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Redazionale ANNO 2 - N.5

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Academic year: 2022

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Periodico di approfondimento, aggiornamento e confronto tematico della

LOMBARDIA

Redazionale

Elezioni e Congresso.

Aprile è un mese che vede l’attenzione della UILTuCS Lombardia calamitata da due eventi di enorme importanza: l’uno per le sorti del paese, l’altro per lo sviluppo della nostra azione di difesa del lavoro.

La campagna elettorale è ormai alle ultime battute ed il nostro dibattito congressuale ha già esaurito la fase delle assemblee di base.

Viviamo quindi queste poche giornate che ci separano dai due eventi con la concentrazione e l’impegno che momenti di questo genere richiedono, anche per la connessione che tra di essi spontaneamente si genera e che ha trovato sintesi nel nostro slogan congressuale:

“ridare voce al Lavoro per ricostruire l’Italia del Diritto, della Responsabilità e della Solidarietà”

Un obiettivo che vedrà impegnata l’organizzazione per il prossimo mandato congressuale.

E, per bene incominciare, inauguriamo con questo numero 5 del nostro giornalino, la serie dei numeri speciali di Area Sindacale.

Il nostro giornale ospiterà, infatti, di tanto in tanto, delle monografie su temi e

...continua a pagina 19

Sommario

REDAZIONALE 1

SCUOLA , LAVORO, SINDACATO. UNVIAGGIOATTRAVERSOLENECESSITÀDEIGIOVANI, TRA DIRITTI, PRECARIETÀENUOVE

OPPORTUNITÀ 2

MANIFESTO “UILTUCS GIOVANI 2

SCUOLA, UNIVERSITÀE RELAZIONICOLMONODEL LAVORO 3

PROFESSIONALITÀE FORMAZIONE 10

ESPERIENZEDI PRECARIETÀELOROSIGNIFICATISOCIALI, POLITICI, ECONOMICI 15

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LA UILTUCS GIOVANISIPRESENTA

Scuola , Lavoro, Sindacato. Un viaggio attraverso le necessità dei giovani, tra Diritti,

Precarietà e nuove Opportunità

Manifesto “UILTuCS Giovani”

La Uiltucs Giovani nasce come organismo indipendente all’interno della Uiltucs Lombardia e riunisce tutti coloro con un’età compresa tra i 15 e i 35 anni che condividono medesimi valori e finalità.

La Uiltucs Giovani scaturisce dall’esigenza di contribuire allo sviluppo dell’Organizzazione Sindacale nonché della Società nel suo insieme oltre che dalla necessità di rispondere alle richieste di tutela del mondo giovanile nelle sue diverse espressioni.

La Uiltucs Giovani intende portare avanti i suoi valori attraverso la partecipazione e l’aggregazione delle genera- zioni a cui fa riferimento.

I valori a cui i giovani della Uiltucs si ispirano sono i valori democratici, di solidarietà, di uguaglianza, di giustizia sociale, di pace e libertà che si esprimono al meglio in una forma associativa e partecipativa dove sia possibile esprimere risorse e potenzialità, valori culturali e sociali in cui credere.

Le finalità della Uiltucs Giovani sono molteplici:

1)riuscire a coinvolgere il mondo giovanile cercando di stimolare l’interesse verso il Sindacato soprattutto in quelle realtà che vedono i giovani maggiormente presenti come per esempio il mondo scolastico e universitario per giungere fino al mondo del lavoro con le sue tipologie contrattuali fortemente instabili e precarie.

2)Riuscire a coinvolgere i giovani attraverso iniziative finalizzate alla comprensione e diffusione della funzione sociale e culturale del Sindacato.

3)Creare un “laboratorio” di dibattito e confronto su temi che riguardano il mondo del lavoro o su argomenti di cultura generale e attualità politica riuscendo a mostrare le varie vie di connessione con ciò che il sindacato si propone di fare e coi valori su cui si fonda.

4)Perseguire, sostenere e sviluppare la cultura sindacale: i suoi valori storici e le sue prospettive future.

5)Favorire lo spirito associativo attraverso iniziative articolate e diversificate come per esempio convegni, corsi di formazione, progetti su tematiche specifiche o semplicemente come occasione per conoscersi meglio, stare insieme,

Un inserto speciale del nostro Giornalino per raccontare e far vivere anche a chi non è potuto essere presente al Convegno con cui ufficialmente la UILTuCS Giovani fa la sua presentazione e il suo esordio.

Nelle pagine che seguono troverete l’atto fondativo del gruppo, che abbiamo voluto chiamare Manifesto perché racchiude una dichiarazione di intenti ed esprime il carattere che l’iniziativa del gruppo intende avere, più che tracciare regole e confini alla partecipazione.

Di seguito troverete tre relazioni che costituiscono il lavoro di analisi compiuto fino ad oggi dal gruppo. Sono frutto di una ricerca appena iniziata, dalla cui elaborazione è nata l’idea del Convegno e del suo strutturarsi su tre aree tematiche. Per questi motivi possono essere definiti anche Atti del Convegno, tracce degli interventi che i componenti del gruppo hanno preparato per strutturare il dibattito.

Nel dettaglio le tre arre tematiche affrontate sono 1. Scuola, università e relazioni col mondo del lavoro 2. Professionalità e formazione.

3. Esperienze di precarietà e loro significati sociali, politici, economici Buona lettura

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Scuola, Università e Relazioni col mono del Lavoro

La Francia è in subbuglio, il cpe(contratto di primo impie- go) ha risvegliato e dato voce ai malumori dei giovani, nonchè alla sensazione di precarietà legata alla loro vita e al loro futuro.

Da settimane ormai la protesta infiamma le strade dello stato da cui, è bene ricordarlo, le voci di rivolta si sono alzate anche in passato, per espandersi all’intera Europa: basti pen- sare alla rivoluzione del 1789, o ai moti europei del 48. Oggi, nel 2006, studenti dei licei, studenti universitari e lavoratori sono scesi nelle piazze uniti, dando un volto a una generazio- ne per cui, le prospettive future sembrano sempre meno lega- te alla stabilità e sempre più all’incertezza. L’errore del gover- no francese c’è stato, ed è stato quello di ufficializzare il precariato rendendolo legale e tutelando quelle aziende che da anni ne fanno il loro punto di forza; fino a quando essere precari era una condizione nascosta, infatti, era stato ancora possibile gestire e controllare la situazione, ma nel momento in cui qualcuno si è permesso di dire ai giovani che il loro futuro diveniva un buco nero privo di garanzie, soltanto in nome dell’economia e delle aziende, alle quali veniva lasciata ampia libertà nella gestione delle risorse umane di cui avevano bisogno, allora il malumore silenzioso dei giovani, ha trovato un appiglio sicuro e concreto cui appellarsi: il cpe appunto, e soprattutto un punto: quello che prevede per i giovani al di sotto dei 26 anni un periodo di prova di due anni e la libertà del datore di lavoro di licenziare senza giusta causa; probabil- mente è in questo punto che i giovani hanno visto la precarietà diventare istituzione e la loro vita precipitare definitivamente nell’incertezza.

Alla luce di quella che è la situazione in cui versano i nostri vicini di casa, viene spontaneo chiedersi quale sia la realtà in cui vivono gli studenti in Italia, e quale futuro li aspetti. Per dare una risposta a questa domanda diventa fondamentale capire quali siano le condizioni di ingresso nel mondo del lavoro, nonchè quale sia il rapporto in cui si trovano le scuole, ad ogni livello, e le aziende che dovrebbero accogliere gli studenti al termine dei loro percorsi formartivi, o magari durante gli stes- si.

L’intreccio di necessità che andremo ad analizzare è strano;

strano è guardare attraverso una lente d’ingrandimento un mondo spesso trascurato, e rendesi conto della situazione sconsolate in cui si vengono a trovare coloro che decidono di essere “studenti-lavoratori”, o stagisti che dovrebbero professionalizzarsi attraverso lo stage appunto.

Quando ancora erano di moda i contratti a tempo inde- terminato, quando i contratti a termine godevano degli stessi diritti (ferie, malattia, ecc..) degli altri, allora lo studente veniva ad essere fulcro, almeno sulla carta, attorno al quale costruire una struttura di tutele e diritti tali da permettere di sostenere la sua duplice condizione di studente e lavoratore, (anche se essere divisi fra scuola e lavoro è semre stato difficile e di problemi ne ha sempre dati, fossero essi rispetto allo studio o rispetto al lavoro); quando esistevano, ma non erano ancora diffusi indiscriminatamente i co.co.pro., i contratti a chiamata, il lavoro a intermittenza, ecc..; Allora pensare di rinunciare a divertimenti e svaghi poteva permettere di gestire una sorta di doppia vita e di far fronte a necessità diverse e spesso contra- stanti.

