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I segni molecolari e cellulari dell'invecchiamento.

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Academic year: 2021

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INDICE

1. L’INVECCHIAMENTO………..p.3 2. I MARCATORI DELL’INVECCHIAMENTO………p.9 2.1. INSTABILITA’ GENOMICA……….p.9 2.1.1. DNA nucleare…….………...p.9 2.1.2. DNA mitocondriale……...………p.11 2.1.3. Architettura nucleare…………...………..p.12 2.2. LOGORAMENTO DEI TELOMERI………p.14

2.3. ALTERAZIONI EPIGENETICHE………p.16 2.3.1. Modificazioni a livello istonico……….... p.16 2.3.2. Metilazione del DNA………p.19 2.3.3. Rimodellamento della cromatina………..p.20 2.3.4. Alterazioni trascrizionali……….. p.21

2.4. PERDITA DI PROTEOSTASI………....p.21 2.4.1. Stabilità e conformazione proteica mediata da chaperone…....p.22 2.4.2. Sistemi proteolitici………....p.24

2.5. DEREGOLAZIONE DELLA PERCEZIONE DEI

NUTRIENTI………..p.25 2.5.1. Via di segnalazione insulina/IGF1………p.26 2.5.2. mTOR, AMPK e proteine della famiglia Sirtuin………...p.27

2.6. DISFUNZIONE MITOCONDRIALE………....p.29 2.6.1.Specie reattive dell’ossigeno (ROS)………..…………p.30 2.6.2.Biogenesi ed integrità mitocondriale………...p.31 2.6.3.Mito-Ormesi……….. p.33

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2.7. SENESCENZA CELLULARE………....p.34 2.8. ESAURIMENTO DELLE CELLULE STAMINALI………...p.36 2.9. ALTERAZIONE DELLA COMUNICAZIONE

INTERCELLULARE………..p.39 CONCLUSIONI………...p.44 BIBLIOGRAFIA……….. .p.47

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3 1.L’INVECCHIAMENTO

L’invecchiamento è quel processo che interessa gli organismi viventi che può essere definito, in senso lato, come un declino funzionale dipendente dal tempo. Esso si caratterizza perciò come una progressiva perdita dell’ integrità fisiologica dell’organismo che si manifesta attraverso una ridotta efficienza proprio di quei sistemi, apparati e meccanismi volti a mantenere l’omeostasi tissutale e cellulare. Nell’uomo, durante l’invecchiamento, molte funzioni fisiologiche rimangono infatti essenzialmente invariate ma, in condizioni di stress o stimoli di varia natura, la risposta compensatoria che ne risulta è meno efficace. In linea generale si ha una maggiore suscettibilità alle malattie e un aumentato rischio di morte (Lòpez-Otin et al., 2013). In aggiunta a ciò si ha di solito una riduzione della fertilità (Totaro, 2008-2009).

Molti studi sono stati fatti e sono tutt’oggi in corso di sviluppo per comprendere quali sono i vari meccanismi alla base del processo d’invecchiamento, quali i diversi fattori coinvolti e la connessione esistente tra essi. Allo stato attuale è largamente riconosciuta come causa generale di invecchiamento l’accumulo tempo-dipendente di danno cellulare (Gems e Partridge, 2013; Vijg e Campisi 2008).La cellula è sottoposta durante tutta la vita a fattori, esogeni ed endogeni, che tendono a danneggiarla ma è con il passare del tempo che il danno risulta essere riparato meno efficacemente, determinando tutte quelle alterazioni che caratterizzano il fenotipo dell’invecchiamento.

L’interesse per questo tema sta crescendo sempre più e scaturisce dal desiderio di poter aumentare la speranza di vita e di permettere agli individui di affrontare la vecchiaia nel migliore stato di salute possibile (Lòpez-Otin et al., 2013). Difatti l’invecchiamento riguarda e riguarderà un fetta di popolazione mondiale molto grossa. E’ stata stimata attualmente per l’uomo un’aspettativa di vita di 81 anni ed è stato previsto che aumenti notevolmente anche la popolazione che supera i 65 anni di età.

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Ad esempio, in Italia i calcoli indicano che si potrebbe passare dall’attuale 20,1 % di popolazione over 65 al 32,7% nel 2060.

In realtà i primi studi sull’invecchiamento furono effettuati già nel 1920. In quell’anno, in uno studio condotto su 3000 anziani dallo scienziato russo Botkin furono per la prima volta evidenziate le differenze tra invecchiamento patologico e normale, mentre lo psicologo russo Ivan Pavlov osservò che le capacità di apprendimento in animali anziani rispetto ai giovani risultano essere maggiori grazie all’esperienza. Altri studi su invecchiamento e longevità furono permessi grazie all’utilizzo di un modello animale ideale, gli insetti del genere Drosophila, ad opera del biologo statunitense Raymond Pearl. In particolare, grazie a questo modello è stato possibile condurre esperimenti di genetica molto importanti che hanno aiutato a svelare la funzione di diversi geni. Più tardi, nel 1945, è stata i fondata la prima società di “Gerontologia”, disciplina che si occupa di studiare la vecchiaia sia dal punto di vista biologico che sociale e psicologico (Totaro, 2008-2009). Un passo sicuramente fondamentale, che ha dato notevole slancio alla ricerca sulla biologia dell’invecchiamento, è stato compiuto poi, negli anni ’80, attraverso l’isolamento di ceppi longevi di vermi appartenenti alla specie Caenorhabditis elegans (Klass, 1983).

Sebbene sia un processo molto complesso, gli studiosi sono concordi nell’affermare che l’invecchiamento rientra nella fisiologia degli esseri viventi, contribuendo, in particolare, alla maturazione e ai cambiamenti cui questi vanno incontro lungo tutto l’arco della vita. In particolare, l’ invecchiamento rappresenta il processo mediante cui si raggiunge inevitabilmente l’ultima fase dell’esistenza, la “vecchiaia” (detta per convenzione, in biologia, “età avanzata”), distinguendosi, in questo senso, dalle fasi di sviluppo verso l’età adulta (Fig 1) .

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Questa distinzione può risultare difficile poiché non vi è netta linea di demarcazione tra le due fasi e tantomeno un’età cronologica definita in cui si possa dire di entrare nella fase di vecchiaia. Per praticità si è soliti definire “anziani” individui che abbiano più di 64 anni di età. Viene fatta un’ulteriore distinzione tra i cosiddetti “Giovani Anziani”, di età compresa tra i 64 e i 74 anni, gli “Anziani”, di età compresa tra i 75 e gli 85 anni, i “Grandi-Vecchi”, tra gli 85 e i 99 anni di età, e i “Centenari”. E’ stato visto tra le altre cose che, a differenza dei “Grandi-Vecchi”, i “Giovani-Anziani” mostrano una capacità di compensare la caratteristica riduzione delle abilità cognitive della vecchiaia con quelle abilità non ancora in fase di declino. Questo esempio e la possibilità di creare la suddetta suddivisione in fasce di età rispecchiano la notevole eterogeneità dell’invecchiamento e della vecchiaia: le modalità e i ritmi con le quali si manifestano le alterazioni delle abilità sono estremamente variabili a seconda dell’età cronologica e anche tra individui. E’ stato inoltre osservato che l’invecchiamento avviene con tempistiche differenti all’interno del medesimo organismo, nei singoli tessuti e sistemi. Tale variabilità è da interpretarsi come il risultato di fattori sia genetici che ambientali . Questi ultimi e in particolare fattori economici, culturali, di personalità, l’ambiente familiare e le esperienze di vita incidono molto sulla “vecchiaia percepita” dall’individuo. In pratica, la vecchiaia può iniziare anche quando l’individuo inizia a sentirsi e percepirsi vecchio, al di là dello stato obiettivo di salute, in virtù del contesto in cui vive e del suo approccio alla vita.

Allo stato attuale si usa distinguere quella che è l’”età biologica” dall’ “età psicologica” e dall’”età sociale”, in quanto spesso non coincidenti. Mentre l’età biologica rappresenta la posizione rispetto alla speranza di vita e rispecchia la funzionalità dei sistemi dell’organismo e quindi lo stato di salute, quella psicologica è un dato soggettivo determinato dal tipo di risposta che l’individuo dà all’ambiente. Il soggetto pur non avendo un’età biologica che lo inquadri come “vecchio”, può avere la percezione di sé come tale e quindi un età psicologica superiore a quella biologica. Nella società attuale anche l’età sociale, legata alla posizione dell’individuo nella società e alla visione culturale del contesto in cui vive, per lo più non coincide con l’età biologica. Questo aspetto è legato all’aumento della speranza di vita che fa sì che

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individui con una prospettiva di vita ancora abbastanza ampia si ritrovino nelle stesse condizioni sociali di chi un tempo era più vicino al limite massimo della vita. Al di là di tutto, lo stato di salute, definibile come grado di autonomia o non autonomia funzionale, rimane un parametro oggettivo fondamentale per determinare l’inizio della vecchiaia.

