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Discrimen » Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno

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La tutela della sicurezza sul lavoro in materia civile e penale

13 dicembre 2017

Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno. Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale. L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

Relatore: dott. Lorenzo Gestri,

Sostituto del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato

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Premessa. Il debito formativo.

I più accreditati ed attuali studi sulla buona tecnica della formazione concordano nel sottolineare come costituisca premessa essenziale di qualsiasi intervento svolto in forma di relazione frontale la precisa definizione dell’oggetto del debito formativo.

Qualsiasi esposizione avente contenuto formativo, infatti, è fonte di aspettative. Da un lato, il relatore matura l’aspettativa di riuscire a trasmettere adeguatamente il proprio messaggio formativo, l’esperienza professionale narrata, dall’altro, il discente auspica di acquisire un’informazione nuova, o quantomeno di vedere rafforzata, implementata, attualizzata, un’informazione già rientrante nel bagaglio di propria conoscenza.

La sintesi delle citate aspettative va a formare il cosiddetto “contratto d’aula”, il negozio ideale stipulato fra chi è incaricato di assolvere al debito formativo, il relatore, ed i destinatari della relazione, appunto i partecipanti all’incontro formativo.

É da qui che vorrei partire, dalla definizione di quello che sarà il confine dell’intervento formativo.

In tal senso, si impone innanzitutto una specificazione interpretativa del senso del titolo oggetto della relazione.

Il minimo comune denominatore della “relazione a due voci” svolta sui due versanti, da un lato quello del diritto civile e del lavoro e, dall’altro, quello del diritto penale, è senza dubbio costituito dalle forme di tutela giurisdizionale apprestate dall’ordinamento alle posizione che caratterizzano il rapporto di lavoro, con riferimento agli obblighi e alle garanzie previste in materia di sicurezza.

Il tema assegnato costituisce in tal senso il momento di sintesi dell’intero corso, dedicato appunto ad affrontare il tema de “La tutela della sicurezza sul lavoro in materia civile e penale”.

Sul versante penalistico, l’affermazione della tutela delle situazioni soggettive lese per violazioni in materia di sicurezza può avere ad oggetto accanto all’offesa penale, tipica del reato e perseguita dal pubblico ministero in proprio, un’offesa civile, ossia la conseguenza di danno del reato, che determina un pregiudizio risarcibile direttamente in sede penale dal titolare della pretesa.

Il segmento “penalistico” dell’intervento cercherà proprio di analizzare le forme, gli ambiti e le problematiche connesse alla scelta di esercitare la pretesa risarcitoria nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, per far valere la pretesa di ristoro a fronte di un danno conseguenza della commissione di reati in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Affidare ad un pubblico ministero la trattazione di tale tema, però, comporta un’ulteriore ed inevitabile conseguenza in termini di delimitazione del confine di analisi e quindi, dell’oggetto del debito formativo. Il pubblico ministero è l’organo pubblico che ha il compito di ricostruire il fatto storico, verificando se in esito a tale percorso, in cui è sostanzialmente dominus, quello delle indagini preliminari, siano stati raccolti elementi

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idonei ad ipotizzare la sussistenza di un reato, così da poter esercitare l’azione penale nei confronti di colui che ritiene responsabile della commissione dell’illecito. La parte civile, però, potrà essere - eventualmente – tale, soltanto dopo che il pubblico ministero abbia sciolto positivamente in favore dell’esercizio dell’azione penale il dubbio sulla modalità di definizione delle indagini, per come cristallizzato nel disposto di cui all’art.

405 c.p.p.. Da qui, dunque, la necessità di ampliare per esigenza di completezza la prospettiva di analisi del tema della tutela in sede penale delle posizioni soggettive offese dal reato di lavoro, ossia per fatti connessi alla violazione della normativa di sicurezza sul lavoro, anticipando la riflessione ai soggetti che sin dalla fase delle indagini preliminari risultano offesi dal reato.

In sostanza, l’esigenza di garantire completezza alla trattazione del tema della tutela penalistica delle vittime da reato di “lavoro” suggerisce di esplorare il tema della costituzione della parte civile ampliando ed anticipando la riflessione alla fase procedimentale, per cogliere i profili di tutela previsti dall’ordinamento penalistico nei confronti della vittima del reato di lavoro, potenziale costituenda parte civile.

Si tratterà, pertanto, in primo luogo di verificare a chi in detta fase, quella delle indagini preliminari, possa essere riconosciuta la veste di persona offesa del reato in materia di sicurezza del lavoro, analizzando in concreto quali diritti, facoltà e poteri l’ordinamento prevede a sua tutela, cercando di verificare criticamente se tale sistema sia concretamente idoneo a fare fronte alle esigenze di difesa della vittima del reato di lavoro, con particolare riferimento alla posizione del lavoratore, il principale creditore di sicurezza.

Verrà quindi analizzato il momento della partecipazione al processo penale in materia di sicurezza della persona offesa, che sia anche danneggiata dal reato, attraverso il passaggio dalla condizione di

“soggetto” del procedimento, a “parte” – eventuale – processuale, sub specie appunto di parte civile, cercando di tratteggiare solo per sintesi le questioni relative alla regolamentazione dell’istituto e quelle interpretative ormai consolidate in giurisprudenza, per evitare di incorrere in un’esposizione eccessivamente dogmatica, terreno su cui potrebbe facilmente scivolare il pubblico ministero “pratico”, oltre a incorrere nel rischio di produrre un effetto di inutilità del contributo formativo, così tradendo l’aspettativa del debito formativo.

Sin qui con riferimento al perimetro degli “ambiti” e “confini” con cui verrà affrontato il tema dell’azione di risarcimento in sede penale, fissati dalla traccia del titolo dell’intervento.

Quanto poi al passaggio dedicato dal titolo alle questioni “problematiche” connesse all’esercizio dell’azione civile in sede penale, l’intervento cercherà di assolvere al “debito formativo” analizzando una serie di situazioni che caratterizzano l’intero percorso della tutela in sede penale della domanda di risarcimento dei danni conseguenza del reato di lavoro, per verificare in modo critico se il sistema risulti effettivamente adeguato a fornire tutela alla vittima del lavoro, ed ancora una volta in particolare al lavoratore subordinato, principale creditore di sicurezza.

Ciò avverrà cercando di verificare innanzitutto quali siano i criteri che solitamente presiedono ed ispirare in concreto la scelta della vittima del reato di lavoro - in relazione anche alla singola situazione soggettiva - a perseguire tutela risarcitoria in sede penale, anziché dinanzi al giudice del lavoro, avendo riguardo anche alle peculiarità del sistema normativo di tutela del danno da lavoro previsto dalla disciplina speciale sull’assicurazione obbligatoria del d.p.r. 1124/1965, ed al rapporto fra quest’ultima ed i principi e le regole fissate dall’art. 75 c.p.p. fra giudizio civile e penale, proprio con riferimento alle scelte compiute dal danneggiato in merito alla costituzione di parte civile.

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Si cercherà poi di verificare in che termini sul predetto momento della scelta della costituzione di parte civile per ottenere in sede penale il risarcimento del danno-conseguenza di un reato commesso con violazione della disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, ed in particolare con riferimento a specifiche condizioni di lavoratore connotato da particolare profili di particolare debolezza (il lavoratore irregolare, o addirittura clandestino) possa in concreto svolgere un ruolo decisivo l’obiettivo della “completezza delle indagini”, cui deve normativamente tendere sempre l’azione del pubblico ministero. La risposta, si anticipa sin d’ora, a parere dello scrivente è certamente positiva, ed a supporto di tale assunto si procederà ad analizzare una serie di vicende connesse all’esistenza di “situazioni fattuali” del rapporto di lavoro - che peraltro nel sistema della sicurezza hanno come noto peculiare rilevanza in forza della positivizzazione del principio di effettività ex art. 299 TUSL - o di delitti gravi, dolosi, commessi in danno del lavoro e dei lavoratori, quali in particolare quello dell’omissione delle cautele antinfortunistiche (437 c.p.), e del favoreggiamento a fini di profitto della permanenza di clandestini lavoratori (12 co.5 d.lgs. 286/98).

