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Rebecca e le altre: le figure femminili in Baricco

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Academic year: 2021

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Ca' Foscari Venezia

Corso di Laurea in 

Filologia e Letteratura

Italiana Moderna e

Contemporanea

Tesi di Laurea Magistrale

Rebecca e le altre: le

figure femminili in

Alessandro Baricco.

 Relatrice Ch. Prof. ssa Ricciarda Ricorda Correlatori Ch. Prof. ssa Monica Giachino Ch. Prof. Aldo Maria Costantini Laureanda Miriam  Campaner  Matricola 833626 Anno Accademico 2015 / 2016

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INDICE Premessa        pag. 3 1. EMMAUS      pag. 11 1.1 La Passione di Andrea      p. 11 1.2 L'amicizia nel dolore       p. 20 1.3 Uscire dal guscio: la società e il tradizionalismo       p. 26 2. MR GWYN      pag. 31 2.1 Rebecca, la donna­azione      p. 36 2.2 Il grillo parlante con il foulard in testa      p. 42 2.3 Gli anonimi di Mr Gwyn       p. 46 3. NEL POSTO GIUSTO, AL MOMENTO DIVERSO       pag. 48 3.1 “Non ho mai finito una cosa nella vita”      p. 48 3.2 Un tempo anomalo      p. 55 3.3 La lobby dell'albergo       p. 60 3.4 Klarisa Rode e Rachel       p. 66 3.5 Notturno in tempo largo      p. 75 4. LA SPOSA GIOVANE       pag. 80 4.1 Una composta follia       p. 80

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4.2 L'attesa in sospensione       p. 84 4.3 “Intatta dimorava la permanenza del suo amore”       p. 87   4.4 Il narratore “a scomparsa”      p. 93 5. L'ESATTEZZA NEL PERSONAGGIO      pag. 101 Simmetrie e ritorni      pag. 113 Riferimenti bibliografici      pag. 119 2

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PREMESSA

Per una storia del personaggio romanzesco.

«L'identificazione­con» (Ricoeur), propria della dialettica del personaggio, non si presenta   più   come   una   miseria   psicologica,   ma   come   il   primo   passo   della comprensione di una possibilità dell'essere che ci mette sempre in tensione e in questione. Sia il testo che il suo protagonista sono dunque un 'come se' della nostra situazione e, in quanto tali, definiscono gli orizzonti conoscitivi (ed etici) della nostra abitabilità del mondo1 I personaggi dei romanzi, nelle parole di Enrico Testa, costituiscono una possibilità, una visione alternativa e un'apertura alle eventualità della nostra vita reale di donne e uomini. Immergendoci nella narrazione, siamo portati ad immergerci nelle vite   dei   protagonisti,   nelle   loro   storie,   a   capirli,   avvicinandoci   a   quella «identificazione­con» di cui Paul Ricoeur scriveva2. I personaggi stessi, a loro volta, nel corso della storia sono coinvolti in maniera più o meno profonda e incisiva, e attraverso   dinamiche   sempre   diverse   possono   subire   dei   cambiamenti   interiori rilevanti   dovuti   al   susseguirsi   degli   eventi.   Viceversa,   alcuni   personaggi indipendentemente   dalla   loro   vicenda   si   dimostreranno   impermeabili   alle vicissitudini   esterne  e  alla  fine  del  romanzo   li   ritroveremo  immutati  nella  loro essenza iniziale. Anche l'interazione tra i vari personaggi all'interno di un'opera determina il grado di coinvolgimento degli stessi, la loro perseveranza verso un obiettivo, la loro adattabilità alle situazioni o la loro passionale tensione alla verità.  Queste caratteristiche, secondo Testa, portano a una dicotomia nella tipologia dei   personaggi   romanzeschi   del   Novecento:   il   critico   infatti   ha   formulato   la distinzione tra “personaggio assoluto” e “personaggio relativo”. Nella prima parte della sua analisi il “personaggio assoluto”  è identificato con gli eroi del modello kafkiano, tutti tesi al raggiungimento della verità, privi di relazioni con il mondo esterno al proprio io e perciò caratterizzati da un'esasperazione della soggettività; 1 Enrico TESTA, Eroi e figuranti, Torino, Einaudi, 2009, p. 5. 2 Paul RICOEUR, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 75­117, in: E. TESTA, op. cit., p. 5.

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spesso   la   loro   determinazione   li   porta   alla   disintegrazione   del   proprio   Io   senza possibilità di ritorno. Nell'Epilogo3  l'autore riprende il concetto definendoli “eroi dell'antivita”: il personaggio assoluto è appunto ab­solutus, slegato da ogni contatto e interazione con la realtà che lo circonda e persegue la sua indole ripiegato su se stesso. Per quel che riguarda il “personaggio relativo”, la riflessione di Testa si concentra sulla “passività creatrice”4 propria di queste figure: esse sono entità malleabili, che si lasciano coinvolgere e segnare dalla realtà e dalle interazioni con il contesto, passando sempre per una evoluzione, avvenga questa attraverso crisi o attraverso sviluppo. Qui la questione di rilievo non è più la verità del proprio Io, ma il bene: essi creano, agiscono, modificano e si lasciano modificare dal mondo, arrivando non alla   dissoluzione   (come   nel   caso   del   personaggio   assoluto)   ma   piuttosto   a   una ricostruzione continua. Le peculiarità di questa categoria di personaggi secondo Testa sono tre: “temporalità, mutabilità e relazione5”: la loro è una partecipazione su tutti i livelli, perché si lasciano coinvolgere dal tempo, si lasciano modificare dalle vicende e si avvicinano agli altri personaggi creando rapporti e legami. 

L'agile   analisi   di   Testa   è   una   delle   più   recenti   ipotesi   critiche   per   una rilettura del personaggio novecentesco (2009); un altro saggio, di poco anteriore, che propone una visione duale dell'entità­personaggio, è quello di Giovanni Bottiroli6 che osserva il fenomeno dal punto di vista filosofico e ontologico. In particolare, lo studioso   distingue   tra   un'identità   “rigida”   e   un'identità   “flessibile”.   Il   discorso prende avvio dalla separazione tra concezione “proprietaria” del personaggio, ovvero la descrizione delle sue caratteristiche e proprietà, (associata a quella tradizionale entrata in crisi in seguito alle teorie dello Strutturalismo) e concezione “modale”, che   riguarda   l'esistenza   e   le   modalità   d'essere   del   personaggio   all'interno   della

3 E. TESTA, op. cit., p. 96. 4 Ivi, p. 31. 5 Ivi, p. 97. 6 Giovanni BOTTIROLI, Identità rigide e flessibili. Per una concezione modale del personaggio. In: Il personaggio. Figure della dissolvenza e della permanenza  (a cura di Chiara LOMBARDI), Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2008, pp. 41­58. 

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narrazione.   Secondo   Bottiroli,   il  problema   del   personaggio   è   legato   al   problema dell'identità e solo attraverso una prospettiva modale è possibile giungere ad una soluzione che permetta di occuparsi adeguatamente dell'identità del personaggio. “Rigido” e “flessibile” sono quindi due categorie modali del personaggio; flessibile è il personaggio   “che   non   coincide   con   se   stesso”,   ovvero   la   cui   identità   può   essere definita   come   alterità,   come   “illimitata   ma  reattiva  capacità   di   adattamento”7. Rigido è il personaggio inscindibile, immutato; un personaggio totalmente “rigido” è molto raro, spiega Bottiroli, così come un personaggio esclusivamente “flessibile”, poiché nella maggioranza dei casi i personaggi sono costituiti dal confronto/conflitto tra rigidità e flessibilità.  Si possono riscontrare alcuni punti in comune, seppur con le cautele del caso, tra l'analisi modale di Bottiroli e la dicotomia di Testa: accostando il personaggio assoluto alla teoria dell'identità rigida, notiamo che questa tipologia si definisce attraverso   la   fissità   e   la   fedeltà   a   se   stesso   e   alla   sua   modalità,   appunto.   Il personaggio   relativo,   di   contro,   può   essere   avvicinato   al   concetto   di   identità flessibile, non coincidente con se stesso ma sempre mutevole e soggetto al conflitto tra stili di pensiero differenti, di volta in volta dipendenti dal contesto nel quale viene calato.