Fino a poco tempo fa il normale invecchiamento non veniva distinto dalla malattia cronica. In epoca romana la vecchiaia era considerata addirittura essa stessa una malattia. L’aumento della speranza di vita legata al miglioramento delle condizioni igieniche, ambientali e alimentari nonché all’ampliamento delle conoscenze mediche ha consentito a studiosi e ricercatori di approfondire le differenze tra invecchiamento fisiologico e patologico. Interessante da questo punto di vista, è lo studio di casi dei cosiddetti “fuggitivi” o “centenari di élite” ossia individui che hanno superato i 100 anni di età senza diagnosi di demenza o altro tipo di disturbi cognitivi. In generale, attualmente si considera che sebbene esistano molte patologie correlate con l’età, altrettante sono le malattie dovute alla aumentata fragilità e riduzione delle difese immunitarie tipiche dell’invecchiamento. In particolare si manifestano facilmente nell’anziano malattie croniche, degenerative e, in virtù di una minore capacità di reazione, una maggiore predisposizione a incidenti, ad esempio cadute o fratture. Tra le malattie croniche tipiche dell’anziano vi sono l’artrite reumatoide, l’ osteoporosi e il relativo indebolimento osseo, il diabete, l’ipertensione e i relativi problemi coronarici e vascolari. A questo proposito va sottolineato che tra le principali cause di morte nell’anziano si hanno proprio problemi cardiovascolari e ictus, ma anche cancro. Lo sviluppo di neoplasie maligne trae origine direttamente dall’accumulo di danno cellulare nel tempo che sta alla base dell’invecchiamento, seppur con l’aspetto peculiare che tale danno porta alle cellule cancerogene vantaggi aberranti. Tra le patologie degenerative più comuni, invece, si annoverano quelle interessanti il Sistema Nervoso e in particolare la demenza, il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson. Analizzando più nel dettaglio è evidente che queste malattie hanno poi esse stesse delle conseguenze, potendo impattare sia sulle abilità che sulla salute mentale dell’individuo. Pur rimanendo molto difficile comprendere quale sia esattamente la

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connessione tra invecchiamento e malattie, risulta ad oggi chiaro che queste siano due cose distinte e non necessariamente dipendenti l’una dall’altra. Inoltre l’invecchiamento è un processo irreversibile e inevitabile che implica cambiamenti non sempre invalidanti. La malattia invece può colpire o meno l’individuo e pur essendo invalidante può essere alleviata o ritardata.

Per schematizzare meglio questa distinzione sono stati identificati tre tipologie di invecchiamento, da non intendersi necessariamente sequenziali:

l’invecchiamento primario, ossia l’invecchiamento “fisiologico” cui gli organismi vanno inevitabilmente incontro e che comporta modificazioni biologiche e psicologiche, pur senza modificare radicalmente la personalità; l’invecchiamento secondario, in cui al processo suddetto si aggiunge la comparsa di patologie di varia natura; l’invecchiamento terziario che rappresenta il rapido e irreversibile declino delle abilità fisiche e cognitive dell’individuo prima della morte (Totaro, 2008-2009).

Un caso particolare e molto raro è rappresentato da alcune sindromi definite “progeroidi” come la “sindrome Hutchinson-Gilford”, in cui l’individuo mostra un aspetto fisico e una predisposizione a malattie tipiche dell’anziano sin da giovanissima età, con conseguente morte precoce (Eriksson et al., 2003).

Queste sindromi sono servite molto nella ricerca sull’invecchiamento in quanto, studiando i meccanismi alla base delle stesse, è stato possibile fare ipotesi su quali fattori e processi possano essere coinvolti nell’invecchiamento fisiologico.

Oltre a ciò, gli studi sull’invecchiamento si basano molto su esperimenti e osservazioni fatti su modelli più semplici, come invertebrati quali i già visti vermi, soprattutto della specie Caenorhabditis Elegans, o insetti del genere Drosophila. Tra i mammiferi il modello preferenziale è il murino.

In particolare, tali esperimenti sono stati generalmente effettuati in questi modelli animali andando ad alterare, geneticamente o farmacologicamente, fattori ritenuti poter essere parte integrante dei meccanismi di invecchiamento, e valutando come queste alterazioni ne modificassero la durata della vita. La durata della vita è difatti un parametro comunemente utilizzato nella ricerca sull’invecchiamento poiché chiaro e facile da misurare.

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In primo luogo, è stato osservato che nell’invecchiamento si hanno alterazioni più o meno dirette a carico del DNA. E’ stata rilevata anche una ridotta capacità di mantenimento dei processi che regolano il corretto ripiegamento e il corretto smaltimento delle proteine, nonchè alterazioni a livello di vie metaboliche di fondamentale importanza per la produzione e l’utilizzo corretto di energia. E’ stato inoltre osservato un incremento del numero di cellule non proliferanti e un esaurimento del potenziale rigenerativo dei tessuti. Anche la comunicazione cellulare a livello sistemico tende a modificarsi con il tempo determinando, tra le altre cose, una predisposizione a patologie infiammatorie che si riscontrano facilmente in età avanzata.

L’invecchiamento è quindi un processo estremamente complesso, caratterizzato da molti aspetti diversi ma, spesso, strettamente legati gli uni agli altri.

La comprensione del disegno alla base del fenomeno potrà risultare estremamente utile per riuscire a identificare bersagli molecolari per farmaci che aumentano la durata della vita limitando gli aspetti non auspicabili che si verificano durante l’invecchiamento (Lòpez-Otin et al., 2013).

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2. I MARCATORI DELL’INVECCHIAMENTO

2.1 INSTABILITA’ GENOMICA

2.1.1. DNA nucleare

Uno dei segni molecolari riconosciuti come elementi caratteristici e determinanti l’invecchiamento è l’accumulo di danno genetico con il passare degli anni (Moskalev et al., 2012). Durante la vita il DNA è sottoposto all’azione di agenti di varia natura che ne possono determinare delle alterazioni. Agenti come sostanze chimiche, radiazioni nell’ultravioletto o nell’infrarosso possono portare a lesioni del DNA intervenendo dall’esterno, ma possono anche avvenire errori durante il processo replicativo, reazioni idrolitiche spontanee o danneggiamenti da parte di sostanze prodotte all’interno dell’organismo. Un esempio di quest’ultimo caso è rappresentato dai cosiddetti “ROS” (Reactive Oxygen Species) ossia specie altamente reattive che si formano a partire dall’O2 e che si ritengono coinvolti anche in un altro aspetto fondamentale dell’invecchiamento, l’alterata funzionalità mitocondriale (Hoeijmakers, 2009; Lòpez-Otin et al., 2013).

Il danno al DNA può avere varia natura (Fig. 2A; Fig. 2B). Esso può essere un’alterazione nella sequenza nucleotidica come l’eliminazione o l’inserzione non prevista di nucleotidi durante la replicazione, comportante, se non riparata, un’alterazione del messaggio codificato dal DNA e conseguentemente della sintesi proteica. Si può anche avere danneggiamento alle singole basi azotate dei nucleotidi, riparato mediante l’escissione della base stessa e il successivo riposizionamento del nucleotide giusto al fine di garantire una corretta lettura del DNA. Il messaggio genetico può venire inoltre alterato da virus o elementi del DNA mobili che sono in grado rispettivamente di inserirsi o spostarsi all’interno della sequenza nucleotidica. Il danno può manifestarsi anche con una distorsione della struttura tridimensionale come

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succede se si formano legami anomali all’interno dello stesso filamento, ad esempio nel caso della formazione di addotti, o tra i due filamenti costituenti la molecola. In aggiunta a questo, si possono verificare alterazioni a livello della struttura cromosomica quali spostamenti di tratti di DNA, ossia traslocazioni, all’interno dello stesso cromosoma o anche tra cromosomi diversi ( Lord e Ashworth, 2012; De Leo et al., 2008).

