Andrea Caiazzo, per la sua

grande disponibilità e pazienza dimostrata, senza il suo

supporto e la sua guida sapiente questo elaborato di tesi non

esisterebbe.

Vorrei ringraziare le persone a me più care: la mia famiglia

a cui devo tutto, in particolare a Marina, Mario, Enzo,

Miranda, Lucia e Sabatina che con i vostri sacrifici mi avete

permesso di realizzare questo piccolo ma importante

traguardo.

Concludo dedicando questo elaborato al mio caro nonno

Enzo, che con i suoi insegnamenti, i suoi consigli e la sua

sapiente guida mi ha permesso di diventare la persona che

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5

INTRODUZIONE

Il lavoro di tesi da me progettato nasce al fine di evidenziare l’attitudine alla collaborazione e la Job Satisfaction tra personale medico ed infermieristico sull’assistenza sanitaria erogata all’interno del Presidio Ospedaliero di Livorno. E’ importante sottolineare, per comprendere a pieno la necessità di questa indagine, che la collaborazione e l’integrazione professionale fra medico ed infermiere sono determinanti nella presa in carico del paziente, nella riduzione delle degenze e, non per ultimo, nell’aumento della soddisfazione del personale sanitario, elementi fondamentali a cui un buon dirigente infermieristico deve sempre cercare di orientarsi. Collaborare, significa lavorare insieme, comunicare, cooperare e condividere processi decisionali. Tra i fattori che determinano la collaborazione ci sono a) fattori individuali, quali la consapevolezza e l’accettazione del proprio ruolo e livello di esperienza; b) di gruppo, quali l’effettiva comunicazione, il rispetto reciproco e la fiducia; c) ambientali, la presenza di un’organizzazione con struttura orizzontale non gerarchica e di leader che promuovo la visione comune dei problemi incoraggiando la creatività e l’armonia. Nel corso degli ultimi anni in Italia c’è stato un cambiamento del rapporto medico – infermiere. Si è passati da un’organizzazione quasi esclusivamente gerarchica in cui la figura del medico veniva posta culturalmente al vertice della scala ed orientava gli infermieri alle loro mansioni, ad una cooperazione più indipendente e responsabile dei ruoli professionali, a rispetto anche di ciò che è legalmente espresso nei rispettivi Codici Deontologici. Oltre al Codice Deontologico dell’infermiere, ulteriore normativa (Profilo professionale dell’infermiere, DPR 739/94, il Patto Infermiere – Cittadino, Legge n.42/99, Legge n.251/2000) riconosce che la professione infermieristica ha lo scopo di curare il paziente in cooperazione con altre figure professionali, e richiama quindi ad una maggior collaborazione. Nello specifico l’infermiere ha un’esigenza ed una propensione a collaborare più sentita rispetto al medico. Nel suo Codice Deontologico sono diversi gli articoli in cui il tema è sollecitato. Nell’articolo 5 trattante i rapporti professionali con colleghi ed altri operatori, viene ben sottolineato questo spirito di collaborazione e rispetto che egli è chiamato a manifestare tra i professioni: ai punti 5.1 e 5.2 infatti si cita: “L’infermiere collabora con i colleghi e

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gli altri operatori, di cui riconosce e rispetta lo specifico apporto all’interno dell’equipe” e “ L’infermiere tutela le dignità proprie e dei colleghi attraverso comportamenti ispirati al rispetto e alla solidarietà. Si adopera affinché la diversità di opinioni non ostacoli il progetto di cura”. Anche il medico è chiamato dal suo Ordine Professionale ad intraprendere attività collaborative; il Codice Deontologico, nella parte riguardante il “Rapporto con terzi” all’art.66 – Rapporto con altre professioni sanitarie, cita quanto segue: “il medico deve garantire la più ampia collaborazione e favorire la comunicazione tra tutti operatori coinvolti nel processo assistenziale, nel rispetto delle peculiari competenze professionali”. Una mancanza di collaborazione può essere la causa di problemi sulla qualità, sicurezza, efficacia ed efficienza dell’assistenza e sulle cure erogate al paziente, nonché ragione di insoddisfazione personale e demotivazione alla carriera infermieristica. Secondo L’American

Nurses Association la collaborazione è: ”una società vera, in cui i poteri delle parti

posso essere valutati da ognuno con riconoscimento ed accettazione di attività e responsabilità pratiche, sia separate che combinate; una salvaguardia reciproca degli interessi legittimi di entrambe le parti; ed una concomitanza comune nel traguardo da raggiungere”. Da questa definizione si evince di come la collaborazione vada in parallelo con la parola multidisciplinarietà. Essa infatti è la strategia migliore per gestire i problemi di salute complessi, lavorando assieme e comunemente, condividendo responsabilità nell’assistenza, nelle informazioni, nel coordinamento e in tutte le decisioni prese sulla cura del paziente. Lavorare in gruppo ed adottare atteggiamenti che favoriscano la collaborazione tra operatori del settore è quindi il metodo operativo fondamentale che tutte le unità operative, in qualsiasi sistema sanitario del globo, dovrebbero adottare. Considerando che la letteratura esaminata è di prevalenza anglosassone, emerge la necessità di analizzarla e rivederla alla luce della situazione organizzativa italiana, per indirizzare ulteriormente la prassi sanitaria del nostro Paese ad intraprendere validi ed efficaci rapporti multidisciplinari. Lo stile collaborativo dovrebbe per di più essere una costante fin dalla formazione universitaria, con interazione ed integrazione ove possibile tra i corsi universitari e anche tra gli stessi studenti medici ed infermieri. La scarsità di dati reperibili in Italia su questo argomento forse si collega al mantenersi di un modello organizzativo funzionale per compiti che porta ad una

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standardizzazione e rigidità dei ruoli e di conseguenza fa si che si tralascino tutti quei rapporti interprofessionali che richiedono impegno, ma si riflettono positivamente nel clima operativo, nella qualità dell’assistenza e delle relazioni professionali con i pazienti, i familiari ed i colleghi. Secondo uno studio multicentrico per verificare l’attitudine alla collaborazione fra infermieri e medici somministrando la Jefferson

Scale of Attitudes Toward Physician – Nurse Collaboration (strumento che verrà

utilizzato per la conduzione del nostro studio) a 2522 professionisti di 4 stati sottolinea che l’attitudine è maggiore in USA ed Israele rispetto ad Italia e Messico dove domina il modello gerarchico, ed è anche maggiore tra gli infermieri rispetto ai medici. Le professioni con più potere sono infatti meno orientate alla collaborazione interprofessionale. Zwarestein et alhanno fatto una revisione sistematica basata su due studi. Uno, Tailandese, effettuato in due reparti di medicina dimostra che la discussione multidisciplinare dei casi riduce la lunghezza della degenza (P < 0,05), ma non la mortalità nei pazienti tra i 60-70 anni. Come anche, il giro visita multidisciplinare riduce la durata del ricovero (da 6,06 a 5,46 giorni, P=0,006), i costi di degenza (da US $8090 a 6681, P= 0,006) ed aumenta la soddisfazione per l’aumento della comunicazione, un più efficace lavoro di gruppo e presa in carico dei problemi dei pazienti. Un altro studio, questo compiuto da Dechairo et al, focalizza gli interventi per aumentare la collaborazione, su una promozione interdisciplinare del gruppo di lavoro. Medici ed infermieri agiscono con lo scopo di raggiungere risultati di qualità per il paziente, partecipando ad incontri di discussione sugli obiettivi di cura, adottando strategie per valorizzare il ruolo infermieristico nella presa di decisioni e nella gestione dei conflitti, aderendo a lezioni giornaliere per imparare strategie di collaborazione. E’ proprio in quest’ottica che s’inserisce l’operato del dirigente infermieristico il quale, grazie alle sue competenze specialistiche, che il suo ruolo richiede, è l’unica persona capace di essere il “collegamento” fra le attività, le persone, le risorse; ossia colui che riesce a “leggere” i contesti ed i loro mutamenti, ossia colui che con le sue caratteristiche di risolutezza e mediazione riesce a ripristinare situazioni che all’apparenza possono apparire insanabili.

