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Dinamiche sociali interne ed esterne al carcere. Un'indagine sulla realtà della Casa di Reclusione di Massa

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sociologia

Tesi di Laurea Magistrale

Dinamiche sociali interne ed esterne al carcere.

Un'indagine sulla realtà della Casa di Reclusione di Massa

Relatore:

Candidata:

Prof. Andrea Borghini Melania Bertoneri

(2)

A mia nonna Giovanna

“ Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”

(3)

INDICE

INTRODUZIONE ...1

SEZIONE I...3

1. IL “PIANETA CARCERE”...3

1.1. Origine del Sistema penitenziario...3

1.1.1. Contributi teorici...5

1.1.2. I modelli dell'evoluzione storica della prigione...7

1.1.3. Altre riforme...9

1.2. Storia dell'ordinamento penitenziario italiano...10

1.2.1. Riforme in ambito penitenziario prima della guerra...11

1.2.2. La situazione del dopoguerra...14

1.2.3. Il penitenziario negli anni Cinquanta e Sessanta...17

1.2.4. Il carcere e le rivolte degli anni Settanta...19

1.3. La riforma del 1975: caratteristiche ed evoluzione del “carcere moderno” ...22

1.3.1. La legge 354/75...23

1.3.2. Le nuove figure previste della riforma...26

1.3.3. La legge Gozzini...29

1.4. Il carcere oggi...31

1.4.1. Una situazione problematica...31

1.4.2. Istituti penitenziari italiani e aspetti della popolazione detenuta...33

(4)

2. CARCERE, CULTURA DETENTIVA E ASPETTI SOCIALI...41

2.1. Le finalità della pena...41

2.2. La ricerca etnografica e sociologica negli istituti penitenziari...43

2.2.1. L'Istituzione Totale...44

2.2.2. Il carcere come Istituzione totale...45

2.3. L'impatto dell'Istituzione totale-carcere sull'individuo...47

2.3.1. Processi di progionizzazione e disculturazione...49

2.3.2. La mortificazione del sé...51

2.4. La Subcultura carceraria...55

2.4.1. La sociologia e il concetto di cultura...55

2.4.2. Concetto di Subcultura...58

2.4.3. La subcultura carceraria e il codice del detenuto...59

2.4.4. Il personale addetto alla sorveglianza...65

2.5. La “Società carceraria” e la quotidianità intramuraria...65

2.5.1. Concetto di spazio- tempo in carcere...66

2.5.2. Relazioni e organizzazione quotidiana...69

2.5.3. Dinamiche di sopravvivenza...72

2.5.4. Opinione pubblica e senso comune...73

3. FUORI DAL PENITENZIARIO:ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE E PERCORSI DI REINSERIMENTO SOCIO-LAVORATIVO...75

3.1. Alternative alla detenzione ...76

3.1.1. Affidamento in prova al servizio sociale ...78

3.1.2. Detenzione domiciliare ...79

3.1.3. Semilibertà ...80

3.1.4. Liberazione anticipata e condizionale...81

3.2. La questione del lavoro penitenziario: aspetti e criticità...82

(5)

3.2.2. Il lavoro Intramurario...88

3.2.3. Il lavoro extramurario ...91

3.2.4. Diritti e tutele dei lavoratori detenuti...93

3.3. Rapporto tra carcere e territorio...93

3.3.1. Forme sociali della condizione carceraria...94

3.3.2. Il lavoro di rete ...98

3.3.3. Il reinserimento socio-lavorativo...101

3.3.4. Rapporto carcere e società ...103

SEZIONE II...106

4. LA RICERCA SOCIALE: L'ESPERIENZA DELLA CASA DI RECLUSIONE DI MASSA...106

4.1. La ricerca sociale nell'ambito dell'istituzione totale: la metodologia..107

4.1.1. Un contesto difficile da studiare...108

4.2. Dentro e fuori dal carcere: la realtà della Casa di Reclusione di Massa ...110

4.3. La Casa di Reclusione di Massa...112

4.4. L'area educativa e trattamentale dell'istituto...118

4.5. La ricerca ...121

4.5.1. Le scelte metodologiche ...122

4.5.2. La vita all'interno dell'istituto penitenziario...124

4.5.3. Il percorso rieducativo...128

4.5.4. Alcune criticità...132

4.5.5. I percorsi di reinserimento lavorativo...136

4.5.6. La collaborazione dell'istituto con il territorio...139

(6)

CONCLUSIONI...147

BIBLIOGRAFIA ...149

SITOGRAFIA...155

APPENDICE...158

(7)

INTRODUZIONE

Scopo di questa tesi è fornire una descrizione circa le dinamiche sociali interne ed esterne al sistema penitenziario, con particolare riferimento alle tematiche della vita carceraria, all'impatto che l'istituzione totale ha sugli individui ed ai meccanismi che stanno alla base del concetto di rieducazione e reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti.

Il sistema penitenziario italiano oggi sembra riflettere la situazione dell'attuale società nella quale viviamo, sempre più complessa e caratterizzata da problematiche di natura economica, politica e sociale. Del carcere non si parla, si ha paura e si tende con molta facilità ad ignorarlo, invece bisogna comprendere che, l'idea generale di esso come luogo di contenimento di autori di reato, quindi, potenzialmente pericolosi perché predisposti alla delinquenza, è sbagliata. Questo mondo così complesso ed isolato è parte della società, la quale, dovrebbe avere come obbligo morale e civile mettere questa realtà sullo stesso piano di tutti gli altri settori politici e sociali quali il lavoro, l'ambiente, la salute e così via.

Il seguente lavoro di tesi è sostanzialmente composto da due sezioni, la prima, prettamente teorica e la seconda sezione, invece, di natura sperimentale. Pertanto i primi tre capitoli fornisco una quadro sulle dinamiche sociali interne ed esterne, mentre il quarto è interamente dedicato all'esposizione della ricerca qualitativa che ho svolto presso la Casa di Reclusione di Massa.

Il primo capitolo propone una ricostruzione storica delle origini del sistema penitenziario e dei suoi successivi modelli di sviluppo, passando in rassegna le principali interpretazioni dei sociologi e degli storici. Particolare attenzione verrà data alla storia dell'ordinamento penitenziario italiano e alle riforme che si sono susseguite negli anni. Infine in questa sede verranno riportati una serie di caratteristiche inerenti all’attuale realtà carceraria italiana e alcune problematiche relative alla situazione degli istituti di pena italiani degli ultimi anni.

Il secondo capitolo offre una lettura sulle dinamiche interne al penitenziario, in particolar modo partendo dai contributi teorici dei padri fondatori della sociologia

(8)

del penitenziario, Goffman e Clemmer, sono stati messi a fuoco gli aspetti sociali che caratterizzano l'istituzione penitenziaria: i processi di prigionizzazione e disculturazione, conseguenti all'impatto dell'istituzione totale sull'individuo, il concetto di cultura, subcultura carceraria e la quotidianità intramuraria.

Il terzo capitolo si sofferma sulle misure alternative alla detenzione e sulla questione del lavoro penitenziario: per produrre sicurezza l'ordinamento penitenziario con la riforma del 1975 ha delineato l'importanza per i detenuti di poter intraprendere all'interno del carcere forme di rieducazione e favorire progetti di reinserimento sociale e lavorativo.

Nel quarto e ultimo capitolo, invece, ho voluto raccontare la mia esperienza di tirocinio presso la Casa di Reclusione di Massa. In questa sede mi è stata data la possibilità di intraprendere una ricerca all'interno dell'istituto carcerario, la quale si è sostanzialmente basata sull'analisi di alcune interviste sottoposte ai detenuti reclusi e alle associazioni ed enti che collaborano con il carcere. L'obiettivo della ricerca è stato una generica descrizione sul ruolo che hanno le attività trattamentali, intramurarie ed extramurarie, sulle traiettorie dei singoli detenuti, nonché la qualità e la quantità delle stesse. Ho completato il lavoro di indagine sottoponendo delle interviste ad alcuni enti ed associazioni che collaborano attivamente sul territorio nei progetti di reinserimento lavorativo dei detenuti

Il percorso di analisi intrapreso, partendo dalla letteratura in materia, fino ad intraprendere una ricerca sul campo, ha messo in luce le difficoltà del sistema penitenziario di garantire un pieno recupero e reinserimento lavorativo e sociale dei soggetti con alle spalle percorsi penali. La crisi economica in cui versa la nostra società, la mancanza di risorse e il totale disinteresse da parte dello Stato sulle tematiche carcerarie, rende difficile poter parlare oggi di rieducazione e reinserimento, che restano mere utopie.

