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Studio tromboelastografico dell'efficacia di acido tranexamico per via sistemica in chirurgia protesica ortopedica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Scuola di Specializzazione in Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore Direttore: Prof. Francesco Forfori

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

“STUDIO TROMBOELASTOGRAFICO DELL’EFFICACIA DI ACIDO

TRANEXAMICO PER VIA SISTEMICA IN CHIRURGIA PROTESICA

ORTOPEDICA”

Relatori:

Prof. Francesco Forfori Dr. ssa Manuela Nicastro

Candidato:

Dr. Manuela Moretti

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INDICE

 Emostasi

pag. 3

 Tromboelastogramma

pag. 11

 Acido tranexamico in chirurgia protesica

pag. 19

 Studio

pag. 24

Scopo dello studio

pag. 24

Materiali e metodi

pag. 26

Analisi statistica

pag. 28

Risultati

pag. 28

Discussione

pag. 34

Conclusioni

pag. 36

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EMOSTASI

Quando un vaso sanguigno viene danneggiato, una serie di meccanismi vengono messi in azione con il fine di arrestare prima possibile la fuoriuscita di sangue dal vaso; l’arresto della perdita avviene tramite un blocco, o tappo emostatico, il quale, una volta riparata la parete del vaso, viene rimosso, ripristinando quindi lo status iniziale. Questa complessa serie di meccanismi che provvedono alla formazione del blocco, all’arresto della perdita, alla riparazione ed alla rimozione

del blocco vengono definiti EMOSTASI. E’ possibile suddividere

schematicamente il processo emostatico in:

 Fase vascolare

 Fase piastrinica

 Fase plasmatica

Tale suddivisione riflette sostanzialmente i tre meccanismi messi in atto dal nostro organismo per garantire l’emostasi: in pratica, quando un vaso si rompe, si osserva innanzitutto una vasocostrizione, cioè un restringimento del vaso finalizzato al limitare la quantità di sangue in uscita; immediatamente viene attivato il sistema di richiamo ed aggregazione delle piastrine, le cellule del sangue specializzate per il loro ruolo di formazione di blocchi emostatici; infine sono attivate una serie di molecole (proteine ed enzimi) che formano un vero e proprio tappo emostatico, consentono la riparazione del vaso e si occupano infine della disgregazione del tappo ormai inutile.

Fase vascolare: primo ed immediato tentativo che il vaso realizza per

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4 stimola, in caso di lesione, una immediata vasocostrizione, che in realtà non riesce di per sé a bloccare in modo efficace la fuoriuscita di sangue. Tuttavia, la riduzione del calibro del vaso lesionato è un fenomeno importante, che viene stimolato anche nelle fasi successive (ad esempio le piastrine attivate rilasceranno sostanze in grado di stimolare continuamente la vasocostrizione), e contribuisce in modo sostanziale al processo di arresto della perdita. In ogni caso, il danneggiamento del vaso risulta il momento scatenante di tutto il processo emostatico; in particolare, la parete vascolare è ricca di sostanze che, se rilasciate, costituiscono un potente stimolo all’attivazione ed all’aggregazione piastrinica: il fattore di von Willebrand (vWF), il trombossano A2 (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); in opportune condizioni il vaso danneggiato rilascia anche il Fattore Tissutale (TF), un attivatore fondamentale della fase plasmatica.

Fase piastrinica: può essere schematicamente suddivisa in:

 Adesione delle prime piastrine nel sito danneggiato

 Attivazione delle piastrine adese

 Rilascio di segnali chimici contenuti nelle piastrine attivate

 Cascata di attivazione di altre piastrine stimolata dal rilascio dei segnali chimici

 Aggregazione piastrinica

L’adesione delle piastrine avviene grazie alla loro adesività al collagene (una proteina presente nella parete dei vasi che viene esposta in seguito alla rottura del vaso) che avviene tramite un recettore situato sulla membrana delle piastrine, il cosiddetto Ia/IIa. Anche il fattore di von Willebrand (vWF) è importante per l’adesione piastrinica: il vWF funge da ponte molecolare, legando con una parte della molecola il collagene e con un’altra parte un recettore presente sulla

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5 membrana delle piastrine (il recettore Ib). Il legame di queste prime piastrine al collagene (tramite il recettore Ia/IIa) ed al vWF (che a sua volta fa da ponte per l’ulteriore legame al collagene) provoca una deformazione della struttura tridimensionale delle piastrine; tale modificazione facilita l’ulteriore aggregazione delle piastrine tra loro e soprattutto stimola la cosiddetta reazione di rilascio. La reazione di rilascio consiste sostanzialmente nel rilascio nell’ambiente esterno alle piastrine di alcuni mediatori chimici contenuti all’interno di granuli. I mediatori chimici sono diversi, ma i più importanti sono il trombossano A2 (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); si tratta di mediatori cosiddetti autocrini, che cioè vengono rilasciati da un tipo cellulare (in questo caso le piastrine) e servono per stimolare lo stesso tipo cellulare. In pratica queste molecole servono ad auto-stimolare le piastrine, amplificando la loro attivazione e la loro aggregazione. Le piastrine così attivate esprimono sulla loro superficie un altro recettore, detto IIb/IIIa il quale lega un’altra molecola presente nel sito danneggiato: il fibrinogeno. Poiché ogni molecola di fibrinogeno può legare due recettori piastrinici IIb/IIIa, questo ulteriore ponte molecolare determina una vera e propria cascata esponenziale di aggregazione di nuove piastrine, che a loro volta vengono attivate, rilasciano i mediatori, esprimono il recettore e si aggregano in un ciclo che si ripete ed in pochi secondi rallenta fortemente la fuoriuscita del sangue dal vaso danneggiato.

