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L’invecchiamento tra normalità e patologia; la valutazione funzionale multidimensionale

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Academic year: 2022

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L’invecchiamento tra normalità e patologia;

la valutazione funzionale multidimensionale

Prof. Fabrizio Fabbris*

In età avanzata si assiste ad un incremento delle più diverse forme morbose che spesso interagiscono e si complicano tra di loro, determinando quella condizione che viene definita di

“polipatologia”. Questa rappresenta il cardine della medicina legale geriatrica per la quale, la concezione della sintomatologia da ricondurre nel limite del possibile ad una eziopatogenesi unitaria, deve lasciare il posto ad una concezione di coesistenza di momenti eziopatogenetici generalmente plurimi che trovano nella “ridotta riserva senile” il terreno favorente all’applicazione clinica.

Se è vero che il numero di alterazioni qualificate come malattie segnalato ad esempio su una casistica autopica di 100 pazienti dagli 80 agli 84 anni era pari ad 842 quasi 10 malattie per paziente è anche vero che in età avanzata è spesso dato di vivere in condizioni di benessere completo o accettabile. Questo significa che in presenza di alterazioni plurime quell’unum che è l’organismo umano, nel suo complesso organo-psiche, è spesso in grado di fornire aggiustamenti, compresi, che limitano i danni derivabili dalle modificazioni anatomofunzionale, e reintegrano un nuovo equilibrio ad un livello, di regola meno elevato, ma adeguato per l’età.

Una concezione di tal genere porta a considerare l’individuo piuttosto che la popolazione nel suo complesso, a valutare cioè i diversi parametri clinici più nell’ambito del singolo soggetto che non rispetto a riferimenti di ordine generale della popolazione. In età senile è cioè più facile pensare che una determinata alterazione abbia un peso specifico diverso in differenti individui, proprio in quanto all’interno dell’organismo, ma anche più ampiamente nell’ambiente esterno, può aver trovato o meno i “compensi”. Una prima acquisizione è quindi quella di un’analisi clinica che non privilegi le regole di ordine generale rispetto alle singole realtà individuali. Ciò non toglie che una certa regolamentazione della normalità nell’anziano e delle compatibilità con l’età dei diversi parametri, rappresenti un fine a cui tendere.

Per la maggior parte delle alterazioni connesse con l’invecchiamento si pone il problema se la condizione patologica sia l’esasperazione di una condizione fisiologica, o se sia diversa da essa. Se esiste cioè una discontinuità tra fisiologia e patologia in età senile, sia pure interrotta da scalini, o se invece fisiologica e patologia siano tra di loro discontinue. Si può pensare in accordo con Sir Martin Roth a proposito di invecchiamento celebrale e demenza, ad un fenomeno soglia, al di là del quale si colloca la patologia e al di qua del quale sta la “fisiologia”, sia pure particolare, del vecchio.

I fenomeni regressivi senili colpiscono gli individui in misura assai diversa, tanto che è possibile riscontrare a pari età situazioni corrispondenti quasi completamente a quelle del giovane, come all’opposto gravissimi fenomeni involutivi. Seguendo tale impostazione si riescono ad individuare con relativa facilità le condizioni limite, di normalità assoluta e di franca patologia.

In linea generale un avanzamento nella definizione della normalità potrebbe essere rappresentato per la maggior parte dei parametri, o per tutti da valori di riferimento desunti da popolazione anziana “normale”, anziché la popolazione giovane adulta, intendendo come normali “i valori più comunemente rappresentati in una popolazione di età equivalente, presumibilmente sana”

(normalità statica): in altre parole la normalità del vecchio rispetto a quella del giovane presenterebbe una variazione di grado più che di genere; in ogni caso la consuetudine con il paziente geratrico suggerisce di sfumare i confini tra fisiologia e patologia.

Una difficoltà notevole, crescente con il crescere degli anni, si ha nel reperire soggetti con tali caratteristiche di “sanità”. Ciò non toglie che, con ogni verosomiglianza, tale metodologia potrebbe

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ridurre l’errore di interpretazione dei dati, con particolare riguardo al fenomeno della sovrastima in senso patologico della diagnosi e conseguentemente dell’eccesso di interventismo terapeutico.

Il problema del normale e del patologico sia medico in senso stretto, che psicologico o sociale è antico e dibattuto. Il problema è affrontabile, ed in qualche misura risolvibile, purché si tenga conto dei limiti intrinseci e delle caratteristiche proprie della ricerca scientifica che sono quelli dati dall’essere un “avvicinarsi” agli oggetti del reale mediante strumenti di misurazione, che hanno la caratteristica di essere: limitati, perché non possono cogliere se non uno o pochi aspetti per volta;

modificabili, perché legati a strumenti fisici prodotti dall’uomo; dipendenti da ipotesi di lavoro, a loro volta parziali, settoriali e necessariamente mutevoli.