Pertanto, la seguente tesi di ricerca, senza la pretesa di essere esaustiva, intende offrire un punto di partenza da cui cominciare ad intraprendere percorsi di studio capaci di svilupparsi in una prospettiva critica volta a ripensare il carcere in un'ottica più umana, piuttosto che come contenitore di marginalità sociale.

(9)

SEZIONE I

1. IL “PIANETA CARCERE”

Ricostruire la storia del carcere è impresa non facile, per vari motivi. Innanzitutto, nel corso dei secoli, sotto lo stesso nome sono state accomunate esperienze assai diverse, sia per le modalità di funzionamento, sia per le caratteristiche della loro istituzione, sia per le finalità che esse intendevano perseguire, sia per le diverse discipline che le caratterizzavano.

In linea di massima, tralasciando epoche molto remote, si può affermare che il carcere all’inizio non fu concepito come pena in senso tecnico, ma come un mezzo che serviva ad impedire la fuga dell’accusato in attesa della condanna e dell’esecuzione della pena che presso tutti i popoli antichi era per eccellenza quella corporale.1

1.1. Origine del Sistema penitenziario

Prima del 1775, secondo la ricostruzione operata da Ignatieff (1982) per il contesto inglese, gli spazi precedenti alle odierne strutture carcerarie erano luoghi di promiscuità, informalità e trascuratezza, organizzati secondo un modello domestico che prevedeva la co-gestione del potere tra internati e controllori. La prigione non costituiva di per se stessa una forma della pena, ma una risposta alle esigenze giudiziarie o di difesa sociale essendo deputata alla temporanea custodia di coloro che attendevano di essere giudicati o suppliziati e di chi veniva considerato socialmente pericoloso. 2

Pertanto, la reclusione diventa il principale strumento sanzionatorio in campo penale, solo in tempi relativamente recenti a cavallo tra il XVIII e il XIX; infatti un cambiamento sostanziale si verifica negli Stati Uniti e in Europa proprio alla 1 Cfr, Tessitore G., L’utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive, Franco Angeli Editore, Bologna, 2002, p. 22.

(10)

fine del XVIII secolo. Tale periodo è caratterizzato da profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali, accompagnate da riflessioni circa il ruolo dello Stato e il valore delle libertà individuali. I cambiamenti sociali portarono nel XVI secolo alla nascita di diverse forme di sanzione, tutte aventi la medesima caratteristica: lo sfruttamento della forza lavoro che i detenuti erano tenuti ad “offrire” senza nessun pagamento di salario, ma come espiazione dei reati commessi. Queste si concretizzavano nella servitù all'interno delle galere, nella deportazione nelle colonie; nei lavori forzati, questi ultimi nella reclusione all'interno delle case si correzione, che influenzeranno in maniera decisiva la nascita del carcere moderno come luogo di rieducazione.

La loro funzione iniziale era quella di “contenere” mendicanti e vagabondi in modo da riformare gli internati attraverso il lavoro obbligatorio e la disciplina. Essa, inoltre, doveva scoraggiare altri dal vagabondaggio e dall'ozio e, aspetto fondamentale, assicurare, attraverso il lavoro, il proprio mantenimento3.

I numerosi cambiamenti in campo economico e sul mercato del lavoro portarono a riorganizzare le case di correzione in luoghi dove poter reclutare forza lavoro gratuita, pertanto se inizialmente gli internati erano vagabondi, piccoli delinquenti e mendicanti, ora anche chi aveva commesso delitti o reati veniva recluso all'interno di queste strutture e vedeva convertire la pena capitale in lunghi periodi di detenzione.

La trasformazione del concetto di carcere in luogo di detenzione preventiva a pena effettiva non nasce solo a causa di queste due trasformazioni ma anche per l'influenza dei cambiamenti politici che si stavano verificando: la comunità medievale lascia spazio allo Stato Nazionale, che aveva come obiettivo quello di trasformare la giustizia da fatto privato a fatto pubblico, quindi di sua competenza.

Successivamente con lo scoppio della Rivoluzione industriale si arriva al decadimento delle case di correzione: la pena esplicata attraverso il lavoro diviene l'unico mezzo con il quale pagare i propri debiti alla giustizia. I concetti di libertà e tempo arrivano così ad essere connessi tra loro: la libertà assume un valore

3 Cfr, Melossi D. e Pavarini M., Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI-XIX), il Mulino, Bologna, 1977, p. 34.

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economico in correlazione alla misurazione del tempo, che da quel momento può essere misurato, regolato e scandito all'interno delle istituzioni carcerarie.

1.1.1. Contributi teorici

I riformatori considerano il carcere e le pene come l'unica forma di prevenzione affinché i delitti non si ripetano, nasce così l'idea dell'individualità della pena in base al crimine e a chi lo commette, utilizzando il metodo delle rappresentazioni “rappresentazione degli interessi, dei vantaggi, degli svantaggi, del piacere e del

dispiacere”4.

La quotidianità della pena, attraverso una vera e propria manipolazione dell’individuo, è la metodologia utilizzata al fine di plasmare un soggetto obbediente, un individuo sottomesso alle regole, ordini, autorità che si esercita continuamente intorno a lui e su di lui.5

Grande esponente di questo di modello punitivo è stato John Howard che grazie agli apporti dati dalle sue teorie, ricavate dalle visite fatte a gran parte delle istituzioni carcerarie inglesi, favorì l’idealizzazione del Penitentiary Act nel 1779 attraverso il quale egli voleva costruire una rete di case per il lavoro forzato dove la vita dei carcerati fosse scandita ad ore fisse (la sveglia, lettura della Bibbia, la preghiera, i pasti, il lavoro, ecc.), ai detenuti dovevano essere garantiti il vitto e la divisa carceraria.6 Sulla scia delle teorie di Howard troviamo il Panocticon di

Bentham, ideatore di una prigione moderna e funzionale, che rispondesse anche alle esigenze economiche dei profitti dati dai prodotti realizzati all’interno del carcere: il principio base per la costruzione di quest’istituzione è l’isolamento completo e continuo.

La reclusione, così, si presenta come l'unica pena adatta, capace di mostrarsi magnanima e al contempo servire per le nuove esigenze economico- produttive.

Secondo il sociologo e criminologo Stanley Cohen, questa trasformazione è

4 Cfr, Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976. 5 Ibidem.

6 Cfr, Ignatieff M., Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750- 1850), Mondadori, Milano, p. 61.

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rappresentata da quattro cambiamenti nelle modalità di gestione della devianza e della criminalità: la crescita del coinvolgimento dello Stato nel controllo del crimine con conseguente sviluppo di un apparato burocratico e centralizzato per la sua punizione e il suo trattamento; una differenziazione dei devianti in categorie specifiche; lo sviluppo di meccanismi istituzionali di esclusione e segregazione, come penitenziari, ospedali psichiatrici, riformatori, utilizzati per favorire la modificazione del comportamento dei reclusi; infine, un mutamento nell'oggetto della pena, che non è più il corpo ma la mente, nella convinzione di poter così modificare la personalità del criminale.

