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Confronto dell'effetto di diversi approcci dietetici nel periodo preoperatorio sui parametri antropometrici e metabolici e sulla qualità dell'intervento chirurgico in pazienti obesi candidati a chirurgia bariatrica

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(1)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di Laurea in Biologia Applicata alla Biomedicina

Tesi sperimentale di Laurea Magistrale

Confronto dell’effetto di diversi approcci dietetici nel

periodo preoperatorio sui parametri antropometrici e

metabolici e sulla qualità dell’intervento chirurgico in

pazienti obesi candidati a chirurgia bariatrica

Relatore: Candidata:

Dott.ssa Letizia Guiducci Daniela Giorgetti

(2)

A me

alla mia famiglia

e agli amici

(3)

Indice

RIASSUNTO 1

INTRODUZIONE

3

CAPITOLO 1 L’OBESITA’

6

1.1 Definizione e criteri di classificazione dell’obesità 6

1.2 Principali cause scatenanti 10

1.3 Alterazioni metabolico-funzionali associate all’obesità 12

1.3.1 Il tessuto adiposo e il metabolismo glico-lipidico nell’obesità 13

1.3.2 L’epatomegalia e la steatosi epatica 17

1.4 Obesità grave e approccio terapeutico 21

1.4.1 La terapia dietetica in obesità grave 22

1.4.2 Approccio chirurgico dell'obesità grave: la chirurgia bariatrica 23

CAPITOLO 2 LA CHIRURGIA BARIATRICA 27

2.1 Valutazione pre-operatoria del paziente obeso 27

2.2 Descrizione delle principali tipologie di intervento: Sleeve gastrectomy e Bypass-Gastrico 30

2.3

Approccio laparoscopico vs laparotomia 34

2.4

Terapia dietetica preoperatoria 36

2.4.1

Diete a confronto 38

2.4.2

Principio di funzionamento della dieta iperproteica sul dimagrimento: la Chetosi 41

CAPITOLO 3 SCOPO DELLA TESI 44

CAPITOLO 4 MATERIALI E METODI 45

(4)

4.2

Criteri di inclusione ed esclusione 45

4.3

Procedure dello studio e strumentazione 46

4.4

Assegnazione del regime dietetico 54

4.5

Dati raccolti 57

4.6

Piano statistico 57

4.7

Enti e centri coinvolti nello studio 58

CAPITOLO 5 RISULTATI 60

5.1

Valutazione dei parametri antropometrici e della composizione corporea 60

5.2

Valutazione degli indici di volumetria epatica e dello spessore del grasso viscerale 64

5.3

Valutazione dei parametri glico-metabolici misurati mediante curva da carico del glucosio 66

5.4

Riepilogo dei risultati più rappresentativi 67

CAPITOLO 6 69

Discussione dei risultati e conclusione 69

BIBLIOGRAFIA

73

(5)

1

Riassunto

L’esplosione epidemica dell’obesità ha raggiunto una dimensione tale da costituire per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) uno dei più importanti settori di intervento per la tutela della salute pubblica. Il fenomeno è diffuso in varia misura in tutte le regioni del nostro Paese e la sua prevalenza è in costante aumento, con una preoccupante espansione nell’età infantile.

L’obesità viene definita come una condizione cronica caratterizzata da un eccessivo peso corporeo, per accumulo di tessuto adiposo, tale da influire negativamente sullo stato di salute. Come condizione cronica l’obesità può beneficiare di programmi di rieducazione-riabilitazione in ambito nutrizionale, comportamentale e motorio, al fine di favorire il cambiamento dello stile di vita. Tuttavia un corretto stile di vita non si associa spesso al raggiungimento degli obiettivi e in particolare ad un mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti. In questa condizione ed in particolare in casi di obesità di III grado (BMI >40 kg/m²) è utile valutare la possibilità di ricorrere ad una terapia farmacologica dell’obesità o prendere in considerazione la chirurgia bariatrica. Quest’ultima, quando correttamente utilizzata, rappresenta il trattamento più efficace per l’obesità grave in termini di perdita di peso, di riduzione delle comorbidità obesità-correlate e di mantenimento a lungo termine dei risultati raggiunti. Ottenere un calo ponderale anche nel periodo pre-intervento rappresenta un obiettivo in grado di ridurre le complicanze operatorie. In alcuni studi non randomizzati e controllati, si riporta che un calo di peso pre-operatorio pari al 10-15% del peso corporeo iniziale, ha prodotto una riduzione significativa del volume del fegato, facilitando dal punto di vista tecnico la gestione chirurgica ed anestesiologica, e riducendo il rischio di complicanze. Ciò permette di poter operare quasi tutti i pazienti con un approccio laparoscopico che si è dimostrato essere vantaggioso rispetto a quello laparatomico in termini sia di miglior decorso operatorio, sia di riduzione delle complicanze.

Lo scopo di questa tesi è stato quello di paragonare l’effetto di tre diversi approcci dietetici nelle 4 settimane precedenti la chirurgia bariatrica in termini di miglioramento dei parametri antropometrici e metabolici. Le tre diverse tipologie utilizzate sono rappresentate da: a) dieta mediterranea b) dieta iperproteica

(6)

2

misurata c) dieta iperproteica associata ad un pasto liquido sostitutivo. In ciascuna delle tre diete l'apporto calorico corrispondeva al 50% della spesa energetica basale misurata con la calorimetria indiretta.

I risultati preliminari si riferiscono ai dati ottenuti nelle 4 settimane precedenti la chirurgia bariatrica. In particolare abbiamo voluto valutare l’efficacia dei diversi approcci in termini di quantità e qualità del calo ponderale, del miglioramento dei parametri glico-metabolici e della riduzione del volume epatico. I risultati di questa tesi si riferiscono a 23 pazienti tra i quali 16 hanno eseguito anche una valutazione della composizione corporea con tecnica DEXA e 15 di cui è stata valutata la riduzione del volume epatico tramite ecografia addominale.

I dati preliminari evidenziano che 4 settimane di intervento nutrizionale sono associate ad una riduzione significativa di calo ponderale e del volume epatico senza differenze significative fra i diversi approcci. Anche la riduzione significativa del grasso viscerale non differisce fra i diversi approcci in relazione allo scarso numero dei pazienti. In generale non abbiamo notato differenze fra gli approcci per la maggior parte dei parametri analizzati che comunque migliorano in tutti i pazienti. La riduzione del volume epatico, parametro molto importante per la riduzione dei rischi operatori, tende a ridursi maggiormente con la dieta Mediterranea senza tuttavia rappresentare una significatività statistica.

La mancanza di una netta differenza fra i diversi approcci dietetici è ragionevolmente attribuibile al basso numero dei pazienti analizzati e all’eterogeneità al basale tra i gruppi.

Sarà opportuno in futuro aumentare la numerosità del campione per poter comprendere con maggior chiarezza quale sia il miglior approccio dietetico da adottare ai fini di ridurre le complicanze operatorie e di valutare i risultati post-intervento in termini di calo ponderale e di mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti.

(7)

3

INTRODUZIONE

L’obesità è una malattia cronica a patogenesi multifattoriale, che si manifesta come conseguenza dell’interazione tra fattori genetici, metabolici, comportamentali e socio culturali (1). La prevalenza di questa patologia è aumentata in modo esponenziale negli ultimi decenni e a tal proposito l’OMS ha definito l’obesità un’epidemia globale (globesity): secondo i dati pubblicati dall’International Obesity Task Force, nel mondo si contano oltre 1 miliardo di persone sovrappeso e circa 310 milioni di obesi (con Indice di Massa Corporea, BMI, superiore a 30 kg/m2) (2). In Italia tra gli adulti è in sovrappeso una persona su 3 (34% della popolazione), e obesa una persona su 10. Attualmente si contano circa 16,5 milioni di pazienti sovrappeso e 5,5 milioni di pazienti obesi (5 milioni con un BMI compreso tra 30 e 40 kg/m² e 500.000 con un BMI >40 kg/m²) (2). In Europa il sovrappeso e l’obesità sono responsabili di circa l’80% dei casi di diabete di tipo 2 (o insulino-indipendente), del 55% dei casi di ipertensione arteriosa e del 35% dei casi di cardiopatia ischemica; tutto ciò si traduce in 1 milione di morti e 12 milioni di malati all’anno (3). L’obesità e le malattie correlate comportano quindi una riduzione dell’aspettativa di vita e della qualità di essa, nonché costi sanitari e sociali estremamente rilevanti (Figura 1).

