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Emmanuel Bove, Una visita serale e altri racconti, Fusta editore, p. 127, euro 13,00. Traduzione dal francese di Claudio Panella
Emmanuel Bove è un autore cult. Molto prolifico, è però vissuto poco, morendo a soli 47 anni per insufficienza cardiaca causata da una malattia infettiva. Nel breve arco della sua carriera ha scritto una trentina di libri che sono piaciuti tanto a Colette quanto a Beckett, carnali al punto da sedurre la prima, desolati quanto basta per convincere il secondo. Un corto circuito narrativo, quello realizzato da Bove: una scrittura che unisce la chirurgica precisione del romanziere d’avanguardia all’assoluta vaghezza dell’annoiato esistenziale. E, soprattutto, quello che colpisce è l’invenzione di una voce, riconoscibile sin dalle prime righe eppure mai monotona, singolarmente inquietante ma altresì magnetica, una calamita. Chi l’avvicina fa poi fatica a lasciarla.
Va detto però che i lettori di Bove, che pure si riconoscono tra di loro senza bisogno di dirselo per via di un comune sentire rispetto a una certa idea di scrittura, e sono nel loro insieme una comunità ben caratterizzata per quanto occulta, sono in totale poco numerosi. Pubblicato da svariati editori già in origine, per effetto della sua insofferenza a stringere legami duraturi, altrettanto sparso Bove figura nel nostro panorama editoriale. E sino ad oggi è stato pubblicato in maniera poco sistematica (se si fa eccezione per un boviano recidivo, Carlo Alberto Bonadies, che con costanza insegue il suo autore traducendolo ovunque esso si annidi) e con innegabile casualità (il che è tutto sommato in sintonia con il discorso maniacalmente sfuggente della voce di cui si diceva). Ecco perché è particolarmente ghiotta l’occasione odierna, fornitaci dalla collana bassastagione ideata da Marino Magliani e Stefano Costa per Fusta editore, con la pubblicazione della raccolta Una visita serale e altri racconti, nella traduzione convincente di Claudio Panella (il compito era tutt’altro che facile). Per la prima volta i lettori italiani potranno conoscere il Bove della breve misura, in cui l’immediatezza del fatto narrato, spesso senza ritorno, si dilata in imprevedibili smagliature, voragini folgoranti che fanno baluginare per un attimo l’osso bianco del reale.
Se infatti il titolo più conosciuto di Bove è quello d’esordio, I miei amici, il romanzo pubblicato nel ’24 grazie all’interessamento di Colette (tradotto in italiano da Beppe Sebaste per Feltrinelli nel 1991), libro incontestabilmente significativo, forse però più rivelatrice ancora è questa raccolta. L’io sfaccettato che si declina nei narratori dei vari racconti fornisce l’immagine di un individuo quasi senza volto e certamente proteiforme eppure tale da giustificare l’individuazione di un tipo umano specifico, non definibile in altro modo se non in quanto “boviano”.
Figlio di un padre russo che di cognome faceva Bobovnikoff, da lui poi francesizzato in Bove, e di madre lussemburghese, nato nel 1898 a Kiev, girovagò nella sua infanzia e adolescenza tra Parigi, Ginevra, Londra e Vienna, facendo mestieri vari come l’autista di tram, il tassista e il cameriere, ma aveva in mente di diventare scrittore sin da piccolo. Tanti suoi personaggi, che parlano spesso in prima persona, sono scrittori come lui. Qui si tratta per lo più di storie d’amore, stoppate di colpo dal protagonista, che racconta in forma accorata e indifferente insieme – vero exploit – le ragioni del suo comportamento, spesso determinato dall’ossessione del tradimento. Come se Pirandello, Svevo e Moravia diventati russi e trapiantati in Francia fossero stati uno scrittore unico, con in più la particolarissima qualità riconosciuta a Bove da Beckett, quella del dettaglio che lascia di sasso. Gabriella Bosco