Gli studiosi che si sono concentrati sul cambiamento del concetto di reclusione e quindi sull'emergere della prigione nella sua forma moderna hanno proposto questo passaggio come conseguenza del processo di civilizzazione, ovvero una risposta alla necessaria umanizzazione degli strumenti messi in atto per reprimere la criminalità: secondo questa ricostruzione, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo l'abolizione della marchiatura, la riduzione delle impiccagioni, la condanna della tortura sarebbero state il prodotto di un'evoluzione della coscienza culminata con l'invenzione dell'odierna reclusione e nella diffusione del modello penitenziario7.

I grandi pensatori dell'epoca, primi fra tutti Alexis de Tocqueville e Gustave de

Beaumont, percepirono che con l'emergere della forma moderna del penitenziario

qualcosa, nel campo della penalità e del controllo sociale, stava cambiando: l'isolamento dei detenuti, sia dall'esterno che tra loro, il lavoro come disciplina di obbedienza, l'istruzione morale e religiosa e le nuove forme di sorveglianza ( ad esempio il modello, già citato precedentemente, del Panopticon progettato da

Bentham) stavano trasformando il sistema dell'imprigionamento in un “sistema

penitenziario”, ovvero un sistema che intende realizzare un regime capace di avere degli effetti concreti sulla personalità dei criminali e renderli “migliori”.

(13)

1.1.2. I modelli dell'evoluzione storica della prigione

Durante il Novecento fino ai giorni nostri si sono verificare delle trasformazioni istituzionali che hanno accompagnato lo sviluppo della prigione, le quali sono state analizzate in modo dettagliato nel 1985 dal sociologo Stanley

Cohen, attraverso i tre modelli di spiegazione dell'evoluzione storica subita dal

carcere: il modello dei riformatori, quello funzionalista e infine il modello

strutturalista.8

Il primo modello, che Cohen definiva il modello del “progresso senza fine”, interpreta la storia della prigione come caratterizzata da un susseguirsi di riforme, infatti, i riformatori consideravano il cambiamento del concetto di carcere imputabile ad un processo di umanizzazione e di civilizzazione che interessò anche le pene giudiziarie. Secondo tale modello, definibile anche come “idealista”9, l’incontro tra pensatori illuministici e personalità di tipo religioso,

indusse le classi politiche dei diversi paesi a superare la crudeltà delle pene corporali, fino ad allora diffuse, per sostituirle con pene più umane e rieducative. Questi cambiamenti sono perciò frutto di trasformazioni, riforme motivate da una maggior conoscenza e alle nuove funzioni delegate alla pena detentiva, testimonianza ed espressione di un certo progresso culturale.

Tra le interpretazioni di tale modello emergono, da un lato quelle che collegano i cambiamenti in ambito penale a nuove idee sulla giustizia, in Italia le origini di queste riforme sono da ricondurre a Cesare Beccaria, che nel suo libro Dei delitti

e delle pene, si pronuncia contro la pena di morte ponendo le basi per la

costruzione di un sistema giuridico più civile, dall'altro lato vi sono quelle che associano le trasformazioni riguardo la pena ad una diversa sensibilità della società moderna.

Si può quindi affermare che ad esempio il livello di violenza considerato emotivamente sopportabile in una data epoca finirebbe per non esserlo più in un’epoca successiva: si assisterebbe perciò, nel periodo moderno, ad una maggior

8 Cfr, Cohen S., Visions of social control: crime, punishment and classification, Polity press, Cambridge, 1985.

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capacità di identificarsi con gli altri e ad una maggiore empatia nei confronti di chi commette dei reati.10

La lettura che viene data dai riformatori sulla nascita del sistema penitenziario e l'evoluzione del concetto di prigione con le sue successive trasformazioni è da attribuire, da un lato, al processo evolutivo in campo culturale, dall'altro al progresso scientifico e ad una maggiore sensibilità.

Secondo il modello strutturalista il punto di partenza è la relazione tra la base economica e il sistema penitenziario moderno, espressione questa di una concezione materiale e radicalmente pessimista. I sostenitori di tale modello ritengono che il sistema così come si presenta sia in realtà efficiente nel soddisfare i reali obiettivi del sistema stesso, che sono espressione degli interessi delle classi dominanti e il risultato di esigenze economico- sociali.

Come sostengono Rusche e Kirchheimer, due autori che si concentrarono sul sistema carcerario tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, l’emergere del penitenziario sarebbe il risultato dell’affermazione della evoluzione industriale: a causa della diffusa disoccupazione, dovuta al calo del bisogno della manodopera, si avrebbe un periodo di incremento della criminalità.11

Le prigioni moderne risponderebbero ad un sistema che miri alla produzione di lavoratori disciplinati, un modello che segue le logiche della fabbrica, quindi le esigenze dell’ordine industriale capitalista, il quale detta le regole alle quali il sistema carcerario deve attenersi.

Una lettura leggermente differente di questo modello la si può cogliere negli scritti di Ignatieff, il quale riconosce la centralità degli interessi materiali ed economici, ma afferma che il nuovo sistema carcerario non nasce come risposta ad una particolare strategia della classe dominante, ma rappresenterebbe la conseguenza dei diversi fenomeni relativi all’ordine sociale, alle nuove esigenze di controllo da parte dei possidenti e al nuovo discorso sull’esercizio del potere.12

Il terzo e ultimo modello individuato da Cohen viene definito funzionalista o

del consenso strutturale, secondo il quale le istituzioni deputate alla segregazione

10 Vianello F., op. cit., p. 19.

11 Cfr, Rusche G., Kirchheimer O., Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna, 1978. 12 Vianello F., op. cit., p 23.

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dei devianti e dei criminali sono viste come una risposta funzionale ai problemi della deregolamentazione sociale. Tale prospettiva, riguardo il significato e il ruolo della penalità, viene adottata al fine di contenere e contrastare l'anomia e il conseguente disordine sociale.

La prigione di fatto diventerebbe un risorsa finalizzata a produrre un assetto sociale funzionante: un'istituzione chiusa, idea di isolamento, addestramento al lavoro, pratiche di riflessione e preghiere per produrre modificazioni nella mente del detenuto che viene plasmato secondo il contesto sociale per poter favorire il suo reinserimento13.

Ma, secondo Cohen, già alla fine dell'ottocento tale esperimento è risultato inefficiente essendo degenerato in istituzioni meramente di custodia, sovraffollate, spesso violente e non per niente rieducative: è difficile, per la prospettiva funzionalista, giustificare la riaffermazione del carcere a fronte di tale fallimento rispetto agli obiettivi perseguiti.

1.1.3. Altre riforme

Negli anni successivi emergono diverse riforme che cercano di offrire un'alternativa pur mantenendo gli stessi obiettivi, ad esempio nel corso del XX secolo si promuove l'introduzione di costosi programmi di trattamento e di riabilitazione che sostituiscono le forme della pena retributiva. Inoltre, negli anni Settanta le porte delle prigioni cominciano ad aprirsi e si iniziano ad affermare le soluzioni alternative alla detenzione, esse non sostituiscono del tutto le tradizionali sanzioni repressive: le istituzioni chiuse infatti non scompaiono ma si affiancano alla comunità, in questo modo migliora la rete di controllo. In questo modo il sistema sopravvive e si riproduce continuando, però, a legittimarsi sugli obiettivi dichiarati e mai raggiunti14.

Alla luce di quanto appena detto, diversi autori hanno cercato di offrire una risposta al detto perché, nonostante l’indiscusso fallimento, la prigione continua a

13 Foucault M., op. cit., pp.133-138. 14 Vianello F., op. cit., p 27.

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godere di buona salute. Secondo Foucault il motivo rientra sostanzialmente nella prospettiva funzionalista: il modello penitenziario persiste perché svolge alcune funzioni molto precise, perché la sua è in realtà una storia di grande successo.

La produzione della delinquenza, ad esempio, risponde ad una precisa strategia di dominio delle classi dominanti: l’obiettivo della macchina non è tanto il controllo della criminalità, quanto il disciplinamento dell’intero corpo sociale.