Verranno analizzate poi una serie di situazioni connesse al comune tema della tutela dell’interesse a conseguire un risarcimento integrale ed effettivo del danno da reato di lavoro patito dalla parte civile costituta, quali quelle aventi ad oggetto: gli effetti di accordi transattivi sulla pretesa di risarcimento; la tutela della pretesa risarcitoria assicurata dal sequestro conservativo; la condizione di piena soddisfazione risarcitoria della vittima quale condizione per riconoscere all’imputato del reato di lavoro di beneficiare dell’attenuante del risarcimento del danno.

Si analizzeranno le forme di partecipazione al procedimento e al processo di alcuni organi di

“supporto” della vittima del lavoro, in particolare l’INAIL, il sindacato e gli enti rappresentativi di interessi diffusi in materia di tutela delle condizioni di sicurezza del lavoro.

Verrà infine dedicata qualche riflessione anche alla questione controversa ed attuale della ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nei giudizi di responsabilità contro l'ente.

2 Persona offesa e vittime del reato in materia di sicurezza del lavoro

La persona offesa è il titolare dell’interesse giuridico protetto dalla norma incriminatrice che si assume essere stata violata dal fatto storico reato. Per individuare la persona offesa è pertanto necessario fare riferimento alla norma penale sostanziale, la fattispecie tipica, ed al fatto storico riferibile ad un soggetto agente, che della fattispecie viene sussunto in concreto. La verifica della violazione della norma, nel caso del fatto storico ricostruito attraverso prove, costituisce proprio l’essenza del giudizio penale.

L’ordinamento giuridico appresta tutela sostanziale e procedimentale alla persona offesa. Si tratta di verificare quali siano i principali strumenti di tale tutela in generale, per poi confrontarli con quelli tipici della persona offesa dal reato di lavoro.

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2.1 Uno sguardo di sintesi al ruolo assegnato alla persona offesa

Poiché ogni reato procura offesa o pericolo ad un interesse tutelato dalla legge, l’ordinamento risponde all’offesa con la previsione di una sanzione (tutela sostanziale). L’accertamento della violazione e l’irrogazione della sanzione avviene all’interno del procedimento penale (tutela processuale). Al pubblico ministero spetta il compito di assicurare l’attuazione dell’interesse generale alla repressione del reato.

Il codice vigente attribuisce alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del procedimento, cui ricollega una serie di diritti, facoltà e poteri di varia natura fra cui, ad esempio, poteri sollecitatori (art. 90.1° c.p.p.), diritti di informativa (artt. 369, 335, 360, 419, 429 c.p.p.), diritti di partecipazione al procedimento (artt. 360, 327 bis, 391 octies, 401 c.p.p.), di controllo dell’iniziativa del pubblico ministero (artt. 406, 408 c.p.p.).

Si tratta di un ruolo, quello assegnato alla vittima persona offesa e soggetto passivo del reato, che – nonostante una significativa evoluzione anche rispetto al codice di rito previgente, ispirato al modello inquisitorio - molti osservatori in dottrina non esitano ancora a definire “marginale”.

Non v’è dubbio che la giustizia penale della vittima sia stata in effetti soggetta a corsi e ricorsi storici.

Si è passati dal sistema feudale delle ordalie, dei duelli, delle vendette, in cui la giustizia penale era sostanzialmente questione privata, alla giustizia penale caratterizzata dal modello processuale inquisitorio, che nonostante le diverse declinazioni ispirate da logiche contingenti dei singoli ordinamento giuridici, ha determinato una sostanziale marginalizzazione del ruolo dei privati.

Dalla logica della riparazione fra privati, ossia all’accordo fra vittima e reo, veri protagonisti della giustizia penale riparativa, si è passati con il modello inquisitorio alla centralità dell’interesse statuale a concepire la sanzione per il reato in una logica prettamente retributiva, funzionale a soddisfare ragioni ed esigenze prettamente pubblicistiche.

L’avvento del codice Vassalli ha dato ingresso ad una concezione significativamente innovativa della giustizia penale, tanto che si è parlato a più riprese dell’avvento di un nuovo sistema di giustizia consensuale, giustizia patteggiata, giustizia negoziale.

Ciò però, al di là di quello che si potrebbe essere frettolosamente portati a pensare, non ha corrisposto nella sostanza all’affermazione di una nuova frontiera di valorizzazione del ruolo della vittima all’interno del processo penale. Le predette espressioni, infatti, sono servite più ad individuare nuovi istituti processuali che hanno caratterizzato il modello accusatorio, quali in particolare i riti alternativi del patteggiamento e dell’abbreviato, ispirati più dal perseguire logiche di pura deflazione del procedimento, anziché ad affermare l’avvento di una nuova stagione della giustizia penale riparativa.

Appare in sostanza condivisibile affermare che la giustizia penale del vigente codice di rito, seppur a più riprese interpolato nel tempo, in tema di diritti, poteri e facoltà della persona offesa vittima del reato se, da un lato, torna a presentare aspetti consensuali, dall’altro, non può nuovamente definirsi giustizia riparativa, e come tale “…inclusiva anche delle ragioni delle vittime dei reati”, in quanto al centro dell’interesse del processo “…c’è ancora e sempre la pena-bene pubblico, alla cui tutela si asservono, perché capaci di

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deflazionare il carico giudiziario, gli istituti di natura consensuale” 1. É così che, si può affermare, alla “persona offesa” il legislatore del codice del 1988 ha riconosciuto “….un ruolo meramente penalistico, cioè un interesse ad ottenere soltanto la condanna del responsabile del reato” 2, con ciò distinguendola dalla parte civile che, invece, in quanto persona offesa che ha anche subito un danno in conseguenza del fatto penale illecito, nello scegliere di esercitare l’azione risarcitoria in sede penale rimane portatrice di un interesse prettamente privatistico.

Ebbene, a tale logica generale non fa eccezione di certo la condizione delle “vittime del lavoro”, che risentono del più generale orientamento culturale e giuridico di marginalizzazione del ruolo della persona offesa.

2.2 La persona offesa e il danneggiato dal reato: poteri, diritti e facoltà

Alla persona offesa titolare dell’interesse giuridico protetto dalla norma penale violata, si è già detto che il codice di rito assegna il ruolo di soggetto del procedimento.

Rileva sottolineare peraltro come non sempre la persona – o le persone – offesa(e) dal reato (vedasi nel caso di reati plurioffensivi), sia anche persona(e) danneggiata(e) dal reato.

La distinzione fra persona offesa dal reato e persona danneggiata dal reato è importante perché ad essa è ricollegato l’esercizio di poteri differenti, riconosciuto proprio in ragione della specifica qualifica.

Soltanto la persona offesa dal reato che sia anche persona danneggiata dal reato potrà avanzare una pretesa risarcitoria del danno patrimoniale o non patrimoniale patito in conseguenza del reato. Laddove il danneggiato intenda far valere tale pretesa nel processo penale istruito al fine di accertare proprio la sussistenza del reato, e la responsabilità dell’imputato, ciò avverrà appunto attraverso la costituzione di parte civile.

In tal caso, la persona offesa (danneggiata) soggetto del procedimento, muterà pelle per assumere la veste di parte del processo, appunto sotto forma di parte civile, che rappresenta una parte eventuale del giudizio.

Dunque, partendo dalla violazione della norma penale ipotizzata in concreto, in relazione al bene giuridico offeso e al danno provocato dal fatto illecito possono essere individuate le seguenti figure: 1) la persona offesa; 2) la persona offesa danneggiata; 3) la parte civile.

Mentre la prima è soltanto soggetto del procedimento, non potendo divenire mai parte, la seconda può assumere la veste di soggetto nella fase delle indagini preliminari, per poi decidere (in via eventuale) di esercitare la propria pretesa risarcitoria a tutela del danno patito dal reato costituendosi parte civile, facendo

1 Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.3.