(8)

4

Condizione indispensabile per un calo ponderale, anche se spesso non sufficiente per ridurre significativamente le malattie metaboliche associate, è rappresentata dalle modifiche dello stile di vita, basata sullo svolgimento frequente di attività fisica aerobica e su un’alimentazione bilanciata ipocalorica. Come riportato nelle linee guida Europee per la gestione dell’obesità, una restrizione calorica del 15-30% al giorno rispetto all’intake abituale (circa 600 kcal/die in meno), associata all’esercizio fisico è efficace nell’indurre una significativa perdita di peso e di massa grassa (1). Talvolta tali approcci non sono sufficienti a determinare un miglioramento della condizione di salute, in particolare in casi di obesità grave (BMI ≥40 kg/m2) o in pazienti con un BMI compreso tra 35 e 40 Kg/m² che

presentano comorbidità associate (malattie del metabolismo, patologie cardiorespiratorie, malattie osteo-articolari, problemi psicologici gravi, ecc.). In tal caso, la chirurgia bariatrica è divenuta il trattamento d’elezione, sia in termini di peso perso a lungo termine sia nel miglioramento delle comorbidità e della qualità di vita (4). Essa infatti è considerata l’unica alternativa terapeutica quando le suddette strategie mediche falliscono. Attualmente, in Italia, circa 1,5 milioni di pazienti potrebbero beneficiare di un notevole e duraturo calo ponderale indotto dalla chirurgia, con riduzione della morbilità e della mortalità proprie dell’obesità e delle malattie correlate, di un miglioramento significativo della qualità della vita, con una notevole riduzione dei costi diretti per la Sanità (5). L’aspettativa di vita nella popolazione severamente obesa si è ridotta di 9 anni nelle donne e di 12 anni negli uomini. Le linee guida e lo stato di chirurgia dell’obesità instituite dalla S.I.C.O.B nel 2008, riportano che almeno i due terzi dei soggetti obesi che hanno scelto un intervento bariatrico, mantengono il calo ponderale raggiunto nell'arco di 15 anni (2). Tuttavia, il successo del trattamento chirurgico deve tenere in considerazione diversi parametri oltre all’effetto sul calo ponderale: il rischio di complicanze peri-operatorie e a distanza, il miglioramento delle comorbidità, della qualità di vita, degli effetti collaterali e il mantenimento del risultato (2, figura 2). Al fine di garantire la miglior qualità possibile dell’intervento bariatrico, le più recenti linee guida di chirurgia dell’obesità (2016) (6), consigliano una riduzione pre-operatoria del peso corporeo, attraverso la prescrizione di diete a basso contenuto calorico, facilitando l’esecuzione degli

(9)

5

interventi laparoscopici e migliorando i risultati a breve e a lungo termine soprattutto nei pazienti super-obesi (BMI≥50 kg/m2) (7,8). L’obiettivo di questa tesi è quello di verificare l’efficacia della perdita di peso indotta con le diverse tipologie di diete con un contenuto ipocalorico pari al 50% del fabbisogno calorico giornaliero, su pazienti obesi e super obesi che hanno scelto di sottoporsi all’intervento di chirurgia bariatrica.

(10)

6

CAPITOLO 1 - L’OBESITA’

1.1 DEFINIZIONE E CRITERI DI CLASSIFICAZIONE

DELL’OBESITA’

Il termine deriva dal latino “obesitas” (indica la condizione di chi è grasso, grosso o paffuto) derivato a sua volta da “esum”, participio passato di “ĕdere”che significa mangiare, con l’aggiunta del prefisso ob (per, a causa di) (9). L’obesità infatti dipende da un prolungato squilibrio tra entrate ed uscite energetiche, con prevalenza delle prime sulle seconde (1), tale da determinare un incremento ponderale superiore al 20% (28% nella donna) rispetto al peso ideale (10). Inoltre un eccessivo accumulo di massa grassa nei tessuti di deposito e in regioni ectopiche, cioè al di fuori delle sedi naturali di deposizione del tessuto adiposo (quali il fegato, il cuore e il muscolo scheletrico), è tale da influire negativamente sullo stato di salute (11).

Per una valutazione clinica pratica dell’obesità si considerano i seguenti criteri:

1)

l’entità del sovrappeso tramite il calcolo dell’indice di massa corporea (BMI= body mass index)

2)

la tipologia di adiposità: ginoide, androide e mista attraverso la misurazione del rapporto WHR (circonferenza vita/circonferenza fianchi)

3)

la percentuale di massa grassa totale.

Il BMI è semplicemente una misura del peso corporeo normalizzato per l’altezza e viene calcolato dividendo il peso in kg per il quadrato dell’altezza espressa in metri (kg/m²). Secondo il criterio proposto dai National Institutes of Health l'obesità viene diagnosticata quando il paziente ha un BMI superiore a 30 kg/m²

(11).

L’OMS distingue 4 gradi di obesità sulla base dell'eccesso ponderale che, in generale, sono associati ad un rischio di morbi-mortalità progressivamente maggiore (12, Grafico 1):

(11)

7

con un BMI tra 30 e 34,9 kg/m² si classifica un’obesità di I grado con un

rischio associato moderato,

un BMI tra 35 e 39 kg/m² determina un rischio da moderato a severo (obesità di II grado),

un BMI superiore a 40 kg/m² mette seriamente a rischio la salute dell’individuo e per questa ragione si classifica come obesità grave o molto

severa, di III grado,

quando il BMI supera i 50 kg/m² il rischio di mortalità è più del doppio (“super obesità”) (13).

Grafico 1. Rischio relativo di mortalità associata al BMI. Il grafico mostra la relazione tra BMI e tutte le cause di morte in un pool di analisi di 19 studi prospettici, includendo 1,46 milioni di adulti con un BMI medio di 26,2 kg/m², durante un periodo di follow-up in media di 10 anni. In generale tutte le cause di morte sono più basse nella categoria di soggetti con un BMI compreso tra 20 e 24,9 kg/m², mentre sono 5 volte più alti i decessi nelle categorie di obesità più elevate (BMI tra 35 e 39,9 kg/m² e tra 40 e 40,9 kg/m²)

A seconda della sede di localizzazione prevalente di grasso corporeo si possono distinguere due tipi di obesità: androide (detta anche a “mela”, viscerale, centrale o tronculare) e ginoide (detta anche a “pera”, periferica o sottocutanea), associate ad un diverso rischio per la salute.

R ischio re lativo di mortalit à BMI

(12)

8

-

La localizzazione viscerale o androide si caratterizza per una distribuzione elevata del grasso a livello addominale a causa di un eccessivo accumulo di adipe in profondità attorno agli organi centrali del corpo (intestino, fegato e cuore).

-

L’obesità ginoide invece è determinata da una deposizione della massa adiposa soprattutto nel compartimento sottocutaneo nella metà inferiore dell'addome, nelle regioni glutee ed in quelle femorali.

Mediante la misura della circonferenza della vita da sola o in rapporto alla circonferenza dei fianchi, quindi il rapporto vita-fianchi (WHR), è possibile distinguere le due tipologie di obesità (10). È stato dimostrato da numerosi studi che l’adiposità centrale è strettamente associata ad un più alto rischio di sviluppare complicanze metaboliche e vascolari (10,11,14). Secondo l’OMS una circonferenza della vita superiore agli 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardio-vascolari, cancro ed insulino-resistenza (14,15), tabella 1.

Tabella 1.Tipologie di obesità e rischio di complicanze associate

La circonferenza del collo è un altro parametro da tenere in considerazione durante la diagnosi di obesità in quanto è associata al rischio di sviluppare patologie respiratorie. Le donne con una circonferenza del collo superiore a 41 cm e uomini che superano i 43 cm hanno un rischio relativo aumentato di 1,14 volte di sviluppare apnee notturne (OSAS, Obstruction Sleep Apnea Syndrome) per ogni aumento unitario del BMI (16,17,18).