David Garland tenta di integrare le diverse teorie della pena, mettendo a confronto quelle che considera principali in ambito sociologico (la tradizione durkheimiana, gli studi marxisti, gli scritti di Foucault e il lavoro di Elias), promuovendo un atteggiamento inclusivo e pluralista, che riconosce alle diverse interpretazioni il tentativo di andare oltre le mere ricostruzioni formali dell’evolversi della pena nella società moderna. La questione di fondo rimane la misura in cui la pena riesce ad incorporare e rappresentare valori e sensibilità che, pur essendo il risultato di processi conflittuali, risultano estesamente condivisi.15

L’interpretazione dell’evoluzione odierna del carcere va dunque centrata sull’analisi della sua produttività simbolica, che riesce ad integrare valutazioni di tipo economico, considerazioni pratiche di tipo gestionale e rappresentazioni politico- culturali in un’unica autorappresentazione.16

1.2. Storia dell'ordinamento penitenziario italiano

Il carcere è un microcosmo che riproduce al suo interno il sistema sociale più vasto, è il fulcro istituzionale dove le contraddizioni del contesto in cui viviamo sono massime e spesso esasperate.17 Oggi il penitenziario è l'edificio destinato a

contenere sia i condannati ad una pena detentiva che gli accusati sottoposti a custodia cautelare, ma non è sempre stata questa la sua funzione. Nel periodo precedente l'Unità d'Italia il penitenziario era l'edificio in cui venivano nascosti, indifferentemente, le persone in attesa di giudizio, i condannati e coloro che la

15 Cfr, Garland D., Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, il Saggiatore, Milano, 1999.

16 Vianello F., op. cit., p 32.

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società considerava, per i più svariati motivi, "diversi", "scomodi" e "pericolosi". Queste persone, come già anticipato nel paragrafo precedente, venivano estirpate dalla collettività allo scopo di eliminare il pericolo che il loro "marcio" potesse propagarsi e contagiare gli altri membri della comunità. Chi fossero queste persone e quale fosse la causa della loro reclusione era qualcosa di cui non ci si preoccupava, l'importante era contenerle, evitare e prevenire i danni che avrebbero potuto causare.

L'avvento dello Stato di diritto apre la strada al concetto di internamento istituzionalizzato, perseguendo la certezza del diritto e della pena. Iniziava così il declino della dilagante confusione e dell'arbitrio con cui, sino ad allora, erano state disposte le reclusioni negli istituti penitenziari: nasce il concetto di "pena istituzionalizzata" come conseguenza della violazione di tassative fattispecie di reato previste, unica motivazione legittima del provvedimento di detenzione. La sanzione penale diventa una sofferenza legale che comporta la sottrazione della libertà, per un periodo proporzionato alla gravità del delitto commesso, alla persona ritenuta colpevole.

1.2.1. Riforme in ambito penitenziario prima della guerra

Come nel resto d'Europa, dalla fine del secolo XVIII la prigione (o carcere) divenne un luogo di pena: vennero abbandonate definitivamente le punizioni corporali come forma di pena e la pena di morte come supplizio (che durava parecchie ore durante le quali il condannato subiva sulla pubblica piazza orribili torture sino a che sopraggiungeva, il più lentamente possibile, la morte); le pene corporali tuttavia sopravvissero per parecchio come mezzo per mantenere la disciplina nel segreto delle prigioni (in Italia le pene corporali per i detenuti sono state abolite meno di cinquant'anni fa), pur essendo meno cruente di quelle dei vecchi regimi assolutistici, ove avevano lo scopo primario di terrorizzare in pubblico le folle per dissuaderle dal compiere violazioni delle leggi e ribellioni verso l'autorità costituita. La pena di morte fu abolita in Italia dopo la liberazione

(18)

dal nazi-fascismo (25 aprile 1945), anche se formalmente con l'entrata in vigore dell'art. 27 della Costituzione Italiana , in vigore dal 1º gennaio 194818.

Nel 1891 fu approvato il "Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi", primo fondamentale documento delle istituzioni penitenziarie dell'Italia post-unitaria. L'approvazione del regolamento del 1891 era il frutto del positivismo criminologico che aveva individuato nel trattamento differenziato, scientifico ed individualizzato, il nuovo cardine della politica penitenziaria e che poneva in primo piano la realtà umana e sociale del condannato. Questo documento, seguito al codice Zanardelli entrato in vigore l'anno prima ed incentrato sui principi dello Stato di diritto, operava una prima innovativa distinzione tra "stabilimenti carcerari" e "stabilimenti riformatori", attuando un'embrionale differenziazione del trattamento dei reclusi, in virtù della loro età e della rispettiva condizione giuridica. Era dominante l'idea che il periodo di esecuzione della pena dovesse diventare un momento teso alla rieducazione del condannato.

Nel 1930 vennero approvati il nuovo codice penale “Codice Rocco” e nel 1931 il nuovo codice di procedura penale. Con regio decreto 18 giugno 1931, n. 787 venne approvato dal guardasigilli Alfredo Rocco il nuovo “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena”, fedele traduzione dell’ideologia fascista nel settore penitenziario, che rimarrà in vigore fino al 1975. Non venne varato un ordinamento radicalmente nuovo perché il regolamento del 1891 viene sostanzialmente mantenuto. Rimangono le tre leggi fondamentali della vita carceraria (lavoro, istruzione civile e pratiche religiose) che divengono tassative, nel senso che ogni altra attività è non solo vietata ma fatta oggetto di sanzioni disciplinari.

I punti qualificanti del regolamento Rocco sono:

➢ la rigida separazione tra il mondo carcerario e la realtà esterna;

➢ limitazione delle attività consentite in carcere alle tre leggi fondamentali del trattamento (pratiche religiose, lavoro e istruzione);

18 Cfr, Senato della Repubblica, Costituzione della Repubblica Italiana, Libreria del Senato, Roma, p. 17, https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf.

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➢ atomizzazione dei detenuti impedendo loro qualsiasi collegamento e presa di coscienza collettiva;

➢ esclusione dal carcere di qualsiasi persona estranea cioè non inserita nella gerarchia e non sottoposta alla disciplina penitenziaria;

➢ obbligo di chiamare i detenuti con il numero di matricola (al posto del cognome) volto alla soppressione della personalità del detenuto;

➢ carcere come istituzione chiusa.19

Il Regolamento carcerario del 1931 suddivideva le carceri in tre gruppi: carceri di custodia preventiva, carceri per l’esecuzione di pena ordinaria e carceri per l’esecuzione di pena speciale.

Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, tra il 1943 e il 1945, la gestione delle carceri come ogni altro aspetto della vita civile, amministrativa e politica, fu pesantemente condizionata dalla situazione bellica. Il sistema penitenziario, organizzato capillarmente sul territorio, si dimostra sensibile a ogni mutamento dei fronti di guerra.

Compito delle autorità carcerarie, negli anni del fascismo, era di provvedere celermente a risolvere le varie situazioni determinatesi: i bombardamenti imponevano continui sfollamenti delle carceri, trasferimenti di massa resi ancora più difficili dalla situazione di guerra. A questo clima di difficoltà si aggiunse il problema dei contrasti tra le frammentate e duplicate istituzioni che si occupavano del settore carcerario. Il carcere in quegli anni non era solo un luogo di pena e di custodia preventiva ma anche un luogo in cui si esercitava il controllo poliziesco sulle persone ritenute politicamente pericolose: la vita all'interno degli istituti penitenziari durante gli anni della RSI era segnata, come quella di gran parte della popolazione libera, dalla miseria e dalla carenza di cibo,vestiario. Nello specifico della situazione carceraria, questo si sommava alle difficili condizioni di scarsa igiene e di pulizia dei locali e alla generalizzata situazione di sovraffollamento che raggiungeva livelli di emergenza soprattutto nelle grandi carceri giudiziarie.20

19 Cfr, Neppi Modona G., Vecchio e nuovo nella riforma dell’ordinamento penitenziario, in “Carcere e società”, Marsilio Editori, Venezia, 1976, pp. 68 – 70.