Fig. 2A: Mutazioni a livello di DNA Fig. 2B: Alterazioni cromosomiche

Le varie tipologie di lesione riportate sono risultate accumularsi con l’invecchiamento, sia nell’uomo che in modelli animali (Moskalev et al., 2012). L’ipotesi è che esse vadano a interessare e modificare geni e vie trascrizionali alterando la funzionalità delle cellule in cui ciò avviene. Tale disfunzione cellulare va ad impattare l’omeostasi dell’organismo nel momento in cui le cellule suddette, se non eliminate per apoptosi o senescenza, raggiungono un certo numero compromettendo la funzionalità del tessuto cui appartengono. Questo risulta avere un impatto ancora maggiore sull’organismo quando il danno interessa la corretta funzionalità delle cellule staminali, protagoniste del rinnovamento tissutale (Jones e Rando, 2011; Rossi et al., 2008).

Vari studi effettuati sia su topi che sull’uomo hanno dimostrato che meccanismi di riparazione non efficienti comportano un’ accelerazione del processo d’invecchiamento e sono alla base di sindromi di invecchiamento precoce (Gregg et al., 2012; Hoeijmakers, 2009; Murga et al., 2009). Una situazione particolare che si ritiene correlata all’invecchiamento è la variazione del numero dei cromosomi, l’aneuploidia (Faggioli et al., 2012; Forsberg et al., 2012). Questa anomalia è stata

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limitata sperimentalmente in topi, andando a potenziare l’espressione del gene codificante la protein-chinasi BubR1, componente del punto di controllo mitotico che assicura la corretta separazione dei cromosomi. E’ stato visto che tale iperespressione protegge anche dal cancro e complessivamente incrementa il periodo di vita in salute di questi topi (Baker et al., 2013). Le ultime scoperte hanno inoltre evidenziato che il potenziamento dei meccanismi di riparazione del DNA nucleare potrebbero ritardare l’invecchiamento, confermando l’ipotesi iniziale e rappresentando una base per futuri studi (Lòpez-Otin et al., 2013).

2.1.2. DNA Mitocondriale

Vi sono evidenze che anche l’accumulo di mutazioni e delezioni del DNA contenuto nei mitocondri (mtDNA) potrebbe contribuire all’invecchiamento (Park e Larsson, 2011). Tra l’altro si ritiene che il DNA mitocondriale sia di per se’ più soggetto ad alterazioni che si possono perpetrare nel tempo sia in virtù del microambiente ossidativo in cui si trova, sia perché caratterizzato da meccanismi di riparazione non molto efficienti e dalla mancanza di proteine istoniche, responsabili a livello del DNA nucleare della sua compattazione e quindi anche della sua protezione contro possibili danni (Linnane et al., 1989). L’implicazione delle mutazioni a questo livello è stato un argomento piuttosto controverso a causa della presenza in ciascuna cellula di molti mitocondri (cellule di lievito possono presentare da 1 a 30 di questi organuli), ciascuno contenente più molecole di mtDNA. In virtù di questo assetto è possibile che nella stessa cellula coesistano genomi mutati e non, un fenomeno che è chiamato “eteroplasmia”. Tuttavia da ulteriori analisi è stato visto che il carico di mutazioni nelle singole cellule in fase di invecchiamento è notevole e si ipotizza che ciò possa alla fine determinare una condizione di netta prevalenza del genoma mutato, quasi come se fosse l’unico tipo di genoma presente e quindi una condizione definibile di “omoplasmia” (Khrapko et al., 1999). Per lungo tempo è stato sospettato che l’origine di queste mutazioni risiedesse principalmente nel microambiente ossidativo prima citato. In realtà, la maggior parte delle alterazioni genomiche a livello mitocondriale nell’adulto e nell’anziano sembra essere causata da errori di replicazione occorsi nelle

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fasi precoci di vita. La diffusione di questi errori in virtù della replicazione delle cellule originariamente presentanti la mutazione porterebbe, in ultima analisi , ad alterazioni della catena respiratoria in vari tessuti (Ameur et al., 2011). Questo concetto è supportato da studi di invecchiamento accelerato effettuati su pazienti HIV-positivi in trattamento con farmaci antiretrovirali interferenti con la replicazione del mtDNA (Payne et al., 2011).

Le prime prove significative dell’importanza che potrebbe avere il danno al mtDNA nel processo di invecchiamento derivano dalla osservazione di malattie multisistemiche umane causate da mutazioni del genoma mitocondriale e che si manifestano con caratteristiche simili all’invecchiamento stesso (Wallace, 2005). E’ stato anche osservato che topi mutanti carenti di DNA polimerasi mitocondriali accumulano mutazioni puntiformi e delezioni casuali nell’mtDNA, con segni di invecchiamento che appaiono prematuramente e riduzione della durata della vita (Kujoth et al.,2005; Trifunovic et al, 2004; Vermulst et al., 2008). L’alterazione della funzione mitocondriale in questi topi non è inoltre accompagnata da incremento dei livelli di specie reattive dell’ossigeno (Edgar et al., 2009; Hiona et al., 2010).

Inoltre si è visto che in questi topi mutanti vi sono cellule che risultano più predisposte all’accumulo di mutazioni nel mtDNA, le cellule staminali (Ahlqvist et al., 2012). 2.1.3. Architettura nucleare

L’instabilità genomica può essere anche causata da alterazioni nella maglia proteica che costituisce la membrana interna dell’involucro nucleare e che funge da sostegno per il nucleo e da ancoraggio per la cromatina (Fig. 3).

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Fig. 3: Interazione tra cromatina e lamina nucleare

Queste proteine che vengono complessivamente denominate “ lamina nucleare“ sono dunque fondamentali per il mantenimento del genoma e vi si legano anche altri complessi proteici che regolano la stabilità genomica (Dechat et al., 2008; Gonzalez-Suarez et al., 2009; Liu et al., 2005). L’importanza di tale struttura è stata sottolineata dagli studi su sindromi progeroidi quali la Hutchinson-Gilford (HGPS) o la Nestor-Guillermo (NGPS). In pazienti affetti da queste patologie sono state trovate mutazioni di geni codificanti per proteine della lamina, o fattori che influiscono sulla maturazione e rimodellamento della stessa (Cabanillas et al., 2011; De Sandre-Giovannoli et al., 2003; Eriksson et al., 2003). Inoltre è stato osservato in topi utilizzati come modelli di HGPS che, somministrando sostanze come oligonucleotidi antisenso bloccanti la traduzione proteica o inibitori di enzimi, la riduzione di una isoforma aberrante di una proteina della lamina, chiamata “progerina”, ritarda la comparsa delle caratteristiche di invecchiamento precoce e aumenta la durata della vita (Osorio et al., 2011; Varela et al., 2008; Yang et al, 2006). La progerina è stata trovata anche nell’uomo durante l’invecchiamento fisiologico (Scaffidi e Misteli., 2006), ulteriore evidenza a favore dell’ipotesi dell’implicazione di difetti della lamina nucleare in questo fenomeno.

Alcuni studi hanno inoltre posto la sintesi di tale proteina in stretta connessione con la condizione dei telomeri: fibroblasti umani che mostrano in vitro una disfunzione delle estremità cromosomiche hanno un’aumentata produzione di progerina (Cao et al.,2011).

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La speranza è quella di poter intervenire anche a livello di struttura nucleare, allo scopo di rinforzarla, ritardando così l’invecchiamento fisiologico. Ad oggi è stata sviluppata una strategia basata sullo scambio di tratti di DNA tra due cromatidi fratelli per correggere mutazioni a livello della lamina A indotte in cellule staminali pluripotenti derivate da pazienti affetti da HGPS, ma molti ulteriori studi e approfondimenti saranno necessari (Liu et al., 2011b).

2.2. LOGORAMENTO DEI TELOMERI

I telomeri sono regioni che risultano particolarmente interessate da alterazioni associate all’età (Blackburn et al., 2006). Essi in primo luogo tendono ad accorciarsi nel tempo (Fig. 4) poiché la DNA polimerasi responsabile della replicazione non è in grado di sintetizzare i terminali delle molecole lineari di DNA e necessita della collaborazione di un altro enzima specifico capace di sintetizzare ex novo l’acido nucleico, l’enzima telomerasi. Tuttavia la maggior parte delle cellule che compongono l’organismo dei mammiferi non hanno telomerasi e quindi vanno incontro a una graduale perdita di porzioni di DNA alle estremità cromosomiche che hanno funzione protettiva (Lòpez-Otin et al., 2013). In vitro questo fenomeno si manifesta con la senescenza replicativa, il cosiddetto “limite Hayflick”, ossia una ridotta capacità proliferativa di alcuni tipi di cellule (Olovnikov, 1996).