(13)

9

L’obesità essendo caratterizzata da un eccessivo peso corporeo a causa di un’aumentata proporzione di massa grassa rispetto alla massa magra e ossea viene diagnosticata quando la percentuale di grasso totale supera il 25% nell’uomo e il 32% nella donna (19,20). Una delle tecniche utilizzate per stimare la percentuale di grasso totale è la plicometria, una metodica che consiste nel misurare lo spessore del grasso sotto-cutaneo, situato tra la pelle e il muscolo, a livello di quattro regioni corporee: bicipitale, tricipitale, sovrailiaca e sottoscapolare. Questa tecnica di misurazione si basa sul fatto che il tessuto adiposo sottocutaneo rappresenta in media il 50% del tessuto adiposo presente in toto nell’organismo: a livello sottocutaneo, toracico-addominale (viscerale), intra e intermuscolare (21). Per distinguere quindi il livello di normalità da quello di sovrappeso/obesità si fa riferimento alla percentuale di massa grassa totale, distinta in base al grado di attività fisica (Tabella 2). I valori di normalità si aggirano intorno al 15% nell’uomo e al 24% nella donna. Questi valori sono inferiori negli atleti e decisamente superiori nei soggetti obesi, talvolta fino a raggiungere il 60-70% del peso corporeo (19).

Tabella 2. Percentuale di massa grassa in relazione allo stato di forma fisica.

MASCHI FEMMINE Stato di forma fisica

6- 13% 14-20% Forma atletica

14 -17% 21-24% Persone attive

18 - 24% 25-31% Leggero sovrappeso

≥25% ≥32% Obesità

Un ulteriore metodo di analisi ai fini di valutare la composizione corporea è la DEXA. L’esame, attraverso un fascio di raggi X, consiste in una scansione total-body che permette di misurare simultaneamente il contenuto minerale osseo, il grasso e i tessuti liberi dal grasso (massa magra), utile anche per diagnosticare un’eventuale obesità sarcopenica, caratterizzata non solo da un aumento della massa grassa, ma anche dalla diminuzione relativa o assoluta della massa muscolare (22).

(14)

10

1.2 PRINCIPALI CAUSE SCATENANTI

Raramente l’obesità è secondaria a patologie specifiche (ad es. nelle sindromi di Prader-Willi o di Cushing, nell’ipotiroidismo, nei cranio-faringiomi e in generale nei disordini che coinvolgono l’ipotalamo). Talvolta è iatrogena, a seguito di una protratta terapia farmacologia che ha come effetto collaterale un aumento del senso di fame, una riduzione del metabolismo energetico e una stimolazione della proliferazione delle cellule adipose (le classi farmacologiche più comunemente coinvolte sono i corticosteroidi e gli antidepressivi). Nella maggior parte dei casi l’obesità è primaria, risultante cioè dalla combinazione variabile di due elementi: la suscettibilità genetica, ovvero la predisposizione genetica dell’individuo a diventare obeso e la presenza di fattori ambientali (es.: facile accesso ad alimenti altamente energetici, sedentarietà). Si ritiene che la componente genetica incida per il 30-40% e quella ambientale/comportamentale per il rimanente 60-70% (23). In questa forma intervengono fattori patogenetici differenti:

1)

meccanismi omeostatici che regolano il bilancio energetico: l’obesità può

essere causata da un aumento dell’introito calorico, da una riduzione della spesa energetica o dalla combinazione di entrambi. La regolazione del peso corporeo è un meccanismo finemente regolato, in modo integrato, da numerose vie nervose, ormonali e metaboliche (24,25). Quando l’introito calorico supera la spesa energetica, l’eccesso di energia viene immagazzinato sotto forma di grasso. Esiste un “set point” del peso corporeo, in ciascun individuo, determinato da meccanismi fisiologici che dimostrano come nel tessuto adiposo ci siano dei sensori (ormoni, fattori e segnali proteici) in grado di indicare l’entità dei depositi di grasso e trasmettere poi questa informazione a recettori presenti a livello ipotalamico. Un’alterazione dei vari neurotrasmettitori, che agiscono sui centri regolatori della fame e della sazietà, localizzati nell’ipotalamo, può avere un ruolo nell’indurre certi errori del comportamento alimentare. Secondo questo meccanismo di regolazione, in ogni soggetto esiste un sistema diencefalico di controllo e salvaguardia di un

(15)

11

determinato peso corporeo, attraverso variazioni dell’apporto calorico (fame-sazietà) e della temperatura. Nel soggetto obeso si verifica un’alterazione di questo sistema, dovuta a fattori genetici, all’iperalimentazione, ecc., che alterano l’equilibrio dei vari fattori che lo influenzano: neuro mediatori, livello glicemico, livello insulinemico, concentrazione di acidi grassi liberi, endorfine, ormoni gastroenterici, pancreatici, epatici e del tessuto adiposo. Una prolungata iperalimentazione determina un innalzamento del set- point e questo potrebbe spiegare come vi siano obesi che rimangono tali anche senza mangiare più del dovuto (24,26).

2)

Iperalimentazione e sedentarietà abituale: è ormai accertato che l’obesità si

sviluppa nei soggetti geneticamente predisposti in concomitanza con uno stile di vita sedentario. Per ciò che riguarda l’alimentazione, è stato dimostrato che il contenuto calorico degli alimenti gioca un ruolo importante nella regolazione dell’assunzione di cibo e che le caratteristiche specifiche dei vari macronutrienti possono influenzare in modo rilevante le variazioni di peso corporeo (27). Mettendo a confronto diete a diverso contenuto di macronutrienti, è stato osservato che un’alimentazione ricca di grassi stimola una maggiore assunzione di cibo e quindi di calorie, rispetto a diete a basso contenuto calorico o a base di proteine e carboidrati. Questo fenomeno, definito come “sovra-consumo passivo”, dipende in parte dal fatto che a parità di calorie, i grassi saziano meno dei carboidrati e delle proteine. La dieta ricca di grassi non è il solo fattore ambientale responsabile dell’insorgenza dell’obesità, ma altri fattori hanno un ruolo associato tra cui la ridotta attività fisica giornaliera che induce un rallentamento della capacità del muscolo di ossidare i grassi. I soggetti che intraprendono e mantengono un buon livello di attività fisica hanno più probabilità di mantenere il peso-forma raggiunto (28).

3)

Dimensione e numero degli adipociti: il tessuto adiposo bianco contiene, oltre

ad adipociti maturi pieni di acidi grassi, un ampio pool di cellule mesenchimali multipotenti e di pre-adipociti, pronti a maturare sotto stimolo appropriato (29). Anche se in età adulta esistono pre-adipociti che possono costituire il substrato cellulare per l’aumento numerico degli adipociti stessi

(16)

12

maturi, la moltiplicazione degli adipociti è particolarmente influenzata dall’apporto nutrizionale nel periodo iniziale dell’infanzia e dell’adolescenza. Il bilancio energetico positivo determina un aumento del peso corporeo, inizialmente per iperplasia degli adipociti maturi presenti nel tessuto adiposo; una volta che queste cellule raggiungono un volume critico, viene stimolata la differenziazione dei precursori ad adipociti maturi presenti nel tessuto adiposo. Gli adipociti ipertrofici, che si rilevano più frequentemente nell’adipe viscerale, hanno una diversa espressione genica, sono meno sensibili agli effetti metabolici dell’insulina e hanno una maggiore attività lipolitica rispetto alle cellule più piccole (30). Pertanto la cellularità del tessuto adiposo influenza le variazioni del peso e le dimensioni degli adipociti variano in relazione al bilancio energetico dell’individuo. La riduzione delle masse grasse è in rapporto alla diminuzione del volume medio degli adipociti maturi senza riduzione del loro numero, che resta invariato anche nei casi di perdita praticamente completa della massa adiposa (29).

1.3

ALTERAZIONI

METABOLICO-FUNZIONALI

ASSOCIATE ALL’OBESITA’

Secondo la prima legge della termodinamica, il bilancio energetico del nostro organismo può essere riassunto dalla seguente equazione:

introito energetico = energia consumata + energia conservata

Nell’obesità, l’accumulo lipidico nel tessuto adiposo rappresenta un eccesso di energia introdotta rispetto a quella consumata, che altera il sistema fisiologico di controllo del metabolismo energetico (23). In generale la cellula del tessuto adiposo bianco svolge un ruolo chiave nel mantenimento di questo bilancio energetico attraverso meccanismi di regolazione endocrini, paracrini e autocrini (11,31). Un surplus di calorie, derivanti da un elevato introito calorico e/o da una

(17)

13

vita sedentaria, determina la suscettibilità individuale a sviluppare la sindrome metabolica (SM). La SM rappresenta una patologia costituita da un insieme di alterazioni metaboliche associate ad uno stato di insulino-resistenza (IR) e ad un aumentato rischio di sviluppare patologie cardiovascolari. Nell’obesità, la secrezione dell’organo adiposo, in particolare la secrezione di ormoni peptidici come la leptina e l’adiponectina coinvolte nella regolazione del bilancio energetico, è alterata e associata alla SM. Quest’ultima è caratterizzata da obesità viscerale e complicata da ipertensione arteriosa, IR, ipertrigliceridemia e bassi livelli di colesterolo HDL (14).