Oggi la situazione è cambiata: i contratti, alcuni dei quali a stento si possono definire contratti, impediscono a coloro che volessero farlo di sfruttare appieno i diritti connessi alla doppia condizione di studente e lavoratore, e le aziende gioca- no: ridono e giocano e cercano di salvarsi dalla crisi appog- giandosi alle vite di coloro che, in quanto divisi fra necessità diverse, risultano essere più vulnerabili e ricattabili.

Ai contratti veri e propri, s’aggiungono poi gli stage, fan- tastiche occasioni per migliorare e comprendere le proprie atti- tudini, magari per capire cosa realmente significhi fare un lavo- ro piuttosto di un altro; una vera delizia per i ragazzi e, ovvia- mente, per le aziende.

È noto a tutti come la Legge 30 abbia reso il lavoro preca- rio e instabile, tanto da creare una nuova categoria di lavorato- ri: i precari; da anni si parla ormai di crisi dell’occupazione e di lento degrado dei diritti dei lavoratori... tutto questo come ha influenzato la vita di coloro che vengono messi sotto l’eti-

chetta di “studenti-lavoratori”?

Com’è cambiata la loro duplice vita? Esi- stono abbastanza tutele per coloro che vivono questa condizione?

Se si vuole dare una risposta sensata e chia- ra a queste domande lo sguardo deve inevitabilemtne cadere anche sulle Università:

quei luoghi d’alta formazione che dovrebbero essere aperti a tutti e che dovrebbero fornire ai giovani le capacità per entrare nel mondo del lavoro sapendo applicare delle conoscenze, piut- tosto che insegnando semplicemente un me- stiere. In questo senso sappiamo che nel 99 sul mondo della formazione è caduta una riforma per i più difficile da digerire: una riforma che,

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nel contesto in cui è stata inserita, sta rischiando di far fare un salto nel passato all’università; un salto a prima del 69 quando vi fu l’avvento dell’Università di massa: un salto a quando solo pochi, provvisti di doti particolari o delle necessarie con- dizioni economiche, potevano permettersi di accedere ai livelli più alti della formazione. Con quella riforma molte cose cam- biarono, molte sono in corso di cambiamento e sarebbe ba- nale credere che i cambiamenti avvenuti non abbiano influen- zato in qualche modo il rapporto esistente fra il mondo del lavoro e quello della formazione. Anche alla luce della riforma Moratti, dunque, e dei mutamenti portati nel mondo univer- sitario e della scuola più in generale, va affrontato il problema dei giovani e della doppia vita cui sono obbligati coloro i quali, da necessità economiche particolari o attraverso gli stage, sono costretti a vivere contemporanemente due realtà diverse, che impongono ritmi e priorità diverse: la condizione di stu- dente da un lato, e quella di lavoratore dall’altro.

La nostra relazione parlerà dunque dell’ardua vita dello studente che muove i primi passi nel mondo del lavoro e lo farà, vista l’ampiezza dell’argomento, concentrandosi su due realtà specifiche: gli stage e l’alternanza scuola lavoro. Un am- pio discorso andrebbe fatto anche sul nuovo apprendistato, ma per motivi di spazio in questa sede non possiamo far altro che limitarci a menzionarlo, ricordandone l’esistenza e propo- nendo a coloro i quali non lo conoscessero, di gettare uno sguardo veloce su quello che prevede: ci si renderebbe forse conto che la Francia non è poi così lontana dall’Italia e che per i giovani vi sono quì le stesse possibilità precarie e insufficienti a garantire un futuro stabile. ...

Ma adesso veniamo ai punti che abbiamo deciso di tratta- re: partiremo dagli stage...

STAGE E ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO Andando a spulciare la scarna documentazione relativa agli stage e alla loro regolamentazione siamo riusciti a rico- struire una possibile storiella che racconti quella che dovrebbe essere la vita di uno stagista.

Durante l’anno scolastico un ragazzo viene inviato in un’azienda allo scopo di applicare le nozioni teoriche fornite nel suo percorso formativo. L’azienda si preoccupa di redare un progetto formativo in accordo con la scuola, che chiarisca quello che prevederà lo stage e le finalità per il quale esso viene attivato. Al ragazzo viene affidato, in linea con quanto previ- sto dalle norme, un tutor aziendale, da affiancare a quello già istituito dall’ente promotrice, nel nostro caso la scuola. Giun- to in azienda il ragazzo viene affidato al tutor, il quale si preoc- cupa di seguirlo nella sua vita all’interno del luogo di lavoro:

gli fornisce le indicazioni utili affinchè la sua esperienza possa dare i frutti sperati; lo consiglia sul modo migliore con cui affrontare particolari situazioni e si pone sempre come punto di riferimento in grado di sciogliere dubbi e perplessità rispet- to a ciò che il ragazzo si trova ad affrontare.

Lo stagista, da parte sua, svolge con responsabilità e inte- resse i compiti che gli vengono affidati di giorno in giorno.

Alla fine dello stage il nostro studente si trova con un’espe- rienza gratificante e realmente utile da infilare nel suo futuro curriculum.

Così le finalità dello stage vengono soddisfatte e il mo- mento formativo viene a porsi come effettivo momento di crescita professionale.

Ma, banalmente, lìipotesi da noi formulata sulla base del- la documentazione a nostra disposizione risulta “leggermen- te” diversa rispetto a quella che è la realtà.

Nel 1997 la Legge “Treu” introdusse, per la prima volta in Italia, un progetto di alternanza scuola-lavoro e formazione professionale strettamente collegato al percorso formativo scolastico classico, dando la possibilità agli studenti di interagire con il mondo del lavoro durante il periodo di studio.

Lo spirito di questa legge era quello di dare questa oppor- tunità ai giovani, cercando al tempo stesso una collaborazione con le aziende che avrebbero dovuto integrare, con il loro apporto pratico e logistico, il sistema formativo statale, secon- do il noto principio della “sussidiarietà orizzontale”.

Purtroppo, e con il senno di poi, abbiamo avuto la possi- bilità di constatare che questa legge non ha avuto un’adeguata regolamentazione: vi è un debole meccanismo di controllo della tutela lavorativa degli stagisti e una mancanza di previ- sioni sanzionatorie nei confronti degli enti o delle aziende che non perseguano l’interesse formativo dello studente, bensì un interesse esclusivamente affaristico.

Non a caso, dopo l’entrata in vigore della suddetta legge, molte aziende se ne sono letteralmente approfittate per otte- nere manodopera a costo zero, spesso rispettando solo for- malmente la figura del “tutore” che in molte occasioni si è dimostrato interessato a fare il bene dell’azienda invece che quello dello stagista.

Quante volte si è sentito dire, da studenti delle superiori, che “durante gli stage ti piazzano in un angolo a fare fotoco- pie” mentre l’attività formativa dovrebbe svolgersi in ben al- tra maniera; o che “si fanno stage durante i mesi estivi, al di fuori del periodo scolastico”, per rimpiazzare a costo nullo i dipendenti aziendali in ferie…

Nella situazione attuale, molti stage non danno nessuna vera formazione professionale, essendo svolti a volte presso ditte che poco o nulla hanno a che fare con il settore specifico di studio; in alcuni casi essi sono addirittura usati a scopo punitivo, per far lavorare gli studenti che vanno male negli studi, senza assisterli con servizi di ripetizioni.

Quindi, il problema di una mancata regolamentazione degli stage si somma ad una realtà scolastica già non omoge- nea e con alcune difficoltà sul territorio nazionale.

I costi della formazione, invece che essere ripartiti tra pub- blico e privato, come previsto dalla sussidiarietà orizzontale, rimangono quasi sempre sulle spalle della scuola pubblica, agevolando così soltanto le aziende.

Non ci si può più affidare alla buona volontà del singolo o dell’azienda, ci deve essere una vera protezione sociale degli studenti in stage e degli stagisti in generale, che permetta, nei limiti del possibile, una formazione reale e tutelata da lavora- tori esperti, che insegnino e spieghino i vari aspetti del lavoro.

Gli orari di uno stage non devono essere eccessivamente pe- santi, ma calcolati nei limiti della ragionevolezza, tenendo con- to anche delle ore scolastiche, ed infine gli stagisti non dovreb-

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bero sostituire i lavoratori salariati di cui le aziende necessita- no, specie nei mesi estivi.