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CAPITOLO I

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Il lavoro di tesi da me progettato nasce al fine di evidenziare la Job Satisfaction e l’attitudine alla collaborazione tra personale medico ed infermieristico sull’assistenza sanitaria erogata all’interno del Presidio Ospedaliero di Livorno.

E’ importante sottolineare, per comprendere a pieno la necessità di questa indagine che la collaborazione e l’integrazione fra infermiere e medico sono fondamentali nella presa in carico del paziente, nella riduzione delle degenze e, non per ultimo, nell’aumento della soddisfazione del personale sanitario, elementi a cui un buon dirigente infermieristico deve sempre cercare di orientarsi. Collaborare [dal latino tardo collabōrare, composto da con- e labōrare «lavorare»] significa lavorare insieme, comunicare, cooperare e condividere decisioni. Medico ed infermiere lavorano assieme con gli stessi obiettivi, anche se, fattori educativi, culturali e sociali possono influenzarne l’integrazione, il livello di collaborazione e l’intesa professionale. Tra i fattori che determinano la collaborazione ci sono a) fattori

individuali, quali la consapevolezza e l’accettazione del proprio ruolo e livello di

esperienza; b) di gruppo, quali l’effettiva comunicazione, il rispetto reciproco e la fiducia; c) ambientali, la presenza di un’organizzazione con struttura orizzontale non gerarchica e di leader che promuovono la visione comune dei problemi incoraggiando la creatività e l’armonia. Nel corso degli ultimi anni in Italia c’è stato un cambiamento del rapporto medico – infermiere. Si è passati da un’organizzazione quasi esclusivamente gerarchica in cui la figura del medico veniva posta culturalmente al vertice della scala ed orientava gli infermieri alle loro mansioni, ad una cooperazione più indipendente e responsabile dei ruoli professionali a rispetto anche di ciò che è legalmente espresso nei rispettivi codici deontologici. Oltre al Codice Deontologico dell’Infermiere, ulteriore normativa (Profilo Professionale dell’Infermiere, DPR n. 739/94, Il Patto Infermiere – Cittadino, Legge n.42/99, Legge 251/2000) riconosce che la professione infermieristica ha lo scopo di curare il paziente in cooperazione con altre figure professionali , e richiama quindi ad una maggiore collaborazione. Nello specifico l’infermiere ha un’esigenza ed una propensione a collaborare più sentita rispetto al medico. Nel suo Codice Deontologico sono diversi gli articoli in cui il tema è sollecitato. Nell’articolo 5 trattante i rapporti professionali con colleghi ed altri operatori viene ben sottolineato questo spirito di collaborazione e rispetto che egli è chiamato a manifestare tra i

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professionisti: ai punti 5.1 e 5.2 infatti si cita: “L’infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e rispetta lo specifico apporto all’interno dell’equipe” e “L’infermiere tutela le dignità proprie e dei colleghi, attraverso comportamenti ispirati al rispetto e alla solidarietà. Si adopera affinché la diversità di opinioni non ostacoli il progetto di cura”. Anche il medico è chiamato dal suo Ordine Professionale ad intraprendere attività collaborative; il Codice Deontologico, nella parte riguardante il “Rapporto con terzi” all’articolo n.66 – Rapporto con altre professioni sanitarie, cita quanto segue: “Il medico deve garantire la più ampia collaborazione e favorire la comunicazione tra tutti gli operatori coinvolti nel processo assistenziale, nel rispetto delle peculiari competenze professionali”. Una mancanza di collaborazione può essere la causa di problemi sulla qualità, sicurezza, efficacia ed efficienza dell’assistenza e sulle cure erogate al paziente, nonché ragione di insoddisfazione personale e demotivazione alla carriera infermieristica. Secondo L’American Nurses Association la collaborazione è: “Una società vera, in cui i poteri delle parti possono essere valutati da ognuno con riconoscimento ed accettazione di attività e responsabilità pratiche, sia separate che combinate; una salvaguardia reciproca degli interessi legittimi di entrambe le parti; ed una concomitanza comune nel traguardo da raggiungere”. Da questa definizione si evince di come la collaborazione va di pari passo con la parola multidisciplinarietà poiché è la strategia migliore per gestire i problemi di salute complessi, lavorando assieme e comunemente, condividendo responsabilità nell’assistenza, nelle informazioni, nel coordinamento ed in tutte le decisioni prese sulla cura del paziente. Lavorare in gruppo ed adottare atteggiamenti che favoriscano la collaborazione tra operatori del settore è quindi il metodo operativo fondamentale che tutte le unità operative, in qualsiasi sistema sanitario del globo, dovrebbero adottare. Considerando che la letteratura esaminata è di prevalenza anglosassone, emerge la necessità di analizzarla e rivederla alla luce della situazione organizzativa italiana, per indirizzare ulteriormente la prassi sanitaria del nostro paese ed intraprendere validi ed efficaci rapporti multidisciplinari. Lo stile collaborativo dovrebbe per di più essere una costante fin dalla formazione universitaria, con interazione ed integrazione ove possibile tra i corsi universitari e anche tra gli stessi studenti medici ed infermieri. La scarsità di dati reperibili su questo argomento forse si collega al

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mantenersi di un modello organizzativo funzionale per compiti che porta ad una standardizzazione e rigidità di ruoli e di conseguenza fa si che si tralascino tutti quei rapporti interprofessionali che richiedono impegno, ma si riflettono positivamente nel clima operativo, nella qualità dell’assistenza e delle relazioni professionali con i pazienti, i familiari ed i colleghi. Una domanda che potrebbe sorgere spontanea potrebbe essere relativa a come si possa configurare la collaborazione tra medico ed infermiere. E’ bene sottolineare che c’è la necessità, affinché tutto ciò avvenga, di mettere in comune le responsabilità tra medico ed infermiere, associata ad una voglia di cooperare sulle basi di un potere ed una autorità comune. Secondo uno studio multicentrico per verificare l’attitudine alla collaborazione fra infermieri e medici somministrando la Jefferson Scale of Attitudes Toward Physician – Nurse

Collaboration (strumento che verrà utilizzato per la conduzione del nostro studio) a

2522 professionisti di 4 stati sottolinea che l’attitudine è maggiore in USA ed Israele rispetto ad Italia e Messico dove domina il modello gerarchico, ed è anche maggiore tra gli infermieri rispetto ai medici. Le professioni con più potere sono infatti meno orientate alla collaborazione interprofessionale.

Zwarestein et al hanno fatto una revisione sistematica basata su due studi.