1.3.1 IL TESSUTO ADIPOSO E IL METABOLISMO GLUCO-LIPIDICO NELL’OBESITA’

Il tessuto adiposo, una volta considerato solo deposito energetico di riserva, è attualmente ritenuto un organo metabolicamente attivo, con capacità di secernere diverse adipochine, molecole segnale dotate di effetti locali, centrali e periferici (32). Questi fattori permettono all’adipocita di svolgere un ruolo importante nei meccanismi di feedback a livello sistemico, come la regolazione dell’appetito e del bilancio energetico, l’immunità, l’angiogenesi, la sensibilità all’insulina e il metabolismo lipidico (33,34). L’organo adiposo è costituito da cellule adipose bianche e brune. La principale funzione del tessuto adiposo bianco è quella di accumulare e rilasciare gli acidi grassi: conserva l’energia sotto forma di trigliceridi durante i periodi di abbondanza calorica e facilita il recupero durante periodi di scarsità di cibo e deficit calorico, come il digiuno, la fame e l’esercizio fisico protratto. Le cellule adipose brune invece hanno prevalentemente un ruolo termogenico (25). Pertanto in condizioni normali, gli adipociti sono capaci di mantenere l’equilibrio tra sintesi (lipogenesi) e catabolismo (lipolisi) dei trigliceridi in risposta al fabbisogno fisiologico (31). In presenza di un eccessivo introito di energia, l’adipocita immagazzina lipidi andando incontro ad un aumento di dimensioni (ipertrofia) e a modificazioni funzionali e di vascolarizzazione. L’ipertrofia degli adipociti, tipica dell’obesità, può indurre uno stato infiammatorio e di IR del tessuto (35), in parte causata dall’ipossia conseguente all’eccessivo aumento volumetrico degli adipociti, con

(18)

14

reclutamento di macrofagi e produzione di citochine pro-infiammatorie: l’interleuchina-6 (IL-6), la resistina, la visfatina ed il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α) (10). Lo stato di IR, tipico dell’adipocita ipertrofico, è caratterizzato da un aumentato rilascio di acidi grassi da parte del tessuto adiposo. Questi ultimi, insieme alle citochine pro-infiammatorie, possono promuovere IR a livello di altri organi. L’adiponectina, una delle adipochine prodotte specificamente negli adipociti e secreta in circolo in quantità significative, è coinvolta nella regolazione del metabolismo energetico. Essa infatti migliora la sensibilità insulinica stimolando la fosforilazione e l’attivazione della proteina chinasi attivata da AMP (AMPK), coinvolta nella regolazione del metabolismo lipidico e glucidico (14). I recettori di questa proteina sono espressi in organi bersaglio dell’insulina, pertanto non solo il tessuto adiposo, ma anche il fegato, il muscolo scheletrico, il pancreas e il cervello sono coinvolti nel mantenimento dell’omeostasi lipidica e glucidica. I suoi livelli, a differenza di quelli di molte altre adipochine, sono più bassi nel soggetto obeso rispetto all’individuo normopeso (31). Attraverso questi meccanismi (figura 3), l’aumento di peso e quindi l’accumulo di grasso induce una condizione di IR che predispone allo sviluppo di malattie croniche.

Figura 3. La figura riassume alcuni meccanismi attraverso i quali l’obesità potrebbe causare malattie. L’ipertrofia adipocitaria mette in moto una cascata infiammatoria, con amplificazione dei processi molecolari che coinvolgono il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) che comporta un rimodellamento dei vasi e la produzione del fattore chemiotattico per i monociti (MCP1). Le conseguenze sono una neo-angiogenesi nel tessuto adiposo con infiltrazione macrofagica, rilascio di citochine pro-infiammatorie, ridotta produzione di adiponectina e aumentata produzione di leptina, insulino-resistenza locale, accelerata lipolisi con rilascio di acidi grassi liberi che possono accumularsi in sede ectopica.

(19)

15

Il rischio di sviluppare patologie associate all’accumulo di lipidi è maggiore a seconda della prevalente sede di distribuzione del grasso in eccesso (36). Diversi studi dimostrano che il grasso viscerale rispetto a quello sottocutaneo è meno sensibile all'azione lipogenetica dell'insulina, quindi all’accumulo di grassi nel tessuto adiposo (37). Questo significa che l'attività insulinica, prevalentemente in risposta all'ingestione di carboidrati, sopprime maggiormente il rilascio di grassi (lipolisi) nel tessuto adiposo sottocutaneo. La lipolisi è il processo metabolico che prevede il catabolismo e la mobilizzazione dei grassi depositati sotto forma di trigliceridi, che vengono scissi in tre molecole di acidi grassi e una di glicerolo dalla lipoproteina lipasi (LPL) ed immessi nel torrente sanguigno. È stato osservato che l'insulina inibisce l’attività di questo enzima solo per il 50% circa nel tessuto adiposo viscerale, pertanto il grasso viscerale è più facilmente soggetto al rilascio di acidi grassi nel sangue rispetto a quello sottocutaneo delle regioni inferiori, perché meno sensibile all'attività anti-lipolitica dell’insulina (38). Un altro motivo per cui il grasso sottocutaneo è meno soggetto alla mobilizzazione di acidi grassi è la minore sensibilità alle catecolammine, ormoni rilasciati dalle ghiandole surrenali in situazioni di stress o cali di glicemia. Le

(20)

16

catecolammine, in particolare l’adrenalina e la noradrenalina, sono i più potenti regolatori della lipolisi negli adipociti attraverso la stimolazione dei recettori β1- e β2-adrenergici e l’inibizione degli α2-adrenorecettori (39,40,41). Numerosi studi in vitro hanno dimostrato che gli adipociti a livello gluteo-femorale hanno una risposta lipolitica alle catecolammine più bassa rispetto agli adipociti del tessuto sottocutaneo addominale (42,43). Questi ultimi infatti mostrano una maggiore densità e sensibilità dei recettori β1- e β2-adrenergici, e un ridotto numero e affinità dei α2-adrenorecettori (inibitori della lipolisi) (44). In generale gli adipociti dei soggetti obesi mostrano una maggiore risposta lipolitica alle catecolammine e una ridotta sensibilità all’effetto anti-lipolitico dell’insulina, caratteristiche tipiche del grasso viscerale (45). La maggior sensibilità all’attività lipolitica del tessuto adiposo viscerale determina un incremento del rilascio di acidi grassi liberi nel sistema portale venoso, che ne permette l’arrivo diretto al fegato bypassando la circolazione sistemica, con possibili effetti dannosi sul metabolismo epatico e con conseguente sviluppo di depositi di grasso in siti ectopici che espongono il fegato, il muscolo scheletrico e il sistema cardiovascolare ad un eccesso di acidi grassi liberi (lipotossicità) (46, figura 4). Per tale ragione, un aumento del tessuto adiposo viscerale conferisce un rischio maggiore di sviluppare patologie associate all’obesità rispetto all’adiposità periferica (47). Quando le riserve adipose sono sature, si accumulano metaboliti intermedi degli acidi grassi (ceramidi, diacilglicerolo e acil-Coa) che impattano negativamente sulle funzioni cellulari e danneggiano i processi metabolici insulino-dipendenti provocando iperinsulinemia, intolleranza al glucosio, ipertrigliceridemia e ipocolesterolemia HDL. Ad esempio, l’alto contenuto di grasso intramuscolare è un marker di IR: l’eccesso di substrati energetici induce nell’apparato muscolare un consumo preferenziale di acidi grassi liberi (FFA) in sostituzione del substrato energetico primario, cioè il glucosio (teoria del “furto del substrato”) (48). Gli FFA in eccesso, ossidati a livello epatico, inducono nel contempo un incremento nella gluconeogenesi, portando alla sintesi e all'immissione in circolo di nuove molecole di glucosio. Si realizza così una condizione di gluco- e lipotossicità alla base della resistenza insulinica che l’organismo cerca di compensare con un aumento dell’escrezione insulinica

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pancreatica, ma persistendo nel tempo i sistemi di compenso pancreatici divengono insufficienti a mantenere l’omeostasi glicemica (48). Si sviluppa così una progressiva alterazione del metabolismo glucidico che da iniziali stati iperglicemici transitori, come l’alterata glicemia a digiuno (IFG) e l’intolleranza al glucosio (IGT), progredisce fino al diabete mellito tipo 2 conclamato (14,26).