20 Cfr, De Vito C. G., Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 4-8.

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1.2.2. La situazione del dopoguerra

Gli istituti penitenziari nell'Italia del dopoguerra versavano in condizioni disastrose, i detenuti vivevano abbandonati in situazioni di sovraffollamento. Dopo che dagli istituti carcerari furono tolte le insegne fasciste e quando furono dichiarati nulli gli atti emessi dal governo della RSI anche in materia penitenziaria, rimasero nella mani delle nuove autorità istituti vecchi e sovraffollati danneggiati dalla guerra, spesso privi di muri di cinta e non in grado di garantire le condizioni minime di sicurezza. In definitiva la macchina penitenziaria andava riavviata: gli uffici della Direzione generale dovevano essere riorganizzati, il servizio statistico ripristinato e lo stato di ciascun istituto penitenziario censito. L'opera di ricostruzione durò circa un decennio e non fu facile né veloce, date le carenze infrastrutturali dell'epoca e in considerazione delle alterne vicende politiche.

Nei primi mesi dopo la Liberazione, in attesa di una riforma dell'ordinamento penitenziario, si susseguirono alcune circolari che intervenivano sulle condizioni materiali di vita dei detenuti: venne migliorato il vitto sia in qualità che quantità, l'igiene personale dei detenuti e degli ambienti in cui essi vivevano e vennero riorganizzati alcuni servizi sanitari specialistici. Nel complesso, dopo lo guerra, il problema carcerario fu accomunato alle tendenze generali di quegli anni e si impose all'attenzione dell'opinione pubblica essenzialmente come problema di ordine pubblico. Di fronte a una popolazione che si dibatteva per lo più in difficili condizioni economiche, gli specifici problemi dei detenuti rimasero inascoltati, mentre le evasioni e le rivolte carcerarie, venivano considerate come un'ulteriore conferma dell'instabilità del nuovo sistema democratico.21

La conduzione del carcere, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, fu la stessa di quella in vigore in epoca fascista, governata dal regolamento penitenziario del 1931. Dopo la liberazione si constata l’assenza di qualsiasi riforma delle strutture penitenziarie ereditate dal regime fascista e ancora una volta la loro impermeabilità alle vicende della società libera. I principi

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fondamentali dell’isolamento e dell’emarginazione dei detenuti rimasero ben saldi anche in momenti di estrema tensione per la storia delle istituzioni carcerarie, quali la seconda metà del 1945 e i primi mesi del 1946. Le tensioni scaturivano sia dal peggioramento delle condizioni carcerarie, sia dalla delusione di chi sperava in un cambiamento dopo la liberazione.

Questo breve arco di tempo è caratterizzato da alcune tra le più clamorose rivolte della storia carceraria italiana: le carceri giudiziarie di Regina Coeli a Roma, le carceri Nuove a Torino e San Vittore a Milano furono al centro di drammatiche e sanguinose sommosse che impegnarono seriamente l’apparato repressivo. La popolazione carceraria intanto era aumentata a dismisura sino a raggiungere valori doppi rispetto a quelli normali. Il 18 agosto i detenuti fascisti e comuni del quarto braccio di San Vittore indicono un’assemblea, resa possibile perché le celle sono prive di porte o di serrature, per protestare contro la riduzione delle razioni alimentari, disposta dalle autorità alleate a seguito delle rimostranze della popolazione civile. Sempre a San Vittore, la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre fuggono quindici detenuti. Il direttore accusa le guardie carcerarie di scarso rendimento e irresponsabilità, per aver bruciato i telai delle finestre, porte e suppellettili per scaldarsi e per l’abitudine di sparare di notte all’impazzata, anche quando non vi è pericolo di fuga.

Ma la più grave e sanguinosa rivolta del dopoguerra rimane quella di San Vittore in coincidenza con la pasqua del 1946. Il 21 aprile i detenuti si impadroniscono di tutto il carcere, tengono prigionieri venticinque ostaggi e muniti di mitra, pistole e bombe a mano, ingaggiano sanguinosi scontri a fuoco con le forze dell’ordine. Alcuni membri della Consulta inviano un telegramma al ministro degli interni Romita e al guardasigilli Togliatti per sollecitare una pronta repressione della rivolta; la federazione comunista milanese protesta per l’atteggiamento conciliatore del questore che è sceso a patti con i rivoltosi. Il 24 aprile, quando i reparti dell’esercito e della polizia che circondano San Vittore hanno ricevuto l’ordine dal ministero dell’interno di sedare con ogni mezzo la sedizione, i 3400 detenuti si arrendono, liberando gli ostaggi e consegnandoli agli assedianti. Pesante è il bilancio delle vittime: si parla di otto morti e sessanta feriti

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tra detenuti e forza dell’ordine.22

Con decreto legislativo luogotenenziale 21 agosto 1945 n. 508 furono apportate modifiche all’ordinamento del corpo degli agenti di custodia. Questi vennero assegnati alle forze armate dello Stato e al servizio di pubblica sicurezza, con la conseguenza che gli agenti furono soggetti alla giurisdizione militare e puniti secondo le norme del codice penale militare di pace e di guerra.

Nel 1948 venne istituita la prima commissione parlamentare d’inchiesta sullo stato delle carceri della storia italiana che documenta, dopo gli anni dell’immobilismo del dopoguerra, un rinnovato interesse per i problemi penitenziari. La Commissione presieduta dal senatore Giovanni Persico, venne insediata il 9 luglio 1948 e concluse i suoi lavori alla fine del 1950, presentando alla Camera dei deputati una lunga relazione in cui furono affrontati tutti i problemi dell’istituzione carceraria e prospettate concrete soluzioni per la riforma. La relazione propose l’abolizione dell’isolamento diurno, l’introduzione della musica tra i mezzi rieducativi, il potenziamento del lavoro agricolo, l’abolizione del taglio dei capelli, la facoltà di chiedere e acquistare libri, l’abolizione del sistema di chiamare i detenuti con il numero di matricola, e altre innovazioni umanizzanti. Ma si trattava di ritocchi marginali, che ammorbidirono il sistema, lasciandone intatte le strutture portanti e continuando a isolare il carcere dalla società civile. 23

La scelta compiuta nel dopoguerra fu principalmente quella di non cambiare i punti fondamentali degli assetti preesistenti dell'organizzazione penitenziaria L'impermeabilità di lungo periodo dell'istituzione carceraria rispetto alle trasformazioni occorse nella società è stata più volte sottolineata da Guido Neppi Modona: dall'Unità fino agli anni più recenti, all'immobilismo delle strutture burocratiche si è intrecciata “l'inazione di governi e legislatori di fronte al problema carcerario”.24 Questo impedì di avviare un processo di rinnovamento

delle strutture e di contro favorì il permanere di mentalità impermeabili al

22 Cfr, Neppi Modona.G., Carcere e società civile, in Storia d’Italia, Vol. V/2 Documenti, Einaudi, Torino, 1973, pp. 1977 – 1982.

23 Neppi Modona G., op. cit., pp. 1987-1989. 24 Neppi Modona G., op. cit., pp. 1906-1907.

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cambiamento. Per molti decenni infatti, non si provvide ad alcuna riforma del Corpo degli agenti di custodia, né del personale medico penitenziario, né si pose mano all'adeguamento dell'edilizia carceraria.

Nell’immobilismo generale, il ministero perseguì una cauta politica di illuminata conservazione, introducendo sperimentalmente, mediante circolari, alcune modifiche al regolamento Rocco. Alcune proposte avanzate dalla commissione parlamentare trovarono finalmente attuazione nel 1951. Tra diverse innovazioni riguardanti i colloqui, la possibilità di leggere e scrivere, l’abolizione del taglio dei capelli e dell’uniforme, venne anche disposto che tutti i detenuti fossero chiamati con nome e cognome.

