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RIFLESSIONI SULLA RESPONSABILITÀ CIVILE DELL’AVVOCATO

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RIFLESSIONI SULLA RESPONSABILITÀ CIVILE DELL’AVVOCATO

Dr. Piero Gaeta∗∗

ABSTRACT

L’intervento del Dr. Piero Gaeta, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, offre un ampio, ben argomentato, esaustivo quadro in merito all’evoluzione giuridica del tema

“responsabilità dell’avvocato” sino a concentrarsi sull’attuale interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale degli elementi che definiscono i profili della responsabilità del professionista.

Sono preliminarmente evidenziati gli aspetti caratterizzanti i tentativi di superamento della dicotomia: <obbligazione di mezzi/obbligazione di risultato> laddove storicamente la prestazione professionale del legale è stata inquadrata nella prima categoria. Ma, come osserva giustamente l’Autore, “Tutti i discorsi relativi alla ‘collocazione’ teorica dell’obbligazione dell’avvocato, si riflettono sul profilo della diligenza”. Che tipo di diligenza è richiesta al legale? L’impostazione che limitava la responsabilità dell’avvocato ai soli casi di colpa grave o dolo viene superata verso la fine degli anni ’50. Precisamente, attraverso una decisione della Corte di Cassazione del 1957 [Cass. 3.10.1957, n. 3589]. In detta pronuncia, si è affermato che «l'articolo 2236 cod. civ., che limita la responsabilità civile del professionista ai casi di dolo o colpa grave, è applicabile qualora si siano dovuti risolvere problemi temici di speciale difficoltà; in ogni altra ipotesi si applica l'articolo 1176 cod. civ., sulla diligenza del buon padre di famiglia, da valutarsi con riguardo all'attività esercitata dal professionista». Pertanto, l’affermazione secondo cui la responsabilità dell’avvocato può fondarsi su ipotesi di colpa lieve può ormai ritenersi principio condiviso. Non resta quindi per l’Autore che analizzare i casi in cui la prestazione professionale presenta il carattere di “speciale difficoltà”, laddove la responsabilità segue i profili del dolo e della colpa c.d. lata.

In ultima analisi non può mancare l’excursus giuridico in tema di “nesso di causalità”:

dall’individuazione a carico del Cliente del danno certo [si vedano i criteri di “certezza morale” o di “ragionevole certezza”] che possa dirsi “conseguenza immediata e diretta” [ex art. 1223 cod.

civ.] del comportamento doloso o colposo del professionista alla dimostrazione del “probabile esito” favorevole che la causa avrebbe potuto avere ove il legale si fosse comportato diligentemente [“criterio probabilistico”]. Attualmente, osserva concludendo l’Autore, “il risarcimento avrebbe ad oggetto non già il lucro cessante, quanto il danno emergente rappresentato dalla perdita della chance, cioè di un’utilità suscettibile di valutazione economica”.

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Avvertenza: Il presente testo è da ritenersi esclusivamente una bozza provvisoria, che sviluppa appunti dell’Autore, con esclusiva finalità di agevolazione didattica. Esso non ha alcuna pretesa di completezza, né di

sistematicità o precisione, anche per ciò che attiene ai richiami di note e bibliografia.

∗∗ Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; Assistente di Studio presso la Corte Costituzionale, Roma

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Sommario: 1. La natura dell’obbligazione: la prestazione dell’avvocato tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato. – 2. I tentativi di superare la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato in relazione alla prestazione dell’avvocato. – 3. Il ruolo dell’obbligo di diligenza richiesta dalla natura della prestazione e la nozione di colpa professionale.– 4.

Segue: La diligenza in relazione alla specializzazione dell’avvocato. – 5. Ipotesi di responsabilità scaturenti da colpa lieve: a) evoluzione storica; b) principi attuali della giurisprudenza e casistica. – 6. In particolare: la colpa da violazione del dovere di informazione al cliente. – 7. In particolare: la colpa per dolosa o colposa induzione alla lite.