Figura 4. Fattori che regolano la distribuzione del grasso addominale: gli adipociti dei soggetti obesi, in particolare quelli del grasso viscerale, mostrano una maggiore sensibilità all’azione lipolitica delle catecolammine e una minore sensibilità all’attività antilipolitica dell’insulina, con conseguente aumento del flusso di acidi grassi liberi nel circolo venoso portale e possibili effetti dannosi sul metabolismo epatico, includendo: produzione di glucosio, secrezione di VLDL, interferenza con la clearance epatica dell’insulina, disliproteinemia, glucosio-intolleranza e iperinsulinemia.

1.3.2 EPATOMEGALIA E STEATOSI EPATICA

La malattia del fegato grasso non alcolica (NAFLD: non alcoholic fatty liver

disease) è la più frequente disfunzione epatica associata all’obesità (11). Essa è

rappresentata da uno spettro di malattie che include la steatosi epatica semplice (con infiltrazione di trigliceridi in oltre il 5% degli epatociti), l’infiammazione associata a infiltrazione grassa e la steatoepatite non alcolica (NASH: non

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alcoholic steatohepatitis), sino alla definitiva progressione in fibrosi e cirrosi (49),

figura 5.

Figura 5. Progressione della steatosi epatica

La steatosi epatica è una condizione clinica caratterizzata da un accumulo di grasso, principalmente in forma di triacilgliceroli, nelle cellule del fegato senza evidenza di danno epatocellulare. Molti studi hanno mostrato un’associazione dell’IR con la steatosi epatica, sulla base di un’alterata tolleranza al glucosio o di un’alterazione dei livelli di glucosio a digiuno. Il 70-80% dei soggetti con steatosi presentano IR (11). In una percentuale del 30% circa essa può evolvere in NASH, causata da un’infiammazione del fegato grasso. Fino al 40% dei casi di steatoepatite, il fegato infiammato col passare del tempo può diventare fibroso e indurito, evolvendo in cirrosi, che rappresenta il passo decisivo verso l'insufficienza epatica. Sempre più evidenti inoltre sono i tumori epatici che insorgono in una condizione di steatosi epatica/steatoepatite (49).

Il tessuto adiposo addominale risulta essere un fattore cruciale per l’ingresso di acidi grassi nel torrente venoso portale con flusso epatopeto (diretto al fegato). È stato dimostrato che l’accumulo di lipidi a livello epatico aumenta dal 22% al 104% per ogni aumento dell’1% di tessuto adiposo a livello addominale. Normalmente il grasso rappresenta meno del 5% del peso del fegato; quando questa percentuale è più alta, si parla di steatosi ed è una delle principali cause di epatomegalia (11).

La steatosi epatica è una delle maggiori complicanze associate alla SM, in particolare all’obesità e all’ IR. Circa il 33% dei pazienti obesi patologici mostrano infiltrazione di grasso in più del 50% degli epatociti (50). Gli eventi scatenanti una steatosi epatica dipendono dalla compromissione del signaling

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insulinico, dallo sviluppo di IR a livello epatico e del tessuto adiposo e da un maggiore e protratto flusso di FFA al fegato. Questo quadro è sostanzialmente legato alla lipogenesi de novo, al pool di acidi grassi non esterificati provenienti dall’alterata soppressione della lipolisi insulino-mediata negli adipociti e ai grassi alimentari. I pazienti obesi che si iperalimentano presentano una concentrazione elevata cronica di glucosio, insulina e acidi grassi nel sangue. Un’ elevata concentrazione di glucosio nel sangue induce un aumento dell’uptake da parte del fegato (non insulino-dipendente), dove viene convertito in glicogeno o in acidi grassi liberi attraverso la lipogenesi indotta dall’insulina (35). Lo sviluppo di IR periferica comporta un aumento del rilascio di FFA al fegato a causa dell’iperinsulinemia compensatoria e una sovrastimolazione di vari fattori di trascrizione che converge verso l’ulteriore incremento della lipolisi de novo, oltre alla sintesi non soppressa di nuove molecole di glucosio nonostante l’iperinsulinemia. L’aumento del flusso di FFA al fegato sottopone quindi gli epatociti a un notevole carico metabolico, promuovendo lipotossicità e stress del reticolo endoplasmatico. Gli FFA circolanti in ultima analisi portano all’attivazione di proteine proapoptotiche, al rilascio di citochine da parte dei macrofagi specializzati localizzati nel fegato (cellule di Kupffer) e al danno epatocellulare immuno-mediato. Questi insulti inducono danno epatocitario che comporta la possibilità di evolvere verso la condizione di steatoepatite (NASH). Col persistere di questi processi si verifica l’attivazione delle cellule stellate nel fegato, portando alla sintesi di collagene ed alla fibrosi epatica che può portare ad una condizione di cirrosi o alla perdita di funzione del fegato (11), (Figura 6).

Figura 6. Steatosi epatica e insulino-resistenza

Nella figura sono mostrati i meccanismi fisiopatologici che inducono l’insorgenza di steatosi epatica e la sua progressione. La steatosi favorisce la sintesi e la secrezione di TNFα mediante l'aumentata concentrazione intra-epatica di FFA. Il TNFα interferisce con il signalling dell'insulina a livello recettoriale inducendo insulino-resistenza "steatosi-associata" (epatica), evento biochimico che va ad associarsi all'insulino-resistenza "periferica" propria dell'obesità. Il risultato è un ulteriore accumulo intra-epatico di grasso.

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In genere, NAFLD è una patologia reversibile grazie alla dieta ed alla terapia farmacologica. L’utilizzo di una dieta che implichi la perdita di peso, il miglioramento del controllo glicemico, della dislipidemia e del rischio cardiovascolare, rappresenta il miglior approccio per il trattamento del fegato grasso, ancora prima dei metodi chirurgici (51). Nel 1986, Eriksson et al. furono i primi ad osservare che l'alterata funzionalità epatica dei pazienti obesi con NASH, migliora o addirittura può ritornare normale dopo una significativa perdita di peso, in quanto può indurre una perdita di grasso dal fegato e quindi una riduzione del volume epatico (52). In un altro studio (53), 40 pazienti con età media di 41 anni e un BMI medio di 47 kg/m2, sono stati sottoposti ad una dieta liquida bilanciata ipocalorica (Optifast VLCD, Novartis) per una durata di 2 settimane prima di sottoporsi all’intervento di chirurgia bariatrica. Le misure cranio-caudale (lunghezza) e dorso-ventrale (profondità) medie del fegato, erano correlate con il peso, il BMI, la massa grassa totale e la percentuale di grasso, e venivano comparate prima e dopo la dieta. Al termine del trattamento dietetico si osservava

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una riduzione significativa in percentuale della taglia del fegato sia in termini di lunghezza (p<0,0001) che di spessore (p<0,02), così come una significativa riduzione % del grasso (5,1, p<0,0001). Analogamente si osservava una riduzione % significativa del BMI (4,2, p<0,0001) e della % di peso perso (4,1, p<0,0001). La variazione del grasso perso (espresso come percentuale rispetto alla massa grassa iniziale) era poi comparata alla variazione in percentuale delle dimensioni del fegato. I pazienti che avevano ottenuto una riduzione maggiore del BMI, mostravano una più alta riduzione del volume epatico (r=0,43, p =0,0047). Tuttavia la diminuzione della taglia del fegato non correlava in maniera significativa con la variazione del grasso (r=0,07, p =0,62). Alla luce di queste dimostrazioni si deduce che altri fattori intervengono nel meccanismo di riduzione (54).

1.4 OBESITA’ GRAVE E APPROCCIO TERAPEUTICO

L’obesità grave (o di terzo grado o patologica) si manifesta in pazienti che presentano un BMI uguale o superiore a 40 kg/m². Nel nostro Paese, secondo i dati raccolti nel 2010 dall’Istituto Superiore della Sanità, l’incidenza dell’obesità grave si aggira intorno allo 0,8-1% della popolazione. Tale condizione aggrava seriamente la salute del paziente ed è associata ad un rischio di mortalità doppio rispetto alla popolazione normopeso (2). L’obesità grave è molto spesso associata a disturbi del metabolismo ed altre patologie (cardiovascolari, respiratorie, osteo-articolari) (3); per questo motivo il trattamento dell’obesità di terzo grado risulta essere piuttosto complicato e necessita di un percorso terapeutico integrato, che coinvolga diverse figure professionali.