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L’accorciamento dei telomeri è tuttavia stato ben osservato anche durante il normale invecchiamento in topi e nell’uomo (Blasco, 2007a). Il ruolo dell’efficienza del sistema telomerasico in questo processo è testimoniato da vari studi. E’ stato visto che l’espressione di telomerasi indotta tramite vettori codificanti per la sua subunità catalitica in cellule che normalmente ne sono prive le rende in grado di riprodursi all’infinito facendole acquisire caratteristiche tumorali (Bodnar et al.,1998). In topi non mutati il trasferimento di DNA codificante per telomerasi nelle loro cellule mediante vettori virali può ritardare l’invecchiamento fisiologico, senza aumentata incidenza di cancro (Bernardes de Jesus et al., 2012). Invece in topi mutanti carenti in telomerasi funzionanti, il ruolo chiave che potrebbe avere quest’enzima è mostrato dal fatto che una sua riattivazione può invertire il processo di invecchiamento precoce manifestato da questi modelli (Jaskelioff et al., 2011). Anche nell’uomo vi sono evidenze importanti: la carenza di telomerasi è associata allo sviluppo precoce di malattie che comportano perdita della capacità rigenerativa di diversi tessuti, come fibrosi polmonare, anemia aplastica e discheratosi congenita (Armanios e Blackburn, 2012).

I telomeri sono protetti anche da un complesso proteico che si lega a loro regioni specifiche costituite di ripetizioni della sequenza TTAGG. Il riconoscimento di queste regioni avviene tramite le tre subunità TRF1, TRF2 e POT1 interconnesse dalle proteine TIN2, TPP1 e Rap1. In particolare, questo complesso proteico definito “Shelterin” impedisce l’accesso a livello telomerico di altre proteine deputate al ripristino di DNA danneggiato (de Lange, 2005; Palm e de Lange, 2008). Se non vi fosse questa organizzazione i telomeri potrebbero essere riconosciuti come rotture del DNA determinando, come meccanismo di riparazione, la fusione tra cromosomi. Ciò, però, comporta anche che il danno a livello del DNA telomerico venga più difficilmente riparato, persista e induca senescenza e/o apoptosi cellulare. La carenza di proteine di shelterin a sua volta può esporre le estremità telomeriche e determinare fusioni cromosomiche (Fumagalli et al., 2012; Hewitt et al., 2012).

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Inoltre molti modelli animali con perdita della funzionalità delle proteine di questo complesso mostrano un rapido declino della capacità rigenerativa dei tessuti e invecchiamento accelerato pure in presenza di telomeri di normale lunghezza (Martinez e Blasco, 2010).

Tuttavia topi geneticamente modificati in modo da avere telomeri accorciati o allungati mostrano rispettivamente durata di vita minore o maggiore (Armanios et al.,2009; Tomàs-Loba et al., 2008), segno evidente dell’importanza della lunghezza dei telomeri nel processo d’invecchiamento. Nell’uomo stesso, inoltre, meta-analisi recenti sostengono che vi sia una forte relazione tra telomeri corti e rischio di mortalità, in particolare a più giovani età (Boonekamp et al., 2013).

In conclusione si può affermare che sebbene alterazioni dei telomeri siano alla base di patologie che accelerano l’invecchiamento sia in modelli animali che nell’uomo, il loro logoramento, tenendo conto del ruolo centrale delle telomerasi,è un segno caratteristico e di fondamentale importanza anche dell’invecchiamento fisiologico. 2.3 ALTERAZIONI EPIGENETICHE

E’ stato osservato che nel tempo e con l’età si può avere anche una variazione dell’espressione e quindi dell’attività di alcuni geni. Si parla in questo caso di alterazioni a livello epigenetico , le quali si ritiene che siano coinvolte nel processo di invecchiamento e che siano tra gli aspetti caratteristici dello stesso . Queste variazioni possono manifestarsi principalmente a livello della gamma di modificazioni enzimatiche caratteristiche delle proteine istoniche (Fig.5) e a livello del processo di rimodellamento della cromatina (Lòpez-Otin et al., 2013). In realtà le proteine istoniche sono esse stesse tra gli elementi responsabili della compattazione del DNA in cromatina, per cui i due processi suddetti sono evidentemente connessi.

2.3.1.Modificazioni a livello istonico

Fisiologicamente gli istoni , attorno cui si avvolge il DNA, sono sottoposti all’azione di enzimi specifici quali acetilasi, deacetilasi, metilasi e demetilasi, che modificandoli

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determinano un cambiamento nella struttura della cromatina e quindi una diversa accessibilità da parte di altri fattori alla sequenza nucleotidica. Ciò dà come risultato una determinata espressione genica (Fig. 5).

Fig. 5: L’aggiunta un gruppo metile (CH3) al DNA, generalmente rende il gene adiacente meno accessibile e quindi meno attivo (A), mentre l’attacco di un gruppo acetile (COCH3) agli istoni solitamente rilassa quella parte del filamento di DNA, rendendolo più accessibile alla trascrizione (B)

Questo insieme di modificazioni fisiologiche ben precise variano durante l’invecchiamento. Sono stati difatti osservati un caratteristico aumento nell’attività acetilasica sull’istone H4K16, dell’attività trimetilasica su H4K20 e H3K4, ma anche una riduzione di questa stessa attività su H3K27 e dell’attività metilasica su H3K9 (Fraga e Esteller, 2007; Han e Brunet, 2012).

Negli invertebrati è stato visto che l’attività metilasica è un segno caratteristico dell’invecchiamento e infatti la delezione di componenti dei complessi di metilazione per l’istone H3K4 in nematodi e per H3K27 in mosche ne ha aumentato la longevità (Greer et al., 2010; Siebold et al., 2010). In realtà è stato anche visto che in vermi pure l’inibizione dell’attività di demetilazione dell’istone H3K27 potrebbe dare allungamento della vita intervenendo su componenti chiave per la longevità quali, ad

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esempio, la via insulina/IGF1 (Jin et al., 2011). Rimane perciò da capire con maggiore chiarezza se i meccanismi che coinvolgono gli enzimi agenti sugli istoni nel processo di invecchiamento siano unicamente epigenetici, influenzanti la riparazione del DNA e la stabilità del genoma, o interessino anche modificazioni trascrizionali riguardanti il metabolismo o vie di segnalazione fuori dal nucleo. E’ stato evidenziato il fatto che questi cambiamenti epigenetici si prestano, almeno teoricamente, a poter essere invertiti (Freije e Lòpez-Otin, 2012; Rando e Chang, 2012). In topi in cui è stata effettuata la somministrazione di inibitori dell’ istone deacetilasi per ripristinare la acetilazione fisiologica dell’istone H4 si è osservato l’assenza di disturbi della memoria associati all’invecchiamento (Peleg et al., 2010). Inibitori invece dell’acetiltransferasi sono stati in grado di migliorare vari aspetti di invecchiamento precoce in topi progeroidi e di allungarne la vita, così come attivatori degli enzimi deacetilanti gli istoni hanno mostrato la capacità di promuovere la longevità (Krishnan et al., 2011).

Molto studiata e considerata coinvolta nel processo di invecchiamento è una particolare famiglia di enzimi ad attività protein-deacetilasica NAD-dipendente e ADP ribosiltransferasica, le proteine sirtuine. Esse sono da tempo ritenute potenziali fattori antiinvecchiamento. I primi studi in questo senso hanno riguardato lieviti della specie Saccharomyces cerevisiae, mosche e vermi. In primo luogo è stato visto che promuovendo l’espressione dei loro rispettivi Sir2, unico gene della famiglia sirtuin presente in questi organismi, si ha un incremento della durata della vita (Guarente et al., 2011; Kaeberlein et al., 1999; Rogina e Helfand, 2004; Tissenbaum e Guarente, 2001). In realtà recentemente è sorto qualche dubbio circa il ruolo e la rilevanza effettiva dei geni sir 2.1 e dSir2, i geni sir2 rispettivamente di vermi e mosche, poiché una più attenta osservazione ha dimostrato che l’iperespressione del primo in Caenorhabditis Elegans dà un incremento della durata della vita piuttosto modesto (Burnett et al., 2011; Viswanathan e Guarente, 2011). Per quanto riguarda i mammiferi, invece, ci sono molte prove che le proteine sirtuine giochino un ruolo importante nel processo di invecchiamento e in particolare che siano tra gli elementi responsabili del mantenimento di un buono stato di salute in età avanzata (Houtkooper

