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Recensione a Luca Della Libera, La Musica
Sacra Romana di Alessandro Scarlatti
Domenico Passarelli
Luca Della Libera, La Musica Sacra Romana di Alessandro
Scarlatti, Merseburger Verlag, 2018.
In un a lettera indirizzata a Padre Martini nel 1746, il compositore Giro-lamo Chiti, allievo di Giuseppe Pitoni, riportando un parere del suo illustre maestro, divideva gli stili della musica sacra in due tronconi:
«Primo stile, che può essere suddiviso in “perfetto” (Palestrina e Benevoli) e “imperfetto, detto tollerabile” (Scarlatti e Gesualdo da Venosa). Secondo stile, “variabile, detto corrotto” che può essere suddiviso in “arbitrabile, detto defettuoso” e si riferisce a molti de’ nostri moderni compositori»
Quello che risulta essere un punto di notevole interesse è l’inusitato acco-stamento di Alessandro Scarlatti, il maestro palermitano che la vulgata, da Charles Burney in avanti, volle come iniziatore della “scuola napoletana” con quella di Gesualdo principe di Venosa. Non manca di illuminare, tra le altre cose, tale aspetto il nuovo puntuale lavoro di Luca della Libera (La
musica sacra romana di Alessandro Scarlatti, Merseburger verlag, 2018). Il
cenno allo stile sacro di Scarlatti, infatti, pone l’accento da un lato sulla sua assoluta rilevanza come compositore, appunto, di musica sacra, sconfessan-do l’idea di una preminenza della musica per teatro d’opera in quanto ad in-teresse e riuscita artistica nell’ambito del suo corpus (tesi nei confronti della quale della Libera è critico fin dall’Introduzione, anche in virtù dell’ampia diffusione manoscritta di questi lavori), dall’altro sul ruolo di irregolare che, in quell’ambito, il nostro dovette interpretare agli occhi dei contemporanei, soprattutto negli ambienti maggiormente conservatori. Se, dunque, le
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posizioni di Scarlatti sul versante profano già nel 1709, secondo la famosa lettera di Francesco Maria Zambeccari, dovevano apparire «difficilissime e cose da stanza, che in teatro non riescono», la storia della ricezione dei lavo-ri di musica sacra potrebbe esser stata, invece, decisamente diversa. Non si può non salutare, perciò, con il più vivo interesse un lavoro di sistematizza-zione generale di questa sesistematizza-zione del catalogo del compositore siciliano. In particolare, vista l’impossibilità di attribuire con certezza manoscritti di mu-sica sacra al periodo napoletano (fatta eccezione per uno soltanto, custodito presso la biblioteca napoletana dei Gerolamini), i lavori ascrivibili ai vari periodi romani di Scarlatti si presentano come fondamentali nel tentativo di stabilire caratteristiche e cifre comuni di tutta la sua produzione in questo ambito.
Il libro di Della Libera si propone di condurre un primo esame comples-sivo delle composizioni in oggetto e confrontarle con quelle di compositori attivi negli stessi ambienti e nello stesso periodo, cercando dunque una con-testualizzazione sia sul piano delle committenze che su quello delle caratte-ristiche stilistiche. Lo studioso procede in maniera rigorosa organizzando il materiale per contesti d’uso, facendo precedere inoltre ogni sezione da un paragrafo che sintetizza la storia della tradizione dei testi. Quello che sem-bra contraddistinguere lo Scarlatti sacro è un approccio decisamente ecletti-co che riesce a tener ecletti-conto delle esigenze di volta in volta sempre diverse dei committenti (da un massimo di conservatorismo individuabile nei lavori per Cappella Pontificia ad un minimo nel ciclo dedicato a S. Cecilia del 1720), senza abdicare alla propria cifra stilistica che vede nel contrappunto il momento centrale della riflessione musicale. Le possibilità formali a di-sposizione per un compositore di musica sacra tra fine ‘600 e inizio ‘700 e-rano varie e teoricamente sintetizzate nella trattatistica coeva: lo stile “more vetero”, quello più legato alla tradizione palestriniana e, appunto, frequenta-tissimo dai compositori che scrivevano per la Cappella Pontificia; lo stile pieno, omofonico e armonicamente regolare; lo stile concertato, con l’utilizzo oltre che delle voci anche di strumenti con condotte più o meno indipendenti da quelle; e infine, uno stile “alla moderna”, per poche voci e basso continuo con o senza altri strumenti concertati, territorio nel quale fi-no ad allora Giacomo Carissimi aveva raccolto i frutti più maturi. Proprio quest’ultimo dovette essere, in maniera più o meno diretta, un modello per
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Scarlatti, anche se Roberto Pagano, nel suo lavoro monografico, escludeva un rapporto di discepolato del giovane Scarlatti, a Roma, con il maestro di Marino (troppo anziano negli anni della gioventù del palermitano). lo stile concertato quello che risulta essere il preferito dal compositore siciliano, con sedici composizioni, sulle quattordici in stile “more vetero” destinate alla Cappella Pontificia. Come dimostrato puntualmente da Della Libera pe-rò, anche in queste ultime composizioni, se la cornice esteriore è quella del-la condotta equilibrata delle parti con soluzioni contrappuntistiche semplici, Scarlatti riesce ad introdurre numerosi elementi di espressività settecentesca nell’uso di dissonanze, ritardi e salti intervallari con funzioni retoriche (da qui evidentemente l’accostamento con Gesualdo ad opera del Pitoni). E-sempio efficacissimo di questo modo di procedere è il Miserere del 1708, per il quale, nella ricchissima appendice documentaria del libro di Della Li-bera (che costituisce uno dei motivi di particolare interesse della pubblica-zione) è riportato un gustosissimo episodio, proveniente dai Diari Sistini, re-lativo alla sua prima (e ultima) esecuzione, decisamente indicativo dell’impatto di composizioni che si discostavano dal repertorio tradizionale sui cantori della Cappella Pontificia: «Nel Miserere del Signor Scarlatti dal choro del canto fermo fu pigliata in un verso la voce un tono più basso (…) E perché nel secondo choro del canto figurato entrando insieme il tenore, e contralto, questi attaccò prima del tenore in tono del choro calato et il tenore non entrò finchè non sentì errato il Basso…»
Al polo opposto in termini di libertà concessa dal committente, tra gli e-sempi evidenziati da Della Libera risalta quello della celebrata Messa di
Santa Cecilia assieme al ciclo vespertino del 1720 sempre dedicato alla
san-ta. In questi lavori lo stile concertato diventa colossale, da un lato con veri e proprio elementi di policoralità declinati alla maniera del concerto grosso corelliano, dall’altro con i nuovi spazi che le parti strumentali si ritagliano andando a costituire nelle intenzioni del compositore dei cori del tutto auto-nomi. Il tutto incasellato in una struttura formale di grande complessità.
Il libro presenta anche un capitolo di taglio biografico con alcuni signifi-cativi aggiornamenti sui primissimi anni romani di Scarlatti, immediatamen-te successivi al trasferimento con la famiglia da Palermo, frutto di indagini negli Stati delle anime della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte.