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Lettura del canto V dell'Inferno

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Academic year: 2021

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studi

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Editrice Fiorentina Società

Avventure, itinerari

e viaggi letterari

Studi per Roberto Fedi

a cura di

(4)

© 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-466-5

issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata

Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Il volume è stampato con il contributo di:

Università per Stranieri di Perugia; Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia

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Indice

ix Premessa dei curatori

3 Dante in Cervantes: l’episodio di Marcela e Grisóstomo

Massimo Ciavolella

13 Lettura del canto v dell’Inferno

Luca Badini Confalonieri

31 Il canto delle ambiguità

Alessandro Duranti

43 Dante e le indulgenze

Riccardo Bruscagli

49 Parrêsia pétrarquienne et rhétorique pétrarquiste

Jean-Luc Nardone

63 Il ballo degli esclusi.

Ragionamenti sul Petrarca mai musicato

Andrea Matucci

71 Tre congedi ovidiani

Renzo Bragantini

79 Il Decameron e la morale eroica.

La rappresentazione della morte come lotta sociale

Giovanna Zaganelli, Toni Marino

95 La vista da fuori e da dentro il muro, ossia la monaca “scritta” e scrittrice

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107 Personaggi a tavola: da Ciappelletto a Montalbano

Roberto Bigazzi

117 L’evoluzione di un archetipo culturale. Verona per immagini e parole

Raffaella Bertazzoli

133 Misoginie 2. La donna truccata e addobbata dall’antichità classica al Rinascimento

Paolo Orvieto

147 Scene da un teatro di fogli.

Note su tre romanzi di Ferrante Pallavicino

Paolo Fasoli

159 Benvenuto Cellini: autoritratto di un collerico

Cecilia Gibellini

171 Le regole del gioco: tradurre Boezio nella Firenze di Cosimo I

Michael Sherberg

181 Il romanzo pastorale del Sannazaro

Pasquale Sabbatino

199 I volti di una «familiare» malinconia

nelle Lettere di Tasso da sant’Anna. Una discussione critica Pasquale Guaragnella

211 Istrioni della parola. Dottori, maestri e scolari nel teatro comico di Vincenzo Braca

Rosa Troiano

221 Do you speak Italian? La diffusione della lingua italiana nell’Inghilterra dei secc. XVI-XIX

Norberto Cacciaglia

231 Le varianti del commento alla Commedia del p. Pompeo Venturi

Antonio Marzo

237 Prolegomeni al canone italiano

Federico Sanguineti

247 Leopardi, Arimane, il Serpente. Tra scrittura e figura

Gilberto Lonardi

259 Don Giovanni a Trastevere. Cinque sonetti di Belli

Pietro Gibellini

271 Gli esordi romani di Matilde Serao

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281 Itinerario di un letterato “ribelle” dell’Ottocento: Enrico Onufrio e i suoi lettori

Giovanni Saverio Santangelo

299 Tra mondo infantile e realtà adulta:

echi della letteratura minore del secondo Ottocento

Christine Borg Farrugia

311 Un cantuccio sugli Appennini; ovvero un’estate sotto i castagni,

di Leader Scott (1879)

Andrea Fedi

325 Verità come rivelazione in Martin Heidegger: alcune riflessioni critiche

Aldo Stella

335 Primo Arcovazzi e L’infinito

Fabio Danelon

345 Pupi, pupari e paladini, tra le cose prime e ultime

Simona Costa

353 Alvaro e l’emigrazione meridionale

Sebastiano Martelli

373 «Il male è cosa sacra» Sisifo in Toscana e ritorno ne La pelle di Malaparte

Jean Nimis

387 Giorgio Caproni e la paura: storia di una parola e di una rima

Adele Dei

395 Le torri di Buzzati. Sulla paura del tempo

Francesco Erspamer

407 Carlo Cassola e il successo: ascesa e traversie di un autore popolare

Alba Andreini

417 La musica, Pasolini e il cinema di poesia

Matteo Palumbo

429 Il racconto del contesto: Ennio Flaiano, La solitudine del satiro e il sistema Italia

Giovanni Capecchi

439 Preliminari per una storia della poesia negli anni Settanta (e Ottanta)

Stefano Giovannuzzi

451 Guglielmo da Baskerville: uno Sherlock Holmes medievale, trasportato nel relativismo del XX secolo

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469 Letteratura romanzi fiabe critica cronaca politica Si parva licet uno zibaldone

Marino Biondi

487 Algoritmi e nuovi percorsi di responsabilità civile

Giovanni Paciullo

499 Il canone della letteratura italiana in Francia nei programmi di Agrégation

Massimo Lucarelli

515 Egolatria e narrativa contemporanea

Gino Tellini

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Lettura del canto v dell’Inferno

1

Luca Badini Confalonieri

Ci introduce al secondo cerchio dell’Inferno dantesco, a cui è dedicato il canto v, l’ultimo verso del canto precedente, con un’indicazione significativa: «E vegno in parte ove non è che luca», dove si contrappone, ancora una volta, la luce e la quiete del castello degli spiriti magni, al buio e all’aura che trema per i sospiri del resto del Limbo. Un buio totale sarà anche nel nuovo canto («Io venni in loco d’ogne luce muto» scriverà Dante, con significativa sinestesia, al v. 28), ma la sensazione acustica, la prima registrata, sarà questa volta non di umani «sospiri», ma di un guaire, di un lamento incontenibile di bestie soffe-renti: «Così discesi del cerchio primaio | giù nel secondo, che men loco cin-ghia | e tanto più dolor, che punge a guaio» (vv. 1-3)2.

1 Dedico all’amico Roberto Fedi, autore del brillante Noble Tales for the Most Noble of Lovers. From Francesca to Giulietta («Perusia», n.s., 2, 2008, pp. 7-17), questa lettura tenuta a Firenze, nel Palagio dell’Arte della Lana, giovedì 27 aprile 2017, nell’ambito della «Lectura Dantis» organizzata dalla Società Dantesca Italiana. Ho lasciato al testo i caratteri che lo legano all’oralità, riducendo all’essenziale i rimandi bibliografici. In particolare, quando non altrimenti specificato, i rinvii nomi-nativi ai critici sono da intendersi ai loro interventi di cui alla nota 2.

2 Indico qui almeno, nell’amplissima bibliografia relativa al canto v dell’Inferno (cui sono da aggiungersi, naturalmente, i commenti che accompagnano le edizioni del testo dantesco): France-sco De Sanctis, Francesca da Rimini (1869), in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Roma-gnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp. 635-652; Ernesto Giacomo Parodi, Francesca da Rimini (1904), in Id., Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’, a cura di Gianfranco Folena e Pier Vincenzo Mengaldo, Venezia, Neri Pozza, 1965, pp. 35-52; Michele Barbi, Francesca da Rimini (1932), in Id., Con Dante e coi suoi interpreti. Saggi per un nuovo commento della ‘Divina Commedia’, Firenze, Le Monnier, 1941, pp. 117-151; Lanfranco Caretti, Il canto di Francesca (1951), in Id., Antichi e moderni, Torino, Einau-di, 1976, pp. 8-30; Antonino Pagliaro, Il canto di Francesca (1952), in Id., Ulisse. Ricerche semantiche sulla ‘Divina Commedia’, Messina-Firenze, D’Anna, 1967, 2 voll., i, pp. 115-159; Gioacchino Papa-relli, «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» (1954), in Id., Questioni dantesche, Napoli, Libreria Scienti-fica Editrice, 1966, pp. 133-179; Renato Poggioli, Tragedy or Romance? A Reading of the Paolo and Francesca Episode in Dante’s ‘Inferno’, in «Publications of the Modern Language Association of Ame-rica», lxxii, 1957, pp. 315-358; Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della ‘Commedia’ (1957), in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 33-62; Daniele Matta-lia, Moralità e dottrina nel canto V dell’‘Inferno’, in «Filosofia e letteratura», viii, 1962, pp. 41-70;