Un esempio illustre è citato da Arrigo Stara8, che presenta la teoria di Hegel formulata sul personaggio romantico in contrapposizione ai “personaggi­eroi” delle epoche   precedenti.   In   particolare,   Stara   si   riferisce9  alla   differenza   nella responsabilità individuale che coinvolge il personaggio letterario, che si è ridotta facendo del personaggio moderno “un essere sempre più inconsistente e privo di carattere”10.   Nel   nuovo   profilo   che   va   delineando   per   il   personaggio,   il   critico distingue tra “azione”, propria degli eroi e cavalieri passati, e “individualità”, intesa come   introspezione   e   personalità   complessa.   Anche   in   questo   caso,   come   nella

7 Ivi, p. 54.

8 Arrigo STARA, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier Università, 2004.

9 L'edizione a cui Stara fa riferimento  è: G. W. F. HEGEL,  Estetica, Milano, Feltrinelli, 1963

(1978).

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dialettica rigidità/flessibilità presa in esame sopra, le due componenti devono essere in equilibrio tra loro; in caso contrario, si andrebbe incontro o a “personaggi che non sono in grado di uscire dalla sfera della propria interiorità” oppure ad altri che “smarritisi   dietro   la   molteplicità   delle   proprie   avventure,   non   riescono   più   a stabilire   alcun   raccordo   individuale   con   essa”11.   L'accostamento   con   l'analisi   di Bottiroli   torna   nuovamente:   se   il   personaggio­eroe   presenta   dei   tratti   che corrispondono   alla   “rigidità”,   ad   esempio   la   quasi   invariabilità   del   carattere,   il personaggio moderno per Hegel  è ciò che potremmo definire “flessibile”, con un pensiero individuale e determinato, ma aperto e influenzabile. Stara descrive il nuovo personaggio come un “eroe medio”12, “capace di preservare in se stesso quegli ideali, quel 'diritto infinito del cuore' che lo ponevano in insanabile dissidio con la prosa  della  realtà  circostante”13. Di  qui  la  narrazione  non   si  centrerà  più  sulle vicende epiche e sulla gesta dei personaggi, ma sul loro mondo interiore e familiare.  Lo studioso fa inoltre riferimento a Virginia Woolf, che nei suoi diari scrive come   “i   personaggi   non   debbono   essere   altro   che   intenzioni,   punti   di   vista:   la personalità   dev'essere   evitata   a   qualunque   costo”14.   A   partire   da   questa affermazione,   Stara   distingue   due   correnti   di   pensiero   che   si   rivolgono   al personaggio da un lato come a un'entità narrativa con sempre minore importanza, e dall'altro come un meccanismo da inserire in un sistema/macchina da scomporre e analizzare. Giungiamo quindi alla perdita del valore del personaggio in sé, del suo allontanamento   dalla   sfera   razionale   e   umana,   e   assistiamo   alla   nascita   di personaggi sfuggenti, indisciplinati, che rendono molto difficile, se non impossibile, una   “identificazione­con”.   A   partire   dagli   anni   Sessanta,   spiega   Stara,   si considereranno   i   personaggi  sempre  meno   in  quanto  caratteri  antropomorfici, e sempre più come “elementi tecnici funzionali a un progetto narrativo”15 11 Ivi, p. 127. 12 Ivi, p. 132. 13 Ivi, p. 131.  14 In STARA (op. cit. p. 162) si cita V. WOOLF,  Diario di una scrittrice (1953), trad. it. Einaudi, Torino, 1953 (Mondadori, Milano, 1980), p. 92. 15 A. STARA, op. cit., p. 172.

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Ci si avvicina al disfacimento del personaggio a cui assisteremo anche in Italia   con   la   letteratura   di   Pirandello,   Svevo,   Gadda,   Calvino:   le   nuove   opere saranno accomunate “dall'idea di un fallimento, di una disgregazione per così dire storica   del   concetto   di   personaggio   in   quanto   rappresentante   di   un  io,   di   un individuum capace di costituire l'origine di una serie coerente di comportamenti”16. Per un tentativo di reintegro completo si dovranno aspettare gli anni Novanta e il già   citato  Sé   come   un   altro  di   Ricoeur:   per   il   filosofo   francese   l'identità   del personaggio viene costruita dal racconto, che la rende quindi un'identità narrativa che   a   sua   volta   partecipa   a   quella   della   storia   raccontata.   È   allora   proprio   la possibilità di associare la narrazione ad uno o più protagonisti dotati di carattere e di identità precise, e non ad un puro ruolo o funzione che distingue la storia in quanto tale. Conclude Stara: «L'abbandono dell'identità narrativa del personaggio avrebbe finito con il comportare, nello stesso tempo, quella della 'configurazione del racconto' in quanto rappresentazione di un'esperienza umana, nella forma in cui era stata conosciuta nel passato»17

Già   Debenedetti,   qualche   decennio   prima,   aveva   rilevato   una “spersonalizzazione” del personaggio e aveva predicato, su tutto, di «riconoscere, sotto la trama logica dei propri discorsi, un vivo profilo delle proprie avventure d'uomo18»;   questo,   secondo   Franco   Brioschi,   in   un'opera   autentica   costituirebbe «garanzia, dunque, che la comunicazione letteraria ha tenuto fede a quel patto di sincerità che ci impegna, nell'intimo della coscienza, con i nostri simili»19. Brioschi parlava dal punto di vista dello scrittore: un impegno in prima persona, condiviso e iniziato proprio con Debenedetti, che insisteva sull'importanza di quella ormai nota “identificazione­con”, da lui così espressa:  Si dice che la professione [del personaggio] sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la 16 Ivi, p. 178. 17 A. STARA, op. cit., p. 203.

18 Franco   BRIOSCHI,  Introduzione  a   Giacomo   DEBENEDETTI,  Personaggi   e   destino.   La

metamorfosi del romanzo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. XXIII.

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placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te20.

E di nuovo, Brioschi pone l'accento sul ruolo della letteratura per Debenedetti come “cosa umana” e sulla sua importanza nel cammino personale di ciascuno:

Debenedetti   concepisce   la   critica   non   come   spiegazione   e   resoconto   storico, quanto   come   intervento   e   sollecitazione.   Egli   si   propone,   piuttosto   che   di ricostruire   obiettivamente   l'essere   della   letteratura,   di   additarle   un   dover essere, affinché sempre più diventi cosa umana, ci sia compagna e scorta lungo i tortuosi labirinti della nostra esperienza esistenziale21. Questa tesi vuole partire proprio da questo punto: la letteratura come “cosa umana”, compagna e consigliera di vita, dall'”identificazione­con” che ogni lettore ha provato almeno una volta di fronte a qualche testo.  Nel nostro specifico caso, oggetto del lavoro saranno cinque romanzi di Alessandro Baricco. I testi presi in esame sono i più recenti pubblicati dall'autore:  Emmaus (2009),  Mr Gwyn  (2011), Tre volte all'alba  (2012), Smith & Wesson  (2014), e  La sposa giovane (2015). 

In ciascun capitolo si analizzeranno i personaggi principali soprattutto dal punto di vista   psicologico,   nell'intento   appunto   di   scoprire   tutto   l'umano   che   è   in   loro   e accostarlo   alla   nostra   vita   quotidiana;   un   accento   particolare   verrà   posto   sulle figure femminili protagoniste dei romanzi. Ciascun testo infatti è impreziosito dalla presenza di giovani o donne che avranno un ruolo di primaria importanza nella narrazione; ciò che le accomuna tutte sono la costanza e la determinazione che le spingeranno ad affrontare gli eventi e a portare a compimento di volta in volta le loro vicende.  Alessandro Baricco è un autore, seppur non sempre in primo piano nella scena della critica italiana, già studiato e analizzato per la sua lingua e il suo peculiare stile narrativo; si consultino ad esempio i lavori di Pezzin22 e soprattutto 20 G. BENEDETTI,  Personaggi e destino. La metamorfosi del romanzo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 158. A cura di F. BRIOSCHI. 21 F. BRIOSCHI, Introduzione a: G. DEBENEDETTI, op. cit., p. XXIV. 22 Claudio PEZZIN, Alessandro Baricco, Sommacampagna, Cierre, 2001.