– 8. La limitazione di responsabilità per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 CC. – 9.Il nesso di causalità: a) la distribuzione dell’onere di prova. – 10. Segue: b) l’impossibile accertamento del danno: la giurisprudenza più remota. – 11. Segue: c) la successiva evoluzione: quadro generale. – 12. Segue. d) In particolare: il criterio della c.d. “certezza morale”. – 13. Segue: Il criterio della ragionevole certezza. – 14. Segue: il criterio probabilistico.

1. LA NATURA DELL’OBBLIGAZIONE: LA PRESTAZIONE DELL’AVVOCATO TRA OBBLIGAZIONE DI MEZZI ED OBBLIGAZIONE DI RISULTATO.

Per potere comprendere appieno i profili della colpa e responsabilità dell’avvocato, risulta indispensabile introdurre, sia pure per cenni, una riflessione sull’attuale validità teorica della distinzione tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultati. E’ fin troppo noto come tale dicotomia sia oggi, più di ieri, sottoposta a severa critica teorica e circondata da notevole scetticismo anche nelle sue applicazioni pratiche. Si afferma infatti (1) che essa è «adoperata dalla giurisprudenza come escogitazione provvisoria…al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini

1) V. CARBONE, Obbligazioni di mezzi e di risultato tra progetti e tatuaggi, in Corr.giur.,1997, 5, p. 546 ss.

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del giudizio di responsabilità» (2). Nota ancora lo stesso Autore come «non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, si opera una sorta ai metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato», attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso. Si tratta di obblighi che vengono definiti accessori rispetto all’obbligo primario della prestazione, ma anche “integrativi”

rispetto ad esso ed ancorati ad un principio di buona fede.

Di conseguenza, è su questi obblighi che si ‘scarica’ tale metamorfosi, posto che detti profili, sebbene accessori, assurgono in realtà ad autonome obbligazioni di risultato nell’ambito di una più generale obbligazione di mezzi: in pratica,

“convertendola”.

Va ricordato come la distinzione in esame, mentre in Francia rappresenta ancora una summa divisio valida per tutte le obbligazioni, in Italia opera soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare.

In quest'ambito certamente più ristretto − si nota ancora in dottrina – essa ha svolto un ruolo oscillante, sia sub specie dell'oggetto o del contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista. In sintesi – e sempre seguendo la ricostruzione teorica

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2) In dottrina sono note le intense critiche che, da sempre, accompagnano tale distinzione. Fra i molti, cfr. NICOLÒ, L'adempimento dell'obbligo altrui, Milano 1936, 62. ed ivi, nota 79; GIORGIANNI, L'inadempimento, Milano, 1975, 226; SCHLESINGER, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in Riv trim dir. proc. civ 1959, 1280; RESCIGNO, voce Obbligazione (nozioni), in Enc. dir, vol XXIX, Milano, 1979, 190 ss.; RODOTÀ, voce Diligenza, in Enc. dir.,vol. XII, Milano, 1964, 542. Critico anche, seppur in maniera più sfumata, anche BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni,in Commentario Sciaioja e Branca, II ed., Bologna-Roma, 1979, 31 ss.

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di Vincenzo Carbone − nelle obbligazioni di mezzi il comportamento del debitore è in obligatione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l'ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall'aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi (si pensi all'attività dello stesso creditore). Nelle obbligazioni di risultato, invece, la diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obligatione.

Si afferma che, nel contratto di prestazione d’opera, il professionista assume un’obbligazione di mezzi e non di risultato, in quanto, accettando l'incarico, si impegna non già a conseguire il risultato, ma a prestare a prestare la propria opera per raggiungerlo. Con la conseguenza che l'inadempimento del professionista non può essere desunto senz'altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale ed, in particolare, al dovere di diligenza (3).

Nei contratti d'opera intellettuale, infatti, l'oggetto non è il risultato cui il creditore mira in concreto, ma, come detto, oggetto dell'obbligazione è la stessa attività professionale in quanto tesa a raggiungere quel risultato.

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3) In tal senso, con grande chiarezza, BARCA, La responsabilità contrattuale dell’avvocato nell’espletamento dell’incarico ricevuto, in NGCC, 2001, p. 483 ss.