2 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.163.

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ingresso nel giudizio, - la fase processuale conseguente all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero – come vera e propria parte.

La dottrina risulta concorde nello spiegare quali sia stata la ragione sottesa alla scelta compiuta dal codice del 1988 nel distinguere le qualità e i diritti di persona offesa da un lato, e parte civile, dall’altro, desumendole in particolare dalla Relazione al progetto preliminare, da cui emerge un’evidente sfavore del legislatore verso la possibilità che il danneggiato opti per esercitare l’azione civile nel processo penale, ed una contestuale preferenza per un modello di separazione del processo penale da quello civile, per salvaguardarne il ruolo di sede naturale per azionare la pretesa risarcitoria patrimoniale e non patrimoniale.

Affinché tale separazione fra processo civile e penale potesse rimanere tale anche in quei casi in cui il titolo di danno sia stato il medesimo, ossia il reato, che per sua natura dovrà essere accertato in sede processuale penale, il legislatore ha pensato che “…l’impedire al danneggiato di costituirsi parte civile durante le indagini preliminari induca tale persona ad esercitare l’azione civile nel processo civile. Questo è il meccanismo di ingegneria processuale che si è messo in atto…” 3.

Così spiegata la scelta di eliminare dalla fase delle indagini preliminari la presenza della parte civile è residuato al legislatore la necessità di apprestare un sistema di norme che tutelasse la persona offesa, tendenzialmente anche danneggiato dal reato.

Rileva pertanto in questa fase analizzare quali siano i poteri, le facoltà e i diritti riconosciuti alla persona offesa, anticipando come essi attengano soprattutto alla fase delle indagini preliminari, in quanto con la formulazione dell’imputazione alla persona offesa - che nel frattempo abbia fatto scelta di non costituirsi parte civile in qualità di danneggiata dal reato - residua un ruolo assolutamente marginale, e tendenzialmente non attivo, di fatto limitato alla possibilità di presentare memorie ed indicare elementi di prova (che l’art. 90.1 c.p.p. ancora ad “…ogni stato e grado del procedimento”).

La disciplina della persona offesa trova sede nel tiolo VI del Libro I, quello dedicato ai “soggetti” . L’art.

90.1.c.p.p. espressamente prevede che alla persona offesa dal reato sia riconosciuto l’esercizio di “…diritti e facoltà…” espressamente riconosciutele dalla legge.

I “diritti” si identificano in quelle situazioni soggettive che fanno sorgere a carico dei destinatari dell’esercizio degli stessi l’obbligo di emettere un provvedimento; le “facoltà”, invece, consistono in quei poteri il cui esercizio non fa sorgere alcun dovere nel destinatario, di solito la parte pubblico del procedimento, pubblico ministero o giudice.

Alla persona offesa sono innanzitutto riconosciuti poteri sollecitatori.

Il caso è quello della facoltà di presentare memorie ed indicare elementi di prova (che l’art. 90.1 c.p.p.).

Numerosi sono poi i diritti di informativa, funzionali a consentire alla persona offesa il successivo esercizio di poteri di partecipazione attiva al procedimento e al processo. Fra questi si evidenzia che:

3 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.164.

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1) alla persona offesa è dovuta la notifica dell’avviso di garanzia da parte del pubblico ministero nel caso in cui questi stia per compiere un atto garantito nei confronti dell’indagato (art. 369 c.p.p.);

2) alla persona offesa è riconosciuto il diritto ad accedere al registro delle notizie di reato, e di ricevere informazioni delle iscrizioni pendenti, salvi i casi di divieto ed i poteri di segretazione (art. 335 c.p.p.);

3) alla persona offesa è riconosciuto il diritto di essere avvisata da parte del pubblico ministero del conferimento di incarico tecnico per accertamenti irripetibili (art. 360 c.p.p.);

4) alla persona offesa deve essere dato avviso della data e del luogo nel quale si svolgerà l’udienza preliminare (art. 419 c.p.p.);

5) alla persona offesa deve essere notificato il decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.), la citazione diretta (552 c.p.p.) nonché il decreto che dispone il giudizio immediato (art. 456, 458 c.p.p.);

6) alla persona offesa deve essere data informazione in caso di compimento degli atti urgenti predibattimentali (art. 467 c.p.p.);

7) la persona offesa ha diritto a richiedere il dibattimento a porte chiuse (art. 472 c.p.p.);

8) la persona offesa deve essere citata in caso di nuove contestazioni avvenute nella fase dibattimentale del procedimento (art.519 c.p.p.).

Accanto ai diritti di informativa vi è la previsione esplicita di alcune modalità di esercizio del potere di partecipazione al procedimento. Fra questi si segnala:

1) il diritto di assistere agli atti di indagine irripetibili (art. 360 c.p.p.);

2) la facoltà di attivarsi svolgendo mediante difensore “investigazioni difensive” (art. 327 bis c.p.p.), e ricercare elementi di prova da versare nel procedimento (art. 391 octies c.p.p.);

3) la facoltà di chiedere al pubblico ministero di avanzare domanda di incidente probatorio, ed in caso si ammissione dello stesso il diritto ad essere avvisata, potendo parteciparvi anche sollecitando al giudice di rivolgere domande alle persone esaminate (art. 410.5 c.p.p.).

É poi noto che la persona offesa può trovare ingresso nel processo penale anche come testimone.

I due ruoli si sovrappongono e si riuniscono nella stessa persona, seppur rimanendo del tutto indipendenti l’uno dall’altra. Non esistono preclusioni alla prova testimoniale della persone offesa dal reato, neppure laddove si sia costituita parte civile, non sussistendo le incompatibilità previste dall’art. 197 lett. c) c.p.p.

Ed ancora. Alla persona offesa sono riconosciuti poteri di controllo sull’iniziativa del pubblico ministero, al fine di tutelare il proprio interesse a perseguire il reato commesso ottenendo l’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’autore del fatto illecito. In particolare si segnala:

1) il diritto della persona offesa ad essere avvisata dell’eventuale richiesta di proroga delle indagini avanzata dal pubblico ministero laddove, se ne sia fatta espressa richiesta (art. 406.3 c.p.p.);

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2) il diritto della persona offesa ad essere avvisata della richiesta di archiviazione del procedimento, qualora ne abbia fatto espressa richiesta (art.408.2 c.p.p.);

3) la facoltà di sollecitare l’avocazione del procedimento al pubblico ministero “inerte” rivolgendosi al Procuratore generale (art. 413 c.p.p.).

Anche successivamente all’intervenuto esercizio dell’azione penale residua poi un controllo diretto ed indiretto sulla decisione giurisdizionale avente ad oggetto la richiesta, ed il successivo sviluppo processuale.

La persona offesa può infatti:

1) direttamente impugnare mediante “appello” la sentenza di non luogo a procedere nei casi di nullità ex art.

419.7 co. c.p.p. (art. 428 c.p.p.) (previsione di recente modificata con legge 23 giugno 2017, n. 103 a far data dal 3.8.2017, mediante sostituzione dell’impugnazione dell’ “appello” alla previgente previsione del

“ricorso per cassazione”);

2) richiedere al pubblico ministero l’impugnazione della sentenza di primo grado (art. 572 c.p.p.)

2.3 Poteri, diritti e facoltà della persona offesa con particolare riferimento ai reati di sicurezza sul lavoro

Tutte le predette situazioni soggettive di diritto, facoltà e potere riconosciute alla persona offesa, sia nella fase procedimentale delle indagini, che successivamente all’esercizio dell’azione penale nel giudizio, e sino alla definizione dello stesso, valgono certamente anche nel processo penale del lavoro.