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Scarsella23, o il più recente e esaustivo Zangirolami24. Il corpus di opere critiche dedicate allo scrittore torinese è tuttavia minuto, e ci si è basati perlopiù su brevi saggi   o   recensioni;   ciò   ha   comportato   quindi   un   lavoro   approfondito   svolto direttamente sui testi presi in esame. Fatta eccezione per Emmaus, che in parte si discosta dalla narrativa baricchiana per il carattere vagamente autobiografico25  e per l'impronta da romanzo di formazione, possiamo riscontrare una prevalenza di storie esili, dalle trame abbastanza lineari, in cui il ruolo preponderante è costituito dai dialoghi; l'introspezione psicologica esplicita è ridotta e i personaggi, più che dilungarsi in profonde riflessioni, agiscono secondo la loro natura, ben determinata e chiara fin dalle prime pagine. I cinque romanzi sono tuttavia molto diversi uno dall'altro   per   struttura   e   stile:   se   in  Emmaus  ritroviamo   alcuni   caratteri   del romanzo   di   formazione,   in  Mr   Gwyn  siamo   avvicinati   da   una   sorta   di metaletteratura; Tre volte all'alba può essere letto come un reportage su eventi che possono (o avrebbero potuto, o potranno) svolgersi per tre volte, ma sempre con gli stessi protagonisti; così Smith & Wesson si presenta come un testo teatrale basato su una storia vera e infine La sposa giovane narra di un percorso di iniziazione a una nuova vita.  La presente analisi è stata finalizzata a ricavare alcune indicazioni sulla psicologia delle figure femminili che agiscono in ciascun testo, evidenziandone la forza d'animo e   l'intraprendenza;   nonostante   infatti   l'autore   spesso   non   si   soffermi   sulla caratterizzazione   introspettiva   delle   protagoniste,   l'obiettivo   è   stato   quello   di indagare anche questa sfaccettatura dei personaggi in questione.

Un   ultimo   capitolo   è   infine   dedicato   a   tracciare   un   filo   rosso   nella   produzione baricchiana a proposito di una tipologia di personaggi che sempre ritorna, dai primi testi   fino   agli   ultimi   pubblicati,   ovvero   scienziati,   artigiani,   inventori   bizzarri,

23 Alessandro SCARSELLA, Alessandro Baricco, Fiesole (FI), Cadmo, 2003. 24 Daniele ZANGIROLAMI, Alessandro Baricco. Il destino e le sue traiettorie, Venezia, Cafoscarina, 2008. 25 Nella presentazione del libro al Teatro Valle a Roma (28 novembre 2009), Baricco afferma: “Per la prima volta racconto l’habitat dove sono vissuto [...] mi sono distribuito in tutti i miei libri, sono stato pianista, commerciante di bachi da seta, ho studiato la storia della boxe... qui ci sono Torino e i miei 15 anni”. 

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artisti  sui   generis.   Chiude   una   riflessione   sul   concetto   di   “esattezza”,   che incontriamo più volte nei testi dell'autore e si può associare alla nota lezione lezione lezione di Italo Calvino sul tema26.

26 Italo CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio. Milano, Garzanti, 1988,

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1. EMMAUS Se cerco di spiegare lo squarcio di casta  che ci separa da loro, nulla mi sembra più esatto  che risalire a ciò che li rende irrimediabilmente diversi,  e apparentemente superiori ­ il disporre di destini tragici1. 1.1 La Passione di Andrea Parlando di “Emmaus”, Alessandro Baricco lo ha definito “difficile, e anche sgradevole   da   scrivere”2.  Fin   dalle   prime   pagine   il   lettore   percepisce   infatti un'atmosfera pesante, cupa, un senso di tragico che pervaderà tutto il libro. La vicenda viene raccontata in prima persona da uno dei quattro protagonisti, di cui però è taciuto il nome. Attraverso la sua voce possiamo percepire le riflessioni e le paure   di   un   giovanissimo   che   si   trova   alle   prese   con   vicende   che   esulano dall'ambiente protetto e dall'educazione cattolica in cui è stato immerso e cresciuto fino quasi ai diciotto anni e lo immergono invece in un ambiente “altro”, intricato e complesso.

Questo   mondo   è   incarnato   nella   figura   e   nella   famiglia   di   Andrea,   una ragazza coetanea dei quattro giovani protagonisti, ma “distante, compare di tanto in tanto, sempre in storie che non ci riguardano” (E 18). Andre non è bellissima, non è formosa,  non   è   atletica,   non   è   provocatrice,   semplicemente   “è”.   Tra   le   ragazze, Andre spicca per la sua grazia, il suo modo di essere, innato, etereo, superiore, ma anche disincantato, mai dolce, mai accondiscendente. Proprio per questo Andre è nei pensieri di tutti: “così, non è di nessuno, Andre, ma noi sappiamo che ­ anche ­ è di tutti” (E 21). Il narratore parla di incontri con ragazzi più grandi, con uomini, con padri; di notti passate con prostitute, a guardare i suoi amici, di notti in cui lei aspetta senza neanche girarsi, e uno dopo l'altro i ragazzi si danno il cambio nel 1 Alessandro BARICCO, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2011, p. 29. 2 A. BARICCO, Emmaus, presentazione al Teatro Valle di Roma, 3 novembre 2009.

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bagno di un cinema. “Non beve mai, non fuma, scopa lucidamente, sapendo di farlo e, si dice, sempre in silenzio. Girano delle polaroid, che noi non abbiamo visto, in cui lei è l'unica femmina. Non le importa di farsi fotografare, non le importa che alle volte siano i padri, dopo i figli, non sembra importarle di niente. Ogni mattina, nuovamente è di nessuno” (E 21). “È di nessuno”: Andre è così, appare e scompare nella vita dei protagonisti, sempre in   maniera   accidentale,   sempre   senza   dare   spiegazioni.   E   questo   contribuirà   a renderla ancora più interessante e desiderabile.  Nonostante Andre non faccia parte delle vite dei protagonisti e del loro mondo, sarà proprio lei a guidare in maniera involontaria le loro storie e la loro amicizia, e portarli in un percorso sempre più difficile, che si concluderà tragicamente. L'Io narrante, Luca, Bobby e Il Santo sono quattro amici che lungo la vicenda entreranno in contatto con l'altra faccia dell'adolescenza, quella di cui mai nessuno aveva loro parlato: l'attrazione verso ciò che è sconosciuto, il desiderio di fare nuove esperienze, di esplorare realtà diverse dalla propria, di entrare a farne parte, di sentirsi accettati e parte di una comunità speciale. I quattro amici si avvicineranno sempre di più a questo mondo diverso, oltrepassando i loro limiti, cambiando nel profondo fino a non riconoscersi più. Motore e stimolo di questa ricerca sarà Andrea, questa ragazza così distante ma così attraente, di una bellezza cruda, pura, al limite dell'androginia. La chiave di comprensione  è contenuta nel suo stesso nome, come suggerisce Maria Celia Martirani3: Andrea è un nome sia maschile che femminile, ma portatore di valori forti,   tipicamente   mascolini,   ed   è   proprio   questo   a   far   sì   che   Andrea   sia   così particolare. “Alla fine, va da sé che le ragazze un po' maschili ci risultano più gradite. Andre, in questo, è perfetta. Porta i capelli lunghi, ma con il furore di un indiano d'America – mai vista sistemarli o spazzolarli, li porta e basta. Tutta la sua 3 Maria Célia MARTIRANI, Sustentação instável, in: rascunho.com, sezione Ensaios e resenhas, n. 150, ottobre 2012. http://rascunho.com.br/sustentacao­instavel/. Ultima consultazione: 27 ottobre 2016.