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Scrive con incisiva chiarezza Alessandro Barca: «L'obbligazione che un libero professionista assume verso il cliente, per effetto dell'accettazione dell'incarico conferitogli (conclusione del contratto d'opera professionale), ha per contenuto (prestazione) lo svolgimento dell'attività professionale necessaria o utile in relazione al caso concreto ed in vista del risultato che, attraverso il mezzo tecnico professionale, il cliente spera di conseguire. E’ dunque dovere del libero professionista quello di svolgere l'attività professionale necessaria ed utile in relazione al caso concreto assicurando».

Ma, come si accennava, dietro l’apparente certezza e stabilità di tale distinzione, è agevole intravedere più di una crepa.

Sullo sfondo di essa, infatti − e quasi ad ammonizione dell’’intera riflessione dottrinale − è la voce di chi afferma che «un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni»

(4). D’altra parte – sottolinea il medesimo autore – non è accettabile neppure l’idea di obbligazioni in cui si tenga conto solo del risultato e non dello «sforzo necessario per conseguirlo». E lo stesso Luigi Mengoni, oltre mezzo secolo fa ammoniva, a sua volta, che, in realtà, «in qualunque obbligazione il bene dovuto è qualche cosa oltre l'atto del debitore».

Come acutamente osservato (Carbone), in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato: ciò che varia è la proporzione tra questi elementi. In astratto, infatti, nessuna obbligazione è indifferente al

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4) E’ la nota affermazione di M. BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni¸ cit., p. 33.

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risultato, il quale assume sempre un rilievo pratico. Allo stesso modo, non è mai (o quasi mai) indifferente il comportamento, l’impegno che il debitore deve assumere per ottenere tale risultato.

Senonché − notava sempre Mengoni − «nelle obbligazioni c.d. di mezzi (o di diligenza), l'oggetto del diritto di credito non è senz'altro una certa modificazione o la conservazione della situazione-presupposto del rapporto, e quindi l'effettivo soddisfacimento dell'interesse primario del creditore, ma soltanto la produzione di una serie più o meno ampia di mutamenti intermedi ai quali è condizionata la possibilità di tale soddisfacimento.Ciò che si attende dal debitore, affinché l'obbligazione possa dirsi adempiuta, è un comportamento idoneo a dare principio ad un processo di mutamento (o di conservazione), l'esito del quale dipende tuttavia da condizioni ulteriori, estranee alla sfera del vincolo» (5).

Lo scopo economico dell’obbligazione non coincide con il risultato: esso, per contro, si identifica nello stesso comportamento in capo al professionista, ritenuto obbligatorio - e così qualificato− in relazione ad un certo grado di convenienza rispetto a quello scopo.

Nondimeno, la vena di scetticismo che pervade la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultati è carsica, riemergendo continuamente sia in dottrina che in giurisprudenza. Così, alle perplessità di Mengoni si aggiungono quelle, più recenti, di

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5) L MENGONI, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Riv. dir.comm., 1954, p. 189 ss.,

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chi (Giorgianni) esprime un «deciso scetticismo sulla validità di una netta distinzione tra obbligazioni di "mezzi" (o di "comportamento") e obbligazioni di "risultato", ritenendo che sia il comportamento, sia il risultato, siano sempre due elementi indispensabili del rapporto obbligatorio. Il professionista non deve conseguire un risultato utile inteso come vittoria di uno o più gradi di giudizio, quanto un risultato utile nel senso di mettere a disposizione del cliente tutti i mezzi necessari per conseguire quel risultato, a prescindere dall'esito concreto del giudizio».

La giurisprudenza, dal canto suo, afferma in modo tralaticio che l'obbligazione assunta dai difensore nei confronti del cliente non è una obbligazione di risultato, ma una obbligazione di mezzi o di comportamento, avente ad oggetto soltanto la prestazione dell'attività professionale. Da ciò consegue che l'inadempimento del legale, come quello di qualsiasi professionista in genere che abbia assunto l'incarico di curare determinati interessi del cliente, è costituito da violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale e non dal mancato raggiungimento dei risultato;

consiste, cioè, nell'inosservanza della diligenza imposta dall'art. 1176, coma 2", cod.

civ., a meno che non si tratti di prestazioni di particolare difficoltà. La responsabilità del professionista discende dunque dalla inosservanza della diligenza dovuta e delle regole tecniche, col limite fissato dall'art. 2236 cod. civ., allorquando si tratta di risolvere problemi tecnici di particolare difficoltà (6).