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et al., 2012; Sebastiàn et al., 2012). Le proteine SIRT1, SIRT3 e SIRT6 sono state oggetto di molti esperimenti e hanno mostrato la capacità di migliorare molti aspetti dell’invecchiamento nei mammiferi (Lòpez-Otin et al., 2013). La proteina SIRT1 è quella che ha un maggiore grado di somiglianza con Sir2 degli invertebrati ed è stato visto che una sua promossa espressione migliora alcuni aspetti a livello di salute ma non influisce sulla longevità (Herranz et al., 2010). I benefici apportati da questa proteina sono molti, tra cui una maggiore stabilità genomica e una migliorata efficienza metabolica ( Noguieras et al., 2012; Oberdoeffer et al., 2008; Wang et al., 2008). Peraltro è stato visto che il resveratrolo, sostanza fenolica non flavonoide rinvenuta in primis nella buccia d’uva e sotto attento studio come fattore antinvecchiamento (Wikipedia, 2013), agisce attraverso vari meccanismi favorendo l’attività di SIRT1 (Lòpez-Otin., 2013). Per quanto riguarda invece SIRT6, essa ha un maggiore effetto positivo sulla promozione della durata della vita. Infatti topi mutanti caratterizzati da carenza di SIRT6 mostrano un invecchiamento accelerato (Mostoslavsky et al., 2006). Topi di sesso maschile con promossa espressione di SIRT6 mostrano una maggiore durata della vita rispetto agli animali presi come riferimento e un’associata riduzione dei livelli sierici di IGF-1 e altri indicatori della stessa via di segnalazione (Kanfi et al., 2012).Infine SIRT3, proteina situata a livello dei mitocondri, ha mostrato un ruolo positivo nella promozione della longevità mediando alcuni effetti benefici che scaturiscono dalla limitazione dell’introduzione di calorie. In particolare è stato osservato che SIRT3 agisce principalmente deacetilando alcune proteine mitocondriali in risposta a condizioni di stress come quella che si verifica proprio durante le restrizioni dietetiche suddette (Someya et al., 2010). Di recente è stato visto che SIRT3 è anche in grado di migliorare la capacità rigenerative delle cellule staminali emopoietiche (Brown et al., 2013).

2.3.2. Metilazione del DNA

E’ stato ipotizzato che anche la metilazione del DNA sia coinvolta nella promozione della longevità. I primi studi a riguardo evidenziarono infatti una ridotta metilazione associatà all’età ma successive analisi hanno mostrato che a livello di molti geni si

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assiste a una ipermetilazione (Maegawa et al., 2010). D’altro canto cellule da uomini e topi con sindromi progeroidi presentano modificazioni della metilazione al DNA e degli istoni che rispecchiano quelle trovate nel normale invecchiamento (Osorio et al., 2010). E’ stato anche ipotizzato che tutti questi cambiamenti che si accumulano durante la vita potrebbero influenzare il comportamento e la funzionalità delle cellule staminali e quindi le capacità rigenerative dei tessuti (Pollina e Brunet). A supporto che la metilazione del DNA possa influire sulla longevità mancano tuttavia dimostrazioni sperimentali più dirette.

2.3.3. Rimodellamento della cromatina

Oltre agli enzimi che modificano il DNA e a quelli che agiscono sugli istoni, alcune proteine presenti a livello dei cromosomi quali la proteina dell’eterocromatina 1 (HP1), il gruppo di proteine rimodellanti la cromatina dette Polycomb, il complesso proteico NuRD, anch’esso ad azione rimodellante, hanno un impatto importante sulla trascrizione perché regolano anch’esse l’accesso al DNA da parte di altri fattori (Pegoraro et al., 2009; Pollina e Brunet, 2011). E’ stato osservato che i livelli delle proteine suddette si riducono durante l’invecchiamento sia fisiologico che patologico con il risultato di cambiamenti rilevanti nella struttura della cromatina, ridistribuzione e addirittura perdita globale di eterocromatina (Oberdoeffer e Sinclair, 2007; Tsurumi e Li, 2012). Il rapporto causale tra queste alterazioni e l’invecchiamento è stato scoperto osservando che mosche con mutazioni determinanti la perdita di funzionalità di HP1 avevano una vita più breve . In più l’induzione di un’aumentata espressione della proteina dell’eterocromatina, sempre nelle mosche, aumenta la longevità e ritarda il deterioramento del tessuto muscolare tipico dell’età avanzata (Larson et al., 2012). L’importanza di queste proteine è stata ribadita dall’osservazione dell’esistenza di una relazione tra la formazione di cromatina altamente condensata in corrispondenza di domini contenenti DNA ripetuto e la stabilità dei cromosomi. Nel dettaglio, l’ eterocromatina vicino alla zona di contatto tra i cromatidi e a livello le regioni telomeriche, già viste come di estrema rilevanza nel processo di invecchiamento, subisce molte modificazioni epigenetiche (Blasco, 2007b; Gonzalo et al., 2006;

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Schotta et al., 2004). La modificazione, da parte di sistemi enzimatici specifici, della eterocromatina comprendente i telomeri influenza la regolazione della loro lunghezza, la quale, come visto, è coinvolta nella progressione verso l’età avanzata (Lòpez-Otin et al., 2013).

2.3.4.Alterazioni trascrizionali

Le alterazioni a livello epigenetico suddette portano, come già accennato, ad un cambiamento dell’espressione genica con l’invecchiamento. In generale in età avanzata si ha un aumento dei livelli trascrizionali e la produzione e maturazione anomala di molti mRNAs (Bahar et al., 2006; Harries et al., 2011; Nicholas et al., 2010). Confrontando tessuti giovani e vecchi di molti organismi tramite studi con microarrays è stato difatti visto che durante l’invecchiamento si assiste a una variazione dell’espressione di alcuni geni codificanti importanti componenti della risposta infiammatoria, alcune proteine mitocondriali e alcuni elementi delle vie di degradazione lisosomiali (de Magalhaes et al., 2009). Tali alterazioni trascrizionali vanno ad interessare in realtà anche piccoli RNAs non codificanti, definiti microRNAs (miRNA), come i gero-miRS. Questi miRNAs influiscono o sull’espressione di proteine coinvolte nei meccanismi che regolano la longevità o sul comportamento delle cellule staminali (Boulias e Horvitz, 2012; Toledano et al., 2012; Ugalde et al., 2011). Tutto ciò è confermato grazie a studi di perdita o guadagno di funzionalità di questi microRNAs in Drosophila Melanogaster e C. Elegans (Liu et al., 2012; Shen et al., 2012; Smith-Vikos e Slack, 2012).

2.4.PERDITA DI PROTEOSTASI

L’invecchiamento e alcune malattie ad esso associate sono collegate ad un’alterazione della proteostasi, cioè dei meccanismi che controllano la sintesi, la conformazione (il folding), la degradazione e l’ aggregazione proteica (Powers et al.,2009; Parenti G. et al., 2012). Tra gli elementi coinvolti nella proteostasi si hanno proteine deputate a garantire la corretta conformazione, principalmente appartenenti alla famiglia delle

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Heat Shock Proteins (HSP o proteine dello shock termico), e il complesso multiproteico del proteasoma che si occupa, così come gli organelli lisosomiali, della degradazione (Hartl et al., 2011; Koga et al., 2011; Mizushima et al., 2008). Nel dettaglio, gli elementi appena descritti operano in maniera coordinata per far sì che le proteine la cui conformazione risulti alterata possano riacquisire quella corretta o, quando ciò non è più possibile, vengano eliminate. In particolare, può accadere che vari fattori sia esogeni che endogeni come variazioni di temperatura, stress ossidativo o stress a livello del reticolo endoplasmatico che è deputato al folding e alla modificazione di proteine, determinino la presenza di molecole proteiche denaturate che se si accumulano tendono ad aggregarsi producendo danno cellulare (Fig. 6).

Difatti è stato visto che la presenza cronica di proteine mal conformate, denaturate o di aggregati contribuisce, a causa dei loro effetti tossici, non solo allo sviluppo di patologie come la malattia di Alzheimer o quella di Parkison che sono associate all’invecchiamento ma anche all’invecchiamento stesso (Powers et al., 2009). In accordo con queste osservazioni, molti studi hanno dimostrato che la proteostasi si altera con l’invecchiamento (Koga et al., 2011).

2.4.1. Stabilità e conformazione proteica mediata da Chaperone

E’ stato osservato che durante l’invecchiamento si assiste ad un’alterazione nella sintesi indotta da stress delle proteine chaperones sia citosoliche che

organello-Fig. 6: Sistemi coinvolti nella proteostasi e invecchiamento.