Tra l’altro la situazione è tuttora in evoluzione, perché la recente legge Moratti Brichetto, o meglio il suo decreto attuativo sulla scuola superiore, ha modificato profondamente la natu- ra degli Istituti tecnici, i principali istituti superiori a diretto contatto con la realtà degli stage: essi non saranno più consi- derati tali, ovvero una via di mezzo tra liceo e scuola profes- sionale, dove gli studenti possono avere la possibilità di sce- gliere se andare a lavorare a 18 anni o proseguire negli studi universitari (e ciò serviva a quelle famiglie meno abbienti che, in base alla loro condizione economica, erano incerte sui per- corsi da offrire ai figli); gli Istituti tecnici saranno bensì trasfor- mati in cosiddetti “Licei tecnici, professionali” ecc…, che non daranno possibilità di fare “pratica lavorativa di preparazio- ne” unita ad una adeguata istruzione, funzionando essi come dei normali licei con accesso obbligato all’università. Quindi, ad una situazione già difficile come quella degli stage, si sovrapporrà questa micidiale legge che obbliga i ragazzi meno fortunati a scegliere direttamente la formazione professionale a soli 13 anni, senza mantenere almeno la possibilità di un accesso universitario, come era con gli Istituti tecnici. Ne risen- tirà quindi lo stesso meccanismo dell’alternanza scuola-lavo- ro, già imperfetto, che si troverà di fronte soltanto studenti del settore della formazione professionale, meno preparati di pri- ma e molto meno tutelati. È inutile dire quindi che, per armo- nizzare il mondo dell’istruzione e quello del lavoro, in questa particolare “area di confine”, va abrogata e sostituita la legge

Moratti, e va profondamente modificato il “pacchetto Treu”.

Fin quì abbiamo riversato la nostra attenzione sul feno- meno degli stage, ma ovviamente è ora il momento di adden- trarsi nello scabroso legame che viene ad instaurarsi fra Uni- versità e mondo del lavoro. In questo senso è d’obbligo un riferimento, come detto in precedenza, alla legge Moratti, ed alle conseguenze avute sui tempi di inseirmento nel mondo del lavoro, nonchè sugli stessi ritmi universitari.

L’auspicio, almeno quello sventolato ai quattro venti dal- la “Ministra”, era quello di dare la possibilità allo studente di ottenere un titolo di studio in tempi più brevi, che permettes- se un ingresso più rapido nel mondo del lavoro, seppur con una professionalità maggiore.; noncheè di diminuire il nu- mero degli abbandoni prima della laurea

La realtà, evidentemente è stata ben diversa: la frammentazione in due stadi del percorso formativo, i famosi 3+2, non ha avuto le conseguenze sperate, mettendo tutti davanti ad un’evidenza spudorata che mostra come ben il 90% dei laureati di primo livello sceglie infine di proseguire per i restanti due anni gli studi.

Altro effetto da non sottovalutare, avuto dalla riforma dell’Università, è stato sicuramente quello di incentivare la fre- quenza; effetto che, almeno per quanto riguarda il numero degli abbandoni, ha avuto un effetto positivo, visto che que- sti ultimi sono sicuramenti diminuiti dall’entrata in vigore della riforma.

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Novità rilevanti sono però state apportate rispetto all’or- ganizzazione dei singoli percorsi formativi: non è difficile sen- tire ragazzi divisi fra corsi che si sovrappongono ed esami che incombono; situazione questa che sicuramente c’è sempre stata, ma che in conseguenza della riforma ha assunto davvero pro- porzioni quasi insostenibili per gli studenti.

In una realtà come questa: caotica, confusa e frenetica, si inserisce la vita dello “Studente-lavoratore”, ovvero di colui che, pur essendo regolarmente iscritto ad un corso universita- rio, è anche titolare di un rapporto di lavoro stipulato con un’azienda.

Immaginiamo a questo punto cosa può essere la vita di un individuo che si trova a dover gestire da un lato le necessità dettata dalla sua condizione di studente, dall’altra quelle det- tate dalla condizione di lavoratore, e soprattuto di lavoratore inserito in un contesto in cui a dettar legge è la famosa “Legge 30”.

Va detto che a tutela degli studenti lavoratori, venne san- cito quello che è noto come “diritto allo studio”.

Potrà sembrare pedante e inutile, ma credo non faccia male ricordare cosa si nasconde dietro tale appellativo.

In questo senso tutto ebbe inizio nel lontano 20 maggio 1970, data in cui, dopo lunghi anni di lotte e sacrifici da parte dei lavoratori venne promulgata la famigerata Legge 300, ov- vero lo Statuto dei Diritti dei lavoratori. Esso rappresentò una grande conquista in quanto portò alla definizione di alcu- ni dei diritti fondamentali dei lavorati riequilibrando i rappor- ti di forza in gioco.

Dei 41 articoli che componevano e compongono la fanta- stica e importante Legge, l’articolo 10 riguardante il diritto allo studio è quello che interessa il tema che andremo a tratta- re. Questo recita l’articolo in questione: “i lavoratori studenti […] hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami. […] I lavoratori studenti, compresi quelli universitari che devono sostenere prove d’esa- me hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti.

[…]”. Partendo dal presupposto che gli studenti lavoratori devono considerarsi lavoratori a tutti gli effetti, oltre ai diritti spettanti ai lavoratori, ne sono stati definiti, grazie ai CCNL, altri specifici allo scopo di garantire quanto previsto dall’arti- colo sopraccitato.

Alcuni diritti conseguenti l’art.10 dello Statuto dei Lavo- ratori, certamente noti sono:

- i lavoratori studenti che lavorano regolarmente (quin- di non in prova) e che intendono frequentare corsi di studio svolti presso istituti pubblici hanno diritto a turni agevolati che in poco parole, gli permettano di frequentare le lezioni e non perdere il proprio posto di lavoro. Ovviamente si posso- no rifiutare di prestare lavoro straordinario o durante riposi settimanali.

- I permessi retribuiti che si possono richiedere per la frequentazione di un corso sono un massimo di 150 ore pro capite in un triennio, quindi 50 ore annuali. Determinati per- messi potranno essere goduti solo se l’orario di frequenza del suddetto corso andrà a coincidere anche solo parzialmente con l’orario di lavoro.

- Per quanto riguarda i permessi retribuiti spettanti per le prove di esame vi è il diritto di poter usufruire di altri 5 giorni pari a 40 ore lavorative annuali per la preparazione degli stessi.

- Ovviamente si potrà usufruire dei 5 giorni di permes- si retribuiti per la preparazione degli esami, previa documen- tazione ufficiale degli esami sostenuti (certificati dichiarazioni o altro idoneo mezzo di prova) o nel caso di frequenza di un corso con diritto alle 50 ore annuali presentando il certificato di iscrizione e successivamente certificati mensili di effettiva frequenza.

Purtroppo con l’entrata in vigore della Legge 30 e relativo Decreto Attuativo, questi diritti vengono messi in discussio- ne da quanto previsto dalle nuove forme contrattuali; contrat- ti che richiedono spesso flessibilità assoluta e dedizione com- pleta ai ritmi di lavoro delle aziende.

Per rendere più chiaro quanto detto il primo esempio che viene in mente è quello di studenti assunti con contratti a chiamata: nel loro caso usufruire dei permessi studio diviene praticamente impossibile; nel caso specifico le aziende sono infatti libere di far lavorare in qualsiasi giorno della settimana e per un qualsiasi numero di ore coloro ai quali vengono somministarti tali contratti; diventa facile comprendere come accada, banalmente, che il permesso studio venga sostituito con “un giorno in cui l’azienda non ha bisogno”, evitando così all’azienda stessa di sobbarcarsi l’onere di retribuire un giorno in cui il lavoratore non è presente sul posto di lavoro.

Oltre all’incompatibilità palese fra i diritti legati alla condi- zione di studente e i nuovi contratti, va poi sottolineato che le aziende, oltre a sfruttare in pieno ciò che viene permesso loro dalla legge 30 e relativo D.lgs. 276, approfittano ulteriormente della situazione di debolezza in cui vengono a trovarsi coloro che vogliono lavorare e studiare contemporaneamente. Il più delle volte, infatti, sottopongono i “giovani dipendenti” a pressioni asfissainti, corredate da varie forme di “ricatto” qua- le ad esempio può essere la possibilità di un rinnovo contrat- tuale in cambio di una disponibilità assoluta rispetto agli orari di lavoro; o magari il lavoro domenicale obbligatorio sottopagato, in cambio di un prezioso cambio turno che ser- va a frequentare una lezione.

Ma non è certo finita: la vita di uno studente lavoratore sarebbe certo troppo agevole, se non vi fossero anche man- canze nelle strutture universitarie e nella loro organizzazione.

Mi riferisco ad esempio agli orari delle lezioni, del tutto im- possibili da gestire nella loro flessibilità già da coloro che si possono definire studenti a tempo pieno, figuriamoci poi da coloro che devono incrociali con orari di lavoro imprevedibili e liberamente modificabili dai datori di lavoro.

Non esistono piani di studio garantiti che forniscano un minimo di stabilità agli orari; non esiste la possibilità di con- centrare su mezza giornata tutte le lezioni relative ad un dato anno accademico, si da garantire a tutti la possibilità di ottene- re una laurea; in definitiva non vi è nulla di stabile che possa garantire quanto meno regolarità in uno dei due ambienti in cui si viene a svolgere la vita dello studente-lavoratore.

Inutile dire che la Legge Moratti ha contribuito a peggio- rare la situazione anche in questo caso: infatti, togliendo quel-

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La maggioranza di centrodestra ha approvato in Parlamento la modifica della Costituzione e ha parlato di vittoria. Ma non è così. Per essere definitivamente approvata, secondo ciò che dice l’articolo 138 della Costi- tuzione, la riforma deve passare al vaglio dei cittadini che dovranno espri- mersi attraverso il referendum.