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meraviglia è nel volto – il colore degli occhi, lo spigolo degli zigomi, la bocca” (E 19). Nel romanzo la ragazza è raccontata quasi sempre attraverso le parole degli altri: o indirettamente, tramite racconti di persone vicine, o nelle descrizioni delle fugaci   visioni   dei   quattro   ragazzi,   negli   incontri   fortuiti.   Pochissime   volte   nel romanzo la vediamo parlare, e quando lo fa si tratta solamente di una o due battute. Andrea appare sempre come “estranea, ed eventuale,” al di là delle possibilità dei quattro ragazzi, che quasi non osano neanche parlarne tra loro. Tutti sanno, ma nessuno parla. “Così, da lontano, ne siamo incantati, come incantati ne sono, va detto, anche gli altri, tutti. I ragazzi più grandi sanno la sua bellezza, e perfino i vecchi, che hanno quarant'anni. La sanno le sue amiche, e tutte le madri, e la sua – come una ferita nel fianco. Lo sanno tutti, che è così, e che non ci si può fare niente” (E 20). Nelle prime fasi della storia, i quattro vengono a sapere dalla madre di uno, Bobby, che Andrea ha tentato il suicidio. Lo ha fatto gettandosi in un fiume, dopo essersi  vestita  con molti strati di indumenti, in un  giorno  di forte pioggia, per inzupparsi e andare a fondo. I quattro amici si avvicinano così un po' al suo mondo, al suo essere, ma soprattutto cominciano a riflettere su quello che lei vive e sui motivi che la spingono a comportarsi come fa: “chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo, e adesso noi sappiamo perché Andre ci attira oltre ogni buon senso, e a dispetto di ogni nostra convinzione. (…) È che muore. Andre – muore” (E 27). I quattro ragazzi percepiscono quel sottile fluire di thanatos che pervade le vene di Andrea: è quello che provoca anche il fascino dell'eros in ogni suo gesto, che la rende diversa, lontana, irraggiungibile e per questo ancora più desiderabile. E con questo morire lentamente, lasciarsi andare di Andrea, possiamo interpretare il   titolo   dato   all'edizione   in   lingua   portoghese,  A   paixão   de   Andrea,   ossia   “La passione di Andrea”. “Passione” che riprende le sofferenze di Cristo prima della morte, passione come dolore verso la liberazione finale, forse una nuova vita. E infatti, alla fine del romanzo Andrea porterà in grembo una bimba, figlia di uno dei

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protagonisti. Ma nella famiglia di Andrea la vita è sempre irrimediabilmente legata alla morte: persone diverse, con destini tragici. La vita di Andrea fin dalla nascita è segnata da un'ombra di morte: mentre infatti sua madre sta partorendo, a casa la sorellina Lucia muore in un tragico incidente, annegando a 3 anni nella fontana del giardino. E quest'ombra ritorna, identica, nel tentativo di suicidio di Andrea, che si getta da un ponte per annegarsi nel fiume. “Tutta una rete di morti tesse la sua, e nella sua si prolunga l'ordito di un'unica   morte,   generato   dal   telaio   dei   loro   privilegi”  (E   30).   Un   suicidio   non compiuto, il suo, ma che ritorna poi nella storia della madre. La donna infatti si trova a raccontare una vicenda molto personale al narratore che, insieme al Santo, si è recato in casa di Andrea per un tentativo ingenuo ma deciso di redenzione della ragazza. Quando il Santo prende la parola e invita la signora a portare Andrea in chiesa   per   la   confessione,   la   madre   si   lascia   inaspettatamente   andare   ad   una rivelazione delicata e dolorosa riguardo a un giovane monaco conosciuto in una chiesa molti anni prima.  La prima volta che ci baciammo fui io a volerlo. Tutto il resto lo volle lui. Avrei potuto fermarmi in qualsiasi istante, non lo amavo così tanto, avrei potuto farlo. Ma invece lo accompagnai fino in fondo, perché era inusuale, era lo spettacolo di una perdizione. Volevo vedere fino a dove possono fare l'amore gli uomini di Dio. Così non lo salvai. Non trovai mai una ragione buona per salvarlo da me. Si è ammazzato otto anni fa (E 68).

A   conclusione   di   questo   racconto   intenso   e   drammatico,   la   madre   di   Andrea aggiunge che la ragazza è proprio frutto di questa relazione, doppiamente deviante: deviante   per   la   donna   perché   extra­coniugale   e   deviante   per   l'uomo   perché corruttrice dei voti monacali. Possiamo allora osservare in Andrea un altro legame tra Eros e Thanatos: nata da un rapporto illegittimo, già colpevole, porta con sé la morte del vero padre, suicida. Ma la catena  Eros­Thanatos  non finisce: il marito della madre  infatti, padre putativo di Andrea, morirà in  un  incidente stradale, appena  dopo   aver  incontrato   proprio  il  narratore,  che  sarà   l'ultima  persona   ad averlo visto in vita. E questo riconduce al nodo che ormai lega i protagonisti ad

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Andrea:   nel   momento   in   cui   la   voce   narrante   viene   a   conoscenza   della   morte dell'uomo, capisce anche che le voci che consideravano Andrea incinta sono fondate e il circolo vita­morte si chiude.  Allora io seppi che quel bambino c'era, perché riconobbi come la quadratura di un cerchio – l'incontro di due geometrie. L'incantesimo che governava quella famiglia, saldando ogni nascita a una morte, si era incrociato con il protocollo del nostro sentire, che collegava ogni colpa a un castigo. Ne risultava con tutta evidenza una prigione d'acciaio ­ sentii distintamente il suono meccanico della serratura (E 99). Andrea resta incastrata in meccanismi più grandi di lei, che finge di controllare ma che in realtà l'hanno ingabbiata da tempo. Nel romanzo sono molte le parole dette su   di   lei,   ma   poche   quelle   che   lei   stessa   pronuncia.   Proviamo   a   ripercorrere   i momenti che la vedono a diretto contatto con i quattro protagonisti. 

Il   primissimo   incontro   con   Andrea   avviene   telefonicamente;   facendosi coraggio a vicenda, i giovani le chiedono di cantare nel nuovo gruppo musicale che hanno intenzione di formare. Lei rifiuta, poche parole trasmesse da Bobby, che ha fatto da portavoce, ma sono soddisfatti, ci hanno provato, ora lei sa che esistono. “Ci giriamo intorno, ma la verità è che lei è oltre il confine, lo è come nessun altro della nostra età, e noi sappiamo che se c'è una nostra musica allora dobbiamo andare a cercarla oltre il confine – e tanto vorremmo che a portarci là fosse lei” (E 43).

Il   secondo   momento   con   Andrea   è   tutto   riservato   all'io   narrante:   un pomeriggio   a   casa   della   sua   fidanzata,   mentre   i   due   sul   divano   si   stanno accarezzando   sotto   un   plaid   (rosso,   specifica   il   ragazzo,   quasi   a   sottolineare   il contesto intimo e amoroso), Andrea arriva per parlare di uno spettacolo di ballo con la ragazza. Durante la conversazione, i due rimangono sotto il plaid e la ragazza continua ad accarezzare il giovane sulle gambe, spingendosi sempre più su, vicino al sesso,   come   se   Andrea   non   ci   fosse,   ma   allo   stesso   tempo   a  parlare   con   lei   in maniera disinvolta e naturale. Ad un tratto però la ragazza riceve una telefonata e lui, in mutande, è costretto ad alzarsi per accompagnare Andrea alla porta. Lei non si scompone, ma sulla porta gli rivolge le prime parole: “Senti, hai mica dei soldi?”

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(E 43). E il ragazzo, come fosse un gesto quasi automatico, compiuto in una sorta di trance, torna in salotto a prendere i soldi e li consegna ad Andrea, scusandosi: “Non è un granché”. Lei gli promette di restituirli e lo ringrazia dandogli un bacio sulla guancia.  Questo episodio fa riflettere su come Andrea susciti in tutti attenzione, curiosità, che faccia scattare una sorta di sfida a chi è superiore in indifferenza e sfrontatezza, ma   senza   darlo   a   vedere,   fingendo   che   sia   tutto   normale.   Anche   il   giovane   io narrante, ricordando “la prima frase che Andre mi abbia mai detto”, non si pone alcun interrogativo sul motivo di questa richiesta, sul perché l'abbia rivolta a lui, sull'utilizzo di questi soldi. Andrea è per lui una sconosciuta, non si sono mai rivolti la  parola prima,  ma tutto si svolge in maniera  surrealmente naturale: si  legge l'attesa del ragazzo per questo momento, l'emozione provocata dalla vicinanza, dalla situazione intima, e poi tutto si risolve in una richiesta che nulla ha a che vedere con le aspettative, ma che non suscita neanche alcun tipo di stupore o delusione. “Così passa, Andre, talvolta” (E 51). E talvolta, a 17 anni, certi passaggi incidono per sempre. Andrea non incide solo sulla vita dei quattro giovani, la sua presenza influenza tutti intorno a lei; le ragazze si tagliano i capelli allo stesso modo, provano a muoversi come lei, si atteggiano come lei si atteggia.  Tutto questo viene da Andre, è chiaro, ma anche va detto che da lei deriva in modo quasi impercettibile, perché di fatto tra loro parlano pochissimo, e mai le vedi muoversi in gruppo, o stare fisicamente vicine ­ non sono, propriamente, amiche, nessuno è amico di Andre. È un contagio silenzioso, e alimentato dalla distanza. È un sortilegio (E 59).