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14 Luca Badini Confalonieri

Rinvia all’animalità anche la prima figura che Dante incontra, Minosse: «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia» (v. 4), non solo per lo spaventevole ringhio di cane feroce, ma perché dà, al dannato che gli si presenta dinanzi, l’indicazione del girone dell’inferno in cui dovrà scendere non con la parola ma cingendosi con la lunga coda «tante volte, | quantunque gradi vuol che giù sia messa» (v. 12: tante volte, quante sono le balze infernali che l’anima dovrà discendere per arrivare al luogo della sua pena). Non sarà probabilmente an-che da trascurarsi, pensando ai peccatori an-che si incontreranno in questo

giro-Mario Marcazzan, Il canto V dell’‘Inferno’, Firenze, Le Monnier, 1968; Antonio Ezio Quaglio – Matilde Luberti, Francesca da Rimini, in Enciclopedia dantesca, diretta da Umberto Bosco, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 6 voll., 1970-78, i, 1970, ora consultabile in rete, che dà conto con precisione della critica precedente; Silvio d’Arco Avalle, «…de fole amor», in Id., Modelli semiolo-gici della ‘Commedia’ di Dante, Milano, Bompiani, 1975, pp. 97-101; Francesco Mazzoni, Il canto V dell’‘Inferno’, in Letture dantesche. Inferno, Roma, Bonacci, 1977, pp. 97-143; Anna Maria Chiavacci Leonardi, Gentilezza e pietà, in Id., La guerra della pietade. Saggio per una interpretazione dell’‘Infer-no’ di Dante, Napoli, Liguori, 1979, pp. 62-83; Ettore Bonora, ‘Inferdell’‘Infer-no’ canto V, in «Giornale stori-co della letteratura italiana», clix, 1982, pp. 321-52; Dante della Terza, ‘Inferno’ V: tradizione ed esegesi, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, i, pp. 255-271; Enrico Malato, Dottrina e poesia nel canto di Francesca. Lettura del canto V dell’‘Inferno’ (1986), in Id., Studi su Dante. ‘Lecturae Dantis’, chiose e altre note dantesche, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 2005, pp. 50-102 (poi, con alcuni aggiornamenti, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, a cura di Enrico Malato e Andrea Mazzucchi, vol. i, Inferno, Roma, Salerno Editrice, 2013, 2 tomi, t. i, pp. 162-205); Guglielmo Gorni, Francesca e Paolo. La voce di lui, in «Intersezioni», xvi, 2, 1996, pp. 383-389; Marco Santagata, Cognati e amanti. Francesca e Paolo nel V canto dell’‘Inferno’, in «Roma-nistisches Jahrbuch», 48, 1997, pp. 120-156; Paolo Valesio, Canto V. The Fierce Dove, in Lectura Dantis. ‘Inferno’. A Canto-by-Canto Commentary, a cura di Alain Mandelbaum et alii, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1998, pp. 63-83; Ignazio Baldelli, Dante e Francesca, Firen-ze, Olschki, 1999; Claudia Villa, Tra affetto e pietà: per ‘Inferno’ V, in «Lettere Italiane», 50, 1999, pp. 513-554; Michelangelo Picone, Inferno V, in Lectura Dantis Turicensis. ‘Inferno’, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, Firenze, Cesati, 2000, i, pp. 75-89; Selene Sarteschi, Francesca e il suo poeta. Osservazioni su ‘Inferno’ V, in «L’Alighieri», xlii, 18, 2001, pp. 21-45; Michele Dell’aquila, «Versi d’amore e prose di romanzi»: la responsabilità della letteratura, in «Italianistica», xxxii, 2003, 2, pp. 193-204; Giorgio Inglese, Francesca e le regine amorose. Per l’interpretazione di ‘Inf.’ V vv. 100-107, in «La Cultura», xlii, 1, 2004, pp. 45-60; Stefano Carrai, Il lamento di Francesca, il silenzio di Paolo, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», ix, 1, 2006, pp. 9-26; Sebastiano Valerio, Perché «il modo ancor mi offende»: riflessioni sul peccato di Paolo e Francesca, in «L’Alighieri», xlvii, 28, 2006, pp. 6-13; Giancarlo Rati, L’amore di Francesca, in ‘Inferno’. Dante personaggio, Francesca, Farinata, Pier delle Vigne, Ulisse, Ugolino, a cura di Id., Roma, Bulzoni, 2006, pp. 23-41; Sandro Orlando, Da Francesca a Beatrice: una nuova lettura di ‘Inferno’ V, in «Medioevo Letterario d’Italia», iii, 2006, pp. 37-59; Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): ‘Inferno’ V in Its Lyric and Autobiographical Context (1998) e Dante and Francesca da Rimini: Realpoli-tik, Romance, Gender (2000), in Id., Dante and the Origins of Italian Literary Culture, New York, Fordham University Press, 2006, pp. 70-101 e 304-332; Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella ‘Commedia’ di Dante, Bologna, Il Mulino, 2007; John Freccero, The portrait of Francesca: ‘Inferno’ V, in «Modern Language Notes», 124, 5, 2009, pp. 7-38; Lucia Batta-glia Ricci, I «dubbiosi desiri» di Francesca, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», xiii, 1-2, 2010, pp. 50-64; Manuele Gragnolati, ‘Inferno’ V, in Lectura Dantis Bononiensis, vol. 2, a cura di Emilio Pasquini e Carlo Galli, Bologna, Bononia University Press, 2012, pp. 7-22; Elena Lombardi, Fran-cesca lettrice di romanzi e il «punto» di ‘Inferno’ V, in «L’Alighieri», n.s., xliii, 55, 2014, pp. 19-39; Donato Pirovano, All’inferno per amore. Lettura del canto V dell’‘Inferno’, in «Rivista di studi dante-schi», xv, 2015, pp. 3-27; Michelangelo Picone, «Le donne e ’cavalier»: la civiltà cavalleresca nella ‘Commedia’ (2006) e Petrarca e Boccaccio lettori del canto v dell’‘Inferno’ (2006), in Id., Studi danteschi, a cura di Antonio Lanza, Ravenna, Longo, 2017, pp. 371-393 e 679-692.

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Lettura del canto v dell’«Inferno» 15

ne, che Minòs, noto lussurioso, fu tradito da una moglie che, travolta da una sfrenata passione per un toro, si prestò a uno degli atti di lussuria letteralmen-te più bestiali del mondo antico, poi esplicitamenletteralmen-te evocato da Danletteralmen-te nel

Purgatorio (xxiv 41-42 e 86-87; Pasifae, per ottenere quello che vuole, entra in

una vacca di legno: «Ne la vacca entra Pasife, | perché ’l torello a sua lussuria corra»; e l’obiettivo è raggiunto, tanto che la donna è definita «colei | che s’im-bestiò ne le ’mbestiate schegge»).

Minosse, però, non è solo un démone bestiale. Pur nelle sue fattezze degra-date, il mitico legislatore e giudice di Creta, già posto da Virgilio all’entrata degli Inferi nell’Eneide, è detto da Dante «conoscitor de le peccata» (v. 9) ed è quindi preposto a un’azione importante, quale appunto l’attribuzione della pena infernale specifica a ogni dannato. Dante parla di «cotanto uffizio» al v. 18 e dirà più avanti (in Inf., xxix 120) che a Minòs «fallar non lece». Del resto, anche il suo essere simile a un cane che ringhia rinvia non solo alla sua ira proverbiale, ma anche al rimorso della coscienza che questo esaminator delle colpe (cfr. v. 5: «essamina le colpe ne l’intrata») produce.

Alla vista di Dante, Minòs lascia l’atto per la parola, con un’ammonizione scoraggiante per il pellegrino, che insinua un dubbio sulle capacità della sua guida e sembra echeggiare addirittura Vangelo ed Eneide: «guarda com’entri e di cui tu ti fide; | non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!» (il pensiero va natu-ralmente a Matthaeus, vii 13: «Lata porta, et spatiosa via est, quae ducit in perditionem» e a Aen., vi 126-129: «facilis descensus Averno: | […] sed revoca-re gradum superasque evaderevoca-re ad auras, | hoc opus, hic labor est»).

Virgilio lo mette con decisione al suo posto: «non impedir lo suo fatal an-dare»! intima, proseguendo poi con una formula apotropaica già usata per Caronte (Inf., iii 95-96) e che ritornerà, leggermente variata, per Pluto (Inf., vii 10-12): «Vuolsi così colà dove si puote | ciò che si vuole, e più non diman-dare» (vv. 23-24). Nel perfetto incedere di questi due versi, nel loro ritmo scandito («così colà», «dove si puote | ciò che si vuole») sembrerebbe quasi cogliersi già quella klassische Dämpfung di cui parlava Spitzer per Racine3 e che

è stata finemente riformulata da Giorgio Pestelli, là dove parla della «ieratica scansione di terzine» come tipica dei momenti di manifestazione del divino nella musica di Gluck e del classicismo viennese (si pensi, per non fare che un esempio ben noto, alla scena del commendatore, nel finale del don Giovanni mozartiano)4.

È adesso che, con una solenne anafora, si entra propriamente nel secondo cerchio: «Or incomincian le dolenti note | a farmisi sentire; or son venuto | là dove molto pianto mi percuote» (vv. 25-27). Nel buio totale, la prima

sensa-3 Cfr. Leo Spitzer, Die klassische Dämpfung in Racines Stil, in «Archivum romanicum», bd. 12, 1928, pp. 361-472 (La smorzatura classica nello stile di Racine, in Id., Saggi di critica stilistica, trad. di Maria Provvidenza La Valva, Firenze, Sansoni, 1985).

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zione è, ancora, uditiva: «Io venni in loco d’ogni luce muto, | che mùgghia come fa mar per tempesta, | se da contrari venti è combattuto» (vv. 28-30). Ne segue, poi, una visiva: «La bufera infernal, che mai non resta, | mena li spirti con la sua rapina; | voltando e percotendo li molesta» (vv. 31-33). A chiusura dell’ideale trittico, di nuovo una sensazione uditiva: «Quando giungon davan-ti a la ruina, | quivi le strida, il compianto, il lamento; | bestemmian quivi la virtù divina» (vv. 34-36).

Qualche considerazione s’impone.

Se il luogo fosse davvero «d’ogni luce muto», Dante non potrebbe vedere niente, né Minosse che si staglia orribile, né, qui, gli spiriti sbattuti dal vento, e che dolorosamente si urtano tra di loro. Del resto, se l’animalizzazione fosse la chiave unica per la rappresentazione del peccato di cui qui si parla, la lussu-ria – che, come vedremo, ha a che fare proprio con la riduzione a bestia dell’uomo –, non ci sarebbe spazio per la parola, che invece anima il grande incontro umano di questo canto, quello di Dante con Francesca.

Già abbiamo visto, in realtà, che Minosse, pur essendo presentato come un cane rabbioso, si apre allo spazio della parola.

Per il buio, ci soccorre Tommaso d’Aquino nel commento alle sentenze di Pietro Lombardo, là dove spiega, proprio parlando dell’inferno: «simpliciter loquendo, locus est tenebrosus: sed tamen ex divina dispositione est ibi ali-quid luminis, quantum sufficit ad videndum illa quae animam torquere pos-sunt» («Parlando in senso assoluto, il luogo è tenebroso; tuttavia per una di-sposizione divina vi è una certa luce, quanto basta perché si vedano le cose capaci di tormentare l’anima»: In 4 Sententiarum, dist. 50, q. 2, a. 3; poi nella

Summa Theologiae, iii suppl., q. 97 a. 4).

Sembrano dunque esserci fruttuose contraddizioni interne ad animare il tessuto di questo canto.

Notate, in ogni modo, come bene l’immagine della bufera violenta indichi lo stato di «confusione» proprio a questi dannati. La riflessione cristiana ha per secoli indicato come caratteristica della pena infernale proprio la «confusione» (con la connessa preghiera: «non confundar in æternum»). L’essere preda delle passioni porta a vivere in uno stato confuso e violento che è il contrario della possibilità di vedere, di distinguere e di discorrere, proprie all’uomo razionale. Ma anche qui il discorso dantesco sembra tollerare una contraddizione inter-na, del tutto simile, per la verità, a quella indicata da Tommaso. Se crediamo, con Singleton, che «le strida, il compianto, il lamento» del v. 35, siano espressi dalle anime portate dalla bufera quando nel loro giro vedono la ruina, provo-cata, in un punto del cerchio, dal terremoto che accompagnò la morte salvifi-ca del Cristo5, ammettiamo che queste anime, preda così passiva della forza

della bufera, abbiano la possibilità di rendersi conto del loro stato e di soffrir-5 Cfr. Charles Singleton, La poesia della ‘Divina Commedia’, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 475 sgg.

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Lettura del canto v dell’«Inferno» 17

ne, con sofferenza che tocca il loro essere razionale. Anche però se la «ruina» fosse da interpretarsi, come sembra più probabile, come lo spettacolo che si offre dinanzi agli occhi delle anime assegnate a questo cerchio, che vedono passare di fronte a sé il vortice della bufera infernale in cui di lì a poco dovran-no cadere, l’indicazione dovran-non farebbe che rilevare, ancora, la possibilità, anche nel buio inferno dei lussuriosi, di visione e di razionale sofferenza.

Ritorneremo su tutto questo. Ma diamo già una prima risposta. Per quan-to voglia imbestiarsi, e, come vedremo tra un momenquan-to, «sommettere» la «ra-gione» al «talento», l’uomo non è mai privato di questo dono della ragione che è a lui proprio, non può mai ridursi, nemmeno in inferno, a bestia incoscien-te: solamente, il lussurioso lascia che sia il talento, e cioè l’istinto, e non la ragione, a comandare. Non è e non sarà mai una bestia, sì un uomo perversa-mente deforme. E proprio per questo così crudaperversa-mente soffre, in inferno.

Dante comprende da solo, a quel che vede e ode, di trovarsi davanti ai «peccator carnali, | che la ragion sommettono al talento» (vv. 38-39), definizio-ne chiarissima della lussuria, di cui sono state indicate molteplici anticipazioni nella letteratura dell’epoca, dalla Tavola rotonda al Brunetto Latini del Trésor, da Meo Abbracciavacca a Folgóre da San Giminiano (di «chi sommette ragio-ne a voluntade» parla quest’ultimo, ragio-nel soragio-netto che inizia, significativamente: «Quando la voglia segnoreggia tanto | che la ragion non ha poter né loco…»).

Seguono due similitudini tratte dal mondo degli uccelli, quella degli «stor-nei» (gli stornelli, oggi diremmo gli storni) e quella dei «gru», i grandi migra-tori spesso evocati nella letteratura greca (da Omero a Esiodo ad Aristofane) e latina (da Virgilio a Stazio a Lucano). La continuità tra le due immagini sem-bra sottolineata dallo stesso attacco: «E come…» (vv. 40 e 46).

Omero, nel xxiv dell’Odissea, per descrivere le anime dei Proci guidate da Ermes verso l’Ade, aveva evocato i pipistrelli: «Come nel fondo dell’antro im-menso i pipistrelli | svolazzano stridendo, quando uno della fila cade giù | dalla roccia dove l’un l’altro si tenevano stretti, | così quelle, stridendo, anda-vano insieme, […]»6.

Dante, nella prima similitudine, evoca gli storni, considerati nei testi anti-chi particolarmente lussuriosi, e ne descrive la larga e fitta santi-chiera (parla di «schiera larga e piena»), caratterizzata da un volo disordinato e come insensa-to, ricordandosi certo anche che per il biblico libro della Sapienza (v 11) lo stolto è come «avis quae transvolat in aere»: «nullum invenitur argumentum itineris illius»7. Gli «stornei» sono «menati» dal vento che li porta senza requie

6 Cfr. Omero, Odissea, introduzione, commento e cura di Vincenzo Di Benedetto, traduzio-ne di Vincenzo Di Betraduzio-nedetto e Pierangelo Fabrini, testo greco a fronte, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 1206-07 (xxiv, vv. 6-10). Il richiamo non vuol essere, com’è ovvio, un’indicazione di derivazione da Omero dell’immagine dantesca. Sulla scarsa e indiretta conoscenza dei testi omerici (non tradotti in latino) da parte di Dante cfr. la voce Omero di Guido Martellotti in «Enciclopedia Dantesca», cit.