Sulla base di queste considerazioni non si può continuare a ragionare come se al di là della normalità vi sia un’indistinta e sostanzialmente uniforme patologia; e come se al di qua vi sia un’unica e sostanzialmente uniforme “salute”. Possiamo solo dire che “oggi, in queste date condizioni, con questo dato strumento, abbiamo riscontrato dei dati che tendono a raggrupparsi attorno a certi valori, che l’esperienza ha sin qui dimostrato essere associati ad una assenza di patologia significative”. Questo genere di riflessioni è particolarmente utile in geriatria, ove stereotipi tuttora prevalenti inducono ad attribuire una patente di globale “anomalità” all’anziano.

Tutto ciò finisce per confondere le idee, e rendere una terapia razionale praticamente impossibile, perché a seconda del punto di vista si considereranno “normali” dei valori francamente patologici solo perché “tanto è anziano”; oppure si tenteranno impossibili normalizzazioni di funzioni che stanno seguendo un loro fisiologico ritmo evolutivo (o almeno che è tale al momento attuale, “stanti le storie naturali medie” della specie, o di quel gruppo sociale). Il valore quindi di queste misurazioni sarà certamente limitato. Esse serviranno come criteri orientativi, validi sino a quando un nuovo esperimento, o un mutare di situazioni non ne dimostreranno la limitatezza, o la decisiva fallacia.

In ogni caso la normalità va ricercata definita, sperimentata e seguita nel suo mutare impiegata;

nel suo mutare; poi discussa e raffrontata. Non può essere mai, decisione apodittica, norma

“ideale”: perché in tal caso essa non è più né “idea” né principio scientifico, ma solo opinione.

La capacità di riserva di molti sistemi è assai superiore rispetto a quella normalmente impiegata;

calo di elementi cellulari dei vari organi non si traduce pertanto in un parallelo calo di funzione.

Dalla maturità fino ai 65-70 anni circa (rispettivamente per i maschi e per le femmine) il calo è di regola, lentissimo: al di là di questa età la discesa può avvenire in modo rapido.

L’invecchiamento è quindi caratterizzato da una maggior fragilità funzionale e da un crescente rischio di perdita dell’autosufficienza. Con il termine di non autosufficienza si intende l’incapacità a mantenere una vita indipendente e/o a svolgere le comuni attività della vita quotidiana; essa è quindi un’entità funzionale che può essere quantificata mediante idonee scale di valutazione.

La comparsa di non autosufficienza dipende da una serie di fattori interferenti, con modalità assai diverse da caso a caso, con la salute fisica e mentale, con la condizione socio – economica ed ambientale.

Nella metodologia clinica tradizionale la diagnosi è intesa come attribuzione di determinati sintomi e segni ad una specifica patologia. L’approccio diagnostico così inteso perde di efficacia nell’anziano per modificazioni, rispetto al giovane adulto, nelle modalità di presentazione della malattia, per l’esistenza di tali tassi di comorbilità, per fisiologici cambiamenti età-dipendenti dell’organismo e per la comparsa di rilevanti alterazioni funzionali sulle quali possono interferire anche fattori psico-sociali.

L’impostazione che prevede la valutazione delle problematiche mediche, psico-sociali e dello stato funzionale e ne prende in considerazione le reciproche interazioni, al fine anche di identificare i soggetti anziani “fragili”, è la valutazione multidimensionale (“comprehensive geriatric assessment” di Rubenstein): un processo diagnostico funzionale atto a pianificare il trattamento e il follow-up a lungo termine del paziente anziano.

Per un corretto esame funzionale è necessaria l’impiego di scale valutazione standard, tese ad esplorare soprattutto la capacità di svolgere le comuni attività della vita quotidiana, la funzione

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cognitiva, la memoria e a riconoscere l’eventuale presenza di uno stato depressivo. Gli obiettivi della valutazione sono l’identificazione dei problemi sanitari e sociali dell’anziano e la conoscenza del loro ruolo nel determinare l’eventuale compromissione dell’autosufficienza.

Da questa fase conoscitiva parte lo sviluppo di un piano di intervento terapeutico globale che preveda l’approccio non solo farmacologico ma anche riabilitativo, psicologico ma anche riabilitativo, psicologico e sociale ai problemi emersi.

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