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6) Tra le moltissime pronunce, cfr. Cass., 28.4.1961, n. 961, in Giust. civ., 1961, I , 935; Trib. Napoli, 31.2.1964, in Rep. Giust.., 1965, voce «Avvocato e procuratore», n. 54; Cass., 29.9.1965, n. 2065, in

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Ma non si tratta di una mera disputa teorica, giocata nell’empireo universo dei concetti giuridici.

Infatti – come nota, ancora una volta assai acutamente, Vincenzo Carbone – «la dicotomia in esame appare altresì rilevante sotto il profilo dell'onere della prova. A tal fine si afferma che nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombe l'onere della prova che il mancato risultato dipenda dalla scarsa diligenza, mentre nelle obbligazioni di risultato sul debitore incombe l'onere della prova che il mancato risultato sia dipeso da causa a lui non imputabile».

Dunque: nel caso di obbligazione di mezzi, data l’aleatorietà del risultato, l’onere di dimostrare la colpa del debitore – cioè l’assenza di diligenza – incombe sul creditore.

In quelle di risultato, invece, al creditore è sufficiente dimostrare che l’assenza di esso, gravando sul debitore invece l’onere di dimostrare che la mancanza del risultato sia dipesa da una causa a lui non imputabile.

Non si tratta, all’evidenza, di un profilo secondario e trascurabile.

Ed infatti le controversie dottrinali hanno riguardato, essenzialmente, la diversa estensione del contenuto dell'obbligo di diligenza in relazione all'appartenenza del

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8 Giust. civ., 1965, I , 2182; Cass. 22.3.1968, n. 905, in Foro it., 1968, I , 2204; Cass., 3.8.1968, n. 2791, in Giur. it., 1969, I ,1, 1938, con nota di LEGA, In tema di responsabilità civile del difensore; Cass., 9.11.1968, n. 3848, in Foro it., 1969, I , 903; Cass.,

13.12.1969, n. 3958, in Giust. civ., 1970, I , 404; ed in Temi,1970, 680, con nota di LEGA, Responsabilità civile dell'avvocato per omissione di attività professionale dovuta; Pret. Bologna, 12.5.1970, in Giur. it., 1972, I , 2,51, con nota di LEGA, Obblighi contrattuali e doveri deontologici dell'avvocato; Cass., 3.5.1971, n. 2052, in Giur. merito, 1983,620.

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vincolo all'una o all’altra specie, oltre che, come accennato, la “distribuzione”

dell’onere probatorio.

Quanto al primo profilo, per il professionista forense si è parlato di «prestazioni di contegno» (7) da valutare alla stregua della diligenza, a prescindere da un “effetto utile”.

In questa prospettiva, la diligenza costituisce un “modo di essere nell’esecuzione della prestazione” (Cottino), un “presupposto dell’esatto adempimento”: ciò che equivale a dire (De Majo) che «nelle obbligazioni di mezzi diligenza ed adempimento sono un tutt’uno», in quanto (Spinelli Francalanci) lo sforzo debitorio dovuto non può oltrepassare il limite della diligenza.

Nelle obbligazioni di mezzi, la diligenza è, insomma, «non soltanto il criterio per determinare l’esattezza della prestazione professionale, ma lo stesso oggetto della obbligazione» (Spinelli Francalanci): l’inadempimento non è riconducibile alla mancanza del risultato (in sé neutro),ma occorre compiere una valutazione dell’attività svolta.

In realtà, nessuna obbligazione è indifferente al risultato, il quale assume sempre un rilievo pratico. Allo stesso modo, non è mai (o quasi mai) indifferente il comportamento, l’impegno che il debitore deve assumere per ottenere tale risultato. Ciò non è soltanto il portato attuale della riflessione dottrinale, ma anche della giurisprudenza, la quale, pur continuando ad utilizzare frequentemente la distinzione,

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7) E’ la definizione di BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1954.