7 Ecco l’intero versetto di Sapientia, v 11 nella Vulgata: «aut avis quae transvolat in aere nullum invenitur argumentum itineris illius sed tantum sonitus est alarum verberans levem ventum et

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scin-18 Luca Badini Confalonieri

«di qua, di là, di giù, di su»: è paragone per descrivere gli effetti devastanti della «bufera infernal» dei versi 31-33, che rivolta senza posa gli spiriti dei lus-suriosi in ogni direzione e li fa cozzare dolorosamente l’un con l’altro con pena continuamente rinnovata.

Se questa prima similitudine serve a meglio spiegare, con una ripresa a mo’ di commento e approfondimento, l’immagine visiva dei dannati in preda alla forza terribile della bufera (come Dante già aveva fatto per l’immagine di Mi-nosse e del suo lavoro, prima sinteticamente descritta in una terzina e poi più dettagliatamente spiegata in due), la seconda insiste invece, con le gru, sulla sensazione uditiva dei «guai» (v. 48: «così vid’io venir, traendo guai»), già anti-cipata nel verso 3 («e tanto più dolor, che punge a guaio») e al verso 35 («quivi le strida, il compianto, il lamento»).

Dico questo perché la tradizione dei commentatori tende invece a costitu-ire, a partire da queste due similitudini, l’immagine di due schiere differenti di dannati, quelli che definiremmo i «lussuriosi semplici», sbattuti dal vento, come gli «stornei», in tutte le direzioni, e i lussuriosi che a causa della loro passione subirono una morte violenta, che invece volerebbero in un percorso rettilineo e lamentandosi, come le gru. Dei «lussuriosi semplici», si può però obiettare, non ne è, nel canto, indicato neppur uno. Tutte le anime evocate (e, come ci dice il verso 67, sono «più di mille») sono, con il loro amore, finite nella morte. Questa è l’unico aspetto che interessa a Dante.

Quanto al percorso rettilineo (che dovrebbe comunque tollerare, almeno, l’incurvatura del cerchio infernale), non forzerei troppo la lettura del testo dantesco che ci parla, sì, di una «lunga riga» che passa (e, anzi, Virgilio inizie-rà a parlare, nel v. 52, della «prima» ombra che sta conducendo il gruppo, Se-miramide), ma non ci dice che fosse rettilinea, e ha cura anzi di dirci che anche queste «ombre» sono «portate da la detta briga» e cioè proprio, esattamente, dalla violenta bufera di cui sopra.

In ogni modo, ripeto, è la sensazione uditiva su cui Dante vuole con questa seconda similitudine soprattutto insistere, proprio come sul clangore delle gru (il klanghé di Iliade, iii 2 che tanto colpirà Pascoli8), dopo Omero, Esiodo e

Aristofane, avevano insistito Stazio e Virgilio (un caso diverso è Lucano, che in un bel passaggio della Farsaglia9 non accenna al verso degli animali ma fa

dens per vim itineris aerem commotis alis transvolavit et post hoc nullum signum invenitur itineris illius» (trad. cei 2008: «oppure come quando un uccello attraversa l’aria e non si trova alcun segno del suo volo: l’aria leggera, percossa dal battito delle ali e divisa dalla forza dello slancio, è attraversa-ta dalle ali in movimento, ma dopo non si trova segno del suo passaggio»).

8 Nelle sue antologie Sul limitare e Epos. In Myricae (3a ed. 1894) c’è una poesia, In cammino, composta nel 1892 con il titolo iniziale Le gru, poi diventato Coraggio! e infine, appunto, In cammino. Per il testo omerico cfr. Omero, Iliade, con un saggio introduttivo di Wolfgang Schadewaldt, intro-duzione e traintro-duzione di Giovanni Cerri, commento di Antonietta Gostoli, testo greco a fronte, Mi-lano, Rizzoli, 1999, pp. 234-35.

9 v 703-72. Cfr. Marco Anneo Lucano, Farsaglia o la guerra civile, testo latino a fronte, in-troduzione e traduzione di Luca Canali, premessa al testo di Renato Badali, Milano, Rizzoli, 1981.

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Lettura del canto v dell’«Inferno» 19

vedere come, sotto l’impulso di un nuovo e più forte vento, le figure geotriche delle gru in volo si dissolvono e gli animali, perso il loro ordine, si me-scolano in gruppi confusi).

Ma certo una contraddizione pare darsi, anche qui, tra il chiarissimo senso simbolico del vagare senza direzione degli storni e la direzionalità del percorso delle gru, connotato anzi, nell’Eneide (come poi sarà in Pascoli), di un messag-gio benaugurante. Si pensi che in Purgatorio xxiv 64-69 le gru esprimeranno proprio la tensione dei penitenti verso il cielo:

Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era, volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera10.

Le anime che Virgilio, alla richiesta di Dante, presenta nei versi seguenti sono tutti esempi appartenenti alla classe nobile, spesso già accostati tra loro in testi antichi (Cleopatra e Semiramide in Giovenale, per esempio) o moder-ni (Achille, Paride e Tristano nella Mort Artu). Tutti hanno avuto una fine cruenta. L’esito di morte di queste vicende è indicato riassuntivamente e ine-quivocabilmente nel verso 69: «amor di nostra vita dipartille».

La prima parte del canto si conclude esattamente alla sua metà, al verso 72, con Dante personaggio raggiunto da una «pietà» tale che quasi sviene: «Pietà mi giunse, e fui quasi smarrito». L’indicazione di struttura è molto chiara, se alla fine del canto, non dopo un discorso cursorio su più di mille anime ma dopo un approfondimento ravvicinato e particolarmente coinvolgente, il can-to si chiuderà di nuovo parlando della «pietà» suscitata nel protagonista e, quella volta, con il suo svenimento effettivo.

Dante esprime a questo punto a Virgilio il desiderio di parlare a due «che insieme vanno, | e paiono sì al vento esser leggieri». Nella descrizione dello stato degli spiriti di questo girone, ai primi due gruppi che si sono voluti scor-gere, quello delle «anime trasportate in un frenetico e turbinoso movimento pluridirezionale» e quello di chi, in «detta briga», «sembra volare più ordinata-mente in fila» (così si esprime uno dei più recenti interpreti del canto, Donato Pirovano) si aggiungerebbero qui due spiriti che, dentro tale fila, «riescono a mantenere acrobaticamente una posizione accoppiata» e volerebbero con la tra-iettoria librata di colombe «con l’ali alzate e ferme»11. Più avanti lo stesso critico

10 Molto organizzate e giudiziose sono le gru anche nel Trésor di Brunetto Latini (i 163: Ci dit de grues, Qui dice delle gru): cfr. Brunetto Latini, Tresor, a cura di Pietro G. Beltrami, Paolo Squil-lacioti, Plinio Torri e Sergio Vatteroni, testo a fronte, Torino, Einaudi, 2007, pp. 276-279.

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scrive: «La “torbida energia di questo amore-passione” permette a quella donna e a quell’uomo […] di mantenere traiettorie rettilinee ed eccezionalmente vici-ne dentro l’impeto della bufera tanto da sembrare leggeri agli occhi dell’agens»12.

E, in conclusione del suo lavoro, ribadisce: «l’episodio degli amanti menati dal vento come colombe si irradia in punti nevralgici dell’intera opera»13.

Ma la similitudine delle colombe, su cui naturalmente ci fermeremo, so-praggiunge più avanti e non riguarda mi pare il loro stato abituale di dannati ma un suo momento molto particolare.