La   distanza:   le   differenze   che   separano   Andrea   dagli   altri,   le   sofferenze   della famiglia, il suo atteggiamento distaccato, fanno sì che siano gli altri ad andare da lei, a cercarla, rapiti dalla sua apparente noncuranza per ciò che le accade intorno. 

L'episodio centrale del rapporto tra la ragazza e i protagonisti è una festa in una   tenuta   di   campagna,   dove   i   ragazzi   vengono   invitati   da   Bobby   dopo   uno

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spettacolo in cui ha suonato per accompagnare Andrea nella danza. Dopo questa notte  le  loro   vite   cambieranno   in   maniera   profonda   e   definitiva.   A  fine   serata, “quando la droga iniziò a girare un po' troppo, o ti drogavi anche tu o eri davvero fuori posto” (E 92), Andre accompagna Luca, Il Santo e il narratore in una stanza per dormire e li lascia con una frase inaspettata: “Neanche lo sapete, ma siete bellissimi, voi tre. Anche Bobby lo è”. Queste parole appaiono veramente sincere: per   un   attimo   Andrea   dimostra   un'ammirazione,   forse   un'invidia,   o   addirittura qualche rimpianto per un'amicizia che sembra solida e vera, per dei coetanei che sembrano   avere   trovato   dei   punti   di   riferimento   precisi   e   dei   valori   a   cui aggrapparsi nelle difficoltà dell'adolescenza. Questa dichiarazione dà avvio a un intenso scambio tra i tre ragazzi, che dopo molto tempo finalmente si aprono e si raccontano  le loro vite e le loro  storie più  intime. Ma ecco che  entra di nuovo Andrea, senza una parola e con solo una maglietta addosso. In silenzio si stende nel letto, tra Luca e il narratore. Quest'ultimo pensa di andarsene e lasciare i due soli, ma la ragazza lo ferma, prendendolo per mano, e inizia un rapporto in cui i due ragazzi   la   baciano   e   la   accarezzano   in   contemporanea,   mentre   lei   li   guida   nei movimenti, facendosi penetrare a turno. Per i ragazzi questa è la prima esperienza completa, e viverla insieme li unisce ancora di più:  Lei era il segreto – questo avevamo capito da tanto tempo, e adesso il segreto era lì, e non mancava che un passo. Non avevamo mai voluto qualcosa d'altro. Per questo la lasciavamo guidarci, e ogni cosa era semplice, comprese quelle che non lo erano mai state, per me. (..) Ma guardare negli occhi qualcuno che sta facendo l'amore,   quello   non   l'avevo   immaginato   mai   –   mi   parve   la   massima   delle vicinanze possibili, quasi un possesso definitivo. Allora ebbi la sensazione che davvero stavo portandomi via il segreto (E 95). 

Anche   questa   volta   Andrea   “è   passata”:   quasi   senza   parlare,   arrivando all'improvviso e andandosene senza fare rumore. Il mattino dopo i due amici si svegliano, ma lei non c'è. E poi un altro segreto giunge e diventa ingombrante, un macigno: Andrea è incinta, e i due ragazzi cominciano a interrogarsi a vicenda. Non ne parleranno con lei, né con nessun altro, non ne hanno il coraggio, si vergognano. Disperati, cercano delle motivazioni, degli indizi, dei messaggi che Andrea potrebbe

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aver lasciato loro sulla paternità del bambino. Luca lascia la scuola, si isola, non si fa trovare da nessuno. 

Quando ormai sarà troppo tardi, il narratore riceve una telefonata dalla ragazza, una telefonata che contiene la risposta che stava cercando: Andrea gli chiede notizie del Santo. Insiste, non è la solita Andrea fredda, distaccata: “E alla fine mi disse perfavore.   Vai   a   parlargli,   perfavore.   Digli   che   mi   hai   sentito.   Perfavore.   Non sembrava Andre. La voce era la sua, anche i toni, ma non le parole”. E attraverso questa richiesta il ragazzo ha un'intuizione: 

Stavo cercando di capire cosa mi aveva detto  veramente.  Sentivo che non mi

aveva cercato per fare delle domande, non era da lei, e nemmeno per chiedere un favore, non sapeva farlo. Mi aveva telefonato per dire qualcosa solo a me, che solo a me poteva dire. L'aveva fatto come nella vita si muoveva, quell'eleganza, di appoggi innaturali e gesti abbozzati. L'aveva fatto con bellezza. Mi ripetei le frasi – mi ricordavo un'urgenza nascosta, nel tono, e la pazienza dei silenzi. Era come un disegno. Quando lo decifrai, capii con assoluta certezza che Il Santo era il padre della sua bambina – una cosa che sapevo da sempre, ma in questo modo nostro di non sapere mai (E 128­129). Quando ormai il gruppo di amici è sfaldato e l'io narrante appare come l'unico superstite,   Andrea   si   ripresenta,   apportando   nuovi   tasselli   a   quel   disegno   che finalmente   si   svela.   Ma   ancora   non   è   finita:   proprio   nelle   ultime   pagine   del romanzo, mentre il ragazzo sta cercando di tornare alla normalità e riprende a frequentare la messa della domenica, ecco che scorge Andrea al fondo della chiesa. “Io la odiavo ormai, perché continuavo a pensare che fosse all'origine di molti dei nostri mali, ma indubbiamente in quel momento solo sentii che in mezzo a tanti stranieri c'era uno della mia terra, tanto si erano spostati i confini del mio essere. Per quanto fosse assurdo, mi sembrò che su quella zattera strana, c'era allora anche uno dei miei – e l'istinto a stare vicini”.  Ancora una volta Andrea non parla, ma passa, fa sentire la presenza, sempre più forte; e il ragazzo si accorge che ormai la sua vita e quella dei suoi amici  è cambiata, si è legata per sempre ad Andrea, fino a considerarla “della mia terra”, tanto è stato forte il mutamento che ha sconvolto le loro vite. Andrea era prima

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considerata “di tutti, di nessuno”. Ora invece è una di loro, o meglio, il giovane si sente ora dalla sua parte, è lui ad ammettere di esserle vicino. Andrea svolge il ruolo  di personaggio­perno e  come una  calamita  funge  da centro  di gravità del romanzo.

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1.2 L'amicizia nel dolore

Questo romanzo è stato definito come “di formazione”: i quattro giovanissimi protagonisti hanno un'età compresa tra i 16 e i 17 anni, mai precisata, e all'inizio della storia si  presentano  come  quattro  ragazzi  per  bene,  molto  legati  tra  loro, provenienti da famiglie modeste di ambiente cattolico­conservatore. Bobby, Luca, Il Santo e il narratore formano anche un gruppo musicale, suonano ogni domenica alla messa della parrocchia e sono stimati da tutti, considerati quasi delle celebrità in quell'ambiente. Svolgono del volontariato in una casa di cura per anziani indigenti, sono puntuali, rispettosi, educati. I classici “bravi ragazzi”, che però nel corso della storia scopriranno nuovi mondi, cambieranno, soffriranno, cresceranno. E alla fine, non potranno più essere “bravi ragazzi”; anche in una vita di apparente normalità, attraverseranno delle prove difficili, saranno coinvolti in vicende dolorose che li condurranno nel mondo degli adulti in maniera diretta e violenta. In tutto il libro permane un'ombra scura, tragica, che sembra anticipare il triste epilogo.  Nelle prime pagine l'io narrante descrive i suoi amici, e riguardo al Santo dice: “lui è differente. Non ho voglia di parlarne – non adesso” (E 24). Queste poche parole già lasciano intuire il senso di amarezza e di sofferenza che la storia del Santo ha lasciato dietro di sé. Il Santo ha una sorta di inclinazione al misticismo, dimostra una spiritualità salda, dei valori cristiani radicati, ma tutto questo a volte sembra spaventare chi lo circonda, i suoi amici, ma anche la sua famiglia. Passano dei   giorni   in   cui   si   isola,   si   allontana,   senza   dare   spiegazioni.   La   madre, preoccupata, arriva a chiamare i tre amici per chiedere chiarimenti, per cercare di capire cosa stia succedendo al figlio. Parlano dell'attaccamento del ragazzo ai libri, ai preti, alle opere di carità, al suo atteggiamento tremendamente serio e esagerato per un giovane della sua età. Parlano della vocazione al sacerdozio, e dei démoni, di quelli da cui il Santo sembra quasi essere ossessionato: “Nessuno di noi ha quella sensibilità per il male – una specie di morbosa attrazione, atterrita – ma in quanto atterrita sempre più morbosa, inevitabile – come nessuno ha di noi ha la stessa vocazione del Santo per la bontà, il sacrificio, la mitezza – che di quel terrore sono la