Fase plasmatica: è il fenomeno che coinvolge una serie di molecole ed è

finalizzato alla trasformazione del fibrinogeno (una proteina solubile presente in grandi quantità nel circolo sanguigno) in un coagulo di fibrina, una trama densa di natura proteica che occlude completamente il sito di rottura del vaso. Naturalmente parte importante del fenomeno è rappresentata, a riparazione del

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6 vaso avvenuta, dalla successiva rimozione del tappo di fibrina, fenomeno noto come fibrinolisi, che si conclude con il ripristino della situazione iniziale (restitutio ad integrum). Una serie di meccanismi tiene costantemente sotto controllo questo potente sistema di formazione di tappi coagulativi, per evitare che l’attivazione della coagulazione avvenga quando non ce n’è bisogno, con conseguente formazione di occlusioni di vasi sanguigni. La fase plasmatica si caratterizza per il suo funzionamento “a cascata”. Una proteina viene attivata e la sua attivazione determina la trasformazione di una seconda proteina dalla forma inattiva alla forma attiva, a sua volta in grado di attivare una terza proteina e così via. La successione degli eventi è estremamente specifica, per cui la prima proteina non può attivare la terza. La catena di reazioni non avviene in soluzione ma solo su una superficie, come quella del vaso danneggiato che fornisce la base di appoggio necessaria per l’incontro di queste proteine e la loro attivazione a cascata. L’attivazione avviene in presenza di molecole coadiuvanti, dette cofattori come il Tissue Factor (TF) il quale in condizioni normali si trova nella parete dei vasi ma, esposto in seguito a lesione, svolge il suo ruolo di attivatore di un importante passaggio della cascata coagulativa, l’attivazione del fattore VII il quale, attivato, determina l’attivazione del fattore X. Il fattore X attivato, in presenza di calcio e fattore V attivato, trasforma il fattore II (o protrombina) in fattore II attivato (trombina); la trombina è responsabile della trasformazione finale del fibrinogeno in fibrina. E’ prassi comune individuare due cascate di eventi che possono portare alla coagulazione, dette via “intriseca” e via “estrinseca” che convergono poi in una via “comune”, quella che dal fattore X attivato porta alla trasformazione della protrombina in trombina la quale è l’effettore finale della trasformazione del fibrinogeno in fibrina. Secondo questo schema la via “intrinseca” avverrebbe sostanzialmente in vitro, quando il sangue

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7 viene a contatto con una superficie dotata di carica negativa (infatti viene detta anche attivazione attraverso la fase di contatto). Nella via intrinseca il fattore XII attivato attiva il fattore XI, il quale attiva il fattore IX il quale attiva infine il fattore X per confluire nella via comune già descritta sopra. La via estrinseca sarebbe invece la cascata coagulativa che si verifica in vivo, nell’organismo, in cui l’elemento chiave è la tromboplastina, una molecola costituita da una parte proteica (il Tissue Factor) e da una parte lipidica; la tromboplastina, rilasciata dal vaso danneggiato, attiva il fattore VII, il quale attiva il fattore X per convergere quindi nella via comune già descritta. Questa classica suddivisione nelle due cascate coagulative non spiega tuttavia alcune osservazioni come quella che pazienti con carenze congenite di fattore XII non mostrano disordini emorragici mentre al contrario difetti nel fattore IX determinano un quadro clinico particolarmente grave, pur trovandosi entrambi i fattori nella stessa linea diretta della cascata coagulativa; questo riscontro può essere spiegato grazie al fatto che il Tissue Factor può attivare esso stesso il fattore IX, saltando così l’attivazione da parte del fattore XII: questa ed altre osservazioni lasciano supporre che le due vie classiche della cascata coagulativa sono in definitiva solo suddivisioni schematiche ma che nella realtà il processo è “interlacciato” a più livelli. In condizioni fisiologiche dunque il Tissue Factor attiva il fattore VII il quale, attivato, provvede all’attivazione del fattore IX, il quale attiva il fattore X che, in presenza di fattore V trasforma la protrombina in trombina; l’amplificazione avviene anche grazie al fatto che il fattore VII è in grado di attivare il fattore X e che la trombina è in grado di attivare il fattore VIII (cofattore del IX), il fattore V (cofattore del X) ed il fattore XI che attiva anch’esso il fattore X. La repentina disponibilità di elevate quantità di trombina rende, quindi, possibile la trasformazione del fibrinogeno in fibrina. Il fibrinogeno è una proteina composta

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8 da tre sub-unità proteiche detta alfa, beta e gamma: l’unione di due di questi trimeri forma la molecola di fibrinogeno. La trasformazione del fibrinogeno nel coagulo di fibrina è un processo in tre tappe: in una prima fase la trombina opera una scissione proteolitica di alcuni segmenti del fibrinogeno, producendo due tipi di frammenti, il fibrinopeptide A ed il fibrinopeptide B e liberando i monomeri di fibrina i quali tendono a polimerizzare tra loro, unirsi cioè come i pezzi di un lego in cui ogni elemento ne lega altri due (seconda fase); in una terza fase il fattore XIII, attivato sempre dalla trombina, si occupa di stabilizzare i monomeri di fibrinogeno unendoli con legami chimici covalenti. Diverse molecole svolgono un ruolo anticoagulante. Innanzitutto la stessa fibrina svolge un ruolo di inattivatore della trombina, quindi man mano che il tappo coagulativo si forma aumenta anche lo stimolo allo spegnimento della cascata coagulativa. L’antitrombina è un’altra proteina in grado di inibire la trombina ma anche il fattore X attivato. Ancora, la proteina C della coagulazione, grazie anche all’intervento della proteina S della coagulazione, è in grado di operare un’inibizione sia sul fattore V attivato che sul fattore VIII. Infine, il TFPI (Tissue Factor Pathway Inibitor) è in grado, legando il fattore X attivato e portandosi nel sito di legame del Tissue Factor per il fattore X, di bloccare il complesso TF-fattore X. Una volta fermata l’emorragia attraverso la cascata coagulativa il vaso danneggiato viene riparato; in questa fase un’altra proteina, il plasminogeno, viene trasformato in plasmina per mezzo del cosiddetto fattore tissutale del plasminogeno t-PA. La plasmina è la proteina che degrada il coagulo di fibrina, provvedendo infine al completo ripristino della situazione precedente alla lesione vascolare. Si parla a questo punto di fibrinolisi.