Queste modeste riforme costituiscono la prima svolta innovativa del dopoguerra, ma già tre anni dopo si registrò un pesante richiamo all’ordine e una nuova svolta di carattere conservatore con la circolare del 24 febbraio 1954 del ministro di Grazia e Giustizia De Pietro che sancì in modo formale la definitiva svolta repressiva e segnò una tappa importante nella politica carceraria degli anni cinquanta. Si deve attendere infatti il 1964 perché venga nuovamente intrapresa la via delle circolari innovative tendenti al superamento delle disposizioni più restrittive del regolamento Rocco. 25

1.2.3. Il penitenziario negli anni Cinquanta e Sessanta

L'amministrazione penitenziaria negli anni Cinquanta e Sessanta si presentava alla società esterna come una grande famiglia della quale tutti facevano parte, ciascuno collaborando al suo funzionamento in base alla propria posizione gerarchica. Questo si rifletteva anche nella modalità organizzativa degli istituti penitenziari, ancora lontani dal modello di strutturazione burocratizzata tipica dei decessi successivi, fondato sulla divisione delle competenze amministrative tra aree e uffici. Quelle degli anni Cinquanta e Sessanta erano ancora carceri a “conduzione familiare”, dove ogni funzione era rappresentata da una persona: un direttore, un maresciallo, un cappello ecc. Al centro dell'organizzazione del

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penitenziario vi era l'idea di “redenzione” del detenuto che declinava il principio costituzionale della rieducazione nel senso della morale cattolica. La prospettiva era quella della trasformazione complessiva dell'animo traviato del recluso più che del sostegno al suo reinserimento sociale.

Questa ideologia morale corrispondeva alla realtà del carcere di quegli anni: un carcere fortemente isolato rispetto alla società esterna, un carcere “pacifico” se paragonato a quello dell'immediato dopoguerra.

Tra gli Istituti penitenziari di quel periodo il più significativo, il fiore all'occhiello dell'Amministrazione penitenziaria italiana, il “carcere modello” per eccellenza, era quello di Roma-Rebibbia dove, nel 1958, nacque l'Istituto Nazionale di Osservazione (INO) : esso era una sorta di carcere-laboratorio, un carcere sperimentale dove soggiornavano tra i trenta e i quaranta detenuti da osservare. Si trattava infatti di internati arrivati su loro richiesta o su indicazione del Ministero. Questo istituto era gestito da psicologi, psichiatri, assistenti sociali ed educatori che alla fine stilavano un progetto di trattamento individuale. Il periodo di osservazione, si concludeva dopo sessanta giorni con la relazione dell'equipe, in cui si suggeriva per il soggetto un adeguato percorso di trattamento. La funzione rieducativa del carcere, secondo l'impostazione dei riformatori dell'amministrazione penitenziaria, assumeva una connotazione essenzialmente clinica; il carcere infatti, oltre che luogo di esecuzione della pena, diveniva una sorta di laboratorio, dove osservare e curare i delinquenti-malati.26

A metà degli anni cinquanta sorsero Centri criminologici anche presso le carceri giudiziarie di Bari, Genova, Milano e Napoli, con le stesse funzioni dell'INO di Roma. L'influenza del gruppo dei riformatori, in quegli anni, fu evidente anche a livello parlamentare e governativo, dapprima in una commissione istituita nel 1957 sullo stato delle carceri e poi in una proposta di legge del ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonnella, approvata dal consiglio dei ministri l'11 giugno 1960, sull'Ordinamento penitenziario e prevenzione della delinquenza minorile. Il progetto prevedeva l'osservazione scientifica e il trattamento individualizzato fortemente voluti dai riformatori e anche il regime di

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semilibertà, grazie al quale i detenuti potevano ottenere dai giudici di sorveglianza la possibilità di trascorrere parte della giornata fuori dal carcere per partecipare ad attività lavorative ed educative: queste proposte rimasero tali, poiché il progetto non venne trasformato in legge dal parlamento.

Un altro tentativo fu quello, verso le fine del 1965, del ministro Oronzo Reale con un progetto molto simile a quello precedente, ma ulteriormente arricchito; anche quest'ultimo fallì, poiché riuscì ad ottenere solo una parziale discussione all'interno della Commissione giustizia del Senato.

In definitiva, il carcere degli anni cinquanta e sessanta non era proprio quel carcere pacificato che i dirigenti dell'Amministrazione presentavano nelle cerimonie ufficiali: i grandi penitenziari, come quello di Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, presentavano al loro interno ancora sofferenza, carenze, soprusi e violenze.

1.2.4. Il carcere e le rivolte degli anni Settanta

Negli anni dello sviluppo economico dell'Italia i destinatari dell'istituzione penitenziaria erano principalmente i meridionali emigrati al nord, giovani e adulti delle periferie delle grandi città. Erano tutti protagonisti di storie di marginalità e povertà, gli esclusi dal miracolo economico. Erano le persone che un tempo venivano inquadrate come soggetti pericolosi.27

Un anno importante per la storia del carcere in Italia, fu il 1968, un anno caratterizzato da lotte e rivolte nelle carceri italiane, alcune delle quali riuscirono a diventare movimento, elaborando veri e propri programmi: nelle prime sommosse de “Le Nuove”, “San Vittore”, “Poggioreale” e “l'Ucciardone”, i detenuti chiesero, non più illusorie promesse su riforme future, ma il cambiamento di codici, leggi e dei regolamenti penitenziari, l'aumento delle ore d'aria e dei colloqui con i familiari, interventi strutturali per rendere le strutture carcerarie più dignitose, un servizio sanitario decente e il contrasto agli abusi delle guardie

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carcerarie.28 L'immediata risposta a queste rivolte fu una repressione, la quale non

riuscì a stroncare il movimento di protesta.

Dopo i primi due anni di repressione, costituiti da punizioni e continui trasferimenti degli individui indisciplinati dagli istituti delle grandi città verso carceri più piccoli ma più “duri” come Pianosa, Volterra e Porto Azzurro, i direttori delle carceri percepirono che era necessario cercare di venire incontro alle proteste dei detenuti: essi ottennero così, a seconda del carcere, di fare la doccia più frequentemente, di poter vedere per tre volte a settimana gli spettacoli televisivi, di prolungare il tempo all'aria aperta, avere fornelli in cella e più lavoranti per le pulizie.

Altre concessioni vennero fatte dal ministero con delle circolari. Nel maggio del' 69 una disponeva di una commissione di detenuti per il controllo del vitto, non scelta ma sorteggiata. Fu un primo passo importante per l'affermazione delle istanze politiche del movimento dei detenuti. Con la successiva circolare ministeriale del febbraio 1970, il governo consentì la circolazione in carcere della stampa politica e delle varie associazioni operanti nel paese, riconosciute legalmente.

Un momento significativo delle lotte dei detenuti di quegli anni si ebbe il 15 luglio del 1973 a “ Regina Coeli”, quando il ministro Mario Zagari incontrò i detenuti riuniti in assemblea nella rotonda centrale dell'istituto. Essi dopo aver espresso le loro lamentele ai funzionari del ministero e ai giudici, i detenuti volevano interloquire con un responsabile politico per invitare il governo e il parlamento a riformare nuovamente i codici e il regolamento penitenziario. In un periodo in cui si chiedeva nelle piazze, nelle aule universitarie e nelle fabbriche più democrazia, libertà e partecipazione, anche gli internati avanzavano proposte in questa direzione: chiedevano l'istituzione di consigli di rappresentanza dei detenuti, celle aperte e diritto al voto.29

Sono anni in cui il carcere assunse un ruolo all'interno di un contesto di grandi spinte ideali e di innovativi processi di emancipazione e liberazione. Il 1973 verrà ricordato come l'anno di massima mobilitazione dei detenuti e anche quello in cui

28 De Vito C. G., op. cit., p. 59. 29 La Rosa S., op. cit., p. 93.

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emersero le più importanti proposte di cambiamento. Le questioni del penitenziario diventavano sempre più un'emergenza, il parlamento continuava a discutere sui progetti di riforma fino al arrivare alla legge n°354 del 26 luglio 1975 “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. Questa legge fu il risultato finale di un lungo e faticoso processo di revisione del sistema penitenziario in risposta sia al contesto socio-culturale, sia ai valori emergenti dalla Carta Costituzionale e delle Convenzioni internazionali. La riforma costituì un indubbio passo in avanti rispetto alla normativa precedente, in essa erano contenuti elementi che rafforzavano la giurisdizionalizzazione della fase dell'esecuzione penale e la tendenza all'umanizzazione della pena. Infatti, vennero introdotti alcuni strumenti concreti di supporto alla funzione rieducativa della pena: una considerevole apertura verso la comunità esterna, l'ingresso in ambito penitenziario di assistenti sociali ed educatori, la previsione di misure alternative alla detenzione e una maggiore attenzione all'individualizzazione del trattamento.30

L’elemento principale di distinzione della nuova legge riguardava la pena che doveva essere rieducativa e finalizzata al reinserimento sociale del detenuto. Infatti introduceva come strumento l’osservazione scientifica della personalità di ciascun carcerato, così da potergli costruire un programma ad hoc.