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specifiche (Calderwood et al.,2009). Queste proteine sono una classe funzionale di famiglie proteiche, la cui funzione predominante è la prevenzione di associazioni non corrette e aggregazione di catene polipeptidiche non ripiegate, sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress. La famiglia di cui fanno principalmente parte è quella delle HSP o proteine dello shock termico. Nell’invecchiamento si osserva un declino dei livelli di queste proteine (Murshid et al., 2013). Sono molti i modelli animali che hanno dimostrato che questa riduzione ha un forte impatto sulla longevità dell’individuo. In particolare, vermi e mosche in cui è stata indotta un’aumentata espressione di chaperones hanno mostrato una durata della vita maggiore (Morrow et al.,2004; Walker e Lithgow, 2003). Topi mutanti carenti in una proteina della famiglia HSP coadiuvante gli chaperones mostrano un invecchiamento accelerato, mentre è stato visto che topi a lunga vita hanno una aumentata attività di alcune proteine di questa stessa famiglia (Min et al, 2008; Swindell et al,2009). E’ stato inoltre visto che composti che sono in grado di legare proteine fibrillari che tendono ad accumularsi, come le amiloidi, sono in grado di mantenere la proteostasi durante l’invecchiamento e incrementare la durata della vita (Alavez et al., 2011). In più la capacità di attivazione di geni dello shock termico, ad esempio Hsp70, da parte di questo fattore di trascrizione è stato visto essere potenziata dalla sua deacetilazione operata da SIRT1, il quale peraltro riduce la risposta allo shock termico quando ne viene ridotta l’attività (Westerheide et al.,2009). Altre evidenze circa l’implicazione delle proteine chaperones nel mantenimento di uno stato di buona salute sono date da studi su topi modello di distrofia muscolare in cui si è osservato che inducendo farmacologicamente la proteina Hsp72 si mantiene la funzione muscolare e si ritarda la progressione della distrofia (Gehrig et al.,2012). Sulla base di tutto ciò è stata prospettata la possibilità di poter impiegare, in organismi modello, piccole molecole con funzione di chaperones farmacologici e in questo modo assicurare il ripristino della corretta conformazione di proteine danneggiate e migliorare così varie caratteristiche assunte con l’età (Calamini et al.,2012).

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24 2.4.2. Sistemi proteolitici

Sia l’attività del sistema proteolitico autofagico-lisosomiale che quella del sistema ubiquitina-proteasoma si riducono con l’invecchiamento (Rubinsztein et al.,2011; Tomaru et al.,2012). Questo fatto supporta ulteriormente l’idea che un declino della capacità di mantenere l’omeostasi proteica sia un fattore comune e caratteristico dell’età avanzata. Il sistema autofagico, per quanto concerne la degradazione proteica, può cooperare con chaperones molecolari, come Hsc70 , che riconoscono proteine denaturate e ne mediano l’ingresso nei lisosomi dove avviene la proteolisi vera e propria. In alternativa il sistema autofagico può operare grazie alla formazione e fusione sempre con i lisosomi di vescicole, denominate autofagosomi, che possono contenere anche organelli cellulari danneggiati o che devono essere rinnovati. Nel caso degli autofagosomi il processo è anche detto macroautofagia (Lopez-Otin et al., 2013). Per quanto riguarda l’autofagia chaperone-mediata, topi in cui è stata fatta esprimere una copia in più del recettore LAMP2a, il legame al quale permette l’ingresso della proteina mal conformata nel lisosoma, non mostrano il declino di questo sistema proteolitico con l’invecchiamento e anzi, conservano una funzionalità epatica migliore in età avanzata (Zhang e Cuevo, 2008). Per quanto concerne invece la macroautofagia, induttori chimici della stessa sono diventati di notevole interesse dopo la scoperta che l’antibiotico macrolide rapamicina, inibitore di un complesso ad azione chinasica denominato mTOR che è coinvolto nella regolazione di questo tipo di autofagia, può aumentare la durata della vita se somministrata costantemente o a intermittenza a topi di mezza età (Blagosklonny, 2011; Harrison et al., 2009). La rapamicina ritarda anche l’ invecchiamento nel topo apportando beneficio a vari livelli, ad esempio cuore e fegato (Wilkinson et al., 2012). In mosche, lieviti e nematodi la capacità della rapamicina di allungare la vita è stato visto essere strettamente dipendente all’induzione dell’autofagia (Bjedov et al., 2010; Rubinsztein et al., 2011). Quest’ultima evidenza non è ancora stata rinvenuta nei mammiferi, nei quali invece si pensa ad altri meccanismi mediante i quali la rapamicina potrebbe svolgere il suo effetto positivo sulla longevità. In particolare è stato ipotizzato che la rapamicina possa

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agire sulla sintesi proteica inibendo la proteina chinasi S6 ribosomiale (Selman et al., 2009). Altra sostanza che è stato visto essere in grado di promuovere la longevità tramite induzione della autofagia in lieviti, mosche e vermi è la spermidina (Eisenberg et al.,2009). In accordo a ciò l’integrazione della dieta con preparazioni di poliamine contenenti spermidina o l’apporto di flora intestinale producente poliamine incrementa la longevità nei topi (Matsumoto et al., 2011; Soda et al., 2009). Ancora a sostegno dell’importanza dell’efficienza dell’autofagia nell’incremento della durata della vita vi è l’osservazione che l’integrazione dietetica con acidi grassi 6 polinsaturi determina l’attivazione di questo sistema proteolitico e porta ad una aumentata longevità in nematodi (O’Rourke et al., 2013). Per quanto riguarda l’altro sistema proteolitico il cui declino si verifica ed è posto in relazione all’invecchiamento, il sistema ubiquitina-proteasoma, esso opera in maniera diversa dall’autofagia. In questo caso, infatti, la degradazione in senso stretto avviene nel complesso multiproteico contenente proteasi e chiamato proteasoma. Le proteine destinate ad essere qui degradate sono quelle a cui vengono legate in sequenza, da specifici enzimi, più molecole di un piccolo peptide denominato ubiquitina. Queste catene di poliubiquitina sono quindi riconosciute dai proteasomi che incamerano e degradano la proteina “indirizzata” (De Leo et al., 2008). In nematodi è stato osservato che l’incremento dell’espressione di componenti del sistema appena descritto, grazie all’attivazione della via di segnalazione del fattore di crescita epidermico (EGF), aumenta la longevità (Liu et al., 2011). Anche in cellule umane coltivate in vitro la promozione dell’attività proteasomica tramite l’utilizzo di inibitori degli enzimi deubiquitilasi o di attivatori del proteasoma ha un effetto positivo accelerando l’eliminazione di proteine tossiche (Lee et al., 2010). In lieviti questo trattamento determina un incremento della durata della vita (Kruegel et al., 2011).

2.5. DEREGOLAZIONE DELLA PERCEZIONE DEL FABBISOGNO DI NUTRIENTI Sono disponibili numerose evidenze a favore dell’idea che vie di segnalazione anaboliche attivate da un’alterata percezione del fabbisogno di nutrienti siano

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coinvolte nel processo di invecchiamento, accelerandolo, mentre una riduzione delle stesse permetta un’estensione della longevità (Fontana et al., 2010). Le principali vie di segnalazione che è stato visto essere coinvolte sono quella dei mediatori dell’ ormone della crescita (anche detto GH), quelle legate al complesso proteico chinasico mTOR, all’enzima AMPK, alle proteine della famiglia sirtuin.

2.5.1.Via di segnalazione insulina /IGF1

Il GH, prodotto dall’ipofisi anteriore, fa parte dell’asse somatotropo ed ha effetti su molti tipi di cellule. La sua azione è mediata da IGF-1 (fattore di crescita insulino-simile 1), prodotto in particolar modo dalle cellule del fegato in presenza dello stesso GH. A livello intracellulare IGF-1 attiva la stessa via di segnalazione che è indotta dall’insulina per informare le cellule della presenza di glucosio. In virtù di ciò questa via intracellulare è definita “via insulina-IGF-1” (via “IIS”). E’ da sottolineare che essa è la più conservata nell’evoluzione tra le vie ritenute coinvolte nel controllo dell’invecchiamento ed ha, tra i suoi vari bersagli, i fattori di trascrizione della famiglia FOXO e i complessi mTOR, anch’essi molto conservati e aventi un ruolo nell’invecchiamento (Barzilai et al., 2012; Fontana et al., 2010; Kenyon et al., 2010). Il coinvolgimento della via insulina/IGF1 si è potuta desumere, in primo luogo, da molti esperimenti in cui manipolazioni genetiche che sono andate ad attenuarla a vari livelli, in vermi, mosche e topi, hanno dato come risultato un notevole aumento della durata della vita (Fontana et al., 2010). Analisi di genetica indicano che questa via, inoltre, media una parte dei benefici derivanti da restrizioni dietetiche, le quali sono state messe in relazione con l’aumento della durata della vita o dello stato di buona salute in tutte le specie eucariote osservate, compresi i primati non umani (Colman et al., 2009; Fontana et al., 2010; Mattison et al., 2012). Il fattore più rilevante tra gli effettori a valle della via insulina/IGF1, per quanto riguarda la longevità in vermi e mosche, è il fattore di trascrizione FOXO (Slack et al., 2011). L’azione di quest’ultimo risulta inibita, diversamente da mTOR, dall’attivazione della via IIS. Nei topi sono stati scoperti quattro membri della famiglia FOXO, ma non è stato ancora ben

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determinato in che modo una loro espressione, mediante una riduzione dell’attività della via insulina/IGF1 possa influire sulla longevità e sull’incremento di un buono stato di salute. Peraltro nel topo il fattore FOXO1 è coinvolto nell’azione oncosoppressiva determinata da un limitato introito di calorie (Yamaza et al., 2010), ma non si sa se è implicato anche nell’incremento della durata della vita mediata da questa restrizione.