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Sistema fibrinolitico: una volta attivato il meccanismo emostatico è bene che la

reazione si limiti all’area lesa iniziale e che cominci la successiva riparazione, con riproliferazione di cellule endoteliali sane. La digestione del coagulo di fibrina avviene ad opera della plasmina, un enzima che si forma dal plasminogeno, il proenzima inattivo, prevalentemente per azione del t-PA (attivatore tissutale del plasminogeno), che si libera in circolo sotto lo stimolo della trombina e di alcuni eventi fisiologici (occlusione venosa, sostanze vasoattive, esercizio fisico, iperpiressia…). Il tutto avviene sul coagulo di fibrina, dove il plasminogeno si trova legato mediante i recettori ad alta affinità e dove il t-PA si andrà a legare, promuovendo la proteolisi del plasminogeno in plasmina. Tuttavia, per prevenire una impropria o eccessiva generazione di plasmina, l’endotelio libera anche PAI-1, un inibitore specifico del t-PA, che si combina prontamente con il t-PA stesso; inoltre, l’attivazone del plasminogeno si limita, normalmente, a quello incorporato nel trombo primario. Altri attivatori del plasminogeno sono l’urochinasi, la callicreina ed altri attivatori tissutali endogeni presenti, praticamente, in tutti gli organi, ma in concentrazioni maggiormente significative, nell’utero e nella prostata. I vari attivatori del plasminogeno generano, dunque, plasmina, che provvederà alla progressiva idrolisi del fibrinogeno e della fibrina in piccoli peptidi noti come “prodotti di degradazione della fibrina” (FDP) con conseguente dissoluzione del trombo e ripristino della pervietà del lume vasale. L’attività proteasica della plasmina non è specifica, essendo in grado di scindere anche altri substrati, quali i fattori V ed VIII. Tuttavia la plasmina generata ed immessa nella circolazione generale viene rapidamente inattivata dalla formazione di complessi con l’α2-antiplasmina e poi rapidamente eliminata durante il passaggio attraverso il fegato. In conclusione, l’inizio e l’arresto per meccanismo emostatico sono processi essenzialmente del medesimo tipo, che procedono attraverso inerazioni

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10 tra fattori procoagulanti e proteolisi. Si tratta, inoltre, di processi unidirezionali per cui l’unico modo per ripristinare i livelli di proteine che vi partecipano è la loro sintesi de novo.

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LA TROMBOELASTOGRAFIA

L’indagine tromboelastografica è una metodica di valutazione delle capacità viscoelastiche del coagulo ematico, dalla sua formazione alla sua lisi, introdotta per la prima volta da Hartert, ad Heidelberg, in Germania, durante la Seconda Guerra Mondiale (1948) ma che entrò nella pratica clinica solo 25 anni più tardi ad opera di Kang a Pittsburgh, negli Stati Uniti. Le prime applicazioni della tromboelastografia avvennero nell’ambito della chirurgia addominale maggiore (trapianti di fegato in primis) e della cardiochirurgia (1) . Entrambi questi tipi di interventi sono infatti caratterizzati da una coagulopatia associata alla patologia di base ma anche iatrogenicamente indotta, che aggrava le perdite ematiche. Progressivamente abbandonata, per la scarsa riproducibilità della metodica e per il lungo tempo necessario all’analisi del campione, la tromboelastografia ha gradualmente riguadagnato campo in seguito all’evoluzione tecnologica del tromboelastografo e all’introduzione di un convertitore analogico in grado di tradurre il segnale elettromeccanico in un segnale elaborabile da un software, in modo da ridurre i tempi sia di esecuzione che di lettura del grafico e migliorandone la riproducibilità. Il tromboelastografo è stato modificato anche nelle sue dimensioni e, già da tempo, ha assunto il significato di “bedside monitor” nella routine clinica dei trapianti di fegato ed in cardiochirurgia (Fig. 1). Nel corso degli anni, le indicazioni cliniche all’uso della tromboelastografia si sono ampliate ad altre chirurgie, quali quella addominale maggiore, quella vascolare, quella urologica, quella ostetrica ed alla neurochirurgia e alla traumatologia ortopedica (2). Tutte le specialità chirurgiche descritte possono causare massive perdite ematiche legate all’atto chirurgico, dove la trasfusione di emocomponenti non è scevra da rischi di natura infettiva ed immunologica e

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12 l’obiettivo del clinico deve essere quello di ottimizzare e minimizzare l’uso degli emocomponenti. In questo senso il TEG consente un’analisi qualitativa e dinamica di quello che avviene nel processo coagulativo specifico, dalla formazione del coagulo alla lisi, evidenziando le specifiche alterazioni di ogni singola fase dell’intero processo e guidando alla terapia in modo mirato. Con questa metodica è possibile discriminare anche se il sanguinamento è dovuto ad una mancata emostasi chirurgica, ad una disfunzione piastrinica, ad anomalie delle proteasi della coagulazione o dei loro inibitori, oppure è associato ad un’eccessiva precoce fibrinolisi. I vantaggi teorici del TEG risiedono nella facilità di esecuzione dell’esame e nella celerità della lettura (circa 20 min.) dei risultati ottenuti. La pratica clinica del TEG negli ultimi dieci anni ha messo in evidenza le potenzialità dello strumento: si è rivelato infatti capace non solo di evidenziare situazioni di ipocoagulabilità, ma altresì stati di ipercoagulabilità legati a variazioni significative dei suoi indicatori quali R corto, MA ed α-angle aumentati (3) . Il TEG fornisce una rappresentazione grafica del processo emocoagulativo, dalla formazione del coagulo alla sua lisi. I principali componenti del tromboelastografo sono una cuvetta cilindrica riscaldata (37°C) dove si colloca con un’apposita pipetta una quantità nota di sangue (0,36ml); qui si immerge un pistoncino sospeso, connesso ad un filo di torsione; entrambi sono di materiale plastico monouso. La cuvetta oscilla con un angolo di torsione di 4° 45’ in 10 secondi (Fig. 2). Quando inizia il processo di coagulazione, con la formazione di fibrina , l’ago viene inglobato nel complesso fibrina-piastrine ed inizia ad oscillare in maniera solidale con l’oscillazione della cuvetta. Al momento di massima solidità del coagulo corrisponde la maggiore oscillazione dell’ago, che diminuisce quando inizia il processo che porta alla lisi dello stesso. L’oscillazione meccanica dell’ago viene tradotta da un trasduttore elettro-meccanico e quindi convertita in

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13 segnale analogico elaborato da un software e monitorizzato in tempo reale tramite computer. I campioni di sangue nativo intero possono essere modificati con aggiunta di reagenti al campione in vitro allo scopo di determinare se una possibile terapia possa essere efficace per una coagulopatia, per migliorare la velocità dell’analisi, oppure per invertire una condizione cinica (per es., eparinizzazione).