Uno, Tailandese, effettuato in due reparti di medicina dimostra che la discussione multidisciplinare dei casi riduce la lunghezza della degenza (P < 0,05), ma non la mortalità nei pazienti tra i 60-70 anni. Come anche, il giro visita multidisciplinare riduce la durata del ricovero (da 6,06 a 5,46 giorni, P=0,006), i costi di degenza (da US $8090 a 6681, P= 0,006) ed aumenta la soddisfazione per l’aumento della comunicazione, un più efficace lavoro di gruppo e presa in carico dei problemi dei pazienti. Il giro visita integrato aumenta la collaborazione, migliora la presa in carico dei pazienti, l’identificazione precoce dei problemi, la diagnosi, la prevenzione delle complicanze e l’attivazione dei servizi sociali, accelera l’inizio del trattamento e della riabilitazione. Un altro studio, questo compiuto da Dechairo et al, focalizza gli interventi per aumentare la collaborazione, su una promozione interdisciplinare del gruppo di lavoro. Medici ed infermieri agiscono con lo scopo di raggiungere risultati di qualità per il paziente, partecipando ad incontri di discussione sugli obiettivi di cura, adottando strategie per valorizzare il ruolo infermieristico nella presa di decisioni e nella gestione dei conflitti, aderendo a lezioni giornaliere per imparare

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strategie di collaborazione. E’ proprio in quest’ottica che s’inserisce l’operato del dirigente infermieristico il quale, grazie alle sue competenze specialistiche, che il suo ruolo richiede, è l’unica persona capace di essere il “collegamento” fra le attività, le persone, le risorse; ossia colui che riesce a “leggere” i contesti ed i loro mutamenti, ossia colui che con le sue caratteristiche di risolutezza e mediazione riesce a ripristinare situazioni che all’apparenza possono apparire insanabili.

Interventi pianificati in modo corretto, una volta messi in pratica, migliorano la qualità dell’assistenza e della cura al paziente, aumentano l’adesione da parte dell’equipe alle linee guida di trattamento, innalzano la soddisfazione del personale sanitario nonché del paziente e dei suoi familiari, riducono i tempi di degenza ospedaliera e diminuiscono i costi sanitari. Inoltre, lavorando in un gruppo in cui si prendono in considerazione tutte le idee espresse dall’operatore, la presa delle decisioni risulterà migliore perché basata su informazioni più complete e precise. La conferma di tutto quanto detto finora ci viene da una revisione effettuata da Zwarenstein et al; in due aziende ospedaliere differenti sono messi a confronto le visite mediche tradizionali in reparto con quelle in cui medici ed infermiere prendono decisioni comunemente. In entrambe le strutture, dopo sei mesi di analisi, è risultato che rispetto alle tradizionali misure di assistenza, quelle sperimentali, danno risultati concreti e misurati in diminuzione della degenza media dei pazienti, diminuzione della mortalità, diminuzione della spesa ospedaliera, aumento della soddisfazione dello staff con una più forte percezione dell’importanza del lavoro di gruppo.

Come vedremo successivamente, la collaborazione è modificata sia in positivo che in negativo dai modelli organizzativi presenti nel sistema sanitario in vigore. Secondo uno studio effettuato da Matarese et al, è dimostrato che nel modello funzionale per compiti, la cooperazione è limitata perché la trasmissione delle informazioni è frammentaria ed incompleta, la comunicazione tra il personale è ridotta ai minimi termini, il paziente non è perciò seguito in un regime di continuità olistica oltre al fatto che l’assistenza in questo modo è deresponsabilizzata.

Osservando un modello di tipo gerarchico (ove l’autorità del medico risulta ancora presente) Radcliffe e Salvage, hanno visto che la collaborazione trova poco spazio e perciò è fortemente limitata. Tutto questo per il fatto che infermieri e medici, nonostante abbiano come obiettivo comune la centralità del paziente, continuano a

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mantenere un rapporto distaccato. Secondo un successivo studio effettuato da Hojat et al. con la scala di Jefferson, risulta che in Paesi in cui vige prevalentemente un modello organizzativo gerarchico, funzionale ed obsoleto, l’interesse a collaborare tra medici ed infermieri è inferiore rispetto ai paesi in cui sia presente un modello organizzativo più sviluppato. Da non dimenticare è l’importanza fondamentale che rivestono i fattori legati al livello di educazione, allo stato sociale, alla giurisdizione legale, al linguaggio e al ruolo dei sessi nella società. Altra grave carenza, che si può facilmente riscontrare, è legata allo scarso e poco valorizzato scambio culturale a livello universitario tra gli studenti medici e gli studenti infermieri, i quali seguendo due percorsi formativi completamente differenti, senza perciò mai poter avere la possibilità di confrontarsi e quindi “conoscersi”, tenderanno a non collaborare in futuro, tendendo perciò ad allontanarsi rispetto alla situazione ideale proposta poco fa. Il problema della comunicazione risulta significativo in tutti gli ambienti di interesse umano, in particolare in quei contesti che prevedono delle relazioni significative tra individui. Anche se in ambito sanitario riveste una notevole importanza, specie se si considera che molto spesso risulta essere un elemento trascurato, non solo da parte dei singoli operatori, ma anche dalla componente organizzativa. Ciò non dovrebbe accadere, soprattutto in questi ultimi anni, che vedono sempre maggior ricerca di qualità della prestazione erogata al cittadino, quale “utente” della struttura sanitaria. Non bisogna mai dare per scontata e tantomeno sottovalutare l’importanza che riveste una buona relazione comunicativa all’interno dell’équipe multidisciplinare, in quanto significativamente legata alla qualità percepita dall’utente. E’ bene sottolineare che la collaborazione interprofessionale è definita come compartecipazione delle differenti professioni in ambito di assistenza sociale e sanitaria, che quotidianamente entrano in contatto per concordare soluzioni a complessi e problematici quadri assistenziali, o garantire prestazioni. E’ stato dimostrato come la collaborazione interprofessionale migliori gli outcomes assistenziali, l’efficienza dei costi, la soddisfazione dei professionisti della salute ed incrementi la salubrità del luogo di lavoro; tutt’altra faccenda invece è un’inefficace collaborazione medico – infermiere che si è rivelata esser causa di insoddisfazione e di compromissione dell’assistenza al paziente.

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Andando a ricercare in letteratura vari articoli riguardati la collaborazione tra medico – infermiere sono emersi tre temi fondamentali che meritano di essere menzionati per far comprendere a pieno la complessità dell’argomento che stiamo analizzando.

1) L’atteggiamento di medici ed infermieri riguardo la collaborazione interprofessionale: dalla revisione della letteratura risulta che entrambe le figure

professionali ritengono fondamentale una funzione collaborazione interprofessionale al fine di migliorare la qualità dell’assistenza e, di conseguenza, gli outcomes di salute del paziente, di assicurare la sua sicurezza, la soddisfazione, la brevità del ricovero e un basso tasso di mortalità. Al contrario da quanto appena affermato è emerso da una revisione effettuata da House & Havense, 2017: mentre secondo uno studio incluso gli infermieri dimostrano un maggiore interesse alla collaborazione con la professione medica, tre studi quantitativi rivelano come i medici attribuiscano una maggior importanza alla qualità della collaborazione rispetto agli infermieri. E’ bene sottolineare che questi risultati non sono influenzati da differenze culturali. La diversa percezione dell’importanza della collaborazione interprofessionale può essere spiegata dalla differente formazione e filosofia assistenziale di medici ed infermieri: i primi sono tradizionalmente educati allo sviluppo di competenze scientifiche e tecniche rivolte alla cura della patologia, gli infermieri allo sviluppo di capacità relazionali rivolte a pazienti e colleghi, alla progettazione di un’assistenza olistica e all’assunzione di decisioni condivise con i medici. Se da una parte i medici identificano la collaborazione nel prescrivere e nell’attendere la cooperazione da parte dell’infermiere, dall’altra gli infermieri mostrano un crescente interesse ad implementare la propria autonomia ed a partecipare al processo decisionale rivolto al percorso assistenziale del paziente. Infine la collaborazione interprofessionale potrebbe essere influenzata da radicati stereotipi che la società ha imposto ai differenti ruoli: lo stereotipo dell’infermiere “sottoposto” del medico, e del medico “leader” del team sanitario.