Adesso Dante li scorge soltanto che vanno «insieme», e particolarmente «al vento… leggieri». Occorre dire che la leggerezza dei due amanti al vento è tratto che sottolinea la loro colpevolezza e la loro pena: leggeri come sono, sono sballottati più che gli altri, come foglie, dove il turbine vuole. Per Isidoro di Siviglia (Etym., viii 11 80), «nihil amantibus levius, nihil mutabilius» («non c’è niente di più leggero, niente di più mutevole degli amanti»), perché ap-punto il loro amore non si fonda che sull’attrazione sensuale e corporea. La loro mutevolezza è punita qui dal loro eterno stare insieme; situazione data a loro, come ben nota Bellomo, non certo a conforto (così opinava Momiglia-no) ma a maggior pena, «così come penale è l’unione, con tanto di corda, di un uomo e una donna nella rappresentazione della lussuria negli altorilievi della cattedrale di Conques (Carla Casagrande-Silvana Vecchio, I sette vizi

capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, p. 236)»14.

Virgilio dice a Dante di pregare i due spiriti di venire a lui «per quello amor che i mena». Dante, in un momento in cui il vento «piega» la loro traiettoria verso di sé (e l’allusione è dunque a una mobilità continua di traiettorie) chie-de agli spiriti di venire chiamandoli «anime affannate» (questo è il riferimento all’«amor che i mena», un amore che non è gioia ma affanno), ed essi vengono.

Qui c’è, staccata significativamente dalle altre due, la terza similitudine del canto presa dal mondo degli uccelli, quella delle colombe:

Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettüoso grido. (vv. 82-87)

Dante insiste a dirci che a muovere le anime è stata la forza del suo «affet-tuoso grido» (v. 87), e cioè «O anime affannate» (v. 80). Per questo, come co-lombe «dal disio chiamate» e «dal voler portate», le anime vengono a lui. C’è,

12 Ivi, p. 13. 13 Ivi, p. 26.

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già qui, un’insistenza su un concetto chiave per il canto, quello della necessaria risposta all’amore con l’amore. Ma riflettiamo un momento su questa terza similitudine, e sulla sua complessità.

Con le colombe che vanno «con l’ali alzate e ferme al dolce nido» (v. 83), siamo di fronte, questa volta, a un’indicazione di direzionalità ben precisa che si oppone con chiarezza al movimento confuso degli «stornei». L’evento è ec-cezionale, e configura, per i due dannati, un’interruzione della pena infernale. La «bufera» cessa per loro e uno spazio per la parola, per la libertà della parola, si apre. Le colombe vanno, decise, «al dolce nido». La bufera della passione è il luogo dell’esilio, della lontananza dalla piena realizzazione. L’uomo è di casa, invece, là dove c’è la ragione, il logos.

Ben oltre il Romanticismo storicamente inteso, molti critici e lettori vedo-no descritta in questo canto la bellezza e la forza fascivedo-nosa dell’innamoramen-to, e dell’amore appassionato e carnale. Anche Benigni, nelle spiegazioni con cui ha accompagnato la sua lettura del canto, ha insistito sulla bellezza del sentimento di amore di Francesca e Paolo. Parafrasando qui un testo di Vatti-mo scritto ad altro proposito, si potrebbe dire che Vatti-molti pensano, di questo amore: «peccato!», non solo nel senso «peccato che sia finita così!» o «peccato che siano stati condannati!», ma anche: «peccato lasciar perdere, nel caso si presentasse, l’occasione di vivere un amore così!»15. Ma il discorso di Dante è

ben diverso: si sta bene, sballottati violentemente in tutti i sensi e uno contro l’altro nella bufera? Io credo di no. Ed è vero che quel verbo chiave del canto, «menare» (cfr. vv. 31-32: la «bufera infernal […] mena li spirti»; vv. 42-43: il «fiato» li «mena»; v. 78: l’«amor» «[li] mena»; vv. 113-114: il «desio» «[li] menò») conserva, come indicava Baldelli, «la connotazione violenta derivata dal suo étimo latino: minari, ‘minacciare’ per ‘condurre’ le bestie». L’essere preda delle passioni toglie all’uomo, con l’uso della ragione, l’esercizio del libero arbitrio e lo porta a essere passivamente condotto.

Qui, le colombe «dal voler portate», nel loro dirigersi decise verso il nido, sembrano dare un’immagine finalmente attiva e non passiva. Il testo dantesco è volutamente ambiguo. Perché il «voler» cui si fa allusione potrebbe essere ancora (come del resto il «disio» di v. 82) il «talento», e cioè, proprio, quel-l’«amor che i mena» (come nel testo di Folgore prima evocato: «chi sommette ragione a voluntade»; «Quando la voglia segnoreggia tanto | che la ragion non ha poter né loco…»), ma anche, invece, una eccezionale manifestazione, atti-va, del libero arbitrio (il «libero voler» di cui si parlerà in Purg., xvi 76; «libero arbitrio» in Purg., xviii 74).

L’ambiguità, dicevo, è voluta, anche se, a rigore, il «disio che i mena» è propriamente, e solo, quello della passione sensuale che li ha travolti in vita e anche qui li conduce.

15 Il rinvio è al capitolo finale (Che peccato!) di Gianni Vattimo, Credere di credere, Milano, Garzanti, 1996, pp. 90-97: 91.

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L’immagine delle colombe, come la critica ha ampiamente indicato, ha un antecedente virgiliano (Aen., v 213-217), anche se si tratta di una rivisitazione molto parziale (si pensi tra l’altro che in Virgilio la colomba, proprio al con-trario di quello che qui avviene, fugge atterrita dal nido)16.

Ma limitare la relazione al solo testo di Virgilio (come fa, in maniera se ho ben visto esclusiva, la critica) non dà conto del pieno significato dell’operazio-ne di Dante, che ha anche presente questa volta, e anzi molto di più, la Bibbia, e in particolare, qui, il salmo 55 (54 nei Settanta e nella Vulgata), 6-9: «timor et tremor venit super me et operuit me caligo | et dixi quis dabit mihi pinnas columbae ut volem et requiescam | ut procul abeam et commorer in deserto semper | festinabo ut salver ab spiritu tempestatis et turbinis», che nella versio-ne CEI 2008 recita:

Mi invadono timore e tremore e mi ricopre lo sgomento.

Dico: «Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?

Ecco, errando, fuggirei lontano, abiterei nel deserto.

In fretta raggiungerei un riparo dalla furia del vento, dalla bufera».

Ecco l’aspetto positivo ed eccezionale dell’immagine delle colombe. A par-te questo momento, dato a Francesca e Paolo per l’eccezionale presenza di Dante, alcun riparo dalla furia del vento sarà mai dato alle due anime per l’e-ternità, mai potranno avere altra volta le «ali come di colomba».

La colomba è nella Bibbia (dove compare nel Genesi, nel Cantico dei

canti-ci, in Osea, nel Nuovo Testamento), e anche nella letteratura medievale, da

Isi-doro ai bestiari, animale simbolo di un amore positivo (acceso e casto, perché si accoppierebbe una volta sola); addirittura, com’è noto, nel Nuovo

Testamen-to, dello Spirito Santo. È tale amore che, solo, libera l’uomo e adesso,

eccezio-nalmente, in qualche modo, e non senza contraddizioni, Francesca e Paolo vi partecipano.

Anche dal cuore di questa similitudine si viene alla riflessione di tutto il canto, sull’ambiguità dell’amore, forza di vita (evocata da Inf., i 37 fin all’ulti-mo verso del Paradiso: «Aall’ulti-mor che all’ulti-move il sole e l’altre stelle») che, nella per-versione dell’amore lussurioso, è fatta vedere, invece, nei suoi esiti di morte (v.

16 «Qualis spelunca subito commota columba, | cui domus et dulces latebroso in pumice nidi, | fertur in arva volans plausumque exterrita pinnis | dat tecto ingentem, mox aere lapsa quieto | radit iter liquidum celeris neque commovet alas; | sic …» («Come dentro il suo buco a un tratto atterrita colomba, | che nel tufo carioso ha casa e dolce nidiata, | esce ai campi volando; è tutto un batter di penne | spaventato, nel buco, ma appena si libra nell’aria tranquilla, | scivola via per sentieri di luce né muove le rapide ali: | così…»): cfr. Virgilio, Eneide, introduzione e traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, testo originale a fronte, Torino, Einaudi, 1967, pp. 170-171.