2.5.2. mTOR, AMPK e proteine della famiglia Sirtuin.

Mentre la via IIS è deputata alla percezione dei livelli di glucosio, altri tre sistemi fortemente connessi tra loro si occupano della percezione dei livelli di altri nutrienti: mTOR, rilevante alte concentrazioni di aminoacidi, AMPK, rilevante alti livelli di AMP che si hanno in condizioni di bassa disponibilità energetica e le sirtuine che percepiscono anch’esse queste condizioni, rilevando, però, alti livelli del coenzima NAD+ (Houtkooper et al., 2010).

mTOR è un enzima ad azione chinasica che fa parte di due complessi multiproteici, mTORC1 e mTORC2, che regolano quasi tutti gli aspetti del metabolismo anabolico (Laplante e Sabatini, 2012).

La riduzione geneticamente indotta dell’attività di mTORC1 in lieviti, vermi e mosche incrementa la longevità ma attenua i benefici dati su questa da restrizioni dietetiche. Questo fatto ha suggerito che l’inibizione di mTOR dia gli stessi effetti della limitazione all’introduzione di calorie (Johnson et al., 2013). Peraltro, nei topi, la rapamicina, ad azione inibitoria su mTOR, incrementa la longevità ed è ritenuta l’intervento chimico più consistente e significativo nell’aumentare la durata della vita nei mammiferi (Harrison et al., 2009). Tra gli altri suoi effetti, la rapamicina direttamente infusa nell’ipotalamo di topi è in grado di invertire, a questo livello, l’aumentata attività di mTOR riscontrata durante l’invecchiamento e contribuente all’obesità correlata all’età avanzata (Yang et al., 2012).

Sembra che sia in particolare la riduzione dell’attività di mTORC1 sul substrato S6K1 ad essere coinvolta nell’estensione della longevità. Difatti, topi geneticamente

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modificati con bassi livelli di attività di mTORC1 ma livelli normali di mTORC2 hanno una durata della vita maggiore (Lamming et al., 2012).

In generale, queste osservazioni, incluse quelle sulla via insulina/IGF1, indicano che un’intensa attività metabolica e trofica, segnalata attraverso queste vie, sono tra i principali acceleratori di invecchiamento. Poiché l’inibizione dell’attività TOR ha mostrato in topi anche effetti collaterali, come un’alterata guarigione delle ferite, resistenza all’insulina, cataratta e degenerazione testicolare (Wilkinson et al., 2012), sarà importante capire con precisione i meccanismi per riuscire a separare gli effetti benefici da quelli dannosi.

Per quanto riguarda invece AMPK e le proteine della famiglia sirtuin, esse agiscono nel senso opposto in quanto, come detto, si attivano per segnalare la carenza di nutrienti e il catabolismo. In accordo con quanto visto in precedenza, per queste ultime due vie si ha un invecchiamento accompagnato da un buono stato di salute quando è promossa la loro attivazione. In particolare l’attivazione dell’enzima chinasico AMPK ha molti effetti, tra cui anche il silenziamento di mTORC1 (Alers et al., 2012). Un’ulteriore evidenza circa l’effetto positivo che l’attivazione di AMPK potrebbe avere sulla durata della vita si è ottenuta seguendo la somministrazione di metformina in vermi e topi. La metformina, usata come antidiabetico, controlla, con la mediazione di AMPK, la iperglicemia, la quale, così come l’iperinsulinemia, accelerano lo sviluppo di tumori maligni e l’invecchiamento (Anisimov et al., 2011; Mair et al., 2011; Onken e Driscoll, 2010).

SIRT1 può stabilire un circolo a feedback positivo con lo stesso AMPK ponendosi in connessione quali sensori di condizioni di bassa disponibilità energetica ( Price et al., 2012). In pratica, SIRT1 ha la capacità di deacetilare e attivare PGC-, ilcoattivatore 1 del recettore PPAR(Rodgers et al., 2005). PGC-che pare espresso in condizioni di necessità energetiche, va ad attivare una serie di fattori di trascrizione, tra cui PPAR determinando una complessa risposta metabolica comprendente genesi di nuovi mitocondri, un incremento delle difese antiossidanti e una migliorata ossidazione degli acidi grassi (Fernandez-Marcos e Auwerz, 2011).

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Fig 7: Effetto delle vie di segnalazione del metabolismo sull’invecchiamento. In azzurro sono rappresentate le molecole con proprietà anti-invecchiamento, in arancio quelle che favoriscono l’invecchiamento.

2.6. DISFUNZIONE MITOCONDRIALE

La funzione mitocondriale (Fig.8) ha un profondo impatto sul processo di invecchiamento. Con l’età, sia cellulare che dell’organismo nel suo insieme, è stato osservato che la catena respiratoria tende a perdere la sua efficienza e conseguentemente si va incontro a una riduzione della produzione di ATP, nucleotide dalla cui idrolisi è ricavata energia per la maggior parte delle funzioni cellulari (Green et al., 2011). Vi sono molte prove che la disfunzione dei mitocondri può accelerare l’invecchiamento in mammiferi (Kujoth et al., 2005; Vermulst et al., 2008), ma rimane ancora una grande sfida la comprensione di tutti i suoi dettagli e se sia possibile, concretamente, intervenire a questo livello per incrementare la durate della vita.

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Fig. 8: Rappresentazione schematica di un mitocondrio.

2.6.1.Specie reattive dell’ossigeno (ROS)

Esiste una teoria, la teoria dei radicali liberi mitocondriali, secondo cui l’invecchiamento è il risultato della disfunzione mitocondriale causata da un’aumentata produzione di ROS, che provoca a sua volta deterioramento mitocondriale e danno cellulare. A favore di questa teoria ci sono molti dati, ma risultati ottenuti più di recente hanno portato a rivalutarla attentamente (Hekimi et al., 2011). In primo luogo è stato osservato che, inaspettatamente rispetto quanto previsto dalla teoria dei radicali liberi, un incremento dei livelli di ROS in Caenorhabditis Elegans e in lieviti potrebbe essere responsabile di un prolungamento della durata della vita (Doonan et al., 2008; Mesquita et al., 2010; Van Raamsdonk e Hekimi, 2009). Inoltre manipolazioni genetiche effettuate su topi allo scopo di incrementare i livelli mitocondriali di ROS e il danno ossidativo non hanno portato a un’accelerazione dell’invecchiamento (Van Remmen et al., 2003; Zhang et al., 2009). Altri esperimenti, effettuati sempre su topi, hanno ulteriormente posto in discussione la teoria dei radicali liberi mitocondriali, in quanto è stato inoltre visto che l’induzione di un incremento delle difese antiossidanti non prolunga la durata della vita (Perez et al., 2009) . Studi paralleli e separati circa gli effetti dannosi dei ROS hanno evidenziato

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che essi hanno un ruolo importante nell’innescare meccanismi di sopravvivenza e proliferazione in risposta sia a segnali fisiologici che a condizioni di stress (Sena e Chandel, 2012). Tutte queste osservazioni risultano apparentemente in contraddizione con le evidenze a supporto di in un ruolo dei ROS nell’invecchiamento, ma non lo sono più se si va ad interpretare i ROS come un segnale di sopravvivenza indotto dallo stress e quindi responsabile, inizialmente, dell’attivazione di una risposta omeostatica compensatoria, similmente ad AMP e a NAD+ . Quindi, in età avanzata, in virtù dell’aumentato stress e danno a livello cellulare si ha un incremento dei livelli di ROS con lo scopo di innescare meccanismi che garantiscano la sopravvivenza dell’individuo. Tuttavia, livelli eccessivamente alti di ROS non hanno più solo un effetto positivo di mantenimento dell’omeostasi, ma producono o addirittura aggravano il danno correlato all’invecchiamento (Hekimi et al., 2011).