2) Fattori che influenzano la collaborazione medico – infermiere includendo

seguenti aspetti: a) La comunicazione: un’efficace comunicazione è fondamentale per la costruzione di adeguati rapporti lavorativi e garantisce che l’assistenza al paziente avvenga correttamente ed in modo tempestivo. Dalla letteratura esaminata si evince facilmente che la comunicazione tra le due professioni sia imprecisa e poco

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chiara, e che ciò che risulti in una mancata assistenza al paziente e in un innalzamento della soglia di errore sanitario.

b) Il rispetto e la fiducia: spesso si è osservato che gli infermieri abbiano

percezione che i propri sforzi, il proprio giudizio professionale ed i contributi forniti all’assistenza al paziente non siano valorizzati dalla professione medica. Atteggiamenti svalutativi comportano la perdita di fiducia da parte degli infermieri nei confronti dei medici, rappresentando un ostacolo allo sviluppo di una maggiore collaborazione.

c) La priorità dei compiti lavorativi: la collaborazione interprofessionale potrebbe

essere ostacolata da differenti priorità assistenziali di medici ed infermieri. La differenza nell’individuazione delle priorità non comporta solo la nascita di sentimenti di frustrazione che si riflettono tra le due professioni, ma, in alcuni casi, anche in una mancata e/o inefficace assistenza al paziente. Risulta che gli infermieri più giovano siano “disturbati” dalla mancata considerazione del proprio punto di vista da parte del medico per quanto concerne lo stato ed i progressi del paziente. I medici hanno la tendenza a valutare le condizioni del paziente sulla base di dati oggettivi (come ad esempio parametri vitali e valori analitici risultanti dagli esami di laboratorio), mentre gli infermieri tendono ad utilizzare maggiormente l’osservazione, la loro intuizione e la comprensione di quello che rappresenta in modo olistico l’esperienza ed il vissuto del malato.

3) Le strategie per implementare la collaborazione medico – infermiere, comprendendo in questo ambito:

a) L’educazione interprofessionale: nello studio qualitativo condotto da McCaffrey (2010) il programma di educazione interprofessionale comprendeva

insegnamenti rivolti all’acquisizione di competenze per creazione di una collaborazione efficace e per il riconoscimento dei fattori determinanti ed essenziali per una buona pratica collaborativa. L’efficacia del programma è stata valutato tramite interviste focus group. Entrambe le figure professionali hanno riferito che il programma abbia promosso la formazione di rapporti amichevoli, lo sviluppo di positive, insegnando ad accettare le rispettive percezioni dello stato del paziente ed a stabilire di comune accordo le priorità assistenziali.

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b) Le attività interdisciplinari svolte nel contesto dei reparti ospedalieri: la

promozione dell’attività interdisciplinari tendono ad implementare la qualità dell’assistenza e la comunicazione medico – infermiere. Gli studi riportano che regolari attività interdisciplinari con l’attiva partecipazione degli infermieri rafforzino la loro sicurezza nella comunicazione con i medici e potenzino significativamente la collaborazione interprofessionale. Nonostante l’efficacia delle attività interdisciplinari nel favorire una corretta collaborazione, il pesante carico di lavoro e il tempo insufficiente per completare i propri compiti lavorativi incidono sul benessere di medici ed infermieri e sulla percezione dell’urgenza di costituirsi come team.

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CAPITOLO II

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Parlando della Professione Infermieristica e in particolar modo del ruolo del Dirigente Infermieristico possiamo tranquillamente affermare che tra le professioni sanitarie esistenti quella infermieristica è stata quella che maggiormente ha contribuito alla salvaguardia del Sistema Sanitario con i propri professionisti, che negli anni sono riusciti ad evolvere professionalmente, scientificamente e costruendo, finalmente, una nuova figura di infermiere. Come accennato poc’anzi Medici ed Infermieri agiscono con lo scopo comune di raggiungere risultati di qualità per il paziente, partecipando ad incontri di discussione sugli obiettivi di cura, adottando strategie per valorizzare il ruolo infermieristico nella presa di decisioni e nella gestione dei conflitti, aderendo a lezioni giornaliere per imparare strategie di collaborazione. E’ proprio in quest’ottica che s’inserisce l’operato del dirigente infermieristico il quale, grazie alle sue competenze specialistiche, che il suo ruolo richiede, è l’unica persona capace di essere il “collegamento” fra le attività, le persone, le risorse; ossia colui che riesce a “leggere” i contesti ed i loro mutamenti, ossia colui che con le sue caratteristiche di risolutezza e mediazione riesce a ripristinare situazioni che all’apparenza possono apparire insanabili. Interventi pianificati in modo corretto, una volta messi in pratica, migliorano la qualità dell’assistenza e della cura al paziente, aumentando l’adesione da parte dell’equipe alle linee guida di trattamento, innalzano la soddisfazione del personale sanitario nonché del paziente e dei suoi familiari, riducono i tempi di degenza ospedaliera e diminuiscono i costi sanitari che in una realtà come quella odierna diventa un obiettivo primario da raggiungere od almeno cercare di avvicinarsi. E’ fondamentale, visto il ruolo di rilievo occupato dai dirigenti, che quest’ultima sia supportata al fine di poter assicurare un sistema organizzativo che non promuova conflitti tra i protagonisti sanitari ma che invece sia orientata ad avvicinarli in un’ottica di cooperazione. Dirigere significa, etimologicamente parlando, “volgere verso una meta, avviare in una determinata direzione” oppure “indirizzare” e “guidare”, regolare l’andamento, il funzionamento, lo svolgimento, od essere a capo di qualche cosa “: essere a capo nel senso del “buon padre di famiglia”, di colui che guida ed indica la giusta via verso una meta, uno scopo condiviso per il bene di tutti. La complessità dei sistemi sanitari evolve con la modifica dei bisogni di salute dei cittadini e con l’aumentata richiesta di specializzazione manageriale e di governo.

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Gli Infermieri Dirigenti con gli anni stanno proprio acquisendo questa importante consapevolezza e sempre più le sfide future vedono la professione infermieristica inserita a livello decisionale e strategico nei sistemi di governo sanitario. Purtroppo questa figura non è così nota, infatti non è infrequente che infermieri o semplici cittadini non sappiano chi sia o che cosa faccia un Infermiere Dirigente. Non è molto diffuso nel pensiero comune il fatto che un infermiere, in possesso di determinati requisiti, possa raggiungere un ruolo dirigenziale. Andremo perciò adesso ad esplicare brevemente chi sia questa figura e quali siano le sue peculiarità.

La figura dell’Infermiere Dirigente nasce con una norma emanata nel 2000, ossia con l’avvio della Laurea Specialistica e di Dirigenza, la Legge 251/2000 ovvero “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”, dove si stabilisce che gli infermieri in possesso dei titoli di studio rilasciati con i precedenti ordinamenti possono accedere alla laurea di secondo livello in Scienze Infermieristiche, ma soprattutto vi è un riconoscimento ufficiale della dirigenza (art.7): per gli infermieri si aprono così le porte per l’accesso alla nuova qualifica unica di dirigente del ruolo sanitario. In attesa dell’entrata a regime della specifica disciplina concorsuale, disposizioni transitorie stabiliscono che le Aziende Sanitarie possono comunque procedere all’attribuzione degli incarichi di dirigente dei Servizi dell’assistenza infermieristica ed ostetrica “attraverso idonea procedura selettiva tra i candidati in possesso di requisiti di esperienza e qualificazione professionale predeterminati”. A tali figure sono attribuite la responsabilità e la gestione delle attività di assistenza infermieristica e delle connesse funzioni, nonché la revisione dell’organizzazione del lavoro incentivando modelli di assistenza personalizzata. Il professionista dirigente, secondo la Legge n.43 del 2006 (art.6) è un professionista in possesso della laurea specialistica / magistrale di cui al D.M. 2 aprile 2001 che abbia esercitato l’attività professionale con rapporto di lavoro dipendente per almeno cinque anni. “Contribuisce alla definizione della mission, vision, e dei valori guida dell’azienda e persegue il loro raggiungimento attraverso il razionale uso delle risorse umane e materiali disponibili”. Fa in modo che sia erogata un’assistenza efficace, efficiente e di qualità; contribuisce alla formazione continua e all’aggiornamento del personale di competenza. E’ costantemente sotto controllo e viene valutato per i risultati ottenuti