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69: «ch’amor di nostra vita dipartille»; v. 90: «noi che tignemmo il mondo di sanguigno»; v. 106: «Amor condusse noi ad una morte»). C’è un amore che è

diffusivum sui, partecipativo e comunicativo (pensiamo anche al comunicare

tra loro delle tre donne evocate in Inf. ii, attive per la salvezza di Dante) e che porta alla vita (sono i tratti tipici dell’agápe), e ce n’è un altro – quello che fa l’oggetto di questo canto – che divide gli uomini ed è strettamente legato alla morte (éros legato a thánatos). L’amore può essere, in altri punti della

Comme-dia, il «buon vento» dello Spirito che conduce, nella libertà, verso il porto (e

Dante usa allora, sovente, il verbo «muovere»), o, come nel nostro canto, la bufera, che costringe, nella schiavitù, a un doloroso e insensato turbinio (e Dante utilizza in questi casi, come abbiam visto, il verbo «menare»)17.

A molti critici è sembrato che Dante, con la richiesta dei vv. 80-81, eludes-se il consiglio di Virgilio. E invece no: evocando l’affanno Dante va al centro, come ho detto, dell’«amor che i mena» (che la critica, invece, ripetiamo, ha molte difficoltà ad accettare come realmente negativo). E il suo grido è «affet-tuoso», come Francesca lo definisce al v. 87, perché esprime «pietà», come dirà sempre Francesca al v. 93, di quest’affanno, di questo «mal perverso», dove «pietà», un altro termine chiave del canto, comporta senz’altro, e qui sono sostanzialmente d’accordo con Anna Maria Chiavacci Leonardi, una «compassione», compassione per delle vite fatte per una realizzazione piena e finite, al contrario, nel dolore e nella morte18. Occorre però precisare, e

ricor-rendo proprio a una definizione dantesca (di Conv., ii 10 6), che «pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni», dove Dante insiste ancora, non casualmente, sul carattere pienamente razionale di questa disposizione d’animo.

Il seguito è ben noto. Colei che ha parlato dice di essere nativa di Ravenna e poi, in tre celeberrime terzine, molto attentamente costruite, spiega come l’amore tra lei e il suo compagno sia divampato, portando entrambi alla mor-te. Dante, da questi soli tratti, riconoscerà nei due amanti Francesca da Polen-ta, figlia del signore di Ravenna, e sposa nel 1275 al signore di Rimini ciotto Malatesta, e Paolo, fratello di lui. La loro uccisione, per mano di Gian-ciotto, avvenne tra il 1283 e il 1285. Indirizzatosi dunque a lei chiamandola per nome, Dante, dopo aver espresso la sua forte partecipazione emotiva, esprime il desiderio di conoscere meglio, aldilà della descrizione generalizzante delle 17 La riflessione su «menare» (parola-tema del canto per Marcazzan) e «muovere» è stata appro-fondita da Picone (nel vol. edito nel 2017, cfr. le pp. 368-70 e 377) e da Pirovano (All’inferno per amore. Lettura del canto V dell’‘Inferno’, cit., pp. 14 e 17). Picone, in particolare, indica nell’uso dante-sco del verbo «menare» «una spia evidentissima della penetrazione della tradizione arturiana nell’or-ganismo della Commedia» (i cavalieri erranti di tale tradizione vanno infatti «comme adventure les maine», portati «dal caso o da forze irrazionali come l’amore-passione»), e cita a questo proposito un passo significativo del Roman de Tristan.

18 Cfr. Dante Alighieri, Inferno, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Monda-dori, 1991, pp. 150 e 167.

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terzine, le origini di questo amore lussurioso che li ha portati alla morte. E c’è il racconto, allora, della lettura fatta insieme della storia di Lancillotto e del fatto che, a imitazione del bacio che il cavaliere aveva dato a Ginevra, Paolo l’aveva baciata. Dante questa volta, sempre per la pietà (già evocata al v. 72), sviene davvero.

Il poeta mostra certo, qui, con la vicenda di questi due amanti, la sua ca-pacità di auctor. Quegli che il canto precedente ci aveva indicato, con Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio, «sesto tra cotanto senno» (Inf., iv 102), si dimostra ora capace di creare un nuovo grandioso mito poetico che risulta da una originale contaminazione di Heroides ovidiane (un lungo monologo di donna innamorata sul registro elegiaco) e Roman de Tristan (il vero modello della storia d’amore di Paolo e Francesca, ben più della vicenda di Lancillotto e Ginevra, se è vero che anche Tristano e Isotta sono legati da vincoli di paren-tela, e quindi incestuosi, e anche loro sono condotti «ad una morte»).

Fermiamoci, intanto, su qualche glossa puntuale.

«e ’l modo ancor m’offende», del v. 102, continua a suscitare interpretazioni differenti. La Chiavacci Leonardi, e anche ora Bellomo, preferiscono riferire la frase al «che mi fu tolta» che subito la precede, con un’allusione dunque alla morte violenta, e anzi, per meglio dire, un’insistenza su di essa. Pirovano, nel contributo del 2015 prima citato, la riferisce invece all’intensità dell’amore di Paolo, parafrasando la clausola con: «e l’intensità di quella passione ancora mi avvince», ma si trova però in difficoltà a giustificare, appoggiandosi a testi an-tichi, l’interpretazione di «m’offende» con «mi avvince» (e punta tutto, allora, su, secondo me discutibili, occorrenze del verbo «affendere» come equivalente di «offendere» nel senso appunto di “avvincere”: «de sa parte m’affisi | ch’io non podia cantare» interpretato come «sono da lui [dall’amore] tanto avvinto che non posso cantare» e «dond’eu fui chusì affisu» letto come «da quando fui così avvinto»). Un po’ più semplicemente, Pagliaro, che sempre riferiva la clausola all’intensità della passione di Paolo, interpretava il «m’offende» non come «mi avvince» ma come «mi vince». Personalmente, sto con la Chiavacci Leonardi e con Bellomo, anche perché, come argomenta quest’ultimo, nel discorso abil-mente costruito da Francesca per suscitare pathos, sarebbe qui fornito un pri-mo elemento informativo (la pri-morte fu crudele) cui si aggiungerebbero via via, a progressivo chiarimento dell’atroce vicenda, «la notizia che tale morte fu comune (v. 106) e infine che fu dovuta a un parente (v. 107)»19.

Mi paiono di interesse secondario, in questa sede, le discussioni filologiche sul v. 107: bisogna leggere «Caina», come nell’edizione Petrocchi, «Caino», come recita il testo critico allestito da Sanguineti, o «Caín», come propone l’edizione Inglese20? Resta il fatto che il consanguineo che spense le due vite è

19 Commento cit., p. 84.

20 Cfr. Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-1967 (ristampa con correzioni Firenze, Le Lettere, 1994); Dantis

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Alaghe-Lettura del canto v dell’«Inferno» 25

accusato di essere non solo un uxoricida e un fratricida ma un traditore, reo dunque di un omicidio premeditato21.

Trascurabili anche, sempre in questa sede di «lectura Dantis», le ipotesi di Lanza e di Gorni secondo i quali i vv. 106-107 (per il primo) e il v. 107 (per il secondo) sarebbero da attribuirsi a Paolo, giustificando così il plurale («da lor ci fuor porte») del v. 10822. Sarebbe comunque l’unica volta nella Commedia in

cui il cambio di locutore non fosse dichiarato, e il modello a cui già abbiamo fatto riferimento delle Heroides ovidiane ci conforta a credere che anche qui ci sia solo un monologo femminile.

Ai vv. 121-123, Francesca accenna al «dottore» Virgilio (così chiamato anche al v. 70). Il riferimento della massima sentenziosa con cui comincia il suo ul-timo intervento non si trova però nel poeta latino (almeno non così chiara-mente), ed è invece di origine boeziana (Cons., ii pr. 4, 2, magari con la chiosa di Guglielmo di Conches, che insiste sulla «miseria»): «dottore» sta quindi per «dotto», e anche di scritti e massime a lui cronologicamente posteriori.