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conseguenza”   (E   55).   L'io   narrante   a  colloquio   con   la   madre   arriva   a   dirle   che l'amico   “si   porta   addosso   una   catastrofe”4.   Il   Santo   sembra   racchiudere   in   sè un'ambiguità   mai   risolta,   che   nemmeno   i   suoi   amici   riescono   a   comprendere   e spiegare. L'ossessione per la “salvezza” di Andrea lo spinge ad andare dalla famiglia della   ragazza   per   tentare   di   farla   redimere   e   di   accompagnarla   in   chiesa   a confessarsi. Ingenuamente, lui e l'amico si recano dalla madre per offrirle il loro aiuto   e   proporle   una   via   di   redenzione.   Il   Santo   assume   qui   il   ruolo   di   guida illuminata e non ha paura di esporsi: “il Santo ha una voce bella, da predicatore. Per quanto fosse pazzesco quello che aveva da dire, lo disse in un modo che suonò pulito,   senza   ombra   di   ridicolo,   e   forte   di   una   qualche   dignità.   Il   candore   era stupefacente” (E 64). Questo gesto però scatena la reazione di Bobby, che lo ritiene ingenuo e arrogante allo stesso tempo, e quando lo viene a sapere lo provoca a tal da punto da scatenare una rissa tra loro.

  Per   rimediare   e   ritrovare   la   serenità,   i   due   partono   per   una   camminata   in montagna che dovrebbe portare riflessione e pace. Alla sera però Bobby scopre che nello zaino Il Santo ha una pistola; la situazione si fa più tesa, e il mattino dopo, anche   a   causa   delle   pessime   condizioni   atmosferiche,   Bobby   decide   di   tornare indietro. I due discutono nuovamente, ma alla fine Bobby lascia da solo l'amico nella salita, realizzando che la distanza tra loro non si potrà mai più colmare. Il Santo compie però un altro gesto inaspettato: chiede a Bobby di tenere lui la pistola. Ecco il lato controverso del ragazzo: Il Santo è a conoscenza della propria fragilità e di quale pericolo comporti avere con sé una pistola ed essere completamente solo in una situazione così difficile.  Da questa esperienza Bobby esce impaurito, ma anche sfiduciato, tormentato. Lascia il gruppo musicale della chiesa, non frequenta più i suoi amici: “ci sono un 4 “Lo so, dissi. I preti salvano, sono costretti a farlo, ogni momento del loro vivere li salva, perché in ogni momento non vivono, così la catastrofe non può scoccare. Quale catastrofe?, chiese lei. Non si voleva fermare. Quella che il Santo si porta addosso, dissi. Luca mi guardò. Voleva capire se mi sarei fermato. Quella catastrofe che fa paura, aggiunsi, per essere sicuro che lei potesse capire bene”. (E 54).

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sacco di cose vere, intorno, e noi non le vediamo, ma loro ci sono, e hanno un senso, senza nessun bisogno di Dio” (E 55).  Decide di prendere una strada diversa, e di prenderla da solo. I ragazzi sentono pesante la sua assenza, in chiesa, al ricovero dei   malati,   tutti   i   giorni.   Finché   Bobby   li   invita   ad   assistere   allo   spettacolo   di Andrea in cui suona, e i quattro si ritrovano per una sera. Ma alla festa a casa di Andrea, il Santo, Luca e l'io narrante non passeranno il loro tempo con Bobby, che sta in disparte, “già piuttosto avanti con l'erba”. È in questa notte che Andrea entra definitivamente nelle loro vite: mentre lei è a letto con Luca e il narratore, il Santo resta ad osservare, immobile: Non conoscevo niente di simile, ma tale era la disparizione di qualsiasi oscurità, che già sapevo cosa avrei visto quando, a un certo punto, mi girai dalla parte del Santo, per poi vederlo seduto, là sul divano, i piedi appoggiati a terra, che ci fissava, senza espressione – una figura da quadro spagnolo. Non si muoveva. Respirava appena. Avrei dovuto spaventarmi, perché il suo sguardo era vicino a quello che conoscevo, ma non accadde. Ogni cosa era semplice, l'ho detto. Non gli venne da farmi un cenno, non c'era nulla che volesse dirmi. A parte quel suo stare, senza distogliere lo sguardo. Pensai allora che tutto era vero, se lui lo vedeva – vero e incolpevole, se lui taceva (E 94­95). “Vero e incolpevole”: il Santo non partecipa all'atto, ma nemmeno lascia la stanza. L'io narrante pensa sia una sorta di beneplacito, quasi di benedizione. Quello che non sa è che in realtà il Santo ha già provato tutto quello che lui sta provando ora, e proprio con Andre, lasciandola incinta. Il suo silenzio, lungi dall'essere incolpevole, è forse frutto proprio della colpa precedente, di ciò che è già accaduto e di cui tutti sono all'oscuro. E così anche Il Santo, alla fine del romanzo apparirà il meno santo di tutti: verrà coinvolto e accusato per l'omicidio di un transessuale. Ma anche in questo caso si comporterà da illuminato, e non dirà una parola, quasi da stoico. Ecco il suo calvario, il suo martirio, penserà l'io narrante, ritrovando l'amico predicatore che segue un modello comportamentale preciso, fedele al suo doloroso cammino contro i démoni.  Un'altra ombra cala sul gruppo di amici, ma la più funesta resta quella di Luca. In casa, la situazione è difficile: il padre si chiude sempre di più, di nascosto si parla di

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malattia, depressione. L'atmosfera in casa è pesante, madre e figlio osano scherzare solo quando l'uomo non c'è. Tutte le sere, durante la cena lui si alza e si affaccia al balcone   del   palazzo,   immobile,   per   qualche   minuto.   Luca   in   questo   gesto   così abitudinario, quasi ossessivo, legge un'idea di suicidio che non osa svelare e pensa ad Andrea e al suo tuffo nel fiume gelato.  Così Luca è stato il primo di noi a sconfinare. Non l'ha fatto apposta, non è un ragazzo inquieto o altro. Si è trovato davanti a una finestra aperta mentre adulti parlavano senza cautele. E, da lontano, ha imparato il morire di Andre. Sono due indiscrezioni che hanno incrinato la sua patria – la nostra. Per la prima volta qualcuno di noi si è spinto al di là dei confini ereditati, nel sospetto che non si ci siano confini, in realtà, né una casa madre, nostra, intaccata. A passi timidi, si è messo a camminare una terra di nessuno dove le parole dolore e morte hanno un significato preciso – dettate da Andre, e scritte nella nostra lingua con la   grafia   dei   nostri   genitori.   Da   quella   terra   ci   guarda,   aspettando   che   lo seguiamo (E 37).

Troviamo   queste   parole   all'inizio   del   romanzo,   ma   contengono   un   chiaro preludio a ciò che accadrà alla fine: Luca sconfinerà, imparerà il morire, camminerà in una terra di dolore e morte, fino a farne parte. E alla fine, durante una cena, sarà lui a gettarsi dal balcone. A questo punto sarà l'amico narrante a perdere le forze, a isolarsi e a non voler vedere nessuno, nemmeno Bobby e Il Santo che torneranno a farsi vivi. “Ero uno che si era arreso”, confesserà più tardi: e il colpo di grazia sarà vedere il Santo al bar in mezzo agli amici di Andrea, diventato ormai uno di loro, “come di animali dello stesso branco” (E 109). La sua bellezza, i suoi pianti, la mia forza, i suoi passi, il mio pregare – eravamo nello stesso amore. La sua musica, i miei libri, i miei ritardi, i suoi pomeriggi da solo – eravamo nello stesso amore. L'aria in faccia, il freddo nelle mani, le sue dimenticanze, le mie certezze, il corpo di Andre – eravamo nello stesso amore. Così siamo morti insieme – e fino a quando non morirò, insieme vivremo (E 106). Il dolore del ragazzo sembra non avere uno sfogo, ma ecco che torna quella che un tempo era la sua ragazza: lei sarà l'unica a riuscire ad aiutarlo ad aprirsi, l'unica a cui   lui   racconterà   la   storia   per   intero.   E   grazie   a   lei   il   giovane   deciderà   di ricominciare,   tornando   per   prima   cosa   dai   vecchietti   dell'ospizio:   qui   dovrà

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affrontare un'altra prova, perché gli saranno chieste notizie di Bobby. Assistiamo ad un'altra crisi: il ragazzo si lascia andare ad uno sfogo duro, con parole taglienti, aspre. 