2.6.2.Biogenesi e integrità mitocondriale

Studi su topi carenti di DNA polimerasi hanno mostrato che la disfunzione dei mitocondri, ritenuta tra i segni caratteristici e determinanti l’invecchiamento, non è dovuta unicamente ai danni causati dalla presenza di specie reattive dell’ossigeno (Edgar et al., 2009; Hiona et al., 2010). Tra i vari meccanismi ipotizzati, oltre ai ROS, si ha, ad esempio, un’alterazione della via di segnalazione che conduce all’apoptosi. In pratica, in risposta allo stress aumenta la propensione dei mitocondri ad incrementare la permeabilità delle loro membrane liberando enzimi e attivatori di enzimi coinvolti nella regolazione della morte cellulare programmata (Kroemer et al., 2007), in più , tale permeabilizzazione può innescare reazioni infiammatorie mediante l’attivazione, che in realtà può essere anche mediata da ROS, di aggregati proteici chiamati “inflammosomi”(Green et al., 2011). E’ stato anche ipotizzato che la disfunzione mitocondriale possa influire direttamente sui segnali all’interno della cellula e sulla comunicazione tra i vari organuli cellulari, soprattutto tra la membrana mitocondriale esterna e il reticolo endoplasmatico (Raffaello e Rizzuto, 2011).

La disfunzionalità mitocondriale associata all’invecchiamento si può manifestare, inoltre, come una riduzione dell’efficienza di questi organuli nel produrre energia. In

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questo caso, alla base potrebbero esserci molti meccanismi convergenti tra loro, compresa una ridotta capacità di biogenesi mitocondriale.

La biogenesi mitocondriale viene regolata anche da SIRT1 che determina l’attivazione del coattivatore trascizionale PGC-1Rodgers et al., 2005) e la promozione dell’autofagia che favorisce, invece, la rimozione dei mitocondri (Lee et al., 2008). Anche SIRT3, la principale deacetilasi mitocondriale (Lombard et al., 2007), agisce su enzimi del metabolismo energetico, compresi componenti della catena respiratoria, del ciclo degli acidi tricarbossilici, della chetogenesi, della -ossidazione degli acidi grassi (Giralt e Villaroya, 2012). E’ stato inoltre ipotizzato che SIRT3 possa influenzare anche la produzione di ROS, deacetilando l’enzima manganese superossido dismutasi, uno dei principali agenti antiossidanti a livello mitocondriale (Qiu et al., 2010; Tao et al., 2010). Da queste osservazioni si può ipotizzare che sia i telomeri che le proteine della famiglia sirtuin abbiano un ruolo protettivo verso lo sviluppo di patologie associate all’età, grazie alla loro capacità di controllo della funzione mitocondriale.

Difetti di bioenergetica a livello mitocondriale possono essere dovuti anche a mutazioni e delezioni del DNA dell’organulo, ossidazione proteica, destabilizzazione della organizzazione macromolecolare dei complessi della catena respiratoria, alterazioni della composizione lipidica delle membrane, mitofagia difettosa con conseguente ridotta degradazione proteolitica degli organuli non efficienti, perdita dell’equilibrio normalmente presente tra processi di frammentazione, o fissione, e interconnessione, o fusione, mitocondriali (Wang e Klionski, 2011). Quello che si suppone, in pratica, è che il processo di invecchiamento possa essere accelerato dalla combinazione di un incremento di danno e di un ridotto ricambio dei mitocondri, legato sia a una diminuita biogenesi che a una minore capacità di eliminazione di questi organuli (Kenyon, 2010).

Secondo alcuni studi la degenerazione a livello mitocondriale potrebbe essere evitata mediante l’esercizio fisico e in particolar modo effettuando a giorni alterni allenamento aerobico e anaerobico (Castello et al., 2011; Safdar et al., 2011). Questi effetti benefici potrebbero essere dovuti, in parte, all’induzione dell’autofagia,

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fortemente stimolata da entrambi i tipi di allenamento (Rubinsztein et al., 2011), ma probabilmente vi sono anche altri meccanismi tramite cui uno stile di vita sano, caratterizzato non solo da esercizio fisico ma anche da limitazione nell’assunzione di calorie, potrebbe ritardare l’invecchiamento (Kenyon, 2010).

2.6.3. Mito-Ormesi

E’ stato visto di recente che le disfunzioni mitocondriali durante l’invecchiamento sono collegate anche al concetto di ormesi (Calabrese et al., 2011). Secondo questo concetto, trattamenti a bassa tossicità innescano risposte compensatorie positive che vanno oltre alla semplice riparazione del danno causato e che determinano così un miglioramento del benessere cellulare rispetto addirittura alle condizioni della cellula pre-danneggiamento. In questo modo gravi alterazioni mitocondriali portano all’insorgenza di malattie, mentre una lieve alterazione della respirazione cellulare potrebbe incrementare la durata della vita in virtù di una risposta di tipo osmetico (Haigis e Yankner, 2010). Peraltro è stato visto che in Caenorhabditis Elegans le reazioni ormetiche che innescano una risposta difensiva mitocondriale avvengono sia nel tessuto in cui i mitocondri sono difettosi che in tessuti distanti (Durieux et al., 2011). Metformina e resveratrolo, ad esempio, sono lievemente tossici a livello mitocondriale e inducono uno stato a bassa disponibilità energetica caratterizzato da aumentati livelli di AMP e conseguente attivazione di AMPK (Hawley et al., 2010). Sempre in C.Elegans si è potuto osservare che la metformina aumenta la durata della vita attraverso la promozione di una risposta compensatoria allo stress mediata proprio da AMPK e da NRF2, fattore di trascrizione fondamentale per l’attivazione delle difese antiossidanti (Onken e Driscoll, 2010). Studi recenti hanno mostrato anche che la metformina è in grado di ritardare l’invecchiamento nei vermi andando ad alterare il metabolismo dei folati e della metionina a livello del microbioma intestinale, mimando così una condizione di restrizione dietetica (Cabreiro et al., 2013). Invece, per quanto riguarda i mammiferi, la metformina è in grado di aumentare la vita nel topo se, però, è somministrata sin dai primi mesi di vita (Anisimov et al., 2011). Il resveratrolo, similmente all’attivatore sirtuin SRT1720, è stato visto con chiarezza essere capace di

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proteggere dal danno metabolico e migliorare la respirazione mitocondriale in virtù dell’attivazione di PGC1in caso di assunzione di calorie elevata (Baur et al., 2006; Feige et al., 2008; Lagouge et al., 2006; Minor et al., 2011), ma non essere in grado di incrementare la durata della vita nel topo in condizioni dietetiche normali (Pearson et al., 2008; Strong et al., 2013). L’importanza di PGC1-nella longevità è supportata anche dall’osservazione che una aumentata espressione di questo coattivatore trascrizionale è sufficiente a prolungare la vita in Drosophila, in concomitanza a una migliorata attività mitocondriale (Rera et al., 2011). Infine è stato visto che anche l’induzione di un lieve disaccoppiamento mitocondriale, quindi una lieve riduzione nella sintesi di ATP, determinata geneticamente attraverso una promossa espressione della proteina disaccoppiante UCP1 o mediante somministratore di un disaccoppiante chimico quale il 2,4-dinitrofenolo, può aumentare la durata della vita in mosche e topi (Caldeira de Silva et al., 2008; Mookerjee et al., 2010).

2.7.SENESCENZA CELLULARE.

La senescenza cellulare può essere definita come un arresto stabile del ciclo cellulare accompagnato da cambiamenti fenotipici standardizzati (Campisi e d’Adda di Fagagna, 2007). E’ stato visto che questo fenomeno, scoperto da Hayflick in cellule diploidi coltivate in vitro, è dovuto all’accorciamento dei telomeri (Kuilman et al., 2010). Tuttavia esistono anche altri stimoli legati all’invecchiamento che possono innescare la senescenza, indipendentemente dal processo telomerico. Di notevole importanza in questo senso è il danno al DNA non telomerico e la derepressione del locus INK4/ARF2, codificante due oncosoppressori, che si osservano con l’invecchiamento cronologico e che sono in grado di indurre senescenza (Fig. 9) (Collado et al., 2007).

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