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Aldo Buzzi: una ricetta per il paradiso

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Academic year: 2021

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Aldo Buzzi: una ricetta per il

paradiso

Niccolò Scaffai (/users/nscaffai )

La ricetta è molto più di una lista d’ingredienti, è una scomposizione della realtà nei suoi singoli elementi, che prefigura un esito ideale e, in questo senso, innaturale. Tra quegli elementi, o cause, e l’effetto che ne dovrebbe risultare non è possibile istituire alcun rapporto di consequenzialità diretta, lineare: nel mezzo c’è l’abisso della contingenza, delle circostanze accessorie, degli errori, dell’esperienza fatta o mancata. Perciò la ricetta può essere anche una forma d’invenzione pura, libera dalla finalità cui tende ma che non ha l’obbligo di raggiungere e illustrare. Sarà per questo che la ricetta come forma letteraria rientra nel repertorio di uno degli

scrittori che meglio hanno colto l’impossibilità, conoscitiva e narrativa, di seguire il filo degli eventi se non a ritroso: 

 

Del grifo e del naturale porcino di lui, altresì adduceva la favola, in aggiunta di quel di sopra, come nel corso di tutta una interminabile estate egli non avesse cibato se non aragoste in salsa tartara, merlani in bianco con fiotti di màjonese, o due o tre volte il pejerey; e piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo, e piccolette, ma di già un po' sfatte, inficiate, queste, nel sugo stesso venutone da quegli stessi piccioni: farciti alla lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l'origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimiento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasiché non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei visceri più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invece un piccione. (C. E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di E. Manzotti, Torino, Einaudi, 1987, p. 89)

 

Di questo brano memorabile della Cognizione si è ricordato un altro geniale autore e inventore di scritture ‘in forma di ricetta’: Aldo Buzzi. Nato a Como nel 1910, laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1938, Buzzi aveva cominciato a dedicarsi alla letteratura collaborando con «Corrente», «Il Selvaggio»,

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«Prospettive». Ma nella sua lunga vita (è morto a Milano nel 2009) Buzzi lavorò anche nell’editoria, come direttore di collana per Domus e Poligono e come redattore per Rizzoli; e per il cinema, collaborando a partire dall’inizio degli anni Quaranta con Lattuada, e poi tra gli altri con Comencini e Fellini, e codirigendo il documentario America Pagana (1956). 

Al Piccione ripieno, come quello evocato da Gadda, è dedicata una delle prose di Buzzi, inclusa in uno dei suoi libri più famosi e quasi di culto, L’uovo alla kok (uscito da Adelphi la prima volta nel 1979 e in una nuova edizione riveduta e accresciuta nel 2002). Quella raccolta si può leggere ora nel volume che riunisce la produzione complessiva dell’autore: Aldo Buzzi, Tutte le opere, a cura di Gabriele Gimmelli. Disegni di Saul Steinberg. Introduzione di Antonio Gnoli, Milano, La Nave di Teseo. 

Il fatto che a un autore ‘eretico’ (l’«eresia di Buzzi» osserva Gnoli «consistette nell’unire ciò che il canone letterario teneva separato: gastronomia e racconto», p. XI) sia dedicato un volume ricco e ben curato da Gimmelli, che vi mette a frutto le sue competenze di studioso di letteratura ed esperto di cinema, è un primo indizio di straordinarietà. Il secondo, solo apparentemente estrinseco, è la mole stessa del libro (seicento pagine), valorizzata dalla veste tipografica: non c’è scaffale o vetrina in cui non risalti il rosa della sovraccoperta, che fa da sfondo agli eleganti grigi del ritratto di Buzzi.

 

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Dimensioni e colori sono elementi – dicevo – non solo o non del tutto estrinseci, perché esprimono una caratterizzazione grafica coerente con lo ‘stile’ (inteso come scrittura, come forma visuale della mise en page e come lettura e riformulazione del mondo) di Aldo Buzzi, che proprio con un grande disegnatore come Saul Steinberg strinse un lungo sodalizio (l’edizione delle sue Lettere a Aldo Buzzi. 1945-1999 è

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stata pubblicata a cura del destinatario per Adelphi, nel 2002; l’anno prima, per lo stesso editore, era uscito un loro libro a quattro mani, Riflessi e ombre).

La necessità di dare rilievo allo stile rende opportuna la scelta di pubblicare, in apertura, il Taccuino dell’aiuto-regista in forma anastatica, per conservarne

l’originale assetto grafico, studiato da Bruno Munari per l’edizione Hoepli del 1944 (la stessa soluzione era stata adottata da Ponte alle Grazie per la ristampa del

Taccuino nel 2007). A quel libro seguono altri cinque titoli, cui Buzzi affidò negli

anni scritti di viaggio, prose, pensieri, dialoghi, memorie e, appunto, ricette: Piccolo

diario americano, Čechov a Sondrio e altri viaggi, il già ricordato Uovo alla kok, Un debole per quasi tutto e Parliamo d’altro (con le varianti introdotte dall’autore

fra il 2007 e il 2008). Sono state invece escluse le opere in tutto o in parte rifuse nelle sei precedenti, così come i brevi testi di servizio apparsi in sedi diverse, il testo per bambini Segui la pista… e i due libri con Steinberg prima citati. Per la scelta dei testi, Gimmelli ha potuto contare su un memorandum, risalente al 2008, e su altri documenti nell’archivio dello scrittore, che hanno permesso anche di stabilire la forma che Buzzi, autore di molte varianti e riscritture, prevedeva di dare alle opere. Scorrendo il volume, si possono ‘leggere’, insieme allo scritto, le riproduzioni che lo integrano in un progetto fototestuale. Il dialogo fra parola e immagine sottolinea il tema dell’«innaturalezza» che, da principio tecnico dell’arte cinematografica, può diventare una chiave di lettura per l’opera stessa di Buzzi, in quanto ri-creazione della realtà senza vincolo di mandato e pretesa di immediatezza o verità. S’intuisce così che tra la forma della ricetta e le idee alla base del Taccuino esiste un nesso che è cruciale per la poetica buzziana:

 

Più la storia del film sarà vera (naturale) e più veri e naturali dovranno sembrare la recitazione, il trucco, i costumi, le luci, l’architettura. Il segreto della recitazione cinematografica sta in una parola che sembra detta naturalmente mentre è recitata. Per la stessa ragione pioggia, neve, vento nel cinema non sono di solito, pioggia, neve, vento naturali. (E così gli ambienti, i mobili, i vestiti, le luci). Questa innaturalezza non tende a modificare la realtà (madre del cinema) ma a riprodurla. La Natura, fotografata come è, non assomiglia a se stessa. (p. 29). 

 

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Per restituire un’impressione autentica della Natura, bisogna darne una versione artefatta, risultato di una composizione degli elementi. È solo mettendole in posa, immaginandole prima ancora di viverle, che realtà ed esperienza possono filtrare nella pagina. Buzzi non racconta quindi una storia ma dispone degli oggetti in un quadro (le immagini, che costellano i suoi scritti ne sono perciò una parte integrante e necessaria) e assimila situazioni e memorie come attraverso un diorama:

 

Al centro della sala, su una piattaforma girevole, il Firebird, l’Uccello di fuoco della GM,

automobile razzo. Si proietta un pezzo di documentario dove lo si vede correre su una bellissima strada nel deserto. Due giovanotti danno dalla piattaforma spiegazioni al pubblico che non comprerà mai il Firebird, rispondono seriamente anche alle domande dei ragazzini. Alla fine ritiriamo i paltò lasciati al GM Press Headquarters. Una quantità di gente, donne elegantissime, uomini ben messi, ben rasati, sigari avana, mucchi di fotografie e stampati a disposizione. Vaga impressione di lavoro inutile, di ingegnoso perditempo. Il vero lavoro lo vedo guardando dalla strada in una vetrina di stireria: due lunghe file di uomini e donne che stirano senza riposo, senza scambiarsi una parola, uno dietro l’altro. E anche dalla ferrovia sopraelevata, passando di sera davanti alle vetrate di certi saloni industriali: donne al lavoro alla macchina da cucire; in un angolo un uomo in maniche di camicia sorveglia, fumando, il lavoro.

 

Mostra di gatti all’Hotel… Vecchia terribile, col cartoncino Press all’occhiello, penna e catalogo in mano, calze ondulate dalle vene varicose, cappello a due corni, a gatto.

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Prima sala: libri sui gatti, la rivista degli amatori di gatti, oggetti utili e regali per gatti: tappetini impermeabili, topi di gomma col sibilo, cibi in scatola, pettini e spazzole.

Seconda sala: lunghe file doppie di gabbie coi gatti stesi su tappetini o in scatole in mezzo ai nastri di seta blu, verde, rossa dei premi vinti. Se ne infischiano completamente della gente che viene a vederli. I più dormono nelle pose più sbracate. (Piccolo diario americano, p. 97)  

 

Enumerazioni e descrizioni come queste sono tra le forme retoriche privilegiate da Buzzi, che se ne serve per giustapporre gli oggetti sulla superficie della visione. Collezioni d’immagini acquistate attraverso viaggi, letture, incontri: del resto, come rivela il titolo di un suo libro, lo scrittore aveva Un debole per quasi tutto. Se

dovessimo indicare un dispositivo alla base dell’opera di Buzzi diremmo perciò che si tratta della metonimia, la figura dell’accostamento. La successione e la stessa inclusione degli oggetti nella cornice dello sguardo non sono orientate, non impongono un’interpretazione; la chiave del significato, se proprio deve essere trovata, starà piuttosto nell’assenza di un telos. L’arte segreta di Buzzi consiste nell’indugiare e attrarci intorno alle cose, mostrandocele così chiare e naturali da farci sperare o temere che nascondano un trucco, un’illusione o un artefatto, come al cinema o come in sogno. Ma forse quel che insegna la lettura distesa di Tutte le

opere di Buzzi è che non c’è niente di più metafisico della concretezza fisica dei

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realia, se li osserviamo intensamente, li nominiamo e lasciamo che s’imprimano

nella memoria. Così, se esiste un paradiso per lo scrittore, l’unico modo per rappresentarlo è scomporlo nei suoi ingredienti più semplici. Le ricette servono anche a questo:

 

Il mio paradiso è così: un lungomare senza traffico, un largo passeggio irregolare lungo la spiaggia, lastricato di piastrelle su cui si cammina comodi anche a piedi nudi. Un muretto basso verso la spiaggia, dove si può sedere. Piccoli stabilimenti balneari con poche cabine, pochi ombrelloni ormai chiusi perché il sole è tramontato. Piccoli caffè, bar, cartoline illustrate, palme non sempre in buono stato, tamerici. Qualche cane, qualche gatto, un gabbiano, un bagnino che rastrella la sabbia. (p. 353).

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Buzzi e Federico Patellani preparano una scena di "America Pagana" in Messico, 1956.

01 luglio 2020

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