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sia economici sia sanitari. Ovviamente non è la posizione a creare il ruolo, ma sono coloro che la esercitano e non è il titolo universitario ad insegnare ad essere un leader. Andando a valutare il ruolo, le funzioni e le responsabilità del dirigente infermieristico quest’ultimo ha l’obiettivo di: conoscere l’attuale contesto organizzativo, con particolare riferimento alla riforma del servizio sanitario regionale, quale sistema ad elevatissimo fabbisogno di coordinamento ed integrazione / Analizzare il percorso di sviluppo della funzione dirigenziale e di coordinamento inf.co, attraverso l’analisi dei riferimenti giuridici e professionali / Approfondire il profilo di competenza e responsabilità del dirigente inf.co, alla luce delle caratteristiche peculiari del ruolo ed all’utilizzo del tempo / lavoro. “Al di là di ogni cosa “il dirigente fa” l’organizzazione nasce e cresce da ciò che il dirigente è… E la sua impronta, è l’applicazione di talenti, è il suo stile personale, di direzione, di leadership, collegato strettamente con le competenze.” Andando a ricercare un confronto tra le Competenze Cliniche vs le Competenze Manageriali è utile, addirittura indispensabile in diverse occasioni, possedere e mantenere in una certa misura conoscenze cliniche distintive della professione al fine di orientare le pratiche, le tecniche, le procedure dell’unità operativa coordinata. Tali conoscenze dovrebbero essere strumentali ad influenzare, supervisionare, rappresentare istanze professionali, ma non così specifiche ed approfondite, come si richiede ad un professionista specialista. Tali competenze diventano uno strumento per “far lavorare”. Il livello di competenze specialistiche richieste al coordinatore è quello che consente il “collegamento” fra le attività, le persone, le risorse; ossia quello che consente di “leggere” i contesti ed i loro mutamenti. La coniugazione della matrice specialistica con quella gestionale rende “unica” la figura.

Non vi è pertanto una misura, perché la differenza fra le professioni e fra i contesti organizzativi è così ampia da non permettere di poter quantificare l’una o l’altra competenza. Di sicuro il possesso di un mix di competenza clinico – gestionali è la base per poter affrontare la complessità organizzativa dei servizi sanitari moderni. Le competenze non sono da quantificare e misurare, ma da vedere come “contaminate” e quindi da agire in modo flessibile e situazionale.

Secondo una definizione fornita da “Kets de Vries Leader, giullari, impostori, 1998”, “il lavoro dei leader potrebbe essere definito come una gestione di energia. Loro

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compito principale è creare un ambiente nel quale questa energia non vada sprecate in lotte intestine e giochi di potere…”. Dopo tutta questa carrellata di nozioni potrebbe venire spontanea una domanda: Un manager che ne sa di clinica? Un clinico che ne sa di management? Una competenza tecnica almeno sufficiente è implicita in molti esempi di sviluppo, di offerta di feedback, d’influenzamento e trascinamento. In effetti è difficile immaginare che si possa fare un eccellente lavoro come manager… senza conoscere tecniche necessarie agli stessi subordinati… Tuttavia, “Le competenza che distinguono i migliori capi non sono identificabili in una maggiore conoscenza tecnica ma piuttosto in una maggior misura di competenza manageriali”. (Spencer e Spencer). E’ fondamentale perciò “creare condizioni organizzative”: staccarsi dal “fare” per “far fare” o il “fare attraverso gli altri” senza perdere di vista la specificità professionale ed esercitando una forma di potere. Fare delle cose per “organizzare” facendo attenzione alle evidenze scientifiche, alla sicurezza dei pazienti e dei propri collaboratori. L’assunzione della responsabilità è decisiva nell’esercizio dell’autorità e nella scelta delle forme di pratica e del potere. Voler coordinare / dirigere senza assumersi la responsabilità di esercitare il potere è un compito impossibile. Voler negare la propria influenza derivante dalla posizione asimmetrica e il potere necessario per coordinare, per quanto partecipativa sia la forma di esercizio del potere prescelta, vuol dire pretendere di eliminare l’ambiguità presente in ogni relazione asimmetrica e, quindi, voler negare i conflitti in essa connaturati. Vuol dire negare che l’autorità sia necessaria, perché richiesta in ogni relazione asimmetrica in cui viga il gioco autonomia – dipendenza. Non si può coordinare senza affrontare ed elaborare la possibilità e il vincolo (ecco l’ambiguità) connaturati ad ogni forma di esercizio del potere. Il Dirigente / Coordinatore crea condizioni organizzative, sviluppa la qualità, aumenta la produzione secondo le seguenti modalità:

a. Lavorando direttamente e quindi partecipando alla produzione b. Facendo fulcro sui collaboratori secondo la funzione “enzima” c. Facendo leva sui collaboratori secondo la funzione “delega” d. Creando standard di processo e di risultato

Analizzando il management in un quadro POLC: Planning (pianificare) /

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Significa esplicare in anticipo quello che un sistema organizzativo deve fare in un certo tempo, affinché tutte le azioni svolte nel periodo prefissato siano dirette a determinati obiettivi”. “E’ la funzione attraverso la quale l’organizzazione viene orientata in progress al raggiungimento degli obiettivi. Si tratta di azioni e strategie per guidare l’organizzazione dove si era deciso di pianificare”.

Quindi ricapitolando da un punto di vista Legislativo i punti cruciali per la Dirigenza sono racchiusi nella Legge 251/2000.

Art.1 (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica):

1.Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e alla salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza.

Viene maggiormente definita l’autonomia della professione sanitaria infermieristica, che nelle sue specifiche attività di prevenzione, cura e salvaguardia della salute esplica le proprie funzioni così come specificate dalle normative il profilo professionale 739/94 e il codice deontologico 2009. Sollecitando infine il rinnovo metodologico assistenziale di pianificazione per obiettivi, il processo di Nursing.

2.[…]a)l’attribuzione in tutte le aziende sanitarie della diretta responsabilità e gestione delle attività di assistenza infermieristica e delle connesse funzioni; Infermiere dirigente: viene attribuita la direzione delle attività infermieristiche alle specifiche dirigenze inf.che sancendo quindi l’autonomia anche di autogestione all’interno degli ambienti operativi.

Art.5(Formazione Universitaria)

1. Il ministro dell’università […] individua con uno o più decreti i criteri per la disciplina degli ordinamenti didattici di specifici corsi universitari ai quali possono

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accedere gli esercenti le professioni…, in possesso di diploma universitario o di titolo equipollente per legge.

2. Le università nelle quali è attivata la scuola diretta ai fini speciali per docenti e dirigenti di assistenza infermieristica sono autorizzate alla progressiva disattivazione della suddetta scuola contestualmente alla attivazione dei corsi universitari di cui al comma 1.

L’articolo 5 definisce valida l’equipollenza dei titoli che permettono l’accesso alla professione validi anche per l’accesso ai corsi universitari previsti per accedere alle funzioni di dirigenza ossia la laurea specialistica, e infine invita le sedi universitarie a concludere i corsi non universitari di dirigenza infermieristica.