Una volta classificati il grado e il tipo di Obesità ed escluse le principali cause di obesità secondaria (endocrinopatie, obesità sindromiche, obesità monogeniche, etc.) che devono essere adeguatamente trattate, si procede col definire un programma di intervento di correzione dell’obesità. Il primo passo della terapia è rappresentato dalla modificazione degli stili di vita attraverso l’intervento nutrizionale, l’incremento di attività fisica e le modifiche comportamentali. Tuttavia quando questa prima strategia risulta insufficiente o del tutto inefficace è

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22

opportuno ricorrere alla terapia farmacologica o all’intervento chirurgico (linee guida SICOB, 2).

1.4.1 LA TERAPIA DIETETICA IN OBESITA’ GRAVE

In assenza di altre specifiche indicazioni terapeutiche, la terapia dell’Obesità deve mirare alla riduzione di circa il 10% del peso iniziale, soprattutto nel caso di obesità di I o II grado, o di franco sovrappeso (3).

In caso di Obesità di III grado invece la necessità di riduzione del peso iniziale risulta essere superiore a questa quota convenzionale del 10%, obiettivo che tuttavia resta difficile da mantenere a lungo termine (3). In generale è stato osservato che una stabile perdita di peso pari al 10% del peso corporeo iniziale, ottenuta prevalentemente attraverso una perdita di tessuto adiposo, è sufficiente a correggere la componente morbigena (6). L’intervento dietetico deve essere mirato soprattutto alla riduzione e al contrasto delle alterazioni tipiche dell’eccesso di grasso corporeo, tra cui la ridotta sensibilità all’azione dell’insulina, o l’IR e il relativo corollario di alterazioni endocrino-metaboliche (6). Tali obiettivi sono raggiungibili sia attraverso una corretta perdita di massa adiposa, ma anche elaborando una dieta che abbia una composizione in macronutrienti con finalità terapeutiche, ad esempio con un basso “carico glicemico”, cioè con un ridotto impatto sulla glicemia plasmatica e sul rilascio di insulina (3). La restrizione dietetica deve essere valutata sulla base del fabbisogno energetico del paziente, misurando il metabolismo a riposo preferibilmente con la calorimetria indiretta oppure ricorrendo ad apposite formule predittive standard (di Harris-Benedict o della OMS). La riduzione calorica deve essere compresa tra le 500 e le 1000 calorie rispetto al dispendio energetico giornaliero calcolato, in modo da garantire l'efficacia della terapia dietetica in tempi ragionevoli, ma che sia psico-fisiologicamente sostenibile (3). Non è consigliabile prescrivere ai pazienti ambulatoriali diete ipocaloriche con apporto giornaliero inferiore a 1100 calorie al giorno. Nel caso di Obesità di III grado invece, è consigliato un apporto calorico di almeno 1000 calorie in meno rispetto a quello abituale (3).

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1.4.2 APPROCCIO CHIRURGICO DELL’OBESITA’ GRAVE: LA CHIRURGIA BARIATRICA

La terapia chirurgica si è rivelata essere l’unica forma di trattamento che consenta la guarigione duratura di un elevatissimo numero di casi di obesità morbigena (BMI>40 Kg/m²) o obesità severa (BMI>35 Kg/m²) in presenza di comorbidità, senza risposta al trattamento dietetico, farmacologico e comportamentale (3). Come riportato dalle linee guida di chirurgia dell’obesità (6), i criteri secondo i quali un soggetto obeso viene ritenuto idoneo all’intervento sono i seguenti:

-

BMI>40 Kg/m² (o BMI>35 Kg/m² se in presenza di comorbidità associate)

-

età compresa tra 18 e 60 anni; 65 anni è l’età presente in tutte le linee guida

-

obesità di durata superiore a 5 anni

-

dimostrato fallimento di precedenti tentativi di perdere peso e/o di mantenere la perdita di peso con tecniche non chirurgiche

-

piena disponibilità ad un prolungato follow-up post-operatorio

I pazienti invece che hanno le seguenti caratteristiche non sono eleggibili alla chirurgia bariatrica:

-

assenza di un periodo di trattamento medico verificabile

-

incapacità a partecipare ad un prolungato follow-up

-

disordini psicotici gravi, disturbi della personalità e del comportamento alimentare gravi valutati dallo psichiatra, depressione maggiore secondo DSM IV

-

alcolismo e tossicodipendenza

-

presenza di malattie a ridotta spettanza di vita

-

pazienti inabili impossibilitati a prendersi cura e senza un adeguato supporto familiare e sociale.

Dai risultati di trial clinici randomizzati controllati è stata dimostrata la superiorità della terapia chirurgica rispetto ad un programma di modificazione dello stile di

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vita anche nel paziente con obesità moderata (BMI=30-35 Kg/m²), nel produrre calo ponderale e miglioramento delle comorbidità. Con tale approccio si è osservato che la perdita di peso medio dopo l'intervento bariatrico è di 35/40 kg e si verifica entro il primo anno con un eccellente mantenimento a lungo termine (15-20 anni) (55). Il gruppo dello Swedish Obese Subject (SOS) ha confermato che la chirurgia bariatrica, in particolare il by-pass gastrico, è di gran lunga superiore alla terapia dietetica o ad altri tipi di interventi non definitivi, sia in termini di perdita di peso che di mantenimento del peso perso (56); per tale motivo questi risultati sono stati adottati come linee guida per la terapia chirurgica dell'obesità anche in Italia (2). Attraverso uno studio controllato infatti l’SOS ha comparato l’esito di 2000 pazienti trattati con varie tecniche chirurgiche con quello di 2000 pazienti che presentavano caratteristiche simili, trattati convenzionalmente. Nei pazienti chirurgici, il calo ponderale mantenuto a 10 anni dall’intervento corrispondeva in media al 16,1% del peso iniziale, mentre nei corrispondenti pazienti trattati con terapia medica si assisteva nei 10 anni di studio ad un aumento di peso dell’1,6% (55). In un altro studio condotto tra il 1987 e il 2001, con un follow up a distanza di quasi 15 anni (2009) su 2010 pazienti obesi sottoposti all’intervento bariatrico e 2034 pazienti obesi di controllo che ricevevano le cure abituali del sistema svedese di assistenza sanitaria primaria, è stata dimostrata la maggior efficacia in termini di entità del peso perso e di mantenimento nel lungo periodo, rispetto al gruppo di controllo (57, grafico 2).

Grafico 2. Percentuale media di variazione del peso rispetto al basale nel

gruppo di controllo e nei tre gruppi chirurgici durante un follow-up di 20 anni. Nel gruppo di controllo la variazione media del peso rimaneva ±3%. Nei tre

gruppi chirurgici la perdita di peso media era massima dopo 1-2 anni (GBP 32 ± 8%, VBG 25 ± 9% e bendaggio 20 ± 10%). Negli anni seguenti si osservava un incremento del peso in tutti e tre i gruppi chirurgici anche se l’aumento di peso diminuiva dopo 8-10 anni. Dopo 10 anni, le perdite di peso medio erano: 25 ± 11% (GBP), 16 ± 11% (VBG) e 14 ± 14% (bendaggio) rispetto al peso basale. Dopo 15 anni, le perdite di peso corrispondenti erano 27 ± 12%, 18 ± 11% e 13 ± 14% rispettivamente. Le variazioni del peso dopo 20 anni sono da interpretare con attenzione a causa del basso numero di partecipanti esaminati a questa distanza di tempo.

