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La banca può rivelare i miei dati a una società di recupero crediti?

Autore: Redazione | 06/08/2017

Valide le lettere di diffida, i solleciti di pagamento e le telefonate del call center di recupero crediti presso l’indirizzo dei genitori del debitore se questi convive ancora con loro.

Ricevere una telefonata o una lettera da parte di un recupero crediti non fa mai piacere; così ogni scusa è buona per non pagare. Una delle motivazioni più ricorrenti per contrastare il recupero crediti è la asserita lesione della privacy. E di certo non sempre i call center vanno sul sottile, prestando spesso il fianco a più di una critica (si pensi, ad esempio, a chi viene contattato sul lavoro o ricercato

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presso la casa dei genitori). Il problema non è da poco ed è tutt’altro che pretestuoso. Immaginiamo di ricevere una telefonata da un operatore, di cui non conosciamo l’identità né la società per cui lavora. Questi tuttavia dimostra di sapere tutto di noi: non solo il nostro nome e cognome, ma anche quanto abbiamo sul conto, quanti soldi abbiamo ricevuto dalla banca come finanziamento, per quale scopo ci sono stati prestati, chi sono i nostri familiari che, insieme a noi, hanno firmato il mutuo e quant’è il debito residuo che ci rimane da pagare.

Insomma, un soggetto – del tutto estraneo dal nostro istituto di credito – sa la nostra storia finanziaria. È lecito questo trattamento dei dati? La banca può rivelare il debito del proprio cliente a una società di recupero crediti? La risposta è in una recente sentenza della Cassazione [1].

Secondo la Corte, la banca non lede la riservatezza del cliente se utilizza i suoi dati per recuperare i suoi crediti. Il debitore non può quindi contestare la diffusione delle informazioni finanziarie che lo riguardano, neanche se dovessero arrivare solleciti di pagamento o telefonate del call center a casa dei genitori con cui questi convive.

In relazione al trattamento dei dati personali la legge [2] stabilisce che questi vanno gestiti rispettando «i canoni della correttezza, pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità del loro nuovo utilizzo, ma non è necessario [3] il consenso dell’interessato ove i dati stessi siano impiegati per esigenza di difesa delle proprie situazioni soggettive e negli stretti limiti in cui ciò sia necessario.

La banca può quindi utilizzare i dati del cliente debitore al solo fine di realizzare le proprie ragioni anche delegando una società di recupero crediti. Ne deriva che se il debitore vive ancora con i genitori, ben può la banca o la società di recupero crediti inviare i solleciti di pagamento all’indirizzo di questi o le comunicazioni telefoniche all’utenza degli stessi: ciò non configura un uso illecito dei dati personali del cliente.

Note

[1] Cass. sent. n. 19423/17 del 3.08.2017. Autore immagine: 123rf com

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Sentenza

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 30 marzo – 3 agosto 2017, n.

19423 Presidente Di Palma – Relatore Valitudi Fatti di causa

1. Il dott. G.R.G.F. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la Banca di Desio e della Brianza s.p.a., chiedendo la condanna al risarcimento dei danni per l’illegittima diffusione, nel suo ambito familiare, e per la successiva segnalazione al sistema informativo creditizio (CRIF) dei dati relativi alla sua posizione debitoria nei

confronti dell’istituto di credito convenuto. Il Tribunale adito, con sentenza n.

583/2011, rigettava la domanda. 2. La Corte di Appello di Milano, con sentenza n.

1348/2013, depositata il 27 marzo 2013, rigettava l’appello proposto dal G. . La Corte territoriale riteneva, invero, che nel comportamento dell’istituto di credito -

concretatosi nell’invio di terzi (due società di recupero crediti) presso la casa dei genitori del G. , nelle telefonate effettuate presso la loro utenza, e nell’invio alla medesima utenza di un fax di sollecito al pagamento di quanto dovuto dal G. alla banca - non fosse ravvisabile una violazione dei principi di correttezza e di liceità, ai sensi degli artt. 11, comma 1, lettera a) e 154, comma 1, lettera c) del d.lgs. n.

196 del 2003. E ciò, in quanto la banca aveva fatto uso dei dati forniti dallo stesso cliente e contenuti nel contratto di finanziamento da questi sottoscritto, sicché non

sarebbe risultata provata in atti la connessione causale tra il trattamento dei dati operato dall’istituto di credito ed i danni lamentati dal G.. 3. Per la cassazione di

tale sentenza ha, quindi, proposto ricorso G.R.G.F. nei confronti della Banca di Desio e della Brianza s.p.a., affidato a tre motivi, illustrati con memoria ex art. 378

cod. proc. civ. La resistente ha replicato con controricorso.

Ragioni della decisione

1. Con i tre motivi di ricorso, che - per la loro evidente connessione - vanno esaminati congiuntamente, G.R.G.F. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 12, 15 e 154, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, 112 cod. proc. civ., 2697, 2050, 1226 e 2056 cod. civ., 2, 3, e 29 Cost., in relazione all’art. 360, primo

comma, n. 3 cod. proc. civ.. 1.1. Si duole il ricorrente del fatto che la Corte d’appello, confermando la decisione di prime cure, abbia erroneamente ritenuto

che l’azione proposta in giudizio dal G. - diretta ad ottenere il risarcimento dei danni per l’illegittima diffusione, nel suo ambito familiare, e per la successiva

segnalazione al sistema informativo creditizio (CRIF) dei dati relativi alla sua posizione debitoria nei confronti della Banca di Desio e della Brianza s.p.a. - fosse

inquadrabile nell’azione contrattuale, laddove l’istante avrebbe inteso proporre un’azione di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. La Corte territoriale avrebbe, invero, erroneamente escluso