Con la modifica di oltre 50 articoli della Costituzione, il Governo introduce un falso federalismo, mette in pericolo l’unità nazionale, colpisce elementa- ri diritti dei cittadini, delle lavoratrici e dei lavoratori, indebolisce i poteri di importanti organi costituzionali.

Per queste ragioni ti chiediamo di

votare NO alla consultazione

popolare che si terrà nel giugno

del 2006.

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la regola per cui, un docente universitario non poteva svolgere altra attività lavorativa, se non rinunciando a metà dello sti- pendio da docente, e introducendo così l’assoluta libertà di svolgere, accanto all’attività di docente, attività extra-universi- tarie, viene facile pensare che il tempo da dedicare alla docenza si sia ulteriormente ridotto per i professori, che tutto potreb- bero pensare, fuorchè attivare corsi aggiuntivi allo scopo di fornire maggiori garanzie.

A questo punto diventa naturale chiedersi se si possa an- cora parlare di diritto allo studio, quando i diretti interessati si trovano catapultati in due realtà che non tengono conto l’una delle necessità dell’altra?

Si può ancora parlare di lavoratori-studenti quando le nuove forme contrattuali e la flessibilità totale richiesta dalle aziende e dalle università non permettono di usufruire di determinati diritti indispensabili per svolgere entrambe le attività?

A nostro parere no!

Pensiamo che, allo stato attuale, il diritto allo studio esista solo sulla carta e che rimanga fatto concreto solo per i pochi fortunati che godono di un contratto di lavoro “vecchio stam- po”, che preveda ancora diritti fondamentali per i lavoratori, studenti e non.

Un sindacato che voglia rimanere presente sul territorio e, soprattutto, vedere aumentare la sua influenza nelle dinami- che che portano alla definizione dei diritti dei lavoratori, non può dunque ignorare queste tematiche e il problema connes- so della partecipazione giovanile alla sua vita.

Per fare ciò in modo efficacie deve porsi come obiettivo un’azione profonda, fondata su iniziative indirizzate agli stu- denti, che permettano un contatto diretto con essi; azione che deve essere in grado di portare nei giovani consapevolezza rispetto ai diritti annessi alla condizione di “lavoratore”.

Nel caso degli stagisti, porsi un simile obiettivo signifi- cherebbe, mettere in atto inziative, che rivendichino la necessi- tà di tramutare gli stage da obbligatori in facoltativi, così da permettere agli studenti di potersi rifiutare o d’interrompere lo stage, nel caso in cui dovessero trovarsi in situazioni para- dossali per cui venga loro richiesto di svolgere il

lavoro dei dipendenti (allo scopo di risparmia- re sul costo del lavoro). Indipendentemente dall’obbligatorietà, o meno, è poi importante imporre, nella definizione del progetto di stage, un maggior coinvolgimento delle aziende, così da rendere più specifici e chiari quelli che siano gli obiettivi finali del percorso posto in essere.

In attesa che le cose cambino, però, compi- to di un’organizzazione sindacale che voglia aiutare i giovani nel loro ingresso nel mondo del lavoro è sicuramente quello di trasmettere elementi legislativi di base rispetto alla posizio- ne dello stagista all’interno dell’azienda; indivi- duare le parti in causa e responsabili rispetto all’andamento di uno stage e chiedere che le norme, almeno le poche vigenti, vengano ri- spettate.

Per quanto riguarda la condizione degli stu-

denti lavoratori e il diritto allo studio, al sindacato toccherebe invece di spingere sulle aziende, ma soprattutto sugli studen- ti, affinchè possano rivendicare i loro diritti. Anche in questo caso, la banalità dell’affermazione va a sbattere contro la dura realtà di contratti, come possono essre quelli a chiamata o le collaborazioni a progetto, rispetto ai quali chiedere che venga applicato il diritto allo studio è praticamente impossibile.

Va detto poi che anche a livello universitario sarebbero necessari interventi in favore dei “non frequentanti”, attraver- so, ad esempio, la creazione di percorsi formativi specifici, o magari attraverso l’incentivazione delle cosidette “lauree a di- stanza”, che permettano a coloro che lavorano di potersi lau- reare, indipendentemente dalla loro presenza nelle aule uni- versitarie.

Tutto questo necessita una precisazione doverosa: il sin- dacato non è in grado di tutelare coloro che non vogliono essere tutelati è vero, ma tocca al sindacato lo sforzo maggiore per colmare una distanza che separa due mondi che oggi quasi non riescono a sfiorarsi; è nel sindacato che serve la spinta maggiore verso l’esterno e verso i giovani, perchè è su di loro che potrà costruire un futuro anche per se stesso; futuro che gli permetterà di continuare a svolgere il suo compito nella tutela dei lavoratori e dei loro diritti. Lo scopo del riavvicinamento dev’essere quello di dare ai giovani consape- volezza rispetto alle condizioni in cui versa il mondo del lavo- ro che dovrebbe accoglierli; dovrebbe poi permettere loro di comprendere la storia del sindacato, e quindi da dove arrivino i diritti di cui vengono privati, del perchè sia importante che si conservino, e soprattutto deve permettere che i giovani pren- dano piena coscienza dell’importanza sociale che possono avere nella rivendicazione di diritti e tutele riguardanti il mondo del lavoro.

Come?

Attraverso inziative che interessino e i giovani: convegni, assemblee all’interno delle aziende, eventuali collaborazioni con le scuole, ecc... in buona sostanza il sindacato deve pro- porsi come punto di riferimento che sappia dar seguito alle necessità delle nuove generazioni di lavoratori, in un contesto

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in cui, come già detto, il mondo del lavoro si preoccupa solo delle sue necessità e la scuola non è in grado di reggere il gioco fatto dalle aziende, occupate solo a perseguire i loro interessi;

senza contare che il nuovo assetto universitario presto rende- rà l’università stessa molto più simile ad un’azienda che non ad un luogo deputato alla formazione e, in quanto tale, aper- to a tutti.

A nostro avviso, essendo chiamato a influenzare, attraver- so il suo potere contrattuale e la sua valenza sociale, quelle fasi del prossimo futuro che andranno a decidere del destino della legge 30 e del D.lgs. 276, come anche delle eventuali modifi- che che vorranno essere portate alla legge Moratti; e nella con- sapevolezza che la sua forza è data davvero dal numero dei lavoratori che lo sostengono e dalla capacità di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone soprattutto fra i giova- ni; riteniamo che sia indispensabile per la sua sopravvivenza e per l’efficacia delle sue lotte future, che riesca a raggiungere le finilatà appena elencate.

E per finire come abbiamo inziato, ecco cosa auspichiamo per il futuro: un ragazzo si presenta la suo reponsabile lunedì mattina e cortesemente lo informa che il lunedì dopo avrà bisogno di un permesso retribuito per poter svolgere un esa- me; il datore di lavoro glielo rifiuta, dicendo che per motivi organizzativi ha bisogno che lui presti normalmente la sua

attività lavorativa.

Il ragazzo allora, perfettamente consapevole di quelli che sono i suoi diritti, si pecipita dal delegato sindacale presente in azienda gli racconta il fatto e chiede cosa possa fare per risolve- re la situazione.

Il delegato, si precipita a sua volta dal datore di lavoro e lo informa che, nel caso non ne fosse ancora a conoscenza, la Legge 30 aveva subito qualche leggera modifica, e non gli era più permesso di fare quello che voleva. Le soluzioni per lui erano solo due: o concedere il permesso al lavoratore, o conte- stare il lavoratore, perchè quel giorno al lavoro non sarebbe andato.

Le nostre speranze in realtà potrebbero essere rinchiuse in poche parole: vogliamo che i diritti tornino ad essere diritti per tutti, e che la possibilità di scegliere che futuro costruirsi, attraverso un percorso formativo adeguato, sia tutelata fino infondo dalle istituzioni deputate a farlo.

Qualcuno potrebbe chiedersi: ma non potevate dirlo su- bito ed evitare una pesante mezz’ora di lettura?

Bè, forse si, ma sicuramente siamo stati più esaustivi e abbiamo insinuato in qualcuno il dubbio che investire sui giovani potrebbe non essere un investimento a perdere...

Professionalità e Formazione

Quello che il nostro laboratorio di ricerca ha cercato di approfondire pone l’attenzione sopra uno dei temi che sono ormai da qualche anno al centro del dibattito: lo sviluppo delle professionalità e della grande opportunità che un siste- ma di formazione continua può concedere ai lavoratori tutti, ma in maniera particolare ai giovani che si preparano ad entra- re in un mercato del lavoro fortemente flessibile, dinamico e competitivo.