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25

Nello studio SOS inoltre, è stata dimostrata una riduzione delle complicanze e della mortalità associate all'obesità quando si utilizzano metodi chirurgici definitivi nella terapia del paziente con obesità grave (55). In certi casi è stata osservata addirittura una regressione del diabete mellito tipo 2, così come un miglioramento di altri fattori di rischio cardiovascolari (ipertensione, dislipidemia) e strutturali (artrosi) associati all’obesità. Il rischio relativo di mortalità è risultato significativamente più basso nel gruppo chirurgico (0,76; 95% CI: 0,59-0,99; P=0.04), con una riduzione del 24,6% della mortalità totale a 10 anni. Altri studi di tipo retrospettivo hanno cercato di indagare, in questi ultimi anni, il problema della mortalità (55). Nel primo di questi studi, il tasso di mortalità nel gruppo chirurgico, comprensivo della mortalità operatoria (0,4%), è stato dello 0,68% (7 decessi), mentre nel gruppo di controllo è stato registrato un tasso di mortalità del 6,17% (354 decessi) (58). Questi dati si traducevano in una riduzione dell’89% del rischio relativo di morte nel gruppo chirurgico (0,11; 95% CI: 0,04-0,27). Un più recente studio retrospettivo ha ulteriormente indagato la

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26

mortalità a lungo termine in pazienti con obesità severa sottoposti a chirurgia bariatrica paragonata a quella di soggetti parificati per sesso, età e B.M.I. (59). In questo studio sono stati osservati 321 decessi nel gruppo di controllo (4,1%) e 213 decessi nel gruppo chirurgico (2,7%), di cui 42 (0,5%) nel primo anno successivo all’intervento. Il rischio relativo di mortalità per tutte le cause è risultato significativamente più basso nel gruppo chirurgico (0,60; 95% CI: 0,45-0,67; P=0.001), con una riduzione del 40% della mortalità totale a 7 anni. Risultavano significativamente ridotte le morti dovute a diabete, malattia coronarica e cancro, mentre l’unico gruppo di cause di morte che dimostravano un incremento nel gruppo chirurgico erano rappresentate dalle morti accidentali, compreso il suicidio.

I risultati degli studi citati costituiscono una prova sufficiente ad affermare che la moderna chirurgia bariatrica è effettivamente in grado di ridurre il rischio elevato di mortalità che caratterizza il paziente con obesità severa.

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CAPITOLO 2 - LA CHIRURGIA BARIATRICA

2.1 VALUTAZIONE PREOPERATORIA DEL PAZIENTE

OBESO

Come riportato dalle più recenti linee guida della chirurgia dell’obesità (S.I.C.O.B. 2016), i pazienti candidabili a chirurgia bariatrica devono sottoporsi ad una serie di valutazioni cliniche per garantire l’efficacia dell’operazione con la massima sicurezza possibile.

La valutazione antropometrica dei pazienti candidabili a chirurgia bariatrica deve includere la determinazione dei seguenti parametri: BMI, età e comorbidità associate.

-

BMI: ≥40 kg/m2; tra 35-40 kg/m2 in presenza di comorbidità (dislipidemia, diabete mellito di tipo 2 (T2DM), ipertensione arteriosa, coronaropatie, insufficienza respiratoria, Sindrome delle Apnee Ostruttive Notturne (OSAS), artropatie gravi); tra 30-35 kg/m2in presenza di T2DM non controllato dalla terapia medica; ≤30 kg/ m2, in presenza di T2DM, non controllato da terapia medica, esclusivamente nel contesto di studi clinico-scientifici prospettici controllati.

-

Età: può essere considerata sicura fino ai 65 anni, tuttavia è possibile

estendere l’indicazione oltre tale limite valutando il rapporto rischio/beneficio per il singolo caso. Esiste evidenza di efficacia anche in età evolutiva (fra i 14 e i 18 anni).

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28 Tabella 1. Comorbidità associate all’obesità

. Linee guida S.I.C.O.B. 2016

I test di laboratorio minimi, in assenza di rilievi clinici che indichino il sospetto di comorbidità specifiche da sottoporre a indagini, sono: glicemia, creatininemia, ALT, AST, gamma GT, CPK, uricemia, albuminemia, elettroliti, quadro lipidico, emocromo, ferritina, transferrina, sideremia, vitamina B12, folati, vitamina D, PT, PTT, emoglobina glicata e, nella donna fertile in cui per anamnesi non possa essere escluso il rischio, il test di gravidanza.

Tutti i pazienti devono eseguire l’elettrocardiogramma e l’RX torace anche se sono assenti elementi anamnestici, sintomi e segni specifici.

Deve essere indagata la presenza di apnee ostruttive notturne (OSAS), con test clinici specifici e completata con polisonnografia, al fine di ridurre le complicanze peri- e postoperatorie. La prevalenza di OSAS infatti, nei pazienti in attesa di chirurgia bariatrica è circa del 75%; il 30% ha una sindrome grave.

A fini investigativi e scientifici può essere utile includere nello screening la

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BMI>35kg/m2 la bioimpedenziometria ha dimostrato considerevoli limiti, il metodo di riferimento è la DEXA.

Non è necessario uno screening preoperatorio per ipotiroidismo in tutti i pazienti. I soggetti con sospetta endocrinopatia tiroidea, paratiroidea o surrenale devono essere sottoposti a specifici esami di approfondimento.

È raccomandato eseguire un’esofagogastroduodenoscopia nei soggetti sintomatici o con un’anamnesi positiva per ulcera, gastrite, duodenite, malattia da reflusso e tumori dell’apparato digerente, che non abbiano eseguito un’indagine endoscopica recente, allo scopo di ridurre il rischio di aggravamento di stati patologici preesistenti e misconosciuti.

L’ecografia addominale è indicata per valutare malattie biliari sintomatiche o alterazioni degli esami epatici di laboratorio. La cirrosi in stato avanzato e l’ipertensione portale comportano un rischio peri operatorio maggiore inaccettabile e rappresentano una controindicazione all’intervento bariatrico. I pazienti con cirrosi lieve o moderata possono, invece, trarre vantaggio dalla chirurgia bariatrica e il tasso di complicazioni è accettabile.

La valutazione dietologica deve comprendere: cenni anamnestici in particolar modo riguardanti la familiarità e la storia dell’obesità (età di esordio, tipi di diete precedentemente seguite, uso di farmaci anoressizzanti o inibitori delle lipasi); verifica delle abitudini alimentari del paziente, attraverso la compilazione del diario alimentare settimanale e caratteristiche antropometriche quali: peso, altezza, BMI, circonferenza vita, rapporto vita/fianchi.

È indispensabile conoscere il dispendio energetico a riposo (REE) del paziente per calcolare la quantità di calorie necessarie per lo svolgimento delle funzioni vitali ai fini di impostare un piano dietetico mirato alle esigenze nutrizionali individuali.

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30

2.2

DESCRIZIONE

DELLE

PRINCIPALI

TIPOLOGIE

D’INTERVENTO

Gli interventi chirurgici attualmente in uso, sostenuti da studi comprendenti casistiche molto ampie e da un follow-up adeguatamente prolungato (3) sono i seguenti:

1)

Interventi che limitano l’introduzione del cibo: a) interventi ad azione meccanica (restrittiva):

 Bendaggio Gastrico Regolabile  Gastroplastica Verticale

b) interventi ad azione sia meccanica (restrittiva) sia funzionale

(anoressizzante):

 Sleeve gastrectomy

Bypass Gastrico

2)

Interventi ad azione malassorbitiva:

 Diversione biliopancreatica classica secondo Scopinaro  Diversione biliopancreatica con Switch Duodenale

Uno dei criteri di valutazione di successo della tipologia di intervento bariatrico è basato sull’entità del calo ponderale in Kg. Il parametro da considerare per definire un risultato bariatrico positivo è rappresentato dalla riduzione percentuale del peso in eccesso, tenendo conto del peso iniziale, idealmente superiore al 50%. Un altro tipo di valutazione più severa (valutazione di Reinhold), tiene conto dell’entità del sovrappeso perso, esprimendo il successo o insuccesso in base al risultato finale, in relazione al sovrappeso residuo. Il successo è confermato quando i pazienti presentano un sovrappeso residuo, al follow-up, inferiore al 50%, esenti quindi dai rischi di comorbidità legati all’obesità. Un sovrappeso inferiore al 50% corrisponde approssimativamente ad un B.M.I inferiore a 35 kg/m² (7). Per quanto riguarda il calo ponderale, i dati riportati dal Registro S.I.C.O.B sono concordi con quelli della letteratura internazionale. La perdita di

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31

peso medio e il mantenimento del peso perso a 5 e 9 anni, aumenta progressivamente con le seguenti procedure: bendaggio gastrico regolabile (45% in media), gastroplastica verticale (54% in media), bypass gastrico (58% in media) e diversione biliopancreatica (66% in media). Al contrario, la complessità chirurgica ed i rischi operatori possibili e metabolici a lungo termine diminuiscono in ordine inverso (2).