Rileva allora verificare in primo luogo a chi possa essere riconosciuta la qualifica di persona offesa nell’ambito di procedimenti in materia di sicurezza del lavoro. La disciplina da un dato, e l’interpretazione giurisprudenziale dall’altra, consentono di assegnare detta qualifica in astratto al lavoratore infortunato; ai prossimi congiunti del lavoratore deceduto; ai sindacati e agli enti rappresentativi di interessi diffusi lesi dal reato di lavoro. Più discusso il ruolo dell’INAIL, da considerare certamente legittimato a costituirsi parte civile, ma non per questo normativamente individuabile anche come persona offesa.

Fra le suddette figure assume senza dubbio un ruolo centrale la posizione del lavoratore, la prima e diretta vittima del reato di lavoro. Non tutti i procedimenti penali istruiti per reati in materia di sicurezza consentono di assegnare al lavoratore la veste di persona offesa.

In tal senso, appare rilevante distinguere fra i procedimenti penali in materia di sicurezza aventi ad oggetto la verifica della sussistenza o meno di una violazione a sole prescrizioni cautelari, in assenza di infortunio o malattia, in sostanza i reati contravvenzionali del TUSL, da quelli che invece hanno ad oggetto in modo specifico gli illeciti contro la persona, o contro la pubblica incolumità, cui si ricolleghino anche violazioni cautelari in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Con riferimento alla prima tipologia di procedimenti la giurisprudenza di legittimità esclude che il lavoratore possa qualificarsi quale persona offesa del reato, e pertanto ne esclude la legittimazione a

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costituirsi parte civile. Sul punto si richiama quanto osserva testualmente la Suprema Corte: “…nel caso di violazione di norme antinfortunistiche, …, l'interesse leso è quello pubblicistico volto a prevenire situazioni di pericolo o di danno per la comunità dei lavoratori ed anche per gli estranei che accedono all'ambiente di lavoro. Si tratta, dunque, di contravvenzioni volte a tutelare una pluralità fungibile ed indeterminata di soggetti”.

Ragion per cui “…il singolo lavoratore è parte offesa potenziale, cioè titolare dell'interesse finale (protetto dai reati contro la vita e l'incolumità individuale), ma non è parte offesa attuale delle contravvenzioni che tutelano beni strumentali, costituiti dall'interesse pubblico volto a regolare un settore ed a prevenire situazioni di pericolo in quel contesto” (ad esempio Cass. Sez. 3, sent. n. 555 del 14/11/2006 (dep. 15/01/2007).

La circostanza non è priva di implicazioni. Da ciò infatti ne discende che nonostante l’eventuale accertamento della violazione cautelare nel caso concreto, soprattutto quando essa non sia di natura meramente formale, e pertanto ne venga (processualmente) certificato l’avvenuta esposizione a pericolo del lavoratore, a questi non è dato dal sistema processuale penale alcuno strumento per ottenere attraverso il processo garanzie di un effettivo miglioramento delle condizioni di lavoro. Ma vi è di più. Sul punto semmai rileva sottolineare quanto è stato già osservato in dottrina - condivisibilmente - in merito al particolare meccanismo che si attiva una volta accertata la violazione prevenzionistica, che può addirittura prescindere dal fornire al lavoratore una tutela, anche indiretta, di controllo giurisdizionale penale. L’organo di vigilanza, infatti, è pensato dal sistema vigente come il solo soggetto deputato a valutare sia la sussistenza della violazione, che le modalità atte a porre l’ambiente di lavoro in condizioni di regolarità, che ad accertarne l’avvenuta regolarizzazione. Ebbene, tali pregnanti attività sono in definitiva tutte rimesse in via esclusiva all’organo di vigilanza, che opera “…in assoluta solitudine, perché non è previsto un reale controllo del p.m., nonostante l’organo di vigilanza operi in qualità di polizia giudiziaria, né è prevista una qualche forma di interlocuzione dei lavoratori o delle loro rappresentanze…, né è previsto un sindacato giurisdizionale sulla bontà dell’operato dell’organo di vigilanza…”4. L’estinzione del procedimento iscritto a seguito della comunicazione di notizia di reato originata dal controllo ispettivo si verifica senza che il giudice sia chiamato a verificare in concreto l’effettiva eliminazione della situazione di irregolarità. Tale eliminazione viene certificata soltanto dall’organo di vigilanza. Si tratta, in sostanza, di un meccanismo pensato più per perseguire logica di deflazione del carico giudiziario, attraverso la rapida estinzione del reato, anziché volto a garantire effettività alla condizione di sicurezza dei luoghi di lavoro, anche per effetto del controllo giurisdizionale ex post.

Diverso è il discorso che può essere svolto con riferimento ai reati contro l’incolumità individuale e/o pubblica, commessi con violazioni prevenzionistiche.

In questi casi è ricorrente che il lavoratore sia persona offesa e danneggiato dal reato (o lo sono i suoi prossimi congiunti). Come tale egli diviene soggetto del procedimento, a cui vengono riconosciute tutte le facoltà, i diritti e i poteri poc’anzi esposti per la persona offesa del reato.

Ciò detto, se di per sé la persona offesa è soggetto solitamente debole, soprattutto laddove il reato maturi in relazione ad una condizione soggettiva che lo pone in un rapporto relazionale pregresso con l’autore del fatto illecito – si pensi ad esempio a tutti i reati maturati nel contesto familiare, in danno delle cosiddette

“fasce deboli” – tanto più lo è il lavoratore.

L’esperienza giudiziaria dimostra che in tal caso la debolezza può avere varie cause.

4 Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.8.

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Essa può dipendere ad esempio dalla connaturale debolezza connessa al rapporto sinallagmatico di lavoro, soprattutto in quei casi in cui il lavoratore sia vittima di un fatto reato maturato in un contesto lavorativo in cui prosegue la sua attività anche successivamente al verificarsi dell’evento lesivo, ed all’avvio del procedimento.

A maggior ragione la condizione di debolezza emerge in quei casi in cui il lavoratore risulti vittima di un fatto reato maturato in ambiente di lavoro in cui ha esercitato soltanto in via di fatto la prestazione lavorativa, al di fuori cioè da qualsiasi veste negoziale formale cristallizzata in un contratto di lavoro, e quindi in assenza di qualsiasi tutela (formale) contrattualistica e legale. All’interno di tale categoria del lavoratore “a nero”, ancor più debole risulta quella del lavoratore clandestino, che alla condizione di irregolarità della posizione lavorativa è consapevole di aggiungere la condizione di irregolarità connessa al proprio status.

Da tutto ciò discende nella prassi che, se di per sé i casi nei quali il lavoratore infortunato si costituisce parte civile sono piuttosto esigui, ancor più rari sono i casi in cui un lavoratore esercita attivamente diritti, facoltà e poteri previsti dal codice di rito nei procedimenti penali in cui si indaga per l’accertamento di delitti contro la persona, o contro la pubblica incolumità, commessi con violazioni prevenzionistiche.

A fronte di ciò appare utile chiedersi se il vigente sistema di tutela di penalistica sia in grado di assicurare al “lavoratore vittima da reato di lavoro” un pronto soddisfacimento dei suoi diritti, senza che di per sé proprio il procedimento penale possa essere esso stesso fonte di ulteriori danni.

La risposta al quesito necessita di operare dei distinguo in relazione a varie fasi del procedimento, quantomeno analizzando separatamente la fase dell’avvio del procedimento, da quella del suo svolgimento, e sino alla fase della definizione, con la decisione da parte del pubblico ministero di esercitare l’azione penale laddove non debba richiedere l’archiviazione.

Positivo è il giudizio che può essere dato sul sistema di tutela apprestato dal vigente ordinamento alla tutela del lavoratore vittima in merito alla modalità di rilevazione degli infortuni sul lavoro, ed alla conseguente tempestiva acquisizione della notizia dell’infortunio.