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che nel comportamento dell’istituto di credito - concretatosi nell’invio di terzi (società di recupero crediti) presso la casa dei genitori del G. , nelle telefonate

effettuate presso la loro utenza e nell’invio alla medesima utenza di un fax di sollecito al pagamento di quanto dovuto dal G. alla banca - non fosse ravvisabile una violazione dei principi di correttezza e di liceità, ai sensi degli artt. 11, comma

1, lettera a) e 154, comma 1, lettera c) del d.lgs. n. 196 del 2003. 1.2. Da siffatta erronea qualificazione dell’azione esperita in giudizio dall’odierno ricorrente, sarebbe derivato, poi, che in modo del tutto incongruo, ed in contrasto con quanto

prescrive l’art. 2050 cod. civ., richiamato dall’art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003, la Corte d’appello avrebbe applicato, nella fattispecie concreta, il disposto dell’art.

2697 cod. civ., onerando il G. dell’onere di provare - non soltanto di avere puntualmente adempiuto le obbligazioni scaturenti dal contratto a suo tempo

sottoscritto con la banca - ma anche la sussistenza del credito azionato nei confronti dell’istituto di credito. 2. Le censure sono infondate. 2.1. Va difatti osservato, in proposito, che in tema di trattamento dei dati personali, i dati oggetto

di trattamento, ai sensi degli artt. 4 e 11 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, vanno gestiti rispettando i canoni della correttezza, pertinenza e non eccedenza, rispetto

alle finalità del nuovo loro utilizzo, ma non è necessario, ai sensi dell’art. 24 d.lgs.

n. 196 cit., il consenso dell’interessato ove i dati stessi siano impiegati per le esigenze di difesa delle proprie situazioni soggettive e negli stretti limiti in cui ciò sia necessario (Cass. Sez. U. 08/02/2011, n. 3033). Soltanto l’inesatto trattamento dei dati consente, invero, di invocare, presso la competente autorità di garanzia, la tutela apprestata dalla legge, il cui disegno è funzionale alla difesa della persona e dei suoi fondamentali diritti e tende ad impedire che l’uso, astrattamente legittimo,

del dato personale avvenga con modalità tali da renderlo lesivo di quei diritti (Cass. 08/07/2005, n. 14390). 2.2. Nel caso di specie, è del tutto evidente che

l’istituto di credito ha utilizzato i dati del cliente per esigenze strettamente di realizzazione delle proprie ragioni creditorie, utilizzando peraltro - come si evince

dalla sentenza di appello - al fine si sollecitare il pagamento di quanto dovuto, il domicilio dei genitori del G. e come recapito telefonico l’utenza in uso ai medesimi,

indicati nello stesso contratto di finanziamento stipulato dal ricorrente. Tanto si desume, peraltro, anche dalla raccomandata della banca in data 4 febbraio 2008,

trascritta nel ricorso, dalla quale risulta che le due società di recupero crediti si erano recate più volte presso il domicilio "indicato e comunicato per iscritto nel

contratto (via (OMISSIS) )", ed avevano, altresì, sollecitato il pagamento telefonando al numero del pari "indicato e comunicato per iscritto nel contratto".

Non può, di conseguenza, ritenersi che, nella specie, vi sia stato un uso illecito dei dati personali del cliente da parte della banca, in violazione del diritto alla privacy

del medesimo e del suo nucleo familiare che, tra l’altro, considerata l’unicità di domicilio e di utenza telefonica, non avrebbe potuto non venire a conoscenza della

situazione debitoria del G. . Tanto più che il pagamento delle rate del

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finanziamento de quo era stato effettuato dalla società di famiglia, della quale il padre del ricorrente era socio (pp. 2 e 3 del ricorso). Rimasti vani tutti i tentativi di

ottenere il pagamento delle somme dovute, la trasmissione della segnalazione al CRIF, da parte della banca, si era resa, pertanto, inevitabile. 2.3. Quanto all’onere della prova, è bensì vero che, alla stregua degli artt. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 e 2050 cod. civ., su colui che agisce per l’abusiva utilizzazione dei suoi dati personali

incombe soltanto- seppure in via preliminare rispetto alla prova, da parte del danneggiante della mancanza di colpa - l’onere di provare il danno subito, siccome

riferibile al trattamento del suo dato personale (Cass. 23/05/2016, n. 10638). E tuttavia, nel caso concreto tale prova deve ritenersi sia del tutto mancata, atteso il rilevato uso, da parte dell’istituto di credito, dei dati personali del G. per finalità del tutto lecite, come tali improduttive di danni risarcibili. Né l’istante ha riprodotto nel ricorso - nel rispetto del principio di autosufficienza (artt. 366, primo comma n. 6 e

369, secondo comma n. 4 cod. proc. civ.) - le prove che assume non essere state ammesse dal giudice di appello, onde consentire alla Corte di valutarne, sulla base

del solo ricorso, la concludenza e la decisività ((cfr., ex plurimis, Cass. 30/7/2010, n. 17915; Cass. 31/7/2012, n. 13677; Cass. 3/1/2014, n. 48). 2.4. Le doglianze non

possono, pertanto, trovare accoglimento. 3. Per le ragioni suesposte, il ricorso deve, di conseguenza, essere integralmente rigettato, con condanna del ricorrente

alle spese del presente giudizio, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente, in favore della controricorrente, alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00,

ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto

per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

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