I pazienti arruolati in questo progetto di tesi, sono sottoposti ad una delle seguenti tipologie di intervento: la Sleeve gastrectomy o il Bypass gastrico.

La Sleeve gastrectomy

La Sleeve gastrectomy (gastrectomia a manica) è un intervento parzialmente restrittivo che consiste nella sezione dello stomaco con rimozione di circa i 2/3 di esso. La sezione avviene parallelamente alla piccola curva in modo da creare uno stomaco residuo di forma tubulare di un volume di circa 100-150 ml. L’intervento mira a ridurre drasticamente la quantità di cibo che può essere ingerita e provoca un senso di sazietà precoce. Tuttavia, la rimozione di una parte significativa dello stomaco e/o la modificazione della velocità di transito gastrico causano anche modificazioni della secrezione di entero-ormoni coinvolti nella regolazione del bilancio energetico e del metabolismo glucidico. Il fondo in particolar modo, è responsabile della produzione di grelina, uno degli ormoni che genera il senso di fame. La riduzione dei livelli di questo ormone che si osserva dopo l’intervento, determina un calo dell’appetito. L’intervento è stato inizialmente introdotto come primo tempo di interventi successivi più complessi (duodenal switch) nei pazienti con gravi problemi cardio-respiratori e con BMI elevati, ma viene oggi proposto anche e prevalentemente come intervento isolato. La mortalità operatoria è circa dello 0,2% ed è specificamente sostenuta dalla creazione di fistole lungo la lunga sutura gastrica. Le principali complicanze postoperatorie specifiche sono rappresentate dalla dilatazione dello stomaco residuo e reflusso gastro-esofageo. I risultati in termini di calo ponderale sono valutabili intorno al 60% dell’eccesso di peso. I primi risultati a lungo termine sono buoni, ma vi è un significativo numero di casi in cui si verifica ripresa ponderale ed in cui può essere richiesto il completamento dell’intervento mediante una procedura di revisione (2,3),figura 1.

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Figura 1. Anatomia dello stomaco dopo Sleeve gastrectomy

(gastrectomia a manica)

www.bariatrica.it

Il bypass gastrico

Il Bypass Gastrico è un intervento ad azione prevalentemente funzionale che abbina un’importante restrizione gastrica e una riduzione dell’assorbimento di nutrienti dovuta ad una esclusione di parte dell’intestino. L’intervento consiste nella creazione di una piccola tasca gastrica della capacità di circa 20 ml che viene anastomizzata, ovvero messa in comunicazione e collegata direttamente all’intestino tenue all’altezza del digiuno (la 2° parte del tenue) per formare la cosiddetta ansa digiunale che può avere lunghezze diverse da un soggetto ad un altro. Si ottiene in questo modo la tasca gastrica che consente di introdurre quantità limitate di cibo, ottenendo un precoce senso di sazietà. Il cibo non transita lungo tutto l’intestino ma oltrepassa (bypassa) gran parte dello stomaco, il duodeno ed il primo tratto dell’intestino tenue. Nel bypass gastrico non viene asportata nessuna parte dello stomaco o dell’intestino. Dopo l’intervento il calo ponderale è in media pari al 65-80% del peso in eccesso nei primi 24 mesi con un

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mantenimento superiore al 50% nel lungo termine. Il calo ponderale avviene in parte mediante un meccanismo restrittivo, ma anche a seguito di una modificazione della secrezione degli entero-ormoni ad azione regolatoria. Un sintomo post clinico tipico di questo intervento chirurgico è la sindrome da svuotamento gastrico, che compare 10-20 minuti dopo il pasto a causa di una rapida inondazione del digiuno, con distensione dell’ansa intestinale. Questo fenomeno può contribuire al rapido calo ponderale che si osserva entro il primo anno. Non vi è un significativo malassorbimento per i macronutrienti (lipidi, glicidi, protidi) ma vi è un certo grado di malassorbimento per alcuni micronutrienti (calcio, ferro e vitamina B12). Le complicanze operatorie gravi si aggirano intorno al 2% e la mortalità operatoria è circa dello 0,5%. Le principali complicanze post-operatorie specifiche sono rappresentate da fistola anastomotica (1%), stenosi anastomotica (1,5%), ulcera anastomotica (3%), ernie interne (3%). Le possibili complicanze nutrizionali sono rappresentate da anemia multifattoriale (più frequentemente microcitica sideropenica) e da osteoporosi/osteomalacia. La prevenzione delle complicanze nutrizionali richiede un supplemento vitaminico e minerale adeguato alle necessità del paziente. I risultati in termini di calo ponderale sono valutabili intorno al 55-65% dell’eccesso di peso ed è rapido nel primo anno. Le modificazioni della secrezione di ormoni dell’asse entero-insulare inoltre permettono un rapido e specifico effetto di miglioramento del compenso metabolico nel paziente con DMT2. Nel corso degli ultimi 30 anni sono state introdotte molte tecniche per la sua realizzazione, quella più frequentemente utilizzata è il bypass gastrico Roux en-Y, così chiamata per la forma a Y che assume il nuovo circuito digestivo (2,3), figura 2.

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Figura 2. Anatomia dell’apparato gastro-intestinale

prima e dopo Bypass gastrico

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2.3 APPROCCIO LAPAROSCOPICO VS LAPARATOMIA

Negli anni novanta è stata introdotta la possibilità di eseguire l’intervento per “via laparoscopica”: tale procedura prevede l’utilizzo di strumenti chirurgici miniaturizzati e telecamere attraverso i quali si effettuano 3 piccole incisioni da 0,5 a 2 cm di diametro nella zona addominale. In questo modo è possibile ridurre la durata della degenza ospedaliera, ridurre il dolore postoperatorio, il rischio di complicazioni respiratorie e a livello della ferita (infezioni, ernie); inoltre viene evitata la cicatrice laparotomica, migliorando in questo modo il risultato estetico (60).

In uno studio di revisione (61) di 3464 casi di pazienti operati con la laparoscopia rispetto a 2771 pazienti operati con la laparotomia, è stata osservata la seguente incidenza di complicanze (tabella 2):

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Tabella 2. Complicanze peri-operatorie più comuni dopo Bypass gastrico.

% di Pazienti

Complicanze Laparoscopia Laparotomia p

Embolia polmonare 0,41 0,78 0,09

Rottura dell'anastomosi 2,05 1,68 0,31

Ostruzione intestinale 1,73 2,11 0,02

Emorragia

gastrointestinale 1,93 0,6 0,008

Infezione della ferita 2,98 6,63 <0,001

Stenosi dello stoma 4,73 0,67 <0,001

Ernia ventrale 0,47 8,58 <0,001

Polmonite 0,14 0,33 0,24

Morte 0,23 0,87 0,001

Come si osserva in tabella, la complicanza perioperatoria immediata più comune della tecnica laparoscopica è l'infezione della ferita chirurgica (3%), mentre con la laparotomia è più del doppio (7%). La percentuale di polmonite perioperatoria è più del doppio con la laparotomia rispetto alla laparoscopia (0,33% vs 0,14%). La complicanza perioperatoria più tardiva con la laparoscopia è la stenosi dello stoma (5% vs 0,7%), mentre la complicanza perioperatoria tardiva più frequente con la laparotomia è l'ernia postincisionale (9% vs 0,5%). Si nota che la mortalità totale osservata nel gruppo sottoposto a laparotomia è di circa 4 volte superiore rispetto al gruppo laparoscopico (0,87% vs 0,23%). Un 3-5% dei pazienti programmati per l'intervento laparoscopico si operano invece a cielo aperto (“converters”); la metà di queste conversioni del tipo di intervento chirurgico (48,7%) sono dovute ad una marcata epatomegalia, che limita tecnicamente la visione del giunto gastro-esofageo con la laparoscopia. L'aumento volumetrico del fegato di pazienti obesi patologici è associato a steatosi e coinvolge anatomicamente tutto il fegato, incluso il lobo sinistro (figura 8), impedendo così la libera osservazione laparoscopica dell'area gastro-esofagea e andando a compromettere l'esito dell'intervento bariatrico. Questo potrebbe causare un aumento delle difficoltà dell'intervento laparoscopico non solo per la sicurezza dell'esecuzione, ma anche per il rischio di emorragie gravi da trauma. Il fegato fibro-adiposo può sanguinare più facilmente durante l'operazione o anche andare incontro a rottura. Pertanto la

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