Siamo convinti che un sistema di formazione professio- nale efficiente possa essere un’ opportunità fondamentale da cogliere per riuscire sopravvivere e provare ad emergere nel mercato del lavoro attuale.

Cosa impedisce, per esempio, ai disoccupati di trovare un lavoro in tempi brevi, anche se esistono molti posti vacanti?

Innanzi tutto, la mancanza di idonee conoscenze e competen- ze.

In questo senso, possiamo definire la professionalità quel- l’insieme di conoscenze acquisite dal lavoratore nel suo per- corso di studi e nelle sue esperienze sul campo che gli consen- tono di poter essere più flessibile, più preparato e di conse- guenza più facilmente collocabile nel mercato.

Per raggiungere tale condizione, la Formazione diventa fattore strategico.

E’ necessario, in tal senso, migliorare ed ammodernare il sistema d’istruzione, combattendo l’abbandono scolastico e

In questo scenario, assume rilievo centrale il nostro siste- ma d’istruzione, soprattutto quello della formazione secon- daria che deve preparare i propri allievi ad entrare nel mercato del lavoro senza eccessive difficoltà. Istruzione e formazione sono cose differenti, ma non si possono separare nettamente;

l’una è distribuita nell’altra, ma non per questo l’una è l’altra.

Conoscere per lo scopo di conoscere non è la stessa cosa di conoscere con lo scopo di agire.

L’istruzione desidera soprattutto concentrarsi sul sapere;

la formazione sul sapere sempre ciò che si fa e perché si deve fare in un modo piuttosto che in un altro. Qualche giovane è attirato dalle dimensioni grammaticali e teoretiche del sapere;

altri da quelle pragmatiche ed operative. Qualcuno dalla scien- za, altri dalla tecnica. Si tratta quindi, di affrontare nel suo insieme il problema della formazione in generale e della for- mazione professionale in particolare.

L’attuale stagione di sviluppo economico vede la diffu- sione negli ambienti di lavoro di una pluralità di modelli or- ganizzativi. Nella grande impresa si nota il superamento del modello tayloristico, centrato sulla parcellizzazione delle man- sioni, sostituito da nuovi modelli organizzativi fondati sulla flessibilità e sulla polivalenza.

In generale, la domanda emergente dal mondo delle im- prese considera indispensabile la competenza tecnica, ma punta ad aggiungere a questa un’area di nuovi saperi di tipo informatico, linguistico ed organizzativo. Oltre a ciò è posta

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zione scientifica e tecnologica, e dall’altro, come pedagogica dotazione individuale di capacità volte alla curiosità, all’auto- nomia, alla responsabilità, alla collaborazione cooperativa, alla creatività. Occorre dare una risposta di qualità a queste do- mande, mentre, invece, nel complesso, il versante dell’offerta di percorsi d’istruzione e formazione professionale non si è sviluppato negli ultimi anni in modo organico e non ha po- tuto acquisire quei caratteri di consistenza e di rilevanza cultu- rale, istituzionale e sociale che lo avrebbero accreditato come un’alternativa di pari dignità rispetto ai percorsi di sola istru- zione.

In tale quadro, i percorsi di formazione secondaria, pro- prio perché ispirati da una solida sensibilità pedagogica e cul- turale, dovrebbero presentare una duplice finalità: la prima adattiva, cercando di rispondere alla domanda di professiona- lità che emerge dal mondo del lavoro; la seconda innovativa, creando le condizioni per modificare forme e contenuti delle professionalità esistenti, anticipando bisogni e dinamiche eco- nomiche e sociali non ancora emerse.

Nel sistema di formazione secondaria sono fondamentali atteggiamento interdisciplinare, attività di laboratorio, stage e attività pratiche. L’ultimo anno dovrebbe essere destinato in prevalenza ad attività formative legate alla spendibilità del ti- tolo di studio nel mercato del lavoro. L’esigenza primaria è quella di assicurare il collegamento necessario tra sistema formativo e sistema produttivo. In questo senso, un aspetto molto importante è rivestito dalla formazione secondaria in alternanza scuola-lavoro che vuole rispondere sia ai bisogni educativi e di crescita delle conoscenze/abilità di quei giovani che desiderano incontrare al più presto il mondo del lavoro, sia ampliare l’occupazione giovanile sostenendo l’inserimen- to dei ragazzi attraverso contratti a contenuto formativo come l’apprendistato in una logica di rimodulazione dei salari in funzione di un’offerta formativa di qualità. Date le sue carat- teristiche, tuttavia, è rivolta anche al mondo dei lavoratori adulti e può diventare una struttura formativa generale del sistema del lavoro e delle professioni. E’ fondamentale però, per restituire alla formazione in alternanza la centralità che merita, assicurare ai giovani lavoratori assunti con contratto d’apprendistato, che durante il rapporto di lavoro si svolgano fattivamente percorsi di formazione e d’addestramento che purtroppo, spesso, sono tralasciati facendo perdere di vista la finalità vera che è la crescita professionale e non la semplice esecuzione di un compito.

La formazione superiore intensifica le caratteristiche della formazione secondaria. Il suo obiettivo è la preparazione al- l’esercizio di lavori e professioni che non ha carattere dirigen- ziale, ma che implicano conoscenze ed abilità complesse sul piano tecnico e relazionale. Nella formazione superiore, non esiste un tempo dell’istruzione ed uno della formazione, né un tempo della formazione e un tempo dell’azione profes- sionale, ma sempre un intreccio d’istruzione e formazione, e di formazione ed azione professionale. E’ il luogo dei labora- tori, dei tirocini tecnici e degli stage.

Dalla formazione al lavoro passiamo alla formazione sul lavoro.

Il mondo della formazione, e in particolare della forma- zione professionale, ha mostrato il legame tra innovazione

tecnologica e fabbisogno di competenze, sottostimando le necessità di modelli che consentissero l’apprendimento conti- nuo legato ai processi lavorativi, e che evitassero al contempo la marginalizzazione di gruppi di lavoratori inseriti in aree non considerate strategiche. Possono esistere diversi modelli di formazione continua sul lavoro: l’apprendimento organizzativo, la formazione continua individuale, la forma- zione continua a distanza e in rete, il training on the job o formazione sul lavoro.

Abbiamo deciso di soffermarci su quest’ultimo punto.

La formazione sul lavoro è una metodologia formativa tradizionale e molto utilizzata, che solo di recente ha avuto accesso alla più ampia riflessione sui processi di produzione e trasmissione della conoscenza. L’efficacia di un processo di apprendimento sul lavoro dipende innanzi tutto dal conte- sto lavorativo nel quale si svolge: l’organizzazione del lavoro, in primo luogo, ma anche la disponibilità culturale a trasferire conoscenze, capacità ed atteggiamenti e, soprattutto, la finalizzazione organizzativa dello sviluppo della professio- nalità.

Al soggetto che apprende è richiesto un ruolo completa- mente attivo nel processo di formazione: oltre che apprende- re, contribuisce all’erogazione del suo stesso percorso formativo e impatta direttamente sull’attività “core”, centrale dell’impresa, poiché si trova completamente inserito all’inter- no del processo produttivo svolto dall’organizzazione.

Chi eroga la prestazione formativa è al tempo stesso tutor e collega esperto o capo diretto, in grado quindi di svolgere la sua mansione e, contemporaneamente, di trasmettere le co- noscenze, le capacità, le abilità al soggetto che apprende. Il tutto all’interno di un percorso formativo progettato e formalizzato, in cui è centrale l’attività di monitoraggio degli stadi di sviluppo professionale del lavoratore.

Se in senso lato si può parlare di formazione nella quale i partecipanti apprendono come devono svolgere il loro lavoro mentre lo stanno svolgendo, si può sostenere che l’aula è ancora indicata come fattore di successo nelle esperienze d’ad- destramento, come occasione di verifica dell’apprendimento.

D’altra parte se le competenze professionali si estendono dagli elementi di conoscenza, al saper fare e quindi all’attività pratica, fino al saper essere e saper stare e quindi agli elementi comportamentali, la formazione al lavoro e nel lavoro non interessa solo le tradizionali figure di basso livello d’inquadra- mento, ma una quota ampia di livelli professionali con com- petenze gestionale. Spesso, uno dei motivi per cui attività formative rivolte a personale qualificato non sono inserite nella formazione professionale è dovuta ad una cultura che considera la formazione sul lavoro sminuente o di second’or- dine.

Si è sempre appreso a lavorare lavorando, e possiamo dire che la formazione sul lavoro sia la prima forma con la quale si è trasmesso il saper fare. A trasferire le abilità manuali e lavo- rative era il padre, un parente o comunque un anziano. Nella tradizione il luogo della formazione è costituito dalla bottega e la figura classica d’allievo è costituita dal garzone che, attra- verso l’osservazione e l’affiancamento al maestro, assumen- do piccole responsabilità, impara facendo. Secondo la tipologia

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di lavoro e, quindi, dalla ricchezza e complessità delle compe- tenze necessarie per svolgerlo, il maestro trasferiva conoscenze pratiche ed operative, capacità tecniche e comportamentali, pervenendo talvolta a divenire maestro di vita, colui che tra- mandava i valori e la cultura del mestiere.