Alla notitia criminis, infatti, si può addivenire senza richiedere il coinvolgimento dell’infortunato. La denuncia del verificarsi di un infortunio deve sempre essere presentata dal datore di lavoro/committente (indipendentemente da ogni valutazione di merito sulla rilevanza del caso) all'INAIL competente, entro due giorni da quello in cui ha ricevuto il primo certificato medico con prognosi che comporta astensione dal lavoro superiore a tre giorni. In caso di infortunio che determini la morte, o il pericolo di morte, il datore di lavoro deve invece inviare un telegramma entro 24 ore, e per gli infortuni con prognosi superiore a tre giorni, deve inviare entro due giorni copia della denuncia all'Autorità locale di P.S. del luogo dove è avvenuto l'infortunio.

Tale sistema di rilevazione dell’infortunio, da cui scaturisce l’avvio del procedimento penale, avendo conseguentemente sia l’INAIL che l’Autorità di P.S. l’obbligo di comunicare la notizia di reato all’autorità giudiziaria territorialmente competente, risulta certamente funzionale ed idoneo ad apprestare adeguata tutela alla vittima dell’infortunio, il lavoratore.

Il procedimento trae infatti origine ex se, mettendo così al riparo la vittima dell’infortunio da eventuali e possibili pressioni volte a nascondere l’accadimento, come nei casi sopra accennati. Il tutto, è ovvio, al netto di quelle situazioni di gestione patologica del rapporto di lavoro, come accade ad esempio nei casi di impiego di

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lavoratori irregolari ed in particolare clandestini, in relazione alle quali il sistema della notitia criminis appena descritto può incepparsi sin dall’origine, avendo in tal caso il datore di lavoro interesse a clandestinizzare l’infortunio per non incorrere nelle conseguenze discendenti dalla sua ricostruzione processuale.

Più complesso è giudicare il sistema di tutela del lavoratore vittima in relazione alla fase di gestione della notizia di reato, e del suo progressivo sviluppo procedimentale.

É noto al riguardo che con riferimento ai delitti contro l’incolumità individuale soltanto le lesioni personali lievi sono perseguibili a querela. Per esse, pertanto, sarà imprescindibile l’apporto del lavoratore vittima, che dunque dovrà vincere le (eventuali) resistenze dell’ambiente di lavoro a manifestare la propria espressa volontà a perseguire in sede penale il fatto-reato causa anche del danno patito. Con riferimento invece a quei procedimenti che hanno ad oggetto le lesioni di maggior rilevanza, ancora una volta il sistema processuale vigente assicura che le indagini preliminari possano essere iniziate - e possano successivamente svolgersi - senza che la vittima del reato debba esporsi, manifestando la volontà di vedere perseguito l’autore del reato.

Anche in tal caso il giudizio sul sistema di tutela e protezione della vittima-lavoratore risulta quindi positivo, finendo per sottrarre la decisione sull’avvio o meno delle indagini penali “…alla tensione tra l’interesse a veder accertata la responsabilità per il reato e il timore di veder compromessa la propria posizione lavorativa”5.

Ciò detto sulle modalità di acquisizione della notizia di reato, e della fase di avvio del procedimento penale, resta da verificare se il sistema vigente appresti tutela adeguata al lavoratore vittima del reato di lavoro.

Al riguardo il giudizio di sintesi non può essere altrettanto positivo, in quanto la risposta è caratterizzata dalla compresenza di luci ed ombre. É certo, e si è ribadito in apertura di paragrafo, che tutti i poteri, le facoltà ed i diritti della persona offesa trovano senza alcun dubbio piena esplicazione con riferimento al lavoratore persona offesa dal reato di lavoro. Al contempo, non può non sottovalutarsi il fatto che nè il sistema processuale vigente, né la legislazione di settore, apprestano un corredo di poteri ad hoc per il lavoratore vittima, nonostante l’indubbia peculiarità della vicenda soggettiva ed oggettiva che fa solitamente da sfondo alle indagini per infortunio di lavoro, caratterizzata da un lato - sul versante soggettivo – da dinamiche interpersonali complesse relative allo svolgersi del rapporto fra datore di lavoro (o sui collaboratori) e lavoratore e, dall’altro - sotto il profilo oggettivo -, per l’indubbia difficoltà di ricostruire le modalità di realizzazione della condotta illecita e del verificarsi dell’evento lesivo, maturato solitamente in un contesto troppo spesso impermeabile rispetto alla verifica dall’esterno, qual è appunto quella investigativa dell’indagine penale.

Sempre prendendo le mosse da un’analisi degli spunti offerti dalla prassi giudiziaria, appare possibile affermare che affinché il lavoratore vittima del reato di lavoro possa concretamente svolgere ed esercitare appieno le facoltà, i diritti ed i poteri a lui riconosciuti in quanto persona offesa – attività questa che almeno generalmente è fortemente collegata alla precondizione sociale dell’essere venuto meno il rapporto di lavoro che ha dato causa all’evento lesivo - diviene essenziale che lo stesso si faccia assistere da un difensore.

5 Così Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.6.

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Per mezzo della nomina di un difensore di fiducia, infatti, facoltà espressamente riconosciutagli in quanto persona offesa ai sensi dell’art. 101 c.p.p., il lavoratore può meglio - ed appieno - esercitare in primo luogo il potere di impulso generalizzato nei confronti del pubblico ministero nella fase delle indagini, in virtù della clausola di cui all’art. 90 c.p.p. Ciò potrà avvenire, ad esempio, anche a mezzo del compimento di attività difensive introdotte dalla novella al codice di rito con legge n. 397/2000, con cui - opportunamente - il legislatore, nell’individuare il titolare dei poteri investigativi ha fatto riferimento genericamente al “difensore”, consentendo in tal modo l’estensione della disciplina sia al difensore dell’indagato, che al difensore nominato dalla persona offesa.

In sostanza, il lavoratore infortunato (o i congiunti del lavoratore deceduto) possono in teoria svolgere attività di individuazione della prova, nei limiti definiti dagli artt. 391bis e seguenti c.p.p.

Nella prassi si ribadisce ciò accade quasi esclusivamente in quei rapporti di lavoro costituenti sfondo della vicenda di reato in materia di sicurezza, che risultano o ormai cessati - per morte del lavoratore vittima, o per interruzione del contratto di lavoro dovuta a cause diverse (scelta del lavoratore, inabilità sopravvenuta alla mansione, o volontà del datore di lavoro) – o che si fondavano su situazioni di fatto illegali, che come tali non possono proseguire dopo il verificarsi dell’evento lesivo e l’affiorare della responsabilità penale (si pensi al caso di impiego di lavoratore “al nero”, o addirittura di impiego di manodopera clandestina).

In tutte queste situazioni la presenza di un difensore può giocare un ruolo decisivo “sollecitando”

l’ufficio del pubblico ministero a procedere spedito e secondo parametri di completezza verso la definizione dell’indagine.

In concreto, detto ruolo viene statisticamente svolto, oltre che per l’ipotesi di cui agli artt. 391 bis c.p.p.

per:

 contribuire all’accertamento tecnico per il caso di attività irripetibili, mediante nomina di un consulente di parte che possa valorizzare elementi utili alla ricostruzione del fatto reato e della riferibilità soggettiva della condotta illecita all’indagato;

 sollecitare la proposizione di incidente probatorio da parte del pubblico ministero, con le finalità predette anche in relazione a specifici segmenti della ricostruzione del fatto;

 presentare memorie e documenti idonei a ricostruire il fatto lesivo ed individuare la violazione cautelare e quantificare il danno conseguenza di reato.

Sin qui, dunque, le forme di tutela del lavoratore vittima del reato di lavoro nella fase procedimentale.

Quando poi l’indagine preliminare lascia il campo al giudizio, in conseguenza dell’esercizio dell’azione penale, certamente auspicata ab origine dalla persona offesa, a questa residua la possibilità di restare osservatrice esterna al processo, partecipando nei limiti in cui il codice di rito lo consenta alla persona offesa, o decidere di assumere un ruolo più incisivo, passando da soggetto del procedimento a parte eventuale, mediante la costituzione di parte civile, laddove abbia optato per far valere nel processo penale il diritto al risarcimento del danno patito in conseguenza del “reato di lavoro”.