Art.7(Disposizioni transitorie)

1. Al fine di migliorare l’assistenza e per la qualificazione delle risorse le aziende sanitarie possono istituire il servizio dell’assistenza infermieristica ed ostetrica e possono attribuire l’incarico di dirigente del medesimo servizio… Inoltre viene istituito il Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo Aziendale (SITRA).

Soffermandoci in particolare sull’art. 7 in molte aziende sanitarie infatti è il SITRA il luogo di governo del Dirigente infermiere che organizza e coordina il personale infermieristico, ostetrico, tecnico sanitario, riabilitativo e della prevenzione, oltre che gli operatori di supporto. La direzione di questo servizio è generalmente affidata ad un infermiere, ma a seconda del contesti potrebbe anche essere data ad un’altra figura tra quelle citate. E’ importante specificare che il riconoscimento del valore e dell’autonomia decisionale del SITRA dipende dalla sua collocazione nell’organigramma aziendale. Può essere collocato presso la Direzione generale o presso la Direzione sanitaria. Inoltre, può essere in line (nella linea gerarchica) o in staff (cioè con ruolo di consulenza a sostegno della linea gerarchica, ma senza autonomia decisionale). Questa è una grande differenza che è necessario conoscere prima di poter “valutare” l’operato del dirigente inf.co della propria azienda. Il Servizio Infermieristico, tecnico riabilitativo aziendale, di cui il dirigente infermiere è a caso in coerenza con la mission aziendale, si propone generalmente di:

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A)assicurare un’assistenza personalizzata e di qualità a tutti gli utenti garantendo l’impiego ottimale delle risorse disponibili, nel rispetto delle norme etiche e deontologiche / B) Garantire gli interventi di supporto assistenziale e di natura domestica – alberghiera al fine di rispondere alle necessità di accoglienza ed ospitalità della persona / C) Garantire le attività tecnico sanitarie / D) Garantire alla persona la risposta ai bisogni di assistenza infermieristica, ostetrica, riabilitativa e sociale in relazione allo stato di salute ed alle condizioni (famiglia, ambiente, cultura e religione) che possono produrre una sua modificazione / E) Assicurare il raggiungimento dei risultati qualitativi e quantitativi concordati con la Direzione Aziendale attraverso la programmazione, la direzione ed il coordinamento delle risorse umane, tecnico – strumentali ed economiche assegnate, nonché alla loro valutazione / F) Gestire le attività assistenziali, formative e di ricerca al fine di raggiungere la migliore qualità dell’assistenza anche attraverso la revisione dei processi organizzativi e la valutazione dei risultati.

Gli infermieri dirigenti puntano perciò, grazie alla loro sempre maggiore qualificazione professionale, a contribuire a disegnare una riorganizzazione delle strutture e di appropriatezza non solo delle prestazioni, ma anche dei percorsi si cura e dei modelli organizzativi. E per farlo c’è bisogno di attivare un confronto sugli ambiti in cui l’azione può essere svolta.

Passiamo adesso ad un rapido excursus nel profilo di competenza del Dirigente Inf.co:

 Gestione dei significati: traduce le politiche aziendali in obiettivi di assistenza infermieristica e di supporto alle attività assistenziali e promuove il senso di appartenenza all’Azienda.

 Gestione di processi e progetti: promuove e collabora con le Posizioni Organizzative e/o Coordinamenti nel supporto organizzativo e/o metodologico utile alla predisposizione di progetti obiettivo, di protocolli organizzativi ed assistenziali, procedure, linee guida, piani di lavoro / attività e di inserimento / addestramento del personale di nuova acquisizione.

 Gestione delle relazioni: programma, inserisce e gestisce le risorse quali / quantitative ei percorsi assistenziali ospedalieri e/o territoriali favorendo

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l’integrazione del personale. Collabora con le Posizioni Organizzative e/o Coordinamenti nella gestione dei conflitti. Individua criteri di valutazione e gratificazione proponendoli nelle sedi adeguate, motiva il personale coinvolgendolo negli obiettivi della struttura ed affidando / delegando responsabilità. Trasmette le informazioni e responsabilizza sull’uso razionale delle risorse materiali e sull’adozione di sistemi di qualità / sicurezza.

 Gestione della valutazione: partecipa alla valutazione del personale e della qualità sia dei processi che dei risultati assistenziali ed organizzativi con individuazione di indicatori e criteri di valutazione. Valuta il grado di soddisfazione dell’utente per il servizio ricevuto.

 Collaborazione e gestione del budget: partecipa al processo di budget, programma e dimensiona le risorse sulla base dei volumi di attività aziendale e collabora, con le strutture aziendali proposte, alla misurazione delle attività attraverso la rilevazione delle prestazioni / attività / carichi di lavoro / DRG.  Gestione / Monitoraggio delle risorse umane: programma e gestisce gli

ingressi / uscite del personale inf.co e/o di supporto alle attività assistenziali e collabora con le Posizioni Organizzative e/o Coordinamenti nel monitoraggio di ferie / ore / permessi / straordinario / progetti incentivanti

 Gestione della qualità e sicurezzapromuove e collabora a progetti di miglioramento nella qualità delle varie aree (personalizzazione assistenziale, umanizzazione, confort alberghiero ecc), controlla, progetta ed implementa interventi per la riduzione del rischio per gli utenti (cadute accidentali, infezioni nosocomiali, lesioni da pressione) e collabora alla messa in atto di sistemi per la sicurezza del personale.

 Gestione della formazionecollabora alla rilevazione dei fabbisogni informativi trasversali attinenti alla professioni inf.ca e del personale di supporto alle attività assistenziali. Collabora con il Polo Didattico e/o con il tutor per la formazione degli studenti del CdL in infermieristica e dei Corsi Oss coinvolgendo le Posizioni Organizzative, i Coordinamenti ed il personale tutto, nella formazione di base, post base, continua / permanente ed on the job train del personale.

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 Gestione della ricercapromuove e partecipa a progetti di ricerca sia in campo organizzativo che assistenziale.

Il “potere” del Dirigente è quello di proteggere, isolare la sua organizzazione dalle intemperie, oltre che di gestire i flussi in entrata ed uscita di risorse, uomini, culture e tecniche. Per i dirigenti ed il team dei coordinatori, la gestione delle variabili organizzative (risorse umane, reti, processi, cultura) costituisce una delle principali aree di criticità ma anche di grande impatto sulle performance e sulla qualità dei servizi erogati. La sanità si evolve verso modelli organizzativi sempre più “circolare” e “liquidi” dove i fattori distintivi e premianti coincidono con la comunicazione, fiducia, flessibilità, collaborazione e riconoscimento. Capacità di prendere decisioni ed operare scelte in condizioni di incertezza e non di rado di urgenza, valutando adeguatamente rischi e benefici. Impegno assoluto nel creare un clima adeguato e positivo dove le persone si sentono accolte, ascoltate e valorizzate per quello che sono e fanno per l’organizzazione, tenendo conto dei bisogni, degli interessi, del valore delle persone e promuovendo il loro adattamento al clima e alla cultura organizzativa. Come abbiamo visto il Dirigente Inf.co è colui che deve “Creare Condizioni Organizzative” ovvero staccarsi dal “Fare” per “Far Fare” o il “Fare attraverso gli altri” senza però perdere di vista la specificità professionale ed esercitando una forma di potere. Fare delle cose per “organizzare” facendo attenzione alle evidenza scientifiche, alla sicurezza dei pazienti e dei propri collaboratori. L’assunzione delle responsabilità è decisiva nell’esercizio dell’autorità e nella scelta delle forme di pratica del potere. Voler coordinare / dirigere senza assumersi la responsabilità di esercitare il potere è un compito impossibile. Voler negare la propria influenza derivante dalla posizione asimmetrica e il potere necessario per coordinare, per quanto partecipativa sia la forma di esercizio del potere prescelta, vuol dire pretendere di eliminare l’ambiguità presente in ogni relazione asimmetrica e, quindi, voler negare i conflitti in essa connaturati. Vuol dire negare che l’autorità sia necessaria, perché richiesta in ogni relazione asimmetrica in cui viga il gioco autonomia / dipendenza. Non si può coordinare senza affrontare ed elaborare la possibilità ed il vincolo (ecco l’ambiguità) connaturati ad ogni forma di potere. Il Dirigente / Coordinatore crea quindi condizioni organizzative, sviluppa la qualità, aumenta la produzione secondo le seguenti modalità: lavorando direttamente