Accanto a queste conoscenze legate al fare ed ai mestieri, si è delineata ben presto una conoscenza ed un sapere più alto, patrimonio esclusivo di pochi finalizzato all’arricchimento culturale, personale ed a professioni di particolare prestigio.

Inizia una separazione tra il sapere e il saper fare ed allo stesso tempo una divaricazione nel saper essere che si caratterizza in modo diverso secondo il ceto e del ruolo sociale.

Con la rivoluzione industriale la fabbrica acquisisce luoghi ed organizzazione del laboratorio artigiano, per poi stravol- gerli. Nelle grandi imprese di stampo taylorista si svolge un processo di trasformazione standardizzato, in condizioni di rigidità e nelle quali il lavoro è semplificato e parcellizzato; le azioni operative sono facili e si apprendono rapidamente; l’at- tività manuale si separa da quella intellettuale, sia nel processo produttivo che nella definizione delle figure professionali operai-impiegati; s’individua un’ulteriore figura che opera al- l’interno dell’organizzazione: il manager.

Conseguentemente, due sono le forme più rilevanti d’ap- prendimento del lavoro e sul lavoro:

una dedicata alle attività professionalmente meno qualifi- cate, che è inquadrata nella formazione sul lavoro. E’ caratte- rizzata dall’inserimento e addestramento di giovani con man- sioni operative, tramite l’affidamento ad un lavoratore esper- to. E’ una pratica lavorativa, centrata sui compiti e fondata sull’esperienza del fare: training by doing.

Il lavoratore deve apprendere ed utilizzare, nel modo più veloce ed efficiente possibile, le conoscenze e le capacità opera- tive che gli consentono di compiere una determinata mansio- ne, utilizzando specifici strumenti e macchinari all’interno di una fase produttiva. Da queste esperienze deriva una prassi tipica di varie forme d’inserimento lavorativo come l’appren- distato, i tirocini che hanno portato a processi formativi d’al- ternanza con percorsi di formazione sul lavoro e interventi di rafforzamento formativo. In questi contesti, nasce la figura del tutor o trainer aziendale.

L’altra forma è rivolta a figure professionali forti o mana- geriali dove si vuole superare la distinzione tra insegnamento

teorico ed insegnamento pratico, tra sapere e saper fare.

Negli ultimi anni, anche in funzione dell’indebolimento della netta distinzione tra addestramento e formazione, il training on the job è sostenuto dalla formazione in aula per le mansioni operative e si affianca agli altri meto- di didattici. Così si possono citare esempi di garzone post-moderni, l’assistente al controllo di gestione, il junior product manager, l’aiuto barman, il borsista uni- versitario. A questo si è recentemente aggiunto l’utilizzo di tecniche d’auto-apprendimento e d’apprendimento assistito in rete.

Più in generale, le nuove tecnologie hanno reso meno significativa la distinzione tra risorse umane operative che devono essere addestrate, e management che deve essere formato, aumentando per tutti i fabbisogni di forma- zione. Da una parte, chi esegue il lavoro deve possedere capa- cità relazionali, d’analisi; dall’altra le figure impiegatizie, i qua- dri ed il management devono confrontarsi con l’operatività.

Si pensi, ad esempio, all’uso delle tecnologie informatiche. Ne consegue che, per i primi, l’addestramento deve essere inte- grato con altri metodi e per i secondi, alla formazione in aula devono prevedersi attività formative sul campo. In quest’otti- ca, più che addestramento sul lavoro bisognerebbe parlare di formazione sul lavoro, poiché oggetto di trasferimento di conoscenza sul campo non sono semplicemente abilità e ca- pacità operative che costituiscono il saper fare, bensì compor- tamenti, caratteristiche personali che sono chiamate saper es- sere e saper esserci.

La formazione sul lavoro, intesa come applicazione di co- noscenze specifiche ad una situazione concreta ci aiuta a dare una definizione di competenza. La competenza è la capacità di agire dei saperi in un determinato contesto lavorativo. Le com- petenze possono essere specifiche per svolgere al meglio una determinata mansione oppure trasversali e spendibili in di- verse realtà lavorative ( inglese, informatica ).Queste ultime, fortemente richieste dal mercato, sono fondamentali per tutti, indipendentemente dall’attività svolta. La formazione sul la- voro consente di agire e praticare quanto appreso nella forma- zione tradizionale; ha una forte valenza addestrativa e consen- te di conoscere il contesto dell’azienda. La formazione tradi- zionale, di contro, consente una visione più ampia dell’orga- nizzazione aziendale e dei comportamenti organizzativi. L’una e l’altra s’integrano per ottenere una formazione efficace.

Lavoro e formazione diventano, dunque, i due lati di una stessa medaglia. In definitiva, la formazione sul lavoro costi- tuisce una soluzione in grado di soddisfare i bisogni di for- mazione continua che si generano per le imprese e per i lavo- ratori. Imprese e lavoratori, tuttavia, non sono gli unici prota- gonisti: ci sono anche altri attori coinvolti nella progettazione di programmi formativi: le scuole, le università, gli istituti di formazione pubblici e privati, le società di consulenza. Molto spesso le imprese si lamentano dello scollamento tra le loro effettive esigenze e le attività formative progettate e finananziate dai centri di formazione, che sono accusati di non utilizzare il contributo delle aziende stesse. Del resto, una delle tante sfide che dovranno affrontare strutture e profes- sionisti della formazione riguarderanno un maggiore e più significativo protagonismo della figura del cliente-utente- fruitore del servizio. Le imprese richiedono servizi formativi

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che siano immediatamente rispondenti ai fabbisogni di for- mazione che maturano al loro interno in corrispondenza del- le scelte fatte ogni giorno. Per soddisfare tali esigenze, è neces- sario sviluppare una capacità di risposta rapida accompagnata da una capacità d’anticipazione e analisi dei fabbisogni forma- tivi. Da questo punto di vista è importante condividere infor- mazioni, programmi, esigenze di tutti per disegnare il quadro delle competenze e delle professionalità richieste. Significa con- ciliare diversi punti di vista ed interessi che caratterizzano i molteplici attori organizzativi e sociali, individuali e collettivi.

In tale scenario, noi riteniamo prioritario continuare a svi- luppare il tema della bilateralità e delle politiche concertative in tema di formazione continua. Crediamo fermamente, che le parti sociali, imprese e sindacato, storicamente rappresentanti d’interessi contrapposti, possano trovare sul terreno delle politiche formative un interesse comune superiore che con- senta alle imprese un clima organizzativo capace di rispondere positivamente alle sfide della competitività ed ai lavoratori, soprattutto giovani, opportunità per migliorare le proprie competenze. Tutto ciò può avvenire solo in un clima di fidu- cia, uscendo da logiche contrapposte e conflittuali, sforzando- si di vedere il valore aggiunto, senza nessun pregiudizio, d’in- teressi anche antagonisti.

I protocolli d’intesa tra governo-imprese-sindacati siglati nel 93-96-98, la conseguente nascita degli organismi bilaterali a cui il Ministero ha affidato la ricerca dei fabbisogni di compe- tenze ai fini formativi, gli osservatori sulla contrattazione, le commissioni bilaterali previste nella contrattazione nazionale e decentrata, le azioni di formazione continua concertata, L.

236/93, i congedi parentali e formativi, L. 53/00, la nascita dei fondi interprofessionali per la formazione continua, L388/

00, sembrano indicare percorsi e pratiche che camminano nella direzione di rendere maturo il confronto tra le parti.

Ragionare per competenze, trovare nuovi strumenti di partecipazione dei lavoratori alle scelte ed alla gestione delle imprese, trovare gli equilibri tra bisogno dei mercati di flessibilizzare la forza-lavoro e quella di ottenere garanzie per i giovani rispetto al proprio percorso professionale, può tro- vare radicamento e dare buoni risultati solo in un patto di dialogo e fiducia tra le parti.

La costituzione dei Fondi interprofessionali per la formazione continua rappresenta per il paese una novità di rilievo assoluto. I fondi sono costituiti sulla base di un accordo tra le parti sociali ed hanno lo scopo di finanziare, attraverso il contributo dello 0.30% versato dai datori di lavoro del settore privato, piani for- mativi individuali, aziendali, settoriali e territo- riali. Tali Fondi sono considerati la via italiana alla formazione continua rendendo le parti so- ciali protagoniste della programmazione e ge- stione della formazione dei lavoratori.

I Fondi interprofessionali rappresentano, quindi, una grande opportunità per le imprese che potranno finanziare i piani formativi, ma anche per il sindacato ed i lavoratori, i quali, parteciperanno attivamente alla definizione del-

dere adeguatamente alle richieste ed ai fabbisogni dei propri rappresentati.