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Fig. 2 Rappresentazione schematica dei componenti del tromboelastografo

Queste tecniche prevedono l’aggiunta di reagenti al campione di sangue intero nativo: Attivatori (celite, caolino, fattore tissutale, trombina, DAPPTIN, ecc.) Neutralizzatori dell’eparina (eparinasi, protamina) Agenti di blocco delle piastrine (Reopro, Integrilin, Aggrastat, ecc.) Farmaci antifibrinolitici (acido ɛ-aminocaproico, acido tranexamico, aprotinina) I metodi TEG attivati da celite o caolino vengono utilizzati per ridurre il tempo di esecuzione di un campione TEG fino alla metà. Il caolino (silicato di alluminio idrato) attiva la via intrinseca della coagulazione tramite il fattore XII. L’eparinasi I, estratta dal flavobacterium heparinum, è un enzima che neutralizza in modo rapido e specifico le proprietà anticoagulanti dell’eparina; scinde l’eparina in piccoli frammenti inattivi senza influenzare la funzione di altri componenti del sangue coinvolti nella coagulazione. Una cuvetta con eparinasi riesce a neutralizzare circa 6 UI di eparina per ml di sangue. Nel caso in cui il sangue intero raccolto venga immesso

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15 in una provetta citrata, (contenente, cioè, citrato di sodio) il sangue nativo (0,34 µL) deve essere ricalcificato con 0,02 µL di CaCl2 (calcio cloruro) prima di essere immesso nella cuvetta e successivamente analizzato. Il tracciato TEG può essere analizzato qualitativamente o quantitativamente. I profili vengono interpretati facilmente, senza misurazione, per determinare le condizioni di iper-, ipo-coagulazione o coagulazione normale, e fibrinolisi. In ogni caso, utilizzando le misurazioni nonché gli intervalli e gli indici normali stabiliti, i profili possono esser quantificati in relazione al grado di anormalità.

I principali parametri misurati sono (Fig 3-5):

Il tempo di reazione R (r-time) (v.n. 3-8). Valuta la formazione della fibrina a partire dalla attivazione dei prodotti solubili ematici che coinvolgono la via del fattore tissutale e quella dell’attivazione da contatto. E’ misurato in min. ed è visualizzato come traccia rettilinea che avanza, in condizioni di normalità, alla velocità di 2 mm/min. La diminuzione dei fattori della coagulazione congenita, acquisita o iatrogenicamente indotta, provoca un prolungamento di R.

I farmaci che possono provocare un prolungamento di R sono gli anticoagulanti quali eparina, warfarina, dicumarolici. Il valore R misura anche la tendenza alla ipercoagulabilità ed in questo caso sarà accorciato rispetto ad i valori normali. Il tempo R rappresenta la porzione enzimatica della coagulazione.

Il tempo K o tempo di cinetica del coagulo (k-time) ( v.n. 1-3 min). Valuta l’interazione tra la fibrina e le piastrine. E’ una misura della velocità necessaria a raggiungere un determinato livello di forza del coagulo. K rappresenta il tempo trascorso dalla misurazione di R fino al raggiungimento di un livello fisso di

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16 stabilità del coagulo (ampiezza= 20mm). Può essere difficilmente valutabile nelle situazioni di elevata ipocoagulabilità (se l’ampiezza non raggiunge 20 mm K rimane indefinito), mentre in caso d’ipercoagulabilità esso diminuisce.

Angolo alfa (α-angle) (v.n. 55-78). È definito come l’angolo che si delimita alla deflessione della curva dopo la determinazione di R. Esso misura la rapidità dell’accumulo e della polimerizzazione di fibrina (rafforzamento del coagulo) e rappresenta il livello di fibrinogeno. E’ un valore da riferire, analogamente a K, all’interazione della fibrina con le piastrine. Si misura in gradi angolari; diminuisce nell’ipocoagulabilità mentre aumenta in caso di ipercoagulabilità e rispetto a K è più facilmente determinabile nelle situazioni di ipocoagulabilità.

Massima Ampiezza (MA) (v.n. 51-69). Valuta la consistenza del coagulo come indice massimo della forza dello stesso. Rappresenta la massima ampiezza verticale del tracciato misurata in mm. E’ una funzione diretta delle proprietà dinamiche massime del legame di fibrina e piastrine e rappresenta la funzione/aggregazione piastrinica. Valori elevati di MA sono indicativi di uno stato d’ipercoagulabilità. Indice di coagulazione CI. È un valore derivato da un valore definito 0, variando da -3 a +3. Il valore è un indice totale di tendenza all’ipo o all’ipercoagulabilità poiché correla tutti i parametri precedentemente descritti R, K, alfa, MA. Le condizioni di ipercoagulabilità, come il cancro o il monitoraggio della TVP, vengono rilevate ai valori di CI di +5 e superiori

La progressiva riduzione di ampiezza del tracciato indica la lisi del coagulo ad opera della plasmina. A livello dell’apparecchio il processo viene percepito come

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17 una diminuzione del numero di oscillazioni dell’ago il quale diventa meno solidale al coagulo. La riduzione di consistenza del coagulo viene espressa come percentuale di lisi a 30’ o a 60’ ossia come indice LY30 (v.n. 0-8) o LY60.

La condizione di ipercoagulabilità è espressa soprattutto da un elevato valore di MA e da un incremento dell’ampiezza dell’α-angle, espressione di una cinetica coagulativa globale rapida.

Fibrinolisi primaria: è caratterizzata, dal punto di vista tromboelastografico, oltre che dal classico andamento a cipolla del tracciato, dalla carente attività piastrinica, espressa da un MA ridotto, e dalla evidente riduzione di ampiezza del tracciato dopo 30 min, come documentato da un valore di LY30 enormemente più elevato rispetto al range di normalità.