Infine, il riferimento al racconto di Lancillotto. Nel Lancelot propre (1214-1224), è in realtà Ginevra che prende l’iniziativa di baciare Lancillotto. La de-formazione operata da Francesca rispetto alla fonte permette che la scena cul-minante del suo racconto sia perfettamente imitativa del modello libresco e possa confermare, d’altra parte, la prima delle famose terzine, secondo la qua-le l’iniziativa d’amore era stata di Paolo (vv. 100-102: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, | prese costui della bella persona | che mi fu tolta…»).

Veniamo meglio, ora, alle celebri terzine.

Francesca attribuisce tutte le responsabilità di quello che è successo ad Amore, soggetto esplicito di ognuna delle tre frasi (vv. 100, 103, 106): Amor «prese costui»; Amor «mi prese»; Amor «condusse noi ad una morte».

Il principio, su cui è costruita la prima terzina (a lode, tra l’altro, della gentilezza di Paolo) che l’amore si appicchi velocemente, come il fuoco, al cuore gentile, era stato, com’è noto, affermato da Guinizzelli («Foco d’amor in gentil cor s’apprende») e Dante l’aveva confermato, proprio con riferimento a Guinizzelli, in Amor e ’l cor gentil sono una cosa. L’essere rivolto alla «bella per-sona» (come poi quello di Francesca al «piacere» di Paolo), può essere letto (così suggerisce Santagata) come una spia che di un amore carnale e non spi-rituale qui si tratti. Ma è certo, questa, una proiezione di quello che sappiamo dal contesto sul carattere lussurioso di questo legame. In sé, la bella apparenza corporea e il suo fascino, non costituiscono, in una realtà di spirito incarnato

rii Comedia, ed. critica per cura di Federico Sanguineti, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2001; Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci, 2007.

21 Cfr. Ignazio Baldelli, Dante e Francesca, cit., pp. 36-38 e poi Donato Pirovano, All’infer-no per amore. Lettura del canto V dell’‘InferAll’infer-no’, cit., p. 12.

22 Cfr. Dante Alighieri, La Commedìa, nuovo testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini, a cura di Antonio Lanza, Anzio, De Rubeis, 19962.

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qual è l’uomo, niente di riprovevole. Tra l’altro Francesca usa la parola «perso-na» che, nel pensiero di Tommaso d’Aquino, comporta proprio l’indicazione dell’aspetto razionale e relazionale dell’uomo.

Anche il principio affermato nella seconda terzina ha per Dante una sua verità. «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», che significa «Amore, che a nessuno che sia amato risparmia di amare…», insiste sul fatto che la coscienza di essere amato comporta inevitabilmente un amore di ritorno, la reciprocità. Dante riprenderà l’affermazione, con significativa precisazione, in bocca a Vir-gilio, in Purg., xxii 10-11: «Amore, | acceso di virtù, sempre altro accese, | pur che la fiamma sua paresse fore» e su questa realtà della reciprocità insisteva, non solo parlando dell’amor divino ma accennando anche agli amori «sordi-di», Agostino, in una pagina importante del De catechizandis rudibus23.

Sulla base di queste due premesse, con procedimento quasi sillogistico, Francesca conclude con l’affermazione scandalosa: «Amor condusse noi ad una morte».

Dov’è l’errore? È proprio vero, come ancora scrive Pirovano, che il «crina-le» tra i due tipi d’amore, quello che conduce alla vita e quello che conduce alla morte, è così «stretto»?

Non direi. Contro quella che è la concezione cortese dell’amore, a cui lui stesso ha dato personale contributo, e che si esprime nelle parole di Francesca, che con essa costruisce una sua abile autodifesa, a Dante preme rivendicare il libero arbitrio. Il cuor gentile può accendersi involontariamente di amore ma, come dirà Virgilio in Purg., xviii (70-72), l’uomo ha anche la «podestate» di 23 Cfr. PL 40, De catechizandis rudibus liber unus, iv 7: «Nulla est enim maior ad amorem in-vitatio quam praevenire amando; et nimis durus est animus, qui dilectionem si nolebat impendere, nolit rependere. Quodsi in ipsis flagitiosis et sordidis amoribus videmus, nihil aliud eos agere qui amari vicissim volunt, nisi ut documentis quibus valent aperiant et ostendant quantum ament, eamque imaginem iustitiae praetendere affectant, ut vicem sibi reddi quodam modo flagitent ab eis animis, quos illecebrare moliuntur, ipsique ardentius aestuant, cum iam moveri eodem igne etiam illas mentes quas appetunt sentiunt; si ergo et animus qui torpebat, cum se amari senserit excitatur, et qui iam fervebat, cum se redamari didicerit, magis accenditur: manifestum est nullam esse maio-rem causam, qua vel inchoetur vel augeatur amor, quam cum amari se agnoscit qui nondum amat aut redamari se vel posse sperat, vel iam probat, qui prior amat. Et si hoc etiam in turpibus amoribus, quanto purius in amicitia?» (Sant’Agostino, Prima catechesi per i non cristiani, introduzione e note di Paolo Siniscalco, traduzione di Chiara Fabrizi e Paolo Siniscalco, Roma, Città Nuova, 1993, p. 108: «Non vi è infatti invito più efficace ad amare che esser primi nell’amare; e troppo duro è il cuore che, non avendo voluto spendersi nell’amare, non voglia neppure contraccambiare l’amore. Lo vediamo anche negli amori scandalosi e sordidi: chi vuol essere riamato non fa altro che manifestare e osten-tare, per mezzo di ogni prova a sua disposizione, quanto ami; questi cerca di addurre come giustifi-cazione un motivo apparentemente legittimo, per cui, in certo modo, pretende d’essere corrisposto da quel cuore che si sforza di sedurre; egli stesso si infiamma di più ardente passione quando si accor-ge che il cuore bramato già è arso dal medesimo fuoco. Se quindi per un verso un cuore intorpidito si desta, quando senta d’essere amato, e per altro verso un cuore già ardente di passione s’infiamma maggiormente, quando sappia d’essere riamato, è evidente che non vi è motivo più grande perché l’amore cominci o aumenti che il sapere d’essere amati, da parte di chi ancora non ama, oppure, da parte di chi ama per primo, che lo sperare di poter essere riamato o con l’averne già prova. E se ciò accade anche negli amori turpi, quanto più accade nell’amicizia!»).

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Lettura del canto v dell’«Inferno» 27

«ritenerlo» o no. È vero che l’amore chiede di essere riamato, ma quest’ultima è sempre un’adesione libera e cosciente.

Ma cosa c’era di male, si sono chiesti e si chiedono molti lettori della

Com-media, nell’amore dei due cognati? Paolo e Francesca si amavano, e veramente.

Dov’è il problema, in una società libera, e ove sia lecito seguire il proprio cuore, e ai mariti gelosi non venga concessa, ma venga anzi impedita, l’orrida violenza del cosiddetto «delitto d’onore»?

Dante, mi pare, non ne fa solo una questione giuridica, e per dir così, for-male, di condanna dell’adulterio. Certo questa è presente: e si lega al tema fondamentale (nell’Inferno dantesco) del rispetto dei limiti non posti da noi ovvero qui di una legge morale che l’adulterio condanna. Ma Dante approfon-disce questo aspetto svelando l’esito divisorio, di sangue e di morte, che questo peccato comporta, e svelandolo tanto più utilmente quanto i peccatori, nell’atto del peccare, sono in questo caso schiacciati sull’attimo e sulla dolcez-za e il piacere che esso sembra portare con sé. L’apertura di una prospettiva temporale vuol dire, ancora, evocare il problema della direzione, del fine, del-le nostre vite. In controluce, si sottolinea la necessità vitadel-le, per l’uomo e per la donna, di inserire la forza dinamica del loro amore in una direzionalità e prospettiva più ampia, che è poi quella dell’agápe, cui si aprirono e si aprono, senz’altro, «donne» e «mariti», «casti» – così si dice in Purg., xxv (133-135) – «come virtute e matrimonio imponne».

La virtù opposta al vizio della lussuria è la castità (da non confondersi con la continenza, ma da legarsi piuttosto alla temperanza). In quanto virtù (e proprio come la povertà e l’obbedienza) la castità è proposta non solo a una categoria specifica di cristiani ma a tutti, sia pure in modalità diverse. C’è un’ampia letteratura medievale sulla castità, ma rimando qui almeno alla

Sum-ma Theologiae di TomSum-maso, iia-iiae, qu. 151.