In tal senso, affinché l’opportunità sia veramente tale, bi- sogna che il sindacato tutto, si attrezzi per poter concertare la formazione e per non diventare esclusivamente un notaio di decisioni prese da altri.

Per concludere, siamo fermamente convinti che la forma- zione continua e lo sviluppo delle professionalità ad essa col- legata sia una sfida cruciale per il miglioramento delle condi- zioni di vita e di lavoro per il paese intero, ma soprattutto per i giovani. Bisogna adoperarsi, ognuno per le proprie possibi- lità, in modo da creare una vera e propria cultura della forma- zione, intesa come fondamento di un nuovo diritto di citta- dinanza nell’ottica di una politica attiva del lavoro; utile per migliorare la propria condizione lavorativa e retributiva; ne- cessaria per far fronte ai grandi mutamenti che il lavoro ha subito negli ultimi anni; indispensabile per fronteggiare la sfida della competizione globale e della flessibilità. Ci sembra urgente affrontare questo problema, soprattutto se si consi- dera che nel nostro paese solo il 15% ritiene la formazione un’opportunità che favorisce la sicurezza occupazionale ed in cui il 60% circa della popolazione attiva ha solo il titolo di licenza elementare e media.

La Uiltucs Giovani s’impegna fin da subito, in tutte le sedi che la vedranno protagonista, a diffondere la propria convin- zione che un paese più istruito e formato rappresenta un vantaggio per tutti oltre ad esprimere il grado di civiltà della sua gente. Lo faremo con i nostri mezzi, l’informazione, la partecipazione e il coinvolgimento, nella speranza che i giova- ni, presente e futuro del nostro paese, riescano concretamen- te, con l’aiuto di una solida motivazione, a trasformare una sfida rischiosa in una grande occasione di sviluppo, necessaria oltre che opportuna, con l’obiettivo di creare una società nella quale si possa sperare e credere in un futuro migliore.

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Esperienze di Precarietà e loro significati sociali, politici, economici

Per capire il significato e il senso della precarietà abbiamo porto l’orecchio a tante storie e tanti racconti ed esperienze personali. Alcuni dicono di rimpiangere i racconti dei vecchi…

“Quando i turni erano umani, c’era il tempo per coltivare le relazioni coi colleghi, ci si parlava, c’era spontaneità, si socializzava…socializzazione parola vecchia e pericolosa, arri- va al socialismo. Basta, il socialismo non c’è più”.

Lamentano che oggi tra colleghi ci si comporta professio- nalmente, distaccati, come degli estranei, e che talvolta ci si deve difendere da colleghi e da clienti sempre nuovi sempre uguali.

Prendendo spunto da alcuni giovani impiegati nel mon- do della amministrazione d’impresa emergono spesso am- missioni del tipo:

“talvolta tra i precari c’è sempre confusione di orari, di scadenze, di uscite, di proroghe, ma siamo riusciti a darci forza con l’unione tra di noi, almeno fino a quando si aveva la consapevolezza di contare come gruppo di personale qualifi- cato e formato sull’attività dell’azienda”.

Dai precari si levano dunque molte voci. Ci siamo sentiti dire che “il lavoro precario determina decadimento qualità della vita, alla faccia di chi toglie centralità al lavoro e non riconosce il primato del valore del lavoro”, oppure che “difendere i gio- vani dalla precarietà significa la conquista di rigidità, certezze, riconoscimento di un ruolo, riconoscimento di dignità”.

Qualcuno ha anche fatto delle osservazioni sul sindacato dicendo che “i sindacati possono arrivare persino a fare dan- no, si mettono in mezzo e accettando manciate di lire in cam- bio del ritiro delle vertenze non difendono la dignità dei lavo- ratori”, ma anche che “compito del sindacato sarebbe imporre rispetto delle norme e fare vertenze, ma anche creare nei luo- ghi di lavoro diverse mobilitazioni, solidarietà, magari facen- do rischiare di perdere alcuni privilegi ai protetti a favore di chi costituirà il futuro”

Come queste tante sono le storie che sentiamo raccontare

attorno alla precarietà, alle difficoltà e alle ingiustizie insite nel mondo del lavoro contemporaneo, tante storie che ormai hanno prodotto una sorta di senso comune, diffuso a tal punto di sembrare un ritornello, a volte quasi scontato e prevedibile. Parlare dunque di precarietà significa allora farsi un’idea, darsi una prospettiva, inquadrare la situazione attua- le del lavoro giovanile e delle sue difficoltà, all’interno di uno sguardo più completo sulla società odierna. Pensiamo infatti che la precarietà faccia da pendant con la ricerca di competitività, sfrenata e spesso scriteriata, compiuta da imprese messe a competere sul mercato globale. L’impresa globale, spesso fat- ta di agglomerati disomogenei di aziende diverse, punta quindi a servirsi di tanti produttori separatamente, crea figure sociali diversissime tra loro, fonda la propria attività e organizzazio- ne su un contesto in cui centrali sono le informazioni, le rela- zioni, le comunicazioni. Dimensione avanzata del lavoro moderno appare la centralità del lavoro intellettuale, anche le tute blu sembrano emanciparsi verso un lavoro più qualifica- to, ma contemporaneamente crescono quantitativamente i settori marginali delle industrie di servizi, dove precarietà del lavoro e povertà di reddito coesistono e si alimentano a vicen- da.

I cosiddetti working poors, i lavoratori dei servizi a basso costo, ma anche i giovani dei fast food e dei call center, i laure- ati girovaganti tra un azienda e l’altra di consulenze. Figure di lavoratori, abbiamo detto, diversissime tra loro, ma accomu- nati dall’essere tutti soggetti singolarmente a processi di lavo- razione determinati da altri, ma entro i quali doversi costante- mente mettere in gioco e fare valere le proprie doti di relazione e le capacità di “stare nel ciclo produttivo”, ossia essere tutti una specie di imprenditori di se stesso, in continua relazione competitiva sia dentro l’impresa (con i propri colleghi, simili e allo stesso tempo competitori per il traguardo dell’afferma- zione individuale, che spesso non è altro che la conferma del proprio contratto) che fuori (i disoccupati, i possibili sostitu- ti, l’esercito di riserva si sarebbe detto un tempo).

La vulgata liberista e tante ideologie aziendali (dalle azien- de della grande distribuzione, ai call center, ai fast food, alle aziende di servizi informatici e alle società di ricerca) ripetono tutte a modo loro, ma tutte con sacrosanto fondamento, che in ogni posto di lavoro bisogna sapersi far coin- volgere, investire il proprio essere, sentirsi in continua relazione con il contesto aziendale, fatto di prassi produttive e persone con cui interagire al meglio.

E la precarietà dove si produce allora? Se- condo noi il passaggio dal coinvolgimento relazionale, dalla centralità delle doti intellettive e comunicative, dalla competizione sfrenata con e contro i propri colleghi, alla individualizza- zione dei rapporti di lavori il passo è breve, e ancor più breve quello dalla individualizzazio-

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ne dei rapporti all’isolamento subalterno della propria condi- zione lavorativa, che è cardine di ciò che chiamiamo precarietà.

Paradossalmente la precarietà sofferta dalle nostre genera- zioni è prodotta dalle medesime aziende che hanno fra i loro target privilegiati proprio gli stessi giovani. Chi di voi non ha in mente gli stili di vita proposti nelle campagne pubblicitarie?

Anche dove il destinatario è un consumatore qualsiasi l’esem- pio è, quasi sempre, il giovanotto “figo”, “allegro” e “spen- sierato”. Ma quante sono le probabilità che quel giovane “alle- gro e spensierato” sia lo stesso che lavora nei negozi, uffici, agenzie, call center per vendere quel prodotto. Il mercato do- minato da grandi imprese globali utilizza una comunicazione che è ideologica, dove i fini commerciali si nutrono di valori e stili prettamente politici, in quanto si diffonde un sistema di valori e di relazioni che rende possibile vendere le proprie merci e i propri servizi. Dunque ci troviamo ad essere due volte vittime dello stesso mercato: da una parte produttori precari e dall’altra “consumatori stabili” presi in giro come se fossimo tutti soggetti capaci e in grado di consumare all’infi- nito. Notevole la fatica necessaria per resistere e non cadere nella trappola di un’identità sdoppiata, moltiplicata, confusa.

E’ da qui che bisogna partire per ricostruire attorno al lavoro un’identità collettiva e ridargli il giusto senso. Battere la precarietà significa riaffermare che prima di essere “consuma- tori” siamo soprattutto “lavoratori” e che dalle condizioni e dalle tutele del nostro modo di produrre dipende quello di

“comprare”. Ma qui è necessaria parlare di una questione che, prima di tutto, è di “registro culturale” .