Fibrinolisi secondaria: è caratterizzata da una situazione ipercoagulativa e si manifesta con una elevata coagulazione iniziale, espressa da valori di formazione del coagulo abbastanza buoni mentre, il fenomeno di retrazione del coagulo è espresso da un valore LY30 elevato (12,5%). È proprio quest’ultimo parametro che ci permette di distinguere lo stato di ipercoagulabilità dalla fibrinolisi secondaria.

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Fig 3 Tracciato tromboelastografico

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ACIDO TRANEXAMICO IN CHIRURGIA PROTESICA

ORTOPEDICA

L’acido tranexamico, derivato sintetico della lisina, analogo dell’acido ɛ-aminocaproico ha elevata attività fibrinolitica (circa dieci volte maggiore dell’acido ɛ-aminocaproico) (4,5) . E’ un inibitore reversibile del plasminogeno (a basse dosi, ad alte dosi la sua attività diventa irreversibile) e ne inibisce l’attivazione da parte sia di attivatori esogeni (es. streptochinasi) che endogeni (es. urochinasi). Somministrato per via endovenosa, raggiunge immediatamente il picco di concentrazione plasmatica, poi la sua concentrazione decade progressivamente nelle sei ore successive (T/2 tre ore). Si distribuisce nello spazio extravascolare e si accumula nei tessuti risultando efficace anche negli stati emorragici dovuti ad iperfibrinolisi locale. Viene escreto immodificato attraverso le urine in circa 24h dalla somministrazione in assenza di insufficienza renale, la sua permanenza nel torrente ematico risulta via via più lunga a seconda del grado di insufficienza renale del paziente (6). Mentre lo studio CRASH-2 (7) ha oramai creato un consenso collettivo sull’uso dell’acido tranexamico nel trauma, è ancora impossibile avere un consenso comune per il suo utilizzo in chirurgia elettiva. Una meta analisi del 2013 (8) ha riportato l’attenzione sull’efficacia di acido tranexamico in chirurgia elettiva in termini di riduzione delle perdite ematiche ma ha coinvolto un campione altamente eterogeneo di chirurgie (cardiochirurgia, chirurgia della mammella, chirurgia ortopedica, chirurgia del distretto testa-collo, chirurgia epatobiliare, chirurgia urologica, chirurgia ostetrico-ginecologica) e, di conseguenza, di tipologie di pazienti da rendere mal valutabile quanto della riduzione e del risparmio di emotrasfusioni fosse da imputare all’utilizzo del

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20 farmaco e quanto al tipo di chirurgia e alle caratteristiche dei pazienti. Per quello che riguarda l’utilizzo di acido tranexamico in chirurgia protesica ortopedica sono presenti in letteratura numerosi studi volti a dimostrarne l’efficacia nel ridurre le perdite ematiche e il numero di trasfusioni sia con l’utilizzo endovenoso che con l’irrigazione locale intraarticolare. Per quanto riguarda l’irrigazione locale, i principali studi (9, 10, 11) riportano una riduzione delle perdite ematiche, delle trasfusioni e valori di emoglobina più alti rispetto ai controlli. E’ interessante notare come nello studio di Gomez-Barrena et al, in cui l’irrigazione locale viene confrontata con la somministrazione endovenosa, si affermi che non vi è alcuna differenza in termini di quantità di perdite ematiche, livello di emoglobina, numero di emotrasfusioni e rischio di complicanze tromboemboliche tra i due gruppi a sottolineare come, nella protesi di ginocchio, in cui a causa dell’utilizzo del tourniquet si ha intensa attivazione della fibrinolisi locale, basterebbe bloccare la situazione locale per avere ripercussioni positive anche sul quadro sistemico. Sulla somministrazione endovenosa di acido tranexamico tutti gli studi esistenti concordano sull’efficacia nella riduzione delle emotrasfusioni e delle perdite ematiche, mentre è ancora controversa la sua sicurezza nell’utilizzo in termini di aumento dei fenomeni trombo embolici. Ekbäck et al (12), nel 2000, hanno valutato la riduzione di perdita ematica nella protesi d’anca in uno studio doppio ceco prospettico randomizzato che ha coinvolto 40 pazienti: si è avuta riduzione di perdite ematiche e del numero di emotrasfusioni ma il gruppo trattato con acido tranexamico ha presentato un 25% in più di trombosi venosa profonda rispetto al gruppo di controllo. Una meta analisi del 2011 (13) ha confrontato undici studi che prevedevano l’impiego di acido tranexamico nella protesi di anca: c’è stata riduzione di perdite ematiche e di emotrasfusioni senza differenze nel numero di casi di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare in tutti gli studi

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21 analizzati. Un’altra meta analisi, del 2013 (14), ha confrontato diciannove studi randomizzati sull’utilizzo di acido tranexamico nella protesi di anca: anche in questo caso si è avuta riduzione delle perdite ematiche e delle trasfusioni ed una minore riduzione dei livelli di emoglobina ed ematocrito rispetto ai pazienti trattati con placebo; da questa meta analisi si evince, in oltre, che anche se il gruppo con acido tranexamico ha avuto un numero maggiore di embolie polmonari, il rischio di svilupparla è uguale nei due gruppi. Questa meta analisi, in oltre, mette in evidenza come non ci sia consenso unanime sul dosaggio e sul timing della somministrazione (Tab 1).