Il trattamento mirava a mantenere l’ordine e la disciplina, scandire i tempi e i contenuti della vita penitenziaria e la privazione della libertà, aspetto afflittivo della pena, diventava il mezzo per tendere al recupero sociale del condannato. Questa riforma permise ai detenuti di avvalersi dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività ricreative, culturali e sportive al fine della rieducazione e del conseguente reinserimento sociale. Una particolare attenzione venne rivolta, in tale contesto, a tutte quelle attività che vedevano una diretta partecipazione del detenuto come protagonista, quali: il teatro, lo sport, la redazione di giornali interni, la musica e la pittura.

Questi nuovi elementi del trattamento miravano a superare la chiusura e l’isolamento del mondo carcerario dalla realtà esterna. Anche in ambito

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penitenziario si dovette dare voce al pluralismo culturale e a tutte le attività che contribuirono alla promozione dell’individuo e allo sviluppo della sua personalità.

1.3. La riforma del 1975: caratteristiche ed evoluzione del “carcere moderno”

Come è già stato accennato alla fine del precedente paragrafo, la nuova riforma del 1975 segnò un notevole cambiamento in Italia sul piano legislativo penitenziario.

Infatti la legge 354 attuò, almeno sulla carta, l'articolo 27 della costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Principio basilare di questa concezione era che la pena poteva e doveva essere tendenzialmente rieducativa, e cioè includere una serie di attività e interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto; infatti, ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto doveva innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all’esterno che all’interno del carcere.31

In primo piano vi era, dunque, la figura del detenuto e non più, come accadeva nel regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria con le esigenze di disciplina ad essa connesse. L’impianto dell’ordinamento penitenziario poneva adesso alla base del trattamento i valori dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da corollario l’affermazione del principio della assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose”. Ai detenuti veniva assicurata parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari e nessuno fra essi “poteva avere, nei servizi dell’istituto, mansioni che comportino un potere disciplinare o consentano una posizione di preminenza sugli altri”. Il rispetto per la persona si esprimeva anche nella previsione per cui i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con

31 Cfr, A. Zeppi, La riforma dell'ordinamento carcerario, Rivista giuridica, www.ambientediritto.it.

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il loro nome: si trattava, evidentemente, di una netta presa di posizione nei confronti della prassi di indicare i reclusi con il numero di matricola fatta propria dal Regolamento del 1931.

1.3.1. La legge 354/75

La riforma dell’Ordinamento penitenziario è stata dunque realizzata con la legge n. 354/75. La legge è divisa in due titoli, “Trattamento” e “Organizzazione”. Il primo titolo si rifà ai principi costituzionali, sia per quanto concerne le modalità detentive (art. 27 Cost.), sia per tutto quello che riguarda la libertà personale. Il concetto di umanizzazione della pena è ben evidente nell’art. 1, comma 1, della citata legge, che stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.” E ancora, l’ultimo comma dello stesso articolo recita: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.32

Di fondamentale importanza è l’art. 4 dell’ordinamento, che assicura ai detenuti e agli internati l’esercizio personale dei loro diritti anche se si trovano in stato di interdizione legale. La decisiva svolta rispetto al Regolamento del 1931 si esprime, dunque, anche nel riconoscimento al detenuto di una propria soggettività giuridica, venendo identificato e definito quale titolare di diritti e di aspettative e legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto. E si tratta, per lo più, di valori tutelati dalla Costituzione, esprimendosi nei diritti relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale. La riforma interviene poi sui vari aspetti dell’istituzione carceraria, quali, per esempio, le spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentiva, gli edifici penitenziari, l’igiene personale, il servizio sanitario, nonché le attrezzature per le

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attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione.33

Ulteriore elemento innovativo della legge 354/75 è il trattamento personalizzato: si prescrive, infatti, l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, utile all’assegnare al detenuto il "luogo" in cui scontare la pena (tipo di istituto e sezione). Al riguardo è esemplificativo l’art. 13, il quale stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiche, psichiche e le altre cause del disadattamento sociale”.

L'osservazione è compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed é compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione.34

Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi risultati. Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento.

Gli elementi del trattamento previsto dalla riforma riguardano l’istruzione, il lavoro, le attività culturali, ricreative e sportive, nonché gli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia35. Vi sono due principi molto

importanti nella legge del ‘75: uno riguarda la discontinuità della pena, con la flessibilità dei permessi (che permette ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli familiari); l’altro riguarda la flessibilità della pena, con la liberazione anticipata. In base a quest’ultimo principio, il giudice di sorveglianza controlla il comportamento del detenuto, osserva il divenire della sua

33 Cfr, legge n. 354/75, artt. 2-5-8-10-12,

http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/op/opitaliano.htm. 34 Zeppi A., op. cit. , www.ambientediritto.it.

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personalità, accertandone l’eventuale partecipazione al processo rieducativo, in base al quale poter poi concedere una riduzione della pena. Questa prospettiva non è comprensibile se si rimane legati a un concetto vendicativo di pena. Sta proprio qui il netto cambiamento di ottica insito nel nuovo ordinamento penitenziario.

Si parla, poi, di misure alternative alla detenzione, che possono consistere nell’affidamento in prova al servizio sociale, nella semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di determinate pene: la novità, in questo caso, sta nel fatto che è proprio la magistratura di sorveglianza ad essere chiamata a gestire permessi e misure alternative, attuando così una collaborazione inedita con l’amministrazione.36

L’affidamento in prova al servizio sociale è considerato la misura alternativa alla detenzione per eccellenza, in quanto si svolge interamente nel territorio, mirando ad evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. E’ regolamentato dall’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario, così come modificato dall’art. 2 della Legge n. 165 del 27 maggio 1998, e consiste nell’affidamento al servizio sociale del condannato fuori dall’istituto di pena per un periodo uguale a quello della pena da scontare. La semilibertà, invece, può essere considerata come una misura alternativa impropria, in quanto, rimanendo il soggetto in stato di detenzione, il suo reinserimento nell’ambiente libero è parziale. E’ regolamentata dall’art. 48 dell’Ordinamento Penitenziario, e consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto di pena per partecipare alle attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, in base ad un programma di trattamento, la cui responsabilità è affidata al direttore dell’istituto di pena.37

La riforma del ’75 permise ai detenuti, al fine della rieducazione e del conseguente reinserimento sociale, di avvalersi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività ricreative, culturali e sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Sono questi i

36 Cfr, Lovati A., Carcere e territorio. I nuovi rapporti promossi dalla legge Gozzini ed un'analisi del trattamento dei tossicodipendenti, Franco Angeli, Milano, 1988, pp. 27-44.

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nuovi elementi del trattamento che mirano a superare la chiusura e l’isolamento del mondo carcerario.

Un principio importante, infatti, è quello che prevede la partecipazione della comunità esterna: si profila la possibilità di uno scambio assolutamente nuovo tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento dei detenuti nella società. L’impegno dell’amministrazione penitenziaria a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti, non si traduce solo nel dovere di curare la formazione scolastica e professionale dei reclusi, ma è teso anche alla promozione di nuovi stimoli e interessi volti al miglioramento del substrato culturale del condannato.