Ma facciamo un passo avanti. Se è dunque l’economia, il portato della globalizzazione, lo sviluppo del mercato capita- listico verso una domanda di manodopera che è meno ma- nuale oppure comunque più intellettuale e relazionale, da impiegare in compiti smaterializzati e spesso, solo all’appa- renza, più qualificati, a spingere le imprese a nutrirsi di flessi- bilità, è la politica sociale, la struttura del welfare state, la poli- tica del diritto, e alcuni errori del sindacato e della sinistra ad aver alimentato find’oggi la diffusione della precarietà.

Parliamo ancora più chiaro. In Italia il sistema legale dei rapporti di lavoro è troppo complesso: più riforme (Treu e Biagi) hanno prodotto una quarantina di tipologie contrat- tuali legali, cui si aggiungono le molteplici declinazioni con- trattuali, spesso anticipatrici della discipli-

na legale, altre volte recettrici. La tutela previdenziale è differenziata in almeno otto regimi diversi. L’assicurazione sociale con- tro la disoccupazione è a livelli minimi. Il servizio pubblico di supporto al colloca- mento, alla formazione, alla gestione delle crisi occupazionali della grande industria è tra i più inefficienti.

Nessuna tutela è spesso praticabile per quella fascia di lavori a bassissimo costo, ove il nero dilaga.

Da un punto di vista più tecnico l’aberrante complessità del nostro sistema rende oscuro muoversi alla ricerca di tutele e sicurezze per una vasta area di rapporti di lavoro. Nella selva della normativa scopria-

mo però che gli aspetti da regolare di un rapporto di lavoro devono affrontare un Giano Bifronte. La precarietà può infat- ti essere vista come realtà bivalente, da una doppia faccia.

Da un lato è quella della terminatorietà, lo spettro sempre presente della disoccupazione, la ricattabilità attorno allo sca- dere del contratto, la risolvibilità da un momento all’altro, la scarsa tutela del posto di lavoro, l’insicurezza, l’inesigibilità del diritto di avere il lavoro e la fonte di guadagno da parte di chi impiega la nostra risorsa, la sottomissione alle esigenze e ai vincoli di mercato cui sono soggette le aziende di servizi.

Esempio tipico di questa prima precarietà sono i contratti a progetto e tutte le numerosissime forme di lavoro a tempo determinato, interinale, somministrato, di formazione, stage e tirocini, addirittura talmente numerose da creare confusione tra le varie fattispecie e incertezza su quali siano i pochi diritti garantiti.

Dall’altro lato la flessibilità intrinseca a rapporti di lavoro anche stabili, ove a creare insicurezza e disagio è la ampiezza di opzioni circa diversi aspetti della prestazione che di fatto sono in mano alla discrezionalità dei datori di lavoro: collocazione dell’orario, gestione dei tempi di lavoro, livelli d’inquadra- mento, mansioni promiscue, gerarchie leggere nel senso di indefinite con certezza, ma forti nella loro realtà di qualcuno che può condizionare la nostra posizione entro l’azienda (per dirla con uno slogan, mille capi e nessun responsabile), fran- tumazione degli organici, spezzettamenti societari e terziarizzazioni, voci salariali variabili senza nessuna possibi- lità di controllo, stipendi garantiti ma inferiori di gran lunga al valore economico della prestazione, la produttività. Lo scarto tra redditività del lavoro per le aziende e redditività per i lavo- ratori cosiddetti garantiti non può essere giustificato come pagamento di una sorta di premio assicurativo della certezza di reddito. Tutto questo il lavoratore lo sente sulla sua pelle, e la consapevolezza di non influire sulle condizioni del proprio lavoro costituisce elemento di precarietà nel momento in cui produce senso di instabilità, crea rottura di qualsiasi equilibrio nel rapporto tra vita e lavoro, decadimento di qualità nella percezione della propria persona e professionalità, con conse- guente insoddisfazione e senso di impotenza, da cui spesso si porta a rompere anche rapporti di lavoro formalmente sta- bili.

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Origine e causa di questa precarietà, nella sua seconda acce- zione, si trova in un ribaltamento giuridico del tradizionale assetto del nostro ordinamento: la disparità tra le parti e il riequilibrio dei poteri. La concezione liberista, per cui datore e lavoratore pari sono, dotati di pari possibilità di scegliersi e di determinarsi a vicenda, in nome della libertà di agire in totale autonomia, celano in realtà la giustificazione e riproduzione della solitudine del lavoratore e la concreta scelta di fondare l’organizzazione del lavoro sul ricatto e sul potere contrattua- le.

Esempio tipico di questa precarietà è il lavoro nei fast- food, nei call-center e nella grandi catene commerciali.

Poi c’è un’altra variabile aggiuntiva di precarietà, di incer- tezza e di disagio: la condizione di migrante, lo straniero che vive la precarietà della propria condizione giuridica di cittadino oltre a quella di lavoratore. Paradigma della condizione di pre- cario, di soggetto e protagonista della competizione forzata tra lavoratori, della mancanza di essere collettività e dell’essere percepito come minaccia da parte di chi sta nelle nostre stesse condizioni. Talmente paradigmatica ci appare la condizione dello straniero che la sofferenza dovuta alla precarietà del lavo- ro, lungi dal costituire per i migranti vantaggio o motivo di preferenza come si sostiene forse troppo diffusamente, si somma al rischio di cadere in certe forme di palese sfrutta- mento che non fanno certo onore a un paese civile.

Altrettanto chiaramente ora ci vogliamo domandare cosa si sarebbe potuto fare e non si è fatto, e soprattutto cosa poter fare, noi e l’organizzazione sindacale tutta.

Proponiamo dunque una chiara autocritica. Ripensiamo su molte cose.

Aver inseguito tutele ormai vane a scapito dell’aver aperto breccia su fronti di tutele ritenute secondarie, aver perso pote- re contrattuale e politico, avere facilitato la diffusione di culture individualistiche che della precarietà sono brodo di cultura, aver assecondato un certo senso comune che faceva l’apologia del lavoro moderno e dell’uomo flessibile, aver dimenticato di essere “società civile”, aver perso la capacità di fare opera di

“formazione & informazione”, aver partecipato alla scrittura

di quel complesso e intricato sistema di tutele poco fruibili, aver abbandonato percorsi di lotte e di confronto schietto con le controparti in nome di un riconoscimento istituzionale che spesso ha portato meno frutti di quello che si pensava. Non è una critica ideologica al sistema di concertazione quella che proponiamo, ma una pragmatica presa d’atto collettiva: faccia- mo il bilancio dei risultati ottenuti, dei sacrifici fatti, delle po- sizioni abbandonate e confrontiamoci con la realtà e con i nuovi problemi che fin qui abbiamo ritenuto secondari e ri- pensiamo la nostra azione, pronti a percorrere tutte le strade possibili e a riflettere su tutte le opzioni possibili, con un approccio eccezionalmente pragmatico, che sappia però anda- re al di la di consolidati schemi e con uno sforzo di fantasia e creatività utili a percorrere nuovi modi di essere e fare sindaca- to, e inventare nuove soluzioni alle esigenze di nuove tutele che dal mondo del precariato giovanile provengono.

Dunque… che fare?

Il percorso da noi immaginato parte da una battaglia, pri- ma di tutto, culturale, un chiara contrapposizione ad un siste- ma di valori estranei alla storia del movimento sindacale per ridare slancio e significato a parole come “uguaglianza” “soli- darietà” e “giustizia sociale”. Questa battaglia, così come tutte le nostre proposte politiche che andremo a delineare, si nutro- no di uno sforzo di fantasia e rinnovamento che speriamo diventi patrimonio comune. E’ per questo che vogliamo lan- ciare alcune idee che speriamo divengano oggetto di dibattito nella nostra e nelle altre organizzazioni sindacali.

Perché non avere il coraggio di mettere in discussione l’im- palcatura del sistema delle norme in materia di diritto del lavoro, andando oltre la riforma Biagi, superandone l’intero impianto e pure la cornice. Un passo sarebbe quello di ridurre drasticamente il numero di tipologie legali di rapporti di lavo- ro così che si ridia spazio alla contrattazione per rimodulare queste scarne tipologie secondo le esigenze specifiche dei vari settori.

Un secondo passo sarebbe lanciare piani di riforma dello stato sociale per non essere costretti a inseguire, per limitare, i progetti disegnati da altri e impostati secondo logiche favore- voli a interessi finanziari, più che produttivi, comunque pre- valentemente datoriali. Tali proposte per ri- formare il Welfare non possono prescindere dal garantire forme di sostegno al reddito che non siano elemosine per i periodi di di- soccupazione, in altre parole la garanzia di una sicurezza sociale al di là del lavoro, red- dito universale di cittadinanza per sfuggire al baratro della povertà e della mancanza di possibilità di pensare al futuro. In un altra direzione, per fornire risorse a tale sistema di sicurezza e disincentivare il ricorso mas- siccio strutturale a forme precarie di lavoro, agire sulla leva contributiva e sul costo del lavoro favorendo i contratti a tempo inde- terminato.

Ma per sostenere le nostre proposte e la nostra attività di rappresentanza contrattua- le dobbiamo ripensare anche alle forme di

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