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22 Un grande studio retrospettivo del 2014 (15) ha osservato 872416 pazienti di 510 ospedali USA sottoposti ad intervento di protesi di anca o ginocchio, suddivisi in quattro gruppi (no acido tranexamico, 1g di acido tranexamico, 2g di acido tranexamico e 3 g di acido tranexamico): nei pazienti in cui è stato somministrato acido tranexamico, indipendentemente dal dosaggio, si è avuta riduzione del numero di emotrasfusioni senza aumento del rischio di sviluppo di complicanze tromboemboliche. Uno studio prospettico osservazionale del 2014 (16) ha osservato 1595 pazienti sottoposti a protesi di anca tra il 2009 e il 2013 suddivisi in tre gruppi (no acido tranexamico, somministrazione endovenosa di acido tranexamico ed irrigazione locale con acido tranexamico) valutando per ogni gruppo la percentuale di pazienti trasfusi: nel gruppo che non prevedeva uso di acido tranexamico (1047 pazienti) è stato trasfuso il 19% dei pazienti, nel gruppo che prevedeva la somministrazione endovenosa (478 pazienti) è stato trasfuso il 5% dei pazienti, nel gruppo che prevedeva l’irrigazione locale (70 pazienti) è stato trasfuso il 12% dei pazienti. Non ci sono state differenze nell’incidenza di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare. Nel 2015 uno studio retrospettivo (17) della Mayo Clinic ha osservato 2100 pazienti sottoposti ad intervento di protesi di anca o ginocchio ed ha rilevato che nei pazienti in cui è stato somministrato acido tranexamico si è avuta riduzione di emotrasfusioni indipendentemente dal valore di emoglobina preoperatorio; questo studio non ha però osservato l’incidenza di fenomeni tromboembolici. E’ da notare che, in tutti questi studi, non è presente un valore di emoglobina al di sotto del quale i pazienti vengono trasfusi, probabilmente perché, trattandosi per lo più di meta analisi coinvolgenti molti centri e grandi numeri ogni centro segue suoi protocolli interni per stabilire il valore a cui trasfondere (Tab 2). Dalla letteratura più recente si può quindi dedurre che l’acido tranexamico è efficace nel ridurre le perdite ematiche

(23)

23 ed il numero di emotrasfusioni in chirurgia protesica ortopedica mentre ancora non c’è unanimicità sulla sua sicurezza in termini di numero di eventi tromboembolici osservati.

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24

SCOPO DELLO STUDIO

Si stima che la patologia artrosica colpisca circa il 10% della popolazione di età superiore ai 70 anni con sintomatologia invalidante e, di conseguenza, notevole abbassamento della qualità della vita. Ogni anno, in Italia, vengono eseguite 99497 protesi totali di anca e 67365 protesi totali di ginocchio (18) . La popolazione di pazienti candidata ad intervento di protesizzazione totale articolare, è, nella maggioranza dei casi, una popolazione anziana (picco tra i 68 e i 75 anni), prevalentemente femminile, con numerose comorbidità tipiche della popolazione in esame (aterosclerosi, ipertensione arteriosa, cardiopatia, sindromi ostruttive polmonari, diabete, insufficienza renale, epatopatia, demenza, ictus, tia, obesità di ogni grado). Per quanto riguarda l’assetto emocoagulativo è necessario ricordare che con l’invecchiamento il bilancio emostatico si sposta in senso pro trombotico (aumento del fibrinogeno plasmatico, Fattore VII, Fattore VIII, fibrinopeptide A, PAI-1, aumentata attivazione piastrinica in vivo, modificazioni della funzionalità piastrinica legate a cambiamenti della composizione lipidica delle membrane) (19) e che generalmente gli interventi di artroprotesi sono a medio-alto rischio emorragico quindi è necessario dosare con precisione gli interventi volti a minimizzare la perdita ematica in una popolazione di base tendente all’ipercoagulabilità al fine di assicurare una corretta delivery dell’ossigeno, ridurre il numero di emotrasfusioni, ridurre il rischio di sviluppo di complicanze tromboemboliche (TVP, embolia polmonare, stroke, ima) e consentire così una più rapida ripresa e mobilizzazione del paziente. Tra le strategie volte a minimizzare la perdita ematica oltre all’emostasi chirurgica e pneumatica negli anni si è fatto strada l’utilizzo dell’acido tranexamico somministrato sia localmente che per via sistemica. Nel reparto di Ortopedia I

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25 dell’Università degli Studi di Pisa è utilizzato, per il paziente sottoposto ad artrtroprotesi, un protocollo interno che prevede la somministrazione di acido tranexamico (20, 21) alla dose di 15mg/Kg prima dell’incisione chirurgica (se PTA) o al rilascio del tourniquet (se PTG) seguita dall’infusione lenta di 1g di acido tranexamico nelle sei ore successive all’intervento chirurgico. Scopo del nostro studio è verificare se ci sia un’effettiva necessità di inibizione della fibrinolisi in questa categoria di pazienti attraverso lo studio tromboelastografico su sangue intero eseguito prima e al termine dell’intervento, la percentuale di eventi trombo embolici, il numero di emotrasfusioni e la perdita ematica nelle prime 24h.

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MATERIALI E METODI

Sono stati selezionati 32 pazienti candidati ad intervento di artroprotesi (14 PTA, 18 PTG, 9 M, 23 F, età media 70 anni, 9 ASA 2, 23 ASA 3, Tab 3-4) tra il marzo ed il maggio 2017 presso le cliniche Ortopediche I e II dell’Università degli Studi di Pisa. I pazienti sono stati poi suddivisi in due gruppi: i casi (5 PTA, 11 PTG) in cui veniva somministrato dagli ortopedici l’acido tranexamico sia localmente che per via sistemica secondo il protocollo prima descritto e i controlli (9 PTA, 7 PTG) in cui non veniva somministrato acido tranexamico per via sistemica. Per ognuno di questi pazienti è stata eseguita l’analisi tromboelastografica con apparecchio Haemoscope thrombelastograph® Haemostasis Analyzer ( TEG® ) modello 5000, software V.4 presso il reparto di Anestesia e Rianimazione V dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana prima dell’inizio e alla fine dell’intervento chirurgico. Per eseguire (22, 23) l’indagine tromboelastografica sono stati prelevati 4 ml di sangue intero venoso del paziente; di questi, 3.6 ml sono stati immessi in una provetta contenente citrato di sodio, in modo da bloccarne il processo coagulativo (a causa della lontananza del macchinario dal punto di prelievo) ed analizzate entro un’ora dal prelievo (T medio 27 minuti). Successivamente, dopo esecuzione del test di corretto funzionamento dell’apparecchio e della correzione sulla temperatura del paziente, 1 ml di sangue nativo citrato è stato prelevato ed immesso in una provetta contenente caolino con la funzione di accelerare il processo coagulativo. A questo punto, per mezzo di una pipetta graduata sono stati prelevati 340µl di sangue che sono stati trasferiti all’interno di una cuvetta in cui erano stati precedentemente aggiunti 20µl di calcio cloruro, quantità aggiustata per 340 µl di sangue precedentemente citrato, per antagonizzare l’attività del sodio citrato. Si è dato, quindi, il via all’analisi