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e quindi partecipando alla produzione / Facendo fulcro sui collaboratori secondo la funzione “enzima” / Facendo leva sui collaboratori secondo la funzione “delega” / Creando standard di processo e di risultato. La motivazione di sé stessi, requisito fondamentale che viene richiesto al Dirigente, è la capacità di padroneggiare le emozioni ed è una prerogativa fondamentale per riuscire a concentrarsi, per trovare motivazione e controllo di sé e poi su gli altri. E’ un requisito indispensabile per motivarsi al raggiungimento di un certo obiettivo ed a persistere nell’impegno quando le situazioni si fanno altamente frustranti. La motivazione è il motore interno che spinge a mettere in atto tutta una serie di comportamenti che consentono il raggiungimento dello scopo. Quando le emozioni negative sono forti e concentrano l’attenzione dell’individuo sulle proprie preoccupazioni, esse interferiscono negativamente con i suoi eventuali tentativi di concentrarsi su qualcos’altro. Nella misura in cui le azioni sono motivate da sentimenti di entusiasmo e piacere, sono proprio tali sentimenti a spingere verso la realizzazione. In questo senso l’intelligenza emotiva è un’abilità fondamentale che influenza profondamente tutte le altre, di volta in volta facilitandone l’espressione, od interferendo con esse. La motivazione di sé stessi è, secondo Bandura, strettamente legata alle proprie aspettative di autoefficacia. L’autore definisce l’autoefficacia in termini di credenze nei confronti delle proprie capacità di regolare il comportamento ed intervenire attivamente nei confronti della scelta dei propri obiettivi e delle azioni che possono essere scelte per il loro raggiungimento. L’autoefficacia, quindi, è strettamente interconnessa al concetto di sé. Essere Dirigente sicuramente metterà le persone con tale incarico ad un duro confronto con sé stesse e sarà necessario fare un percorso di crescita anche su aspetti che possono sembrare secondari, ma che in realtà possono fare della Leadership una leva strategica per il cambiamento e il miglioramento qualitativo di tutti gli infermieri. Queste sono solamente alcuni piccoli spunti di riflessione ma di ottima fattura in quanto per far si che una dirigenza sia veramente efficace e che produca l’obiettivo finale che, come avevamo intravisto inizialmente, sta nel “guidare verso una meta, regolare l’andamento, il funzionamento, lo svolgimento, od essere a capo di qualche cosa”.

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CAPITOLO III

JOB SATISFACTION

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La soddisfazione lavorativa è un costrutto psicologico multidimensionale che si riferisce alle risposte di una persona al proprio lavoro, risposte che presentano componenti cognitive, affettive e comportamentali. La soddisfazione lavorativa dunque si riferisce agli stati cognitivi ed affettivi che sono all’interno dell’individuo e che sono esprimibili attraverso i comportamenti e le emozioni. Negli ultimi anni si è rafforzata l’importanza del ruolo del lavoratore come parte integrante del sistema aziendale in quanto essenza di esso ed è cresciuto l’interesse verso i diversi aspetti che incidono sulla sua salute, sia fisica che psichica, focalizzandosi maggiormente sulla prevenzione piuttosto che sulla sola cura, dando nuovo significato al malessere psicofisico dell’individuo e al riflesso negativo che ciò ha sull’organizzazione stessa. La definizione su cui si registra un sostanziale accordo in letteratura (Price & Muller, 1986, McCloskey 1990, Stamps, 1997) è quella di Locke (1967), il quale afferma che “la soddisfazione lavorativa è un sentimento di piacevolezza derivante dalla percezione che l’attività professionale svolta consente di soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro” e riproposta successivamente dallo stesso Locke nel 1976 come “un piacevole o positivo stato emotivo dato da una valutazione del proprio lavoro o delle esperienze lavorative”. La soddisfazione professionale può essere misurata in componenti cognitive (valutative), affettive (od emotive) e comportamentali. I ricercatori anche hanno notato che le misure di soddisfazione sul lavoro variano nella misura in cui misurano i sentimenti sul lavoro (soddisfazione lavorativa affettiva) o cognizioni sul lavoro (soddisfazione lavorativa cognitiva). Mettendo in relazione la soddisfazione e il benessere del lavoratore con la percezione degli aspetti organizzativi della struttura nella quale è inserito, è stato riscontrato che, a tutti gli effetti, il clima emotivo dell’organizzazione ha una forte influenza sulla partecipazione del lavoratore alla mission aziendale, in particolare in base alla percezione e al grado di identificazione con l’azienda. Occorre perciò assumere una visione globale d’insieme, secondo la quale l’individuo, il gruppo e l’organizzazione sono fortemente interdipendenti tra loro e la compromissione della salute di uno ha conseguenze negative anche su gli altri. Autori come Feldman e Weik introdussero il concetto di “sensemaking” per indicare i modi in cui le persone interpretano ciò che producono e danno senso alla realtà in cui si trovano; questo senso auto costruito del lavoratore è un ottimo predittore della performance lavorativa e della soddisfazione

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individuale ed è proprio quest’ultima ad avere un peso preponderante nel sistema azienda. La soddisfazione lavorativa raccoglie la congruenza tra interessi personali e mansione, le sensazioni sperimentate nel poter utilizzare al meglio le proprie competenze, la visione personale dell’azienda, la possibilità di costruire una propria identità personale e professionale, che incidono sul modo di relazionarsi con la struttura e di affrontare il compito lavorativo. La prevalenza di emozioni negative e la demotivazione sono fattori di rischio che possono portare a situazioni limite come il “burnout”, in cui vi è un eccessivo coinvolgimento in risposta ad uno stress emotivo cronico e persistente, con conseguente esaurimento fisico ed emotivo e calo della produttività. Secondo Maslach (1975) il burnout è generalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate (possiamo considerarlo come un tipo di stress lavorativo). Generalmente nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite. In situazioni caratterizzate da insoddisfazione dei lavoratori, occorre fornire buone motivazioni, incrementare la capacità di gestire efficacemente le emozioni negative e cercare di assumere una visione che renda prevalenti quelle positive, fornire fonti di soddisfazioni di crescita nel sapere e nel saper fare. E’ perciò di fondamentale importanza dare al lavoratore la possibilità di utilizzare le proprie risorse, competenze ed abilità (comprese in particolare quelle di organizzazione e coordinamento), di esprimere sé stesso, favorire le relazioni inter e intra gruppi, al fine di alimentare l’essenza stessa dell’individuo nel contesto lavorativo di appartenenza e quindi la sua auto realizzazione. La persona soddisfatta emana e trasmette entusiasmo, ha voglia di fare e si impegna in ciò in cui crede: il successo non sta solo in quanto si ottiene, ma in ciò che si riesce a costruire in sé. La multidimensionalità della job satisfaction è stata dimostrata sia teoricamente sia empiricamente, ad esempio Smith et al. (1969) hanno proposto l’esistenza di diversi aspetti del lavoro che sono d’aiuto ai dipendenti in diversi modi nella valutazione dell’intero lavoro. Hanno proposto cinque aspetti tra cui i lavoratori possono discriminare, e ciò può essere legato in maniera diversa al grado in cui un lavoratore è soddisfatto del suo lavoro. Questi aspetti sono la soddisfazione per lo stipendio, il lavoro, la possibilità di una promozione ed i colleghi. L’interesse per gli studi sul