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non esita a “convertire” spesso, in maniera camaleontica, l'obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. Ciò avviene allorquando la giurisprudenza afferma, quale regola, il principio generale secondo cui le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono generalmente obbligazioni di mezzi, aggiungendovi tuttavia subito accanto l’eccezione: vale a dire che esse possono assumere anche le caratteristiche delle obbligazioni di risultato in cui il professionista si impegna a conseguire un determinato opus.

In breve, la tradizione definizione – secondo cui “l’espletamento del mandato difensivo rappresenta una tipica obbligazione di mezzi, il cui contenuto è lo svolgimento di una complessa attività tendente ad ottenere l’esito positivo della lite” (8)- risulta ampiamente insufficiente specie se collocata in una dicotomia secca tra mezzi e risultato.

Sintomo di questa insufficienza è lo stesso contrasto di opinioni che si rileva in dottrina.

Su di un primo versante, si collocano autori che difendono non soltanto la validità euristica della distinzione, ma, soprattutto, la collocazione della prestazione professionale dell’avvocato nell’ambito di un’obbligazione di mezzi.

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8) Definizione mutuata da Cass. 14 agosto 1998, n. 7618 in Foro it., 1997, I, 3570, e ripresa da D.

CALDERONE –G. CRESTA, Insussistenza della responsabilità dell’avvocato per l’estinzione di una procedura esecutiva infruttuosa, nota a Cass. sez. III, 14 settembre 2000, n. 12158, in Danno resp., 5, 2001, p.

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Scrive, in proposito, un illustre Autore (9): «il legale accettando il mandato dal cliente, ha il dovere, contrattuale e deontologico, di tutelarne nel miglior modo gli interessi attraverso una loro globale valutazione da farsi anche alla stregua di criteri che si basano sull'opportunità e sulla convenienza. All'uopo l'avvocato mette a disposizione del cliente la sua cultura tecnica, la sua esperienza civica e professionale con quella diligenza che è richiesta dalla natura della prestazione (art. 1176, comma 2, cod.civ.) impegnandosi non ad un risultato, ma ad un facere qualificato. Contrae quindi (almeno nella grande maggioranza dei casi) un'obbligazione di mezzi e non di risultato. La sua responsabilità, dunque, va acclarata con riguardo al modo con cui ha operato nell'interesse del cliente, non con riguardo al risultato ottenuto rispetto a quello voluto o sperato dal cliente. Il modo di essere del comportamento professionale è complesso perché in parte si basa su regole tecniche, in parte su regole deontologiche».

2. I TENTATIVI DI SUPERARE LA DISTINZIONE TRA OBBLIGAZIONE DI MEZZI E DI RISULTATO IN RELAZIONE ALLA PRESTAZIONE DELL’AVVOCATO

Nell’opposto versante, troviamo quanti (Calderone-Cresta) rilevano che, se è vero, per un verso, (come evidenziato dalla stessa giurisprudenza, sulla scorta delle affermazioni dottrinali) che il buon esito del giudizio è pur sempre “il substrato

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9) LEGA, Obblighi contrattuali e doveri deontologici dell'avvocato, in Giur. It., 1972, II, p. 52.

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imprescindibile” dell’attività difensiva (10), risulta altrettanto vero che è ben difficile, a differenza di altre ipotesi di professioni liberali, “circoscrivere al criterio oggettivo della mera tecnica con cui viene eseguita la prestazione” la valutazione della diligenza. A ciò si oppone – vale a dire: alla collocazione assoluta all’interno della categoria delle obbligazioni di mezzi – una serie di fattori: «la fiduciarietà del rapporto; la personalità della prestazione; la discrezionalità con cui il professionista ha facoltà di procedere alla scelta ed alla applicazione dei mezzi tecnici ritenuti necessari o utili per il conseguimento del fine voluto dal cliente».