C’è sicuramente, nel Dante che medita su queste vicende con intensa par-tecipazione, una componente autobiografica. La critica ha bene indicato24, del

resto, i contatti tra il nostro canto e Purgatorio xxx e xxxi, dove Beatrice rim-provera il poeta per i suoi traviamenti. C’è un sonetto di Dante a Cino (Rime cxi, collocabile cronologicamente vicino al 1306, in data non troppo lontana da quella di composizione del canto v dell’Inferno) in cui l’autore confessa che «nel cerchio della sua palestra [intende della palestra di amore] | libero arbitrio già mai non fu franco, | sì che consiglio invan vi si balestra». Nell’Epistula iv, anch’essa cronologicamente vicina alla composizione del canto v, Dante évoca un amore alle falde del Casentino che «liberum meum ligavit arbitrium» («mi-se in catene il mio libero arbitrio»).

24 Cfr., oltre agli interventi di Orlando e di Pirovano, Arnaldo Di Benedetto, La confessione di Dante (‘Purgatorio’, xxxi), in Id., Dante e Manzoni. Studi e letture, Salerno, Laveglia, 1999, pp. 45-66: 56, e Corrado Calenda, Canto XXXI. L’ultimo bilancio, in Lectura Dantis Romana, cit., vol. ii, Inferno, Roma, Salerno Editrice, 2014, 2 tomi, t. ii, pp. 925-949: 932.

(24)

28 Luca Badini Confalonieri

Ma il discorso sull’amore è profondamente connesso, in Dante, a un di-scorso sulla letteratura. Non a caso Benvenuto da Imola ricordava che la lus-suria è «communis pestis omnium poetarum»25. La poesia parla d’amore, e ne

ha parlato spesso in modo sbagliato.

René Girard, in un lontano intervento del 1963, opponeva, all’esaltazione della forza fatale della passione solipsistica propria della lettura romantica dell’episodio di Paolo e Francesca, l’indicazione dell’importanza della denun-cia: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». La passione dei due amanti, conclu-deva, non è solipsistica, ma imitativa. Centrale è il ruolo del libro26.

In effetti, molti sono i riferimenti alla letteratura in questo canto.

C’è intanto la presenza della cultura classica; vv. 61-62: Didone; vv. 64-65: Elena; vv. 65-66: Achille; v. 67: Paride; che rinviano rispettivamente a Virgilio, Omero, Servio (commento all’Eneide), e alle loro riprese durante il Medioevo (come il Roman de Troie). Si noti come la cultura classica non sia percepita come altra e lontana dalla cultura moderna, ma sia in qualche modo sullo stesso piano (non c’è la distanza filologica propria all’Umanesimo)27.

C’è poi, già l’abbiam visto, la cultura moderna: v. 67: «Tristano» (Tristan et

Iseut: ciclo arturiano); v. 128: «Lancillotto» (la storia narrata nel Lancelot pro-pre, dei primi del Duecento). Si noterà che Tristano è evocato come una

per-sona reale, Lancillotto come un perper-sonaggio di un testo letterario.

Si noti l’alternanza tra figure «storiche», come Semiramide o Cleopatra, e figure «letterarie» (come Didone, Elena, Achille, Paride, Tristano).

Perché – ci chiediamo subito – dei personaggi d’invenzione come Tristano, Didone, Elena, Achille, Paride, sono presentati come dei reali dannati? Perché Dante lega strettamente tra di loro letteratura e vita.

Non è affatto vero ciò che si è ripetuto sovente a partire da Contini, e cioè che Francesca, naïve, confonderebbe in modo colpevole letteratura e vita28. È

Dante stesso, con autorità, che le confonde, non sulla base di una concezione 25 Cfr. Benvenuti de Rambaldi de Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, nunc primum integre in lucem editum, sumptibus Guilielmi Warren Vernon, curante Jacopo Philip-po Lacaita, Firenze, Barbèra, 1887, 5 tt., i, pp. 184-216 («Cantus quintus»): 212.

26 Cfr. René Girard, De la Divine Comédie à la sociologie du roman, in Id., Critique dans un souterrain, Paris, Grasset, Livre de Poche, s. d., pp. 177-185, in part. pp. 178-179. Prima d’essere ripre-so nell’edizione «Le Livre de Poche», lo studio era comparripre-so in «Revue de l’Institut de Sociologie» (Université Libre de Bruxelles), ii, 1963, pp. 263-269 e poi nell’ed. Lausanne, L’Âge d’Homme, 1976 di Critique dans un souterrain. Girard è tornato sull’episodio dantesco, ripetendo in sintesi gli stessi concetti (e ignorando sempre sovranamente la critica italiana) nella sua lectio magistralis del 2001, in occasione del conferimento, a Padova, della laurea honoris causa (cfr. «La Repubblica» on line del 25 maggio 2001: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/05/22/don-chisciot-libri-pazzi.html).

27 Cfr. Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a cura di Rober-to AnRober-tonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

28 C’è da chiedersi se dietro queste prese di posizione non ci sia una polemica molto novecen-tesca tra Du Bos (e Bo) da una parte e Contini e discepoli dall’altra. Polemica che sembrerebbe confermata da quel chiamare, da parte di Contini, Francesca «lettrice di provincia», dove – aldilà di Madame Bovary – l’allusione a Renato Serra sembra esplicita.

(25)

Lettura del canto v dell’«Inferno» 29

riduttrice (i poeti possono dire tutto quello che vogliono, tanto nessuno crede a quel che dicono…) ma, al contrario, sulla base di una concezione alta, pro-fetica, della letteratura (che è legata alla sua riflessione su Amore e poesia e sui loro reciproci legami).

Dante cita in giudizio, in questo canto, gran parte degli autori, antichi e moderni, che frequentava e amava. Ecco delle ragioni in più di riflessione e di turbamento, per Dante: il poeta si rende conto di come questa letteratura che ha così fortemente amato e che lui stesso ha prodotto può avere effetti mortali.

D’altra parte, non bisogna dimenticare che, come c’è una letteratura che induce al peccato d’amore c’è anche il peccato d’amore che si giustifica con la logica e la retorica.

Per Francesca, la colpa è del libro esattamente come, prima, la colpa era di Amore. In realtà, nei confronti dei libri, come nei confronti di Amore, l’uomo è chiamato a esercitare il suo giudizio razionale, e a sceverare il bene dal male. Del resto, proprio della figura di Lancelot, infine convertito a Dio, parlava con lode Dante nel Convivio (iv 28 8).

Francesca è abile nella logica e nella retorica, colta (dimostra di conoscere le letterature italiana, latina e d’oïl) ma anche, a quanto pare, sottilmente ma-nipolatrice.

Queste sue doti possono a tutta prima spiacere a una interpretazione ro-mantica e naïve della sua voce e della sua passione ma servono invece a capire meglio come tale passione agisca, cosa possa voler dire, cioè, in un senso che non abbiamo ancora esplorato, «sommettere» la «ragione» al «talento».

Se uno i libri li ha letti, e la retorica la sa usare, è normale che tali cose af-fiorino nel racconto della propria passione. Il problema, nella fattispecie, è che la ragione, il logos, viene asservita al «talento», alla passione, in un discorso che, in quell’essere complesso che è l’uomo, mai riducibile e ridotto, come abbia-mo visto, alla sola bestialità, si fa giustificazione, a posteriori, della passione che ci possiede. Ricordate quel piccolo cambio di consonante, da b a c, di Semiramide, al v. 56: «che libito fé licito in sua legge, | per tòrre il biasmo in che era condotta». Già l’aveva notato, a proposito di Francesca, Benvenuto da Imola: «fingit istam mulierem luxuriosam hoc dicere ad excusationem sui, si-cut sepe loquitur mulier amorata quando loquitur de suo fallo»29 («immagina

che questa donna lussuriosa dica queste cose per scusarsi, come capita spesso ai discorsi di una donna innamorata che parla della sua colpa»).

Capita anche agli uomini e ai loro discorsi.

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