Nel secondo titolo della legge troviamo tutta una serie di disposizioni relative all’organizzazione penitenziaria, le quali intervengono in materia di istituti, di giudici di sorveglianza, di procedimento di sorveglianza, di servizio sociale e assistenza e infine di personale penitenziario. Vengono dunque introdotte, al fine dell’osservazione scientifica e del reinserimento sociale del detenuto, delle figure professionali del tutto nuove all’interno dell’istituzione carceraria. Accanto agli agenti di custodia preposti alla custodia del detenuto e al mantenimento dell’ordine pubblico, compaiono gli educatori, portatori del preciso mandato del trattamento rieducativo, e gli assistenti sociali, curatori della nascente “area penale esterna”, che prende corpo con la previsione delle “misure alternative alla detenzione”.

1.3.2. Le nuove figure previste della riforma

Il gruppo di osservazione scientifica della personalità è costituito da un nucleo stabile di componenti professionali. Essi corrispondono, in definitiva, alle aree di indagine che interessano le esigenze che il soggetto presenta sotto il profilo medico-psicologico, affettivo, educativo e sociale. Tale nucleo è costituito da: il medico, lo specialista, l’educatore e l’assistente sociale, con il direttore dell’istituto, membro e presidente. Ad esso si aggiungono, con contributi diretti o

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mediati dai componenti stabili, tutti coloro che a vario titolo entrano in relazione con il soggetto. Tra i compiti che la normativa penitenziaria raggruppa sotto le competenze dell’area educativa troviamo: la cura delle attività di istruzione scolastica e professionale, di quelle lavorative, culturali, ricreative, sportive e in genere miranti al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati; l’offerta agli imputati di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali, e ciò anche attraverso la collaborazione della comunità esterna.

La figura professionale a cui la normativa riconosce un ruolo centrale all’interno dell’area è quella dell’educatore. A quest’operatore è affidata la segreteria tecnica del gruppo d’osservazione e trattamento, nonché una pluralità di compiti che attengono al trattamento rieducativo del recluso. Dell’area, oltre agli educatori, fanno parte anche altre figure professionali, operatori e volontari, la cui opera viene svolta all’interno delle cosiddette attività d’osservazione e trattamento.

La figura dell’educatore ha saputo portare, all’interno della realtà chiusa del carcere, un elemento di novità, di diverso approccio culturale, un ponte tra il mondo carcerario e quello esterno, fino ad allora mediato solo attraverso la figura del cappellano. Attraverso l’educatore, il carcere diventa un luogo sempre più aperto e sempre più avviato a colmare quelle distanze con cui erano stati vissuti quei pochi metri di muro di cinta che separa il dentro dal fuori. L’educatore colma queste distanze e occupa uno spazio che enfaticamente il legislatore definisce “umanizzazione della pena”, quasi a voler riconoscere la disumanizzazione di un sistema che, fino a quel momento, aveva fatto prevalere la carcerazione sempre più come vendetta sociale e sempre meno come rieducazione.

La riforma penitenziaria nel suo complesso ha affermato, quindi, l'idea di un carcere come luogo di opportunità, prevedendo servizi utili per il progetto di recupero sociale da realizzarsi con il coinvolgimento attivo e la solidarietà della società esterna; ha diffuso l'idea di un'esecuzione penale capace di guardare essenzialmente all'uomo, una vera e propria rivoluzione intesa come cambiamento radicale di un’impostazione ideologica, gestita e governata, però, da un’amministrazione il cui assetto organizzativo risalente al 1922, anno in cui la

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Direzione Generale delle Carceri e dei Riformatori passò dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia, assumendo, nel 1928, la denominazione di Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena, era rimasto pressoché inalterato. Ad una riforma così profonda e radicale della filosofia dell’esecuzione penale non si accompagnò, quindi, alcun significativo mutamento dell’assetto ordinamentale dell’amministrazione centrale e delle sue articolazioni periferiche.38

In definitiva, la riforma penitenziaria del 1975 ebbe scarso successo pratico, poiché, le ideologie di fondo che la ispirarono erano contrastanti e poco meditato ne fu il risultato ottenuto. Come parte della dottrina39 ha fatto notare, gli anni che

precedettero la legge sull'ordinamento penitenziario, furono caratterizzati da istanze utopiche di riformismo penale.

La principale causa del fallimento della riforma penitenziaria è da rinvenirsi nell'aver ingenuamente affidato all'istituzione penitenziaria il duro compito di attuare la legge, nonostante un'impreparazione facilmente prevedibile. Tale insuccesso "assume un valore emblematico sotto l'aspetto dei rapporti tra il testo della legge e le strutture operative, materiali e personali, necessarie per darvi attuazione. La legge penitenziaria è forse l'esempio più evidente di una riforma che, scritta sulla carta, è rimasta completamente priva di strumenti di attuazione".40

A distanza di otto anni dalla riforma del 1975, un primo intervento organizzativo, segno di un più sostanziale e profondo rinnovamento dell’Amministrazione, si ha con il Decreto Ministeriale del 20 luglio 1983. Esso rappresenta il primo tentativo di realizzare una struttura capace di conseguire al meglio gli obiettivi della legge, e quindi di soddisfare le crescenti attese della società civile sensibile ai temi di un carcere riformato e aperto alle nuove istanze risocializzanti. Fu il primo passo per trasformare in realtà i principi ispiratori della

38 Cfr, Di Somma E., La riforma penitenziaria del 1975 e l’architettura organizzativa dell'amministrazione penitenziaria, Rassegna penitenziaria e criminologica, anno 2005, Roma, pp. 11-12.

39 Cfr, Grevi V., Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l. 10 ottobre 1986, in Aa.Vv., L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova,1988; Pavarini M., Fuori dalle mura del carcere: la dislocazione dell'ossessione correzionale, in Dei delitti e delle pene,1986.

40 Cfr, Neppi Modona G., Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Giuffré, Milano, 1977.

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riforma anche attraverso un radicale mutamento della coscienza professionale e sociale degli operatori penitenziari, nella profonda convinzione che soltanto con la convinta partecipazione degli “addetti ai lavori”, che per primi chiedevano un ammodernamento della struttura organizzativa, si sarebbe potuto tentare un concreto processo di rinnovamento.

1.3.3. La legge Gozzini

È sopratutto negli anni ottanta che si assiste, in Italia, ad un mutamento di spinta progressista e innovatrice nel campo della giustizia. Innanzitutto vi è una crescita dell’interesse e della difesa dei diritti umani, che spinge ad un nuovo rapporto carcere-territorio.

La rivisitazione dell’intero ordinamento penitenziario risale al 1986, quando si ebbe un importante intervento normativo realizzato con l'attuazione della legge n.663, che va sotto il nome di legge Gozzini: questa legge vide la forte e convinta partecipazione dell’Amministrazione penitenziaria alla creazione di norme dirette ad ampliare le opportunità di reinserimento sociale che si muovessero con maggiore chiarezza e determinazione nella direzione di una più compiuta realizzazione dei principi già sanciti dalla riforma del 1975.

Con la legge del 1986 si configura quindi la possibilità di ampliare ed approfondire le questioni lasciate aperte dalla riforma, permettendo l’osmosi e la permeabilità tra prigione e mondo esterno, favorendo l’ampliamento delle possibilità per i condannati di usufruire di misure alternative alla detenzione. Infatti essa ha introdotto, tra le varie alternative, la detenzione domiciliare, con tale beneficio si è voluto ampliare l’opportunità delle misure alternative consentendo la prosecuzione, per quanto possibile, delle attività di cura, di assistenza familiare, di istruzione professionale, già in corso nella fase della custodia cautelare nella propria abitazione (arresti domiciliari) anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, evitando così la carcerazione e le relative conseguenze negative. La misura consiste

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