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3 Dal procedimento al processo: dalla persona offesa, al danneggiato, alla parte civile

Si è già detto che il danneggiato dal reato è “parte accessoria” del processo penale, colui che ha subito il danno civile, patrimoniale o non patrimoniale, come conseguenza del reato, e che per questo si distingue dalla persona offesa, che invece ha patito il danno criminale che si concreta nella lesione del bene giuridico protetto dalla norma.

É proprio per tale motivo, l’aver patito un danno da reato, che il danneggiato è legittimato ad esercitare l'azione civile nel processo penale.

Mentre la persona offesa dal reato gode della tutela di natura pubblicistica correlata all'interesse pubblico alla repressione del reato di cui si fa ordinariamente carico il pubblico ministero, il danneggiato è portatore di un interesse privato, del quale il pubblico ministero non si fa direttamente carico, salva l'eccezionale ipotesi di cui all'art. 77 c.p.p., co. 4 c.p.p.6.

Dal punto di vista della legittimazione processuale, la distinzione tra persona offesa e danneggiato civile si apprezza chiaramente dal raffronto tra i criteri di scelta del rappresentante del minore nell'esercizio delle facoltà e dei diritti riconosciuti alla persona offesa nel processo penale (art. 90 c.p.p., co. 2) e le regole che disciplinano la rappresentanza del minore nell'esercizio dell'azione civile (art. 77 c.p.p.), modellate sul paradigma della rappresentanza dell'incapace nel processo civile, oltre che dal fatto che neppure in caso di urgenza al pubblico ministero è consentito esercitare i diritti della persona offesa, non rinvenendosi nel codice norma analoga a quella posta dall'art. 77 co. 4 c.p.p. con riguardo al danneggiato.

La persona offesa dal reato, la vittima del cosiddetto danno criminale, viene comunque messa in condizione di esercitare l'azione civile (artt. 419 c.p.p., comma 1, art. 429 c.p.p., comma 4, art. 456 c.p.p., commi 3 e 4), laddove sia anche persona lesa civilmente, ossia abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale civilmente apprezzabile, e dunque risarcibile, mantenendo altrimenti le prerogative proprie della persona offesa dal reato che non sia anche danneggiato civile.

6 Il nostro ordinamento processuale, tanto civile quanto penale, prevede che l’esercizio dell’azione giudiziaria a favore dei soggetti incapaci, in assenza di coloro che ne abbiano la rappresentanza o nelle ipotesi di conflitto di interesse, sia regolata mediante la nomina di un curatore speciale. Ciò nonostante, l’art. 77 co. 4° c.p.p. prevede la possibilità per il pubblico ministero di esercitare l’azione civile nel processo penale a favore del danneggiato incapace, fino a che non subentri colui al quale spetta la rappresentanza od un curatore speciale. L’esercizio dell’azione civile in sede penale da parte del Pubblico ministero è prevista esclusivamente in casi di assoluta urgenza ovvero come extrema ratio di tutela degli interessi civili dell’incapace. Anche per questa ragione, la norma è interpretata restrittivamente. Per espressa previsione di legge, nei casi previsti dall’art. 77 co. 4°

c.p.p., il pubblico ministero può altresì richiedere la citazione del responsabile civile. Tale facoltà gli è espressamente attribuita dalla legge proprio in virtù del fatto che la citazione del responsabile civile è solitamente contemporanea alla costituzione di parte civile ed è ammessa entro termini rigorosi (art. 83 co. 2° c.p.p.). La giurisprudenza ha ritenuto che il pubblico ministero costituitosi ex art. 77 co. 4° c.p.p. non possa chiedere il sequestro conservativo a tutela del soddisfacimento degli interessi civili (Cass. pen. sez. VI, 21.1.1997 n. 3565). Quest’ultimo orientamento non appare pienamente condivisibile. L’eccezionalità della rappresentanza del minore in capo al pubblico ministero, infatti, presuppone l’assoluta urgenza di tutelare i suoi interessi civili sotto il profilo dell’ an, ma non può riflettersi sulla limitazione degli strumenti di tutela, soprattutto laddove abbiano anch’essi natura cautelare e siano autonomamente esercitabili anche dal pubblico ministero (art. 316 co. 1° c.p.p.). In tal senso vedasi A.

Aneschi, L’azione civile nel processo penale, Giuffrè, p.199.

Infine, si rileva che al pubblico ministero costituitosi ex art. 77 co. 4° c.p.p. non spetta neppure il diritto di impugnazione dei capi civili della sentenza.

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Tale annotazioni appaiono necessarie per affrontare il tema della costituzione di parte civile, inquadrandolo nel vigente sistema processuale caratterizzato da una tendenziale indipendenza tra giudizio penale e giudizio civile, anche quando quest'ultimo si svolga nell'ambito di un processo penale, secondo quanto consentito dall'art. 74 c.p.p.

Si parla di tendenziale “indipendenza” perché, nonostante la disciplina processual-penalistica sia oggi indirizzata a limitare le contaminazioni tra il giudizio espresso con riferimento all'accusa penale ed il giudizio inerente al danno risarcibile da reato (ne sono un concreto esempio le norme che regolano l'efficacia della sentenza penale nel giudizio civile di danno, artt. 651 e 652 c.p.p.), occorre tuttavia distinguere le situazioni nelle quali si verificano reciproche influenze tra i diversi rapporti processuali, dalle situazioni in cui trova conferma la predetta indipendenza.

Si allude in particolare a quei casi nei quali la commissione del reato abbia prodotto, oltre all'offesa del bene tutelato dalla norma penale, anche un danno civile economicamente valutabile nei confronti della vittima del reato, e quest'ultima abbia ritenuto di costituirsi parte civile nel processo penale, scegliendo dunque di limitare la propria pretesa, nell'ambito dei più ampi rimedi riconosciutele dal diritto civile, al risarcimento ed alle restituzioni previsti dall'art. 185 c.p.

Quanto alle “ragioni di tale scelta”, va detto che l'esercizio dell'azione civile nel processo penale comporta, oltre il suddetto limite, anche talune alterazioni derivanti dal fatto che l'accertamento del danno civile deve essere condotto secondo le regole del processo penale, e che l'azione penale non può subire rallentamenti a causa dell'esercizio delle azioni extrapenali.

In particolare, al giudice penale è riservata l'incondizionata possibilità di affermare che le prove acquisite non consentono di pervenire alla liquidazione del danno. Ciò comporta effetti anche per l'onere di allegazione e di prova spettante alla parte civile, la quale può scegliere, senza incorrere in alcuna nullità, e a differenza di quanto avviene nel processo civile (Sez. 3 civile, n. 10527 del 13/05/2011, Rv. 618210), di allegare genericamente di aver subito un danno. Al giudice penale residuerà margine per stabilire, in relazione al caso concreto, se valorizzare la funzione sanzionatoria della pronuncia risarcitoria, meno vincolata alla concreta entità del danno, che sarà liquidato definitivamente ed equitativamente con la pronuncia di condanna penale (ciò avviene, ad esempio, nei casi in cui il giudice penale emette sentenza di condanna generica, avendo ritenuto accertata la potenzialità dannosa del fatto addebitato, ancorché non sia stata raggiunta la prova dell'entità del danno risarcibile, valutando, in altre parole, che nel processo civile vi siano margini di sviluppo di detta allegazione e della prova del danno), ovvero la funzione compensativa e riparatoria, più strettamente legata alla prova del quantum del danno, indipendentemente dalla specificità della domanda.

Prima di passare ad analizzare la costituzione della parte civile nel processo penale del lavoro appare pertanto essenziale ripercorrere in sintesi alcuni passaggi fondamentali della disciplina dell’istituito cristallizzato nel codice di rito, anche la fine di meglio cogliere le considerazioni che poi nel dettaglio si cercherà di svolgere in riferimento alla scelta di agire in sede penale per ottenere il risarcimento del danno da parte della vittima del lavoro.

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3.1 L’azione civile nel processo penale

La possibilità dei sistemi processuali penali di consentire l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni ed il risarcimento dei danni provocati dal reato costituisce tema risalente, sia per il nostro ordinamento che per altri.