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27 tromboelastografica che, è stata sempre eseguita utilizzando la cuvetta semplice (bianca) nei pazienti che non eseguivano profilassi antitrombotica preoperatoria e la cuvetta con eparinasi (blu) nei pazienti per cui era prevista profilassi antitrombotica preoperatoria, con lo scopo di annullare eventuali interferenze operate dalla presenza di eparina derivante dalla profilassi. Per ogni paziente sono stati poi valutati il tipo di anestesia eseguita, il carico volemico intraoperatorio, la perdita ematica intraoperatoria, la perdita ematica nelle prime 24h, gli eventi tromboembolici e le emotrasfusioni eseguite durante il ricovero ospedaliero. In oltre, per quanto riguarda l’esame TEG eseguito preoperatoriamente i dati sono stati confrontati con l’esame standard della coagulazione eseguito durante la preospedalizzazione dei pazienti (PT, INR, aPTT). Non è stato eseguito confronto con i reperti TEG postoperatori perché i protocolli postoperatori ortopedici non prevedono l’esecuzione dell’esame standard della coagulazione.

Maschi Femmine PTA PTG ASA 2 ASA 3

9 23 14 18 9 23

Tab 3 Caratteristiche della popolazione reclutata nello studio

Comorbidità Numero di pazienti

Ipertensione arteriosa 19/32 BPCO 1/32 Fibrillazione atriale 3/32 Diabete mellito 7/32 Pregresso IMA 2/32 Obesità 8/32

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28

ANALISI STATISTICA

Per la nostra analisi statistica sono stati utilizzati il Test t di Student, il test del Χ 2 , il test di Shapiro ed il test U di Mann-Whitney.

RISULTATI

Nei 16 pazienti in cui è stato somministrato acido tranexamico non si è osservato uno stato di iperfibrinolisi primaria al tromboelastogramma né al basale né dopo la procedura chirurgica (lys 30 medio basale 0.1, lys 30 medio postoperatorio 0.5, p 0.408 Tab 5). Nei pazienti nel gruppo di controllo non si sono avuti segni di iperfibrinolisi primaria né al basale, né nel postoperatorio (lys 30 medio basale 0.7, lys 30 medio postoperatorio 0.56, p 0.707 Tab 6). Nel gruppo dei pazienti con somministrazione di acido tranexamico endovenoso 4 pazienti presentavano al tromboelastogramma basale un quadro di ipercoagulabilità (MA > 68 come oramai stabilito da numerosi consensi internazionali Tab 7), nel gruppo dei controlli 3 pazienti avevano segni tromboelastografici di ipercoagulabilità. Nessuna differenza è stata riscontrata nei due gruppi nelle variazioni della coagulazione dovuti all’età (p 0.21), al BMI (p 0.13), ai fluidi intraoperatori somministrati (p 0.44), al diverso tipo di chirurgia protesica a cui sono stati sottoposti (anca o ginocchio) (test U di Mann-Withney senza significatività

(29)

29 statistica) e al diverso tipo di anestesia somministrata (generale o neuroassiale) (p 0.4). Il sanguinamento intraoperatorio (in termini di ml di sangue presenti nel reservoir dell’aspiratore al termine della procedura) non è significativamente diverso tra i due gruppi (perdita media nei pazienti in cui è stato somministrato acido tranexamico 275 ml, perdita media nei pazienti in cui non è stato utilizzato acido tranexamico endovenoso 290 ml, p 0.056, Tab 8-9). Il sanguinamento a 24 ore dal termine della chirurgia (in termini di ml di sangue presenti nel drenaggio chirurgico) è stato più alto nel gruppo dei pazienti a cui è stato somministrato acido tranexamico seppur con una differenza non statisticamente significativa (perdita media nei pazienti con acido tranexamico 247 ml, perdita media nei pazienti in cui non è stato somministrato acido tranexamico 193 ml, p 0.867, Tab 10-11). Per quello che riguarda le emotrasfusioni sono stati trasfusi più pazienti nel gruppo in cui è stato somministrato acido tranexamico endovenoso (9 contro 8 pazienti trasfusi nel gruppo senza somministrazione endovenosa di acido tranexamico). Si segnala nel gruppo dei casi un episodio di microembolia polmonare dimostrato alle immagini TC.

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30

Paziente Lys 30 preoperatorio Lys 30 postoperatorio

1 0.2 0 2 0 0 3 0.1 0 4 0.4 0 5 0.2 0 6 0 0.1 7 0 0 8 0 7.5 9 0.7 0 10 0.1 0 11 0 0 12 0 0.4 13 0 0.1 14 0 0 15 0 0.1 16 0 0

Tab 5 Valori di Lys 30 pre e postoperatori nei pazienti in cui è stato somministrato acido tranexamico endovenoso

Paziente Lys 30 preoperatorio Lys 30 postoperatorio

17 3.1 0.1 18 0.4 0 19 0 2.6 20 1.6 0.7 21 0.4 0 22 0 0 23 0 0 24 0 0 25 0.7 0.1 26 0.6 1.1 27 0.2 0.2 28 0.1 0.4 29 0.9 0 30 2.7 0.6 31 0 3.3 32 0.7 0

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31 Paziente MA preoperatorio 1 65.8 2 76.7 3 54.9 4 55.6 5 62.6 6 60 7 72.1 8 74.5 9 62.1 10 63.3 11 61.7 12 67.3 13 64 14 64.6 15 60 16 74.3 17 51.1 18 53.8 19 48.7 20 58.1 21 64.6 22 66.5 23 54.8 24 76.7 25 67.3 26 70 27 65.8 28 64.1 29 64.9 30 68.4 31 46.1 32 70

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32

Paziente Sanguinamento intraoperatorio (ml)

1 150 2 100 3 150 4 300 5 350 6 400 7 150 8 100 9 300 10 150 11 600 12 300 13 300 14 300 15 200 16 350