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tema della soddisfazione lavorativa deriva da un lato dal movimento delle Human Relations di Elton Mayo (1933) che ha ipotizzato che i lavoratori più soddisfatti sono anche quelli che sono più motivati e che quindi saranno maggiormente disposti a fornire delle prestazioni quantitativamente e qualitativamente migliori; d’altra parte scaturisce dal movimento di misurazione degli atteggiamenti di Thurstone (1928), che si è preoccupato di rendere quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali anche la soddisfazione. Il modello del Total Quality management considera la soddisfazione lavorativa una tra le variabili da presidiare con lo scopo di migliorare la qualità del prodotto e la soddisfazione del cliente finale. Se è presente la soddisfazione, infatti, è meno probabile che il lavoratore abbandoni l’organizzazione provocando dei costi per l’azienda; il lavoratore porrà maggiore attenzione al suo cliente; il lavoratore realizzerà buone prestazioni e sarà propenso a proporre dei suggerimenti per il miglioramento dell’organizzazione. In letteratura viene attuata una distinzione tra i concetti di morale e di soddisfazione lavorativa. In particolare Locke (1976) sostiene che i motivi per cui la job satisfation differisce dal morale dei lavoratori siano due: per prima cosa la job satisfaction si riferisce ad un singolo individuo e al suo lavoro, mentre il morale si focalizza maggiormente su come un lavoratore fa riferimento ad un senso di scopo comune o di gruppo all’interno dell’organizzazione; in secondo luogo la soddisfazione lavorativa è indirizzata prevalentemente alle situazioni passate e presenti, mentre il morale si riferisce ai sentimenti espressi in merito al futuro.

Hulin e Judge (2003) hanno notato che la soddisfazione lavorativa include risposte psicologiche multidimensionali al lavoro di un individuo e che queste risposte personali hanno componenti cognitive (valutative), affettive (od emotive) e comportamentali. Le scale di soddisfazione sul lavoro variano nella misura in cui valutano i sentimenti affettivi sul lavoro o la valutazione cognitiva del lavoro. La soddisfazione lavorativa affettiva è un costrutto soggettivo che rappresenta un sentimento emotivo che gli individui hanno riguardo al loro lavoro. Quindi, la soddisfazione lavorativa affettiva per gli individui riflette il grado di piacere o felicità indotto dal lavoro in generale. La soddisfazione lavorativa cognitiva è una valutazione più obiettiva e logica delle varie sfaccettature di un lavoro. La soddisfazione lavorativa cognitiva può essere unidimensionale se comprende la

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valutazione di un solo aspetto di un lavoro, come un congedo retributivo o di maternità, o multidimensionale se due o più aspetti di un lavoro vengono valutati contemporaneamente. La soddisfazione cognitiva sul lavoro non valuta il grado di piacere o felicità che deriva dalle specifiche sfaccettature del lavoro, ma piuttosto rileva la misura in cui tali sfaccettature sono giudicate dal titolare del lavoro soddisfacenti rispetto agli obiettivi che essi stessi fissano. Facendo un rapido excursus storico è possibile affermare che c’è sempre stato un buon interesse da parte degli psicologi per gli atteggiamenti dei dipendenti, ma la valutazione della soddisfazione sul lavoro ebbe inizio intorno agli anni ’30 mediante l’ausilio di sondaggi anonimi effettuati direttamente ai dipendenti. Nel 1934 lo psicologo Uhrbrock fu uno dei primi ad usare le nuove tecniche di misurazione dell’atteggiamento per valutare le condotte degli operai; mentre nel 1935 lo psicologo Hoppock condusse uno studio incentrato esplicitamente sulla soddisfazione professionale che è influenzata sia dalla natura del lavoro che dai rapporti con colleghi e supervisori. In Psicologia sono stati descritti vari modelli (metodi) legati alla soddisfazione lavorativa dove tra i principali possiamo annotare:  Teoria degli affetti (Edwin A., Locke – Range of Affect Theory 1976) che

probabilmente è il modello di soddisfazione professionale più famoso. La premessa principale di questa teoria è che la soddisfazione è determinata da una discrepanza tra ciò che si desidera in un lavoro e ciò che si ha in un lavoro. Quando una persona apprezza una particolare sfaccettatura del suo lavoro, la sua soddisfazione è maggiormente influenzata sia positivamente (quando le aspettative sono soddisfatte) sia negativamente (quando le aspettative non sono soddisfatte), rispetto a chi non apprezza quella sfaccettatura.

 Teoria dell’equità (Adams 1965) che mostra come una persona vede l’equità nei confronti delle relazioni sociali come un datore di lavoro. Una persona identifica la quantità di input (cose acquisite) da una relazione rispetto all’output (cose fornite) per produrre un rapporto input / output. Quindi confrontano questo rapporto con il rapporto di altre persone nel decidere se hanno o meno una relazione equa. La teoria dell’equità suggerisce che se un individuo pensa che ci sia una disuguaglianza tra due

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gruppi sociali od individui, è probabile che persona sia in difficoltà perché il rapporto tra input ed output non è uguale.

 Teoria della discrepanza ha come obiettivo quello di spiegare la fonte ultima di ansia ed appiattimento emotivo. Un individuo che non ha adempiuto alle proprie responsabilità sente il senso di ansia e di rimpianto per non aver eseguito bene il suo compito. Sentirà anche appiattimento emotivo per non essere riuscito a realizzare le sue aspirazioni. Secondo questa teoria, tutti gli individui impareranno quali sono i loro obblighi e responsabilità per una particolare funzione e se non riescono a soddisfare tali obblighi, vengono puniti. Nel tempo, questi dovei ed obblighi si consolidano per formare un insieme astratto di principi, designati come autoguida. Agitazione ed ansia sono le risposte principali quando un individuo non riesce a raggiungere l’obbligo o la responsabilità. Questa teoria spiega anche che se si ottiene il raggiungimento degli obblighi, la ricompensa può essere lode, approvazione od amore. Questi risultati ed aspirazioni formano anche un insieme astratto di principi, indicati come “l’autoguida ideale”. Quando l’individuo non riesce ad ottenere queste ricompense, inizia a provare sentimenti di appiattimento, delusione o persino depressione.

 Teoria dei due fattori (Frederick Herzberg) (noto anche come teoria dell’igiene motivante) tenta di spiegare la soddisfazione e la motivazione sul posto di lavoro. Questa teoria afferma che la soddisfazione e l’insoddisfazione sono guidate da diversi fattori – rispettivamente fattori di motivazione ed igiene. La motivazione di un dipendente a lavorare è continuamente correlata alla soddisfazione lavorativa di un subordinato. La motivazione può essere vista come una forza interiore che spinge le persone a raggiungere obiettivi personali ed organizzativi. I fattori motivanti sono quegli aspetti del lavoro che fanno si che le persone desiderino svolgere e forniscono soddisfazione alle persone, ad esempio risultati nel lavoro, riconoscimento, opportunità di promozione. Questi fattori motivanti sono considerati intrinseci al lavoro. I fattori di igiene comprendono aspetti dell’ambiente di lavoro come retribuzioni, politiche aziendali, pratiche di vigilanza ed altre condizioni di lavoro. La teoria è stata criticata perché non considera le differenze individuali, prevedendo al contrario che tutti i dipendenti reagiranno in modo identico ai cambiamenti nei

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