“L’avvocato –come amava ribadire Mengoni (11) – non è inadempiente per il solo fatto di aver perduto la causa”: e sotto tale profilo è indubitabile e vera l’affermazione secondo cui oggetto dell’obbligazione è un comportamento inteso a svolgere l’attività richiesta, non a vincere la causa, ragion per cui né il cliente può pretendere, né l’avvocato può garantire il buon esito del giudizio.

Come argutamente notato (12), sono le peculiari caratteristiche della professione forense che non consentono di equiparare il giudizio sulla conduzione della lite e quello sul comportamento tenuto nello svolgimento di altre professioni liberali. Per la professione forense, in breve, la qualificazione dell’obbligazione come obbligazione di mezzi scaturirebbe proprio «dal disagio nato dalla necessità di conciliare con lo schema

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10) Cass. 8 agosto 1995, n. 4394, in Giur.it., 1987, I, 1, 1136.

11)Affermazione che si ritrova in MENGONI , Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in Riv.

dir. comm., 1954, 185 ss. La citazione è a pag. 189.

12) MAGNI,Responsabilità dell’avvocato per negligente perdita della lite tra ‘certezza’ e ‘probabilità’ di un diverso esito del giudizio, in Danno e resp., 1998, p. 345 ss.

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generale delle obbligazioni l’intuitiva convinzione» che proprio l’avvocato non può assumere alcuna garanzia in ordine alla vittoria della causa (13). Ora, nella professione medica che, nel caso di specie può fungere da tertium comparationis, l’operato del professionista, come è stato osservato (14), è in qualche modo dominato «dal concetto di scoperta scientifica nel senso galileiano», nel senso che il comportamento del medico può essere pur sempre parametrato a regole tecniche precise. Il medico è certamente tenuto a prestare le cure necessarie per la guarigione del paziente e non a guarirlo, perché la guarigione dipende da fattori ulteriori ed ultronei. Tuttavia – come si legge di frequente nelle decisioni della giurisprudenza di legittimità (15) – il medico è tenuto a rispettare tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, vale a dire agganciando il proprio operato ad una oggettività che sottrae sempre di più l’intervento medico alla casualità ed è, al contrario, dominato da un rigido e certo principio di causalità.

Si vuol dire che, benché l’obbligazione del medico risulta inserita nella medesima tipologia di obbligazione di mezzi, è di immediata percezione la circostanza che, benché non obbligato ad ‘assicurare’ la guarigione,il comportamento del medico conosce una parametrazione sempre più oggettiva, legata cioè alla corretta esecuzione di protocolli di intervento, in relazione alle diverse evenienze patologiche. Tali protocolli, tipizzando

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13) CLARIZIA-RICCI, La responsabilità dell’avvocato, in La responsabilità civile, diretta da Alpa e Bessone in Giur.sist.civ.comm.,Torino, 1987, p. 287 ss.

14) MAGNI, op. cit., p. 346.

15) V. ad es. Cass. 3 marzo 1995, n. 2466, in Giur. it., 1996, I, 1, 91.

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in qualche modo la condotta, consentono di apprezzarne immediatamente la sua portata e, con essa, soprattutto la diligenza che ne costituisce ispirazione. Da qui nasce, ad esempio, il progressivo slittamento, nell’ambito della responsabilità medica, verso forme sempre più ampie di obbligazione di risultato: ad esempio, in relazioni ai c.d.

interventi routinari.

In pratica, nell’ambito della responsabilità medica è stato il criterio della “facile esecuzione” a scardinare le tradizionali impostazioni.

La Suprema Corte infatti (16) continua formalmente ad affermare che il medico non è tenuto a garantire il risultato cui mira il cliente, vale a dire la guarigione e che deve limitarsi a svolgere la propria attività con la dovuta diligenza; ma, al tempo stesso, afferma che – provata da parte del cliente la facilità dell’esecuzione dell’intervento (tale da non richiedere particolare abilità e risultando sufficiente un’ordinaria preparazione professionale) – deve presumersi, in caso di risultato peggiorativo, la non diligente esecuzione della prestazione professionale.

Ora se è vero che la stessa giurisprudenza di legittimità ha esplicitamente e formalmente escluso (17) che, nel caso di intervento medico di facile esecuzione, «non si verifica un passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato che sarebbe difficile da giustificare» (preferendosi l’applicazione del principio, di matrice anglosassone, res ipsa loquitur, inteso come «quell’evidenza circostanziale che crea una

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16) V. per tutte Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it., 1979, I, p. 4.