Tab 8 Sanguinamento intraoperatorio in ml nei pazienti a cui è stato somministrato acido tranexamico endovenoso

Paziente Sanguinamento intraoperatorio (ml)

17 400 18 300 19 100 20 300 21 500 22 300 23 300 24 400 25 600 26 500 27 200 28 150 29 400 30 200 31 150 32 200

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33 Paziente Sanguinamento a 24h (ml) 1 200 2 500 3 210 4 350 5 300 6 200 7 400 8 250 9 450 10 200 11 100 12 200 13 150 14 200 15 150 16 300

Tab 10 Sanguinamento a 24h dal termine della procedura chirurgica nei pazienti a cui è stato somministrato acido tranexamico Paziente Sanguinamento a 24 h (ml) 17 200 18 100 19 200 20 500 21 200 22 150 23 100 24 150 25 200 26 200 27 100 28 100 29 200 30 150 31 300 32 250

Tab 11 Sanguinamento a 24h dal termine della procedura chirurgica nei pazienti a cui non è stato somministrato acido tranexamico

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34

DISCUSSIONE

L’uso di acido tranexamico in chirurgia protesica è ormai consolidato da molti anni con evidenze in letteratura che asseriscono l’efficacia di riduzione delle emotrasfusioni e, di conseguenza la riduzione delle complicanze e del tempo di permanenza in struttura ospedaliera. E’ da ricordare, però, che in letteratura non c’è accordo sul valore di emoglobina al quale iniziare l’emotrasfusione, probabilmente perché, essendo studi prevalentemente multicentrici, ogni clinica ha un suo protocollo interno per le emotrasfusioni. Un’analisi qualitativa dell’assetto coagulativo dei pazienti con la tecnica del tromboelastogramma però, non è presente in nessuno studio che prende in considerazione l’utilizzo di questo farmaco in chirurgia protesica. Nonostante l’esiguo campione di pazienti preso in considerazione, si può dire che il paziente candidato a chirurgia protesica è, di base, un paziente con tendenza all’ipercoagulabilità verosimilmente a causa dell’età, del BMI e della ridotta attività motoria dovuta alla patologia artrosica: questo concorda con quanto detto da linee guida e consigli societari sulla necessità di eparinizzazione del paziente candidato a protesi ortopedica a partire da almeno 12 ore prima dell’intervento. L’analisi tromboelastografica, in questi pazienti, si può rivelare utile nel predirre quali, con più probabilità, andranno in contro a complicanze tromboemboliche e potrebbe essere utilizzata per calibrare la terapia eparinica sul singolo caso (è da notare, infatti, che l’unico paziente che ha sviluppato una microembolia polmonare aveva MA > 68 che è il cut off di predizione di possibilità di eventi tromboembolici e di infarto del miocardio, attraverso l’analisi teg routinaria si sarebbe potuto identificare precocemente, sottoporre a terapia eparinica preoperatoria ed evitare la somministrazione di acido tranexamico). L’analisi tromboelastografica consentirebbe, in oltre, di

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35 limitare la somministrazione di acido tranexamico ai pazienti in cui ci sia effettiva evidenza di uno stato iperfibrinolitico in atto: nel nostro studio, nonostante lo stress chirurgico e l’uso del tourniquet in chirurgia protesica del ginocchio, nessun paziente ha mostrato iperfibrinolisi nel pre e postoperatorio non necessitando quindi, in linea teorica, della somministrazione di acido tranexamico endovenoso, il nostro è, ovviamente, un campione non sufficientemente vasto da consentirci di estendere l’assunto a tutta la popolazione protesica. La somministrazione di acido tranexamico teg guidata consentirebbe una potenziale riduzione degli eventi tromboembolici sia a breve che a lungo termine. In accordo con la letteratura internazionale ci si aspettava una riduzione del sanguinamento e delle emotrasfusioni cosa che non è stata in quanto i pazienti a cui è stato somministrato acido tranexamico endovenoso hanno avuto maggiore quantità di perdite e di emoderivati trasfusi rispetto al gruppo di controllo. Questo probabilmente è dovuto ad una serie di limitazioni presenti nel nostro studio: l’esiguo numero di pazienti, l’operatore diverso per ogni intervento (e, di conseguenza, una diversa tipologia di emostasi chirurgica) per cui non è stato possibile dividere ulteriormente il gruppo in gruppi per operatore, i controlli dei livelli di emoglobina più serrati in pazienti selezionati che hanno portato ad una sua più rapida correzione con emotrasfusioni.

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36

CONCLUSIONI

La somministrazione di acido tranexamico andrebbe riservata a quei pazienti, sottoposti ad esame tromboelastografico, che presentino un quadro di fibrinolisi perioperatoria al fine di ridurre le perdite ematiche ed evitare il rischio di eventi tromboembolici somministrandolo a pazienti senza evidenza di fibrinolisi. La tromboelastografia potrebbe rivelarsi utile nell’identificare sotto popolazioni di pazienti candidati a chirurgia protesica che potrebbero necessitare di terapia eparinica più aggressiva nel perioperatorio poiché in grado di predirre l’aumentato rischio tromboembolico attraverso alcuni dei suoi parametri (MA e angolo α). L’esiguo numero di pazienti studiati, la diversità dell’operatore, i controlli dei valori di emoglobina non codificati secondo un preciso protocollo che tenga conto del “quando e come” eseguire il prelievo, la necessità di citrare il campione per lontananza dell’apparecchio (motivo per cui non abbiamo preso in considerazione il parametro R del tromboelastogramma) non consentono di poter trarre conclusioni definitive da questo studio. Si rende necessario procedere con il reclutamento di un numero maggiore di pazienti da suddividere per operatore, con la stesura di un protocollo che preveda un timing dei prelievi ematici uguale per tutti i pazienti, con l’assenza di citrato nel campione di sangue prelevato per poter avere dei dati definitivi ed estendere le caratteristiche tromboelastografiche a tutta la popolazione protesica in modo che, eventualmente, si vada verso un protocollo che riservi la somministrazione di acido tranexamico solo ai pazienti che presentino iperfibrinolisi e che la eviti a quei pazienti che presentino al tromboelastogramma valori tendenti all’ipercoagulabilità.

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