Non può venire perché in questo momento è da qualche parte a sciogliere una polvere marrone in un cucchiaio scaldato dalla fiamma di un accendino. Poi risucchia   il   liquido   in   una   siringa   e   si   stringe   un   cordone   emostatico all'avambraccio. Si infila l'ago nella vena e inietta il liquido. Il vecchio mi guardava. Gli indicai la vena, nella piega del suo braccio.  Mentre butta via la siringa, la droga corre col sangue. Quando arriva al cervello Bobby sente il maledetto nodo sciogliersi, e altre cose che non so. L'effetto dura un po'. Se lo incontri in quei momenti parla come un ubriaco e capisce poco. Dice cose che non crede.  Dopo un po' l'effetto se ne va, lo fa lentamente. Allora Bobby pensa che deve smettere. Ma dopo un po' il corpo torna a chiedere quella roba, allora lui cerca i soldi per comprarne altra. Se non li trova inizia a star male. Così male che lei, in questo letto, neanche si immagina. Ecco perché non può venire qui. A stento riesce ad andare a scuola. Io lo vedo soltanto quando ha bisogno di soldi. Per cui non si aspetti di vederlo arrivare, se ne faccia una ragione, niente risate per un po'. Mi ha capito? (E 114). La disperazione e il dolore escono in queste parole dirette, precise, che rivelano la verità su Bobby. Il giovane sputa la sua rabbia, tentando di eliminare le mille domande che sorgono su di lui e su che cosa ne è stato della loro amicizia. Si sente l'unico superstite del gruppo, si decide ad andare a trovare il Santo in carcere per parlargli. Non vuole però rimproverarlo, sapere la verità sull'omicidio o altro, ma solo sperare in una spiegazione, capire cos'è successo al loro gruppo. Il Santo per lui è ancora  un   punto di riferimento: “avevo  da chiedergli cos'era successo, non in quella macchina o con Andre, non aveva importanza. Cos'era successo a noi. Lo sapevo, ma non con le sue parole, con la sua certezza. Volevo che mi ricordasse perché, quell'orrore” (E 129). Ritorna la doppia natura del Santo: fermo, autorevole, sicuro, parla al narratore di quello che è stato di loro, del percorso travagliato, del cammino verso la salvezza. E lo fa da un carcere, accusato di omicidio, ma sempre con la sua convinzione, con la sua voce da vecchio e la barba da monaco. Per questo il   giovane   narratore,   che   vuole   solo   farsi   rassicurare,   decide   di   ritornare   alle

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abitudini   di   sempre,   agli   ambienti   di   sempre,   ormai   solo.   Ma   anche   qui,   sarà raggiunto da Andrea, che tornerà nelle ultime pagine a fargli capire che non tutto è stato ancora perduto.

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1.3 Uscire dal guscio: la società e il tradizionalismo

  Ciò che balza agli occhi è che non credono – apparentemente non credono a niente. Ma anche una certa dimestichezza con il denaro, e i riflessi luccicanti dei loro oggetti e dei loro gesti, la luce. Probabilmente sono semplicemente ricchi – e il   nostro   sguardo   è   lo   sguardo   basso   di   ogni   borghesia   colta   nello   sforzo dell'ascesa – sguardi dalla penombra. Non so. Ma percepiamo chiaramente che in   loro,   padri   e   figli,   la   chimica   della   vita   non   produce   formule   esatte   ma spettacolari arabeschi, come dimentica della sua funzione regolatrice – scienza ubriaca. Ne risulta l'effetto di esistenze che non capiamo – scritture di cui si è persa la chiave. Non sono morali, non sono prudenti, non hanno vergogna, e sono così   da   un   sacco   di   tempo.   Evidentemente   possono   contare   su   granai   colmi all'inverosimile, perché dissipano senza calcoli il raccolto delle stagioni, che sia denaro o anche solo sapere, esperienza. Mietono indistintamente bene e male. Bruciano la memoria, e nelle ceneri leggono il loro futuro. Vanno solenni, e impuniti. (E 17). La prima descrizione dell'ambiente sociale in cui Andrea vive è densa, quasi spietata nella sua sincerità. Ci si può riconoscere la voce di un giovane che osserva dall'esterno,   anzi,   dal   basso,   dalla   penombra,   queste   famiglie   benestanti,   ed   è convinto che proprio per questo agiscano senza princìpi e senza regole, ma sulla base della “solennità” e dell'assenza di vergogna che li porta a oltrepassare ogni ottica morale propria di chi li osserva. Allo stesso tempo però possiamo leggere una sorta di invidia, di ammirazione, per quel mondo senza doveri ma anche senza vincoli e quindi libero, padrone di se stesso e delle proprie scelte, capace di scrivere e riscrivere le proprie regole. Si nota anche una punta di disprezzo, o perlomeno di disapprovazione: questo stare fuori da ogni regola impedisce anche alla borghesia in ascesa di rientrare nei valori cristiani. L'unico valore tangibile è la ricchezza, le loro esistenze sono frutto di una “scienza ubriaca”. Questi giudizi contengono una forte componente di morale cattolica, tipica delle famiglie modeste, dei bugianèn torinesi che   conducono   una   vita   tranquilla,   appartata,   cercando   semplicemente   di   non apparire troppo e di seguire la “normalità”. Le descrive in maniera precisa Marco Vacchetti5:

5 Marco VACCHETTI,  La Torino nascosta di Baricco, in «La Repubblica Torino.it», 4 novembre

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Famiglie dove si cena alle sette e trenta in punto, con poche parole e mai ad alta voce. Famiglie dove non si parla di sé e quando la vita ti obbliga a farlo è una sofferenza   per   chi   apre   bocca,   un   fastidio   e   un   imbarazzo   per   chi   ascolta. Famiglie dove padri e madri esercitano un controllo discreto sui figli senza che ciò riesca anche a dimostrare affetto. Famiglie dove il contatto fisico genera irrigidimento. Famiglie dove cortesia e buona educazione riducono l´urgenza di emozioni   e   sentimenti   ai   minimi   termini,   smorzandoli   nelle   loro   asperità, ridimensionando l'urlo della tragedia o della passione a composto mormorio (E 33).  Ma i ragazzi adolescenti, immersi in questa pseudo­normalità della casa, quando escono si trovano a contatto con altri valori, altre “normalità”, altri ambienti che hanno criteri di ordinarietà diversi e devono conviverci e cercare di superare lo stacco culturale e sociale. I valori di casa sono quelli sopra cui i protagonisti hanno costruito   le   loro   certezze,   i   loro   appoggi,   e   li   considerano   come   le   verità imprescindibili   della   vita,   che   sono   state   loro   tramandate   dai   genitori   per   la speranza della salvezza. “Abbiamo una fiducia cieca nei nostri genitori, quello che vediamo in casa è il giusto ed equilibrato andare delle cose, il protocollo di ciò che consideriamo   una   sanità   mentale.   Adoriamo   i   nostri   genitori   per   questo   –   ci mantengono al riparo da qualsiasi anomalia” (E 33).