17) Cfr. Cass. 22 gennaio 1999, n. 598 in Giur. it., 2000, p. 740.

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deduzione di negligenza», di fronte alla quale il medico deve provare che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza proprio), è pur vero che, nell’ambito della prestazione medica – come ha notato Massimo Bianca – la giurisprudenza ha in realtà introdotto un vero e proprio principio presuntivo, che, in pratica supera la dicotomia tra mezzi e risultato.

Infatti, tale criterio prospetta il risultato, pur non dovuto, quale normale risultato di una diligente prestazione di fare, con la conseguenza che, laddove il risultato stesso sia anormale, cioè eccezionalmente difettoso, può ragionevolmente desumersi che l’attività dovuta non è stata svolta diligentemente.

Ora, il problema è: tale criterio, elaborato inizialmente per l’attività medica routinaria, è suscettibile di essere esportato a tutte le obbligazioni di mezzi?

Secondo l’illustre A. a tale domanda può essere data risposta affermativa.

Torneremo sul punto riflettendo su colpa e diligenza nell’ambito della responsabilità dell’avvocato: ma fin d’ora, può avanzarsi il dubbio che non si tratti di un modello completamente esportabile alla responsabilità dell’ avvocato.

Nell’ambito di quest’ultima attività professionale, infatti, magari esistono anche tipologie di interventi di assistenza legale routinaria, ma non esistono regole sicure e predeterminate – al di là del rispetto delle regole procedurali e deontologiche – cui la prospettazione della tesi difensiva può ricondursi secondo criteri di oggettività.

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Come dire che il comportamento dell’avvocato di ispira, necessariamente, a strategie e scelte necessariamente discrezionali, che esulano da protocolli stabili.

E nondimeno, la collocazione dell’obbligazione dell’avvocato, puramente e semplicemente, nell’ambito delle obbligazioni di mezzo, lascia ampiamente insoddisfatti.

A seguirla fino in fondo, se oggetto dell’obbligazione fosse il mero comportamento, il difensore dovrebbe essere considerato inadempiente in caso di mancata o di inesatta prestazione o di comportamento negligente sia pure in presenza di un esito favorevole della lite, e comunque, a prescindere da questo.

E’ per questo che la riflessione della dottrina, prima, e della giurisprudenza, poi, è subentrata progressivamente l’idea di un superamento della dicotomia.

Secondo tale diversa prospettiva, ogni obbligazione è di comportamento (o di mezzi) e di risultato insieme, poiché nessun comportamento può essere rilevante se non è seguito da un risultato, così come quest'ultimo non può essere conseguito se non costituisce espressione di un comportamento (mezzi scelti) idoneo a realizzarlo.

Evidenzia la più accorta dottrina (18) come, in questa prospettiva, il termine «risultato», con riguardo alle professioni intellettuali, configuri l'opera che il prestatore intellettuale è tenuto a compiere in vista del fine ultimo che il cliente vuole raggiungere: cioè un complesso di prestazioni, comportamenti ed atti conformi alle regole dell'arte ed alle norme di correttezza. Esso si esprime, inoltre, nel confronto tra quanto non si è raggiunto e ciò che,

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18) A. BALDASSARI – S. BALDASSARI, La responsabilità civile del professionista, II, Giuffré, Milano, 2006.

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con l'osservanza delle regole tecniche della professione, si sarebbe dovuto e potuto conseguire, solo che si fosse usata la diligenza richiesta.

In sostanza, il risultato non si identifica necessariamente con l'integrale soddisfazione dell'interesse del cliente, ma piuttosto nel compimento di tutte quelle scelte, di natura discrezionale, che si rendono necessarie affinché l'opera possa dirsi compiuta.