Il codice del 1865 tratteggiava il profilo della parte civile sul modello del diritto francese, attribuendole poteri tipici in cui si esplica l’interesse pubblicistico alla condanna dell’imputato. L’azione civile era caratterizzata da ampie garanzie, tanto da rivestire un “…ruolo principale e, sicuramente non accessorio”7, con la persona offesa che poteva provocare la citazione diretta per tutti i reati procedibili a querela, ed il magistrato giudicante tenuto a citare in giudizio la persona indicata come responsabile dei fatti previa verifica della sola ammissibilità della domanda, laddove la stessa persona offesa avesse dichiarato di volersi costituire parte civile. In tal sistema, alla parte civile veniva assegnato una “funzione ausiliaria” del pubblico ministero.

Con il codice del 1930, invece, ispirato al modello inquisitorio, il monopolio dell’azione venne concentrato nelle mani dell’organo di rappresentanza dello Stato, il pubblico ministero, relegando la funzione della parte civile a “posizione accessoria”.

Al legislatore del 1988 si poneva l’alternativa fra distinguere nettamente l’azione di danno dall’accertamento penale e consentire l’esercizio dell’azione civile in sede penale. Quest’ultima soluzione è quella che è prevalsa, ma se da un lato è indubbio che il codice del 1988 ha segnato una svolta di tipo accusatorio, ispirato al favor separationis, con ciò rivoluzionando l’assetto dei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, dall’altro emerge altresì la netta distinzione fra le figure di danneggiato e persona offesa, con quest’ultima, come già detto, che resta l’unico soggetto portatore di un interesse pubblicistico a perseguire l’offesa criminale.

Il tutto è accaduto non senza critiche, che si sono trasformate anche in vere e proprie censure di legittimità costituzionale a seguito della riforma dell’art. 111 Cost.: ex plurimis, il Tribunale di Roma, che con ordinanza emessa il 13 luglio 2001 mise in discussione la legittimità delle norme del c.p.p. che consentono l’inserimento dell’azione civile nel processo penale, in quanto contrastanti con i principi del «giusto processo», che dovrebbe tradursi in un “...duello ad armi e forze pari”, oltre a rilevare che introducendo un nuovo thema decidendum, e rendendo in tal modo necessari ulteriori adempimenti, si ostacolerebbe la ragionevole durata del processo prescritta dall’art. 6 CEDU e dall’art. 111, co. II, Cost.

Ebbene, rileva sul punto evidenziare che la Corte costituzionale ebbe a dichiarare la questione inammissibile, in quanto con la stessa il ricorrente aveva sottoposto al suo scrutinio ben 33 articoli del codice di procedura penale “…di contenuto eterogeneo”, senza però perdere l’occasione per affermare che si trattava di una critica ad “…una scelta di sistema (quella del possibile cumulo) operata dal Legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità» (C.Cost. 18 luglio 2002, n.364). In sostanza, con ciò implicitamente la Consulta afferma che l’azione civile nel processo penale non costituisce una modalità di tutela necessaria, ma appunto è una scelta del legislatore, per poi aggiungere che “…il diritto per il danneggiato dal reato di esperire l’azione civile in sede penale non è oggetto di garanzia costituzionale” (vedasi C.Cost. 3 aprile 1996, n.98).

7 V.A. Pennisi, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1981, p.43

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L’analisi del sistema di norme che regolano l’esercizio dell’azione civile nel processo penale fanno pertanto dire ad autorevole dottrina che l’azione civile è “ospite” nel processo penale8.

Tale considerazione discende dal fatto che l’azione resta comunque facoltativa e disponibile, in quanto il danneggiato dal reato non solo può scegliere se costituirsi o meno parte civile, ma anche decidere di revocarla una volta costituitosi.

Al contempo si rileva, che la funzione istituzionale della parte civile anche nel processo penale è esclusivamente di natura privatistica9, e conserva la sua autonomia rispetto all’azione penale. Si tratta di un’azione (quella civile) accessoria rispetto a quella penale, da cui discendono importanti conseguenze, quali il fatto che il risarcimento del danno per cui si agisce, essendo il danno da reato, non potrà mai essere riconosciuto in caso di sentenza di non doversi procedere perché l’azione non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita o per il caso dell’assoluzione dell’imputato. Ed ancora, siamo in presenza di un’azione che è comunque soggetta alla prevalenza della normativa del processo penale, nel senso che i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale, che introduce deroghe fondamentali a quelle che vigono per la parte che agisce nel processo civile, in particolare dipendendo ella dal pubblico ministero nella fase della ricerca delle prove dell’illecito, attività questa peraltro svolta in via quasi esclusiva durante le indagini preliminari, e come tale in una fase coperte da segreto anche per il danneggiato (eventuale costituenda parte civile).

3.2 La regolamentazione della costituzione di parte civile: uno sguardo di sintesi

In estrema sintesi alcuni tratti essenziali della disciplina riservata dal codice di rito alla parte civile.

In primo luogo la dichiarazione di costituzione di parte civile, che deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell’art. 78 c.p.p., sottoscritta dal difensore della parte civile, in quanto il danneggiato sta in giudizio non personalmente, ma mediante un difensore munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 100 co. 1 c.p.p.).

La dichiarazione svolge la funzione dell’atto di citazione in un processo civile e deve contenere a pena di inammissibilità: 1) le generalità della persona fisica (o la denominazione dell’associazione o ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); 2) Le generalità dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile (o le altre indicazioni personali che valgano ad identificarlo); 3) il nome e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; 4) la esposizione delle “ragioni”

che giustificano la “domanda” 10; 5) la sottoscrizione del difensore11.

8 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.160.

9 A. Chiliberti, Azione civile e nuovo processo penale, Giuffrè, Milano, 2006, p.218

10 La domando altro non è che la richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno, ossia il petitum. Le “ragioni” consistono invece nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale, ossia la causa petendi. I motivi consentono al giudice di valutare se il richiedente è legittimato a costituirsi parte civile. In questo momento sono indispensabili a pena di inammissibilità i motivi e la richiesta di condanna al risarcimento (causa petendi e petitum); viceversa, non è necessaria (anche se è possibile) quella parte del petitum che consiste nella precisazione del

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La dichiarazione può essere presentata all’udienza (preliminare o dibattimentale) all’ausiliario del giudice; prima dell’udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice (art. 78 co. 1 c.p.p.), ed in quest’ultimo caso essa deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti, e cioè al pubblico ministero e all’imputato (art. 78 , co. 2 c.p.p.), producendo effetto per ciascuna parte dal giorno nel quale è eseguita la notificazione.

Quanto ai termini per la costituzione di parte civile il codice ne prevede due. Il primo scatta all’inizio dell’udienza preliminare (art. 79 , co. 1 c.p.p.) nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti. Il secondo, è il momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell’inizio del dibattimento (art. 484 c.p.p.). Dopo tale momento la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile, tanto che il relativo termine è stabilito a pena di decadenza (art. 79 , co. 2 c.p.p.).

Per il cosiddetto principio di immanenza della costituzione di parte civile (art. 76 co. 2 c.p.p.), la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, senza che la parte civile abbia necessità di rinnovare la costituzione nelle successive fasi o nei successivi gradi del processo, finché la sentenza non sia diventata irrevocabile.

L’esclusione della parte civile è possibile se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la costituzione di parte civile. In tal caso il giudice con ordinanza non impugnabile ne dispone l’esclusione su richiesta motivata del pubblico ministero, dell’imputato o del responsabile civile (art. 80 c.p.p.), ovvero d’ufficio (art. 81 c.p.p).

La presenza della parte civile viene meno anche nelle ipotesi di revoca espressa o tacita. É espressa la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale o con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti (art. 82 co.1 c.p.p.). La revoca tacita invece si verifica quando la parte civile non presenta le proprie conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale (art. 523 c.p.p.), o qualora ove essa promuova l’azione civile davanti al giudice civile (art. 82 co. 2 c.p.p.).