I   ragazzi   sono   cresciuti   in   famiglie   protettive,   tradizionaliste,   che   hanno insegnato e trasmesso una sola via possibile; trovatisi in un crocevia di cammini, i quattro protagonisti esplorano le strade possibili, lasciandosi guidare, provando. La curiosità e la voglia di capire, unite al desiderio adolescenziale di far parte di un gruppo, di essere accettati dagli “altri” li spingono a seguirli senza troppe domande. Ma nelle parole dell'io narrante ritroviamo in continuazione un'ansia, una tensione che   mai   si   risolveranno.   Il   ragazzo   nel   corso   della   storia   riconosce   di   essersi allontanato dai valori tradizionali, dal supporto familiare che gli garantiva una solidità, e di essere entrato a far parte dell'”altro” mondo. Non potendo fingere ingenuità e purezza, oscilla tra l'aspirazione al paradiso e la scoperta dell'abisso. “Perché solida è la parete di pietra, ma nel cuore sempre porta un incastro debole, un appoggio malfermo” (E 85). Molteplici sono i riferimenti ai Vangeli, a partire dal

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titolo, che riprende l'episodio in cui Gesù, dopo essere risorto, non viene riconosciuto dai suoi discepoli quando torna sulla Terra. Questa è anche una storia di cecità, di un procedere a tentoni senza riconoscere i segnali, le indicazioni, gli ostacoli. Dopo il suicidio di Luca, l'ex fidanzata dirà al narratore “Sei cieco”: proprio a lui, che lo riteneva “tra tutti, il mio migliore amico. Possiamo capirci con un gesto, alle volte è sufficiente un sorriso. [...] So quando se ne sta andando, e alle volte potrei dire un attimo prima quando inizierà a parlare. Lo troverei in una folla intera, al primo sguardo, solo per il suo modo di camminare – le spalle” (E 31).  I cambiamenti che avvengono attorno ai ragazzi offuscano la loro percezione della realtà, il loro modo di pensare e di agire, e poco a poco li mutano nel profondo, facendoli   allontanare   da   ciò   che   erano   prima,   come   singoli   e   come   gruppo. Allontanare tanto da non riconoscersi più, da non percepire i segnali una volta così chiaramente leggibili, tanto da non chiedere spiegazioni, e chiudersi nella paura o nella  rabbia.   Questo  libro  affronta  una perdita di identità, quello  sbandamento necessario   a   capire,  crescere.  Sbandamento  dovuto  alla  cecità,  del  narratore  in primis; cecità che è indicata fin dal titolo, Emmaus. I discepoli non riconoscono Gesù che si affianca a camminare con loro, i loro occhi sono offuscati. Ma da cosa? Forte   è  il   contrasto   che   si  sviluppa  in   questo  romanzo   tra   i  valori  tradizionali cattolici, ben saldi nei cuori e nelle menti dei protagonisti, e tutto ciò che invece è «altro». 

Nella narrazione ricorrono spesso commenti e riflessioni di tipo spirituale, alto, riferimenti   a   passi   biblici,   e   in   generale   un   linguaggio   religioso,   quasi   da predicatori. Alcuni sostengono che Baricco abbia proprio voluto denunciare l'ottusità dei   cattolici   degli   anni   Settanta   e   Ottanta,   che   ha   formato   giovani   ingenui   e impreparati alla durezza della vita. Domenico Starnone6 scrive senza lasciare spazio al dubbio: 

I giovani cattolici di Baricco hanno occhi impediti. Da cosa? Dalla tradizione.

6 Domenico   STARNONE,  Baricco,   Emmaus:   quella   scandalosa   adolescenza   cattolica,   in

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Dalla nebbia della loro educazione religiosa, dagli scenari di tranquilla finzione tirati   su  dalle  loro  famiglie,   dalla  pazzia   santa  della   loro  stessa  fede  che  li obbliga   a  opere  di   carità  negli  ospedali,   a  far  musica  scialba  da  oratorio,   a pratiche di sesso quasi casto con le loro fidanzate semivergini e mai troppo belle, alla   frequentazione   per   scopi   ascetici   di   prostitute   o   travestiti   dai   membri accarezzabili. Non possiamo negare il ruolo importante che l'autore ha voluto dare alla tradizione e alla religione nelle famiglie dei protagonisti. Un altro passo del Vangelo viene citato dal narratore subito dopo la morte del suo migliore amico, e si conclude con la frase “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. La frase rivolta a Gesù di Nazareth è usata dal narratore che si sente in colpa per non aver fatto tutto il possibile per Luca, per non aver seguito fino in fondo quella sensazione di pericolo, quella preoccupazione che continuava a fargli provare “brutti pensieri”. Anche questa volta, inconsapevolmente, il narratore sentiva ciò che Luca aveva in mente, ma la cecità ha prevalso e non gli ha permesso di decifrare quello che stava passando nel cuore dell'amico.  La cecità non è solo del narratore: all'inizio della storia, quando Luca e l'amico parlano della depressione del padre di quest'ultimo e si soffermano su un'abitudine dell'uomo. Tutte le sere infatti a metà della cena si alza e si affaccia al balcone della cucina, appoggiandosi alla ringhiera; Luca ritiene che il padre mediti il suicidio e ogni sera si alzi con l'intenzione di buttarsi, ma non trova il coraggio. E a buttarsi da quel balcone alla fine sarà Luca, ma girato verso l'interno della casa, con le spalle al vuoto. Dopo il suo suicidio, il padre andrà a cercare l'io narrante per chiedergli   spiegazioni   sulla   morte   del   figlio,   e   il   ragazzo   troverà   il   coraggio   di domandare   il   perché   di   quell'abitudine   di   affacciarsi   sempre   durante   la   cena. L'uomo, stupito, risponde con dolcezza (E 121): “è solo che mi rilassa guardare le cose dall'alto, disse, lo facevo sempre da bambino. Stavamo al terzo piano, e io passavo ore alla finestra a vedere le macchine passare, e fermarsi al semaforo, e ripartire. Non so perché. È una cosa che mi piace. Una cosa da bambini”. Questa risposta, tanto semplice quanto disarmante, ci riporta alla cecità che fa travisare

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anche i piccoli gesti: Luca, spaventato dalla situazione psico­emotiva del padre, interpreta quel suo affacciarsi al terrazzo come un amaro desiderio di fuggire dalla vita, mentre per l'uomo è un atto liberatorio di serenità.  All'inizio del romanzo, l'io narrante aveva tracciato le differenze tra il “suo” mondo, e quello degli “altri”, sottolineando come li separasse “il disporre di destini tragici”. Alla fine della lettura, però, il gruppo di amici è diviso, lacerato, e la loro storia irrimediabilmente segnata: il tragico ha invaso le loro vite, le differenze sono state colmate. Ora anche l'ultimo superstite, prende atto di questo cambiamento: la cecità è scomparsa.

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2. MR GWYN Una volta mi hai detto che fare il ritratto a qualcuno è un modo di riportarlo a casa. È così? ­Sì, una cosa del genere. ­Un modo di riportarlo a casa. ­Sì. Tom si schiarì la gola. Voleva che capisse bene quello che stava per dire. ­Riportami a casa, Jasper1. Mr Gwyn  narra di uno scrittore che decide di pubblicare su  The Guardian una lista di cinquantadue cose che non farà mai più: la penultima, pubblicare libri, l'ultima, scrivere libri. Mr Gwyn ha un agente, Tom Bruce Shepperd, che prima che agente è il suo migliore amico, energico e schietto, e non vuole arrendersi all'idea che uno scrittore amato sia in patria che oltreconfine abbandoni definitivamente la sua attività. Ma il protagonista permane saldo nella sua decisione; non firmerà nessun contratto, non concederà i diritti per le traduzioni o gli adattamenti teatrali, arriverà a non aprire più la corrispondenza.  C'erano un sacco di altre cose di cui non si doveva più occupare. Era come uno di quei cavalli che, scosso il fantino, tornano indietro, svagati, al piccolo trotto, mentre gli altri sono ancora a farsi scoppiare il cuore inseguendo un traguardo e un qualsiasi ordine di arrivo. La delizia di un simile stato d'animo era infinita (MG 15). Nei primi tempi di pausa, Mr Gwyn si sente sollevato, rinato, in pace con il mondo: uscito   dalle   luci   accecanti   dei   riflettori,   può   godersi   la   luce   naturale   della quotidianità. Riprende alcuni semplici gesti, assapora il tempo a sua disposizione, si concede di perdersi a passeggiare nei parchi o nella metropolitana londinesi. Baricco lo spiega così:

 “È un libro che sta in bilico su un confine: un uomo decide di smettere quello

che fa, il suo mestiere: passaggio di confine. Uno che fa un mestiere che ha scelto per   delle   ragioni   precise   e   ad   un   certo   punto   si   trova   addosso   l'istinto   di abbandonare questo mestiere, sfilare via la parte di quel gesto per cui l'avevi

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