Quanto ai poteri e alle facoltà riservate alla “parte civile” rileva evidenziare che con l’assunzione di tale qualità non mutano le facoltà genericamente attribuite alla persona offesa.

Oltre ad esse, la parte civile può esercitare tutti quei diritti e quelle facoltà che le vengono espressamente riconosciute dalla legge, nonché tutte quelle che vengono genericamente attribuite alle parti processuali. Ai sensi dell’art. 121 c.p.p., ogni parte processuale, in qualsiasi fase e grado del processo può presentare al Giudice memorie o richieste scritte, mediante deposito in cancelleria, sulle quali il Giudice deve ritualmente provvedere12. Secondo un diverso orientamento, la richiesta di rinvio dell’udienza può essere presentata anche a mezzo telefax.

quantum dell’ammontare del risarcimento; la indicazione del quantum richiesto sarà invece indispensabile al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento (art. 523 comma 2 c.p.p.).

11 La procura speciale al difensore è apposta in calce o a margine della dichiarazione di parte civile ed il difensore certifica la autografia della sottoscrizione del danneggiato ( artt. 78 comma 3 e 100 comma 2); se la procura è conferita con atto separato (art. 100 comma 1), tale atto è depositato nella cancelleria del giudice o è presentato in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione (art. 78 comma 3).

12 Per i privati e i difensori non c’è alternativa all’adozione delle forme espressamente previste dalla normativa processuale, costituita dall’art. 121 c.p.p., che stabilisce che le memorie e le richieste delle parti devono essere presentate al Giudice per iscritto mediante deposito in cancelleria. L’art. 150 c.p.p., che contempla l’uso di forme particolari, quali il telefax, indica nei

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Secondo la prevalente giurisprudenza, il rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione di una memoria difensiva, presentata ex art. 121 c.p.p., o la sua omessa valutazione determinano la nullità di ordine generale prevista dall’art. 178 co. 1° lett. c) c.p.p., in quanto, oltre a costituire violazione delle regole che presiedono alla motivazione della sentenza, comportano la lesione del diritto di intervento o assistenza difensiva (Cass.

pen. sez. I, 12.12.2005 n. 45104).

L’interpretazione rileva, in quanto espressiva di un atteggiamento di fondo rivolto a tutelare l’interesse della parte civile a partecipare attivamente al processo.

Si evidenzia poi come alla parte civile in quanto parte processuale sia riconosciuto diritto a presentare una propria lista di testimoni, periti o consulenti tecnici entro sette giorni prima della data fissata per il dibattimento. Ciò nonostante, se la costituzione di parte civile avviene dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 468 co. 1° c.p.p., la parte civile non può avvalersi di tale facoltà (art. 79 co. 3° c.p.p.). In questi casi, la stessa può chiedere esclusivamente il controesame dei testimoni, periti o consulenti eventualmente citati dalle altre parti, salvo che nel caso di prove sopravvenute (art. 493 c.p.p.).

L’intervento della parte civile nel procedimento dibattimentale, in ordine alla richiesta ed all’assunzione delle prove, nonché alla discussione finale, segue immediatamente quello del pubblico ministero e precede quello delle eventuali altre parti private (responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria) e dell’imputato (artt. 493 co. 1°, 496, 498 co. 2° e 523 c.p.p.), in coerenza con lo schema del modello accusatorio in cui la parte privata portatrice dell’interesse privato al risarcimento del danno da reato, accompagna, seguendola, la parte pubblica, appunto il pubblico ministero, che ha l’onere principale di prova in ordine alla sussistenza del reato che ha recato di per sé offesa penale.

4 L’azione civile nel processo penale del lavoro

In materia di infortuni sul lavoro il nostro ordinamento detta un particolare regime per l’affermazione della responsabilità civile del datore di lavoro. Si tratta di peculiarità connesse al sistema dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124.

Da tale sistema discendono conseguenze rilevanti in tema di diritto al risarcimento del danno da parte dell’infortunato nei confronti del datore di lavoro che sia in regola con gli obblighi dell’assicurazione obbligatoria.

funzionari di cancelleria gli unici soggetti abilitati ad avvalersene, sicché il mezzo in questione non può essere utilizzato per chiedere il rinvio dell’udienza (Cass. pen. sez. V, 22.2.2006 n. 6696; conforme Cass. pen sez II 12 1 2004 n 789).

La segnalazione di un impedimento del difensore di fiducia con contestuale richiesta di rinvio, spedita via fax ai sensi dell’art.

150 c.p.p., pervenuta alla cancelleria prima dell’inizio dell’udienza ma trasmessa al Giudice dopo la celebrazione del dibattimento, non costituisce motivo di nullità della sentenza in quanto la scelta di un mezzo tecnico non previsto specificatamente dalla legge per il deposito delle istanze, ai sensi dell’art. 121 c.p.p., espone il richiedente al rischio dell’intempestività con cui l’atto può pervenire alla conoscenza del Giudice (Cass. pen. sez. V, 19.4.2005 n. 14574).

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In particolare, ai fini che qui interessano, ossia nella prospettiva del lavoratore infortunato, da tale sistema discendono effetti da un lato, sul presupposto della risarcibilità in favore dell’infortunato e, dall’altro, sulla misura del risarcimento.

Sotto il primo profilo rileva dare conto del dibattito aperto sulla sussistenza o meno, in forza del disposto dell’art. 10 d.p.r., di una regola peculiare di pregiudizialità per l’accertamento del reato che è causa di danno per il lavoratore. Con riferimento al secondo profilo, invece, rileva la questione della possibilità per il lavoratore di ottenere il risarcimento del solo c.d. danno residuale o differenziale, cioè di un danno nella misura “eccedente” l’indennizzo liquidato dall’INAIL, che impone al giudice di operare il raffronto tra l’ammontare complessivo del risarcimento per il danno patrimoniale e non, e quello delle indennità già liquidate dall’ente assicuratore in ragione dell’infortunio, così evitando di poter determinare un’ipotesi di ingiustificata locupletazione per il lavoratore infortunato o per gli altri aventi diritto, che in relazione al medesimo infortunio percepirebbero sia le indennità che il risarcimento dell’intero danno.

Di seguito, quindi, l’analisi di dettaglio delle caratteristiche peculiarità del citato sistema.

4.1 L’art.10 co.2 d.p.r. 1124/1965: la “sentenza di condanna penale” fra condizione di merito all’azione civile e atto di accertamento

In via generale per effetto della normativa sull’assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro, disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 si può affermare che il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, allorché nel caso concreto l’assicurazione sussista.

Tale esonero è diretta conseguenza dell’intervenuto versamento dell’indennità, come si desume testualmente dall’art. 10 co.1 a mente del quale “L’assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro”.

Ciononostante, l’azione nei confronti del datore di lavoro sussiste comunque quando l’infortunio sia conseguenza di un reato di lavoro, ascrivibile al datore di lavoro a suoi incaricati. Il passaggio rileva ai sensi della stessa norma, art. 10 che ai commi 2 e 3 dispone rispettivamente; (co. 2): “Nonostante l’assicurazione predetta permane la responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato”, e (co.3) : “Permane, altresì, la responsabilità civile del datore di lavoro quando la sentenza penale stabilisca che l’infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto di essi debba rispondere secondo il codice civile”. Di fatto, quest’ultimo comma implicitamente richiama la presunzione di responsabilità sancita dall’art.

2049 c.c.).

Si evidenzia come l’interpretazione offerta negli anni dalla giurisprudenziale della dizione di “infortunio”

di cui all’art. 2 del d.p.r. 1124/65 è stata estensiva, ricomprendendo nell’infortunio dovuto a causa violenta in occasione del lavoro, anche quelli che solo in via indiretta o riflessa siano collegati al rischio specifico della prestazione di lavoro, e comunque siano da esso dipesi.

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