Se, in breve, il risultato non può considerarsi estraneo o assente dalle obbligazioni di mezzi, allora la stessa distinzione tra i ‘tipi’ di obbligazione cessa di avere valore assoluto: nel senso che l’attività da prestarsi con “diligenza” deve obiettivamente essere tesa al suo conseguimento, mediante la predisposizione di tutti i mezzi necessari per giungere ad un “risultato utile” (Schlesinger) per il cliente. Così, in tema di inadempimento rileverà sempre, anche per l’obbligazione assunta dal professionista, la disciplina dell’art. 1218 cod. civ., norma che esclude la responsabilità del debitore solo in presenza di una “causa a lui non imputabile” che abbia determinato l’impossibilità assoluta della prestazione. In breve, secondo tale lettura (19) – che riporta la prestazione dell’avvocato nell’ambito della tradizione della teoria delle obbligazioni – l’avvocato sarebbe inadempiente se non realizza il risultato atteso dal cliente, salvo che provi che l’inadempimento derivi da una causa a lui non imputabile:il cliente, in breve, si dovrebbe limitare a provare il mancato risultato, laddove «la dimostrazione della diligenza impiegata e della causa non imputabile» risulterebbe a carico del

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professionista, come per ogni altro debitore. Dunque: non sarebbe sufficiente, al professionista, dimostrare la “buona cura” dell’affare, la “buona conduzione della causa”, in assenza del risultato. Questa prospettiva teorica – che traghetta verso la sponda dell’obbligazione di risultato la prestazione dovuta dall’avvocato – reputa che la stessa aleatorietà del risultato o la mancanza di rigorosi parametri strettamente tecnici e scientifici non sarebbero fattori sufficienti a far considerare come obbligazione di mezzi l’obbligazione dell’avvocato. Essa, al contrario, dovrebbe quantomeno garantire se non il risultato «sperato dal cliente, quanto meno quello promesso dal professionista» (20).

Lettura – questa – che tuttavia, rimasta minoritaria in dottrina, sembra anche disattesa dalla giurisprudenza.

I tentativi più recenti di superare l’impasse tra obbligazioni di mezzo e di risultato sono almeno un paio.

Per un verso, va segnalata quell’alternativa (21) che mira a distinguere, all’interno delle singole attività, le mansioni e gli incarichi ove il margine aleatorio è minimo ed attività in cui discrezionalità delle scelte tecniche ed aleatorietà del fine da raggiungere hanno invece un’importanza preponderante. A tale distinzione corrisponderebbe, in ambito forense, quella tra assunzione di un incarico “specifico” conferito al legale ed un

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19) Si tratta della elaborazione di Marcella FORTINO, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1984, ma anche, con toni meno netti, di PERULLI, Il lavoro autonomo.Contratto d’opera e professioni intellettuali, Milano, 1996.

20) Così FAVALE, La responsabilità civile del professionista forense, Padova, 2002, p. 73 ss.

21)Dovuta essenzialmente a MUSOLINO, di cui si v.: La responsabilità civile del professionista e la distinzione tra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi con particolare riguardo all’ingegnere ed all’architetto, in Riv.trim.app., 1989, p. 735 e, soprattutto, La responsabilità dell’avvocato e del notaio, Milano, Giuffré, 2005, passim

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incarico invece “generico”: nel primo caso si sarebbe di fronte ad un’obbligazione di risultato, nel secondo caso di mezzi.

Per altro verso, la proposta dottrinale riguarda la configurazione del danno inteso come perdita della probabilità di conseguire un risultato utile rappresentato dal giudicato favorevole: il risarcimento avrebbe ad oggetto non già un lucro cessante, ma un vero danno emergente, consistente nella “perdita di chance”, cioè di una utilità – suscettibile di valutazione economica – già esistente nel patrimonio del danneggiato.

Poiché il tema forma oggetto di altra relazione, è a quest’ultima che si rimanda.

3. IL RUOLO DELL’OBBLIGO DI DILIGENZA RICHIESTA DALLA NATURA DELLA PRESTAZIONE E LA NOZIONE DI COLPA PROFESSIONALE.

Tutti i discorsi relativi alla ‘collocazione’ teorica dell’obbligazione dell’avvocato, si riflettono sul profilo della diligenza.

Proprio in ragione di quanto fino ad ora detto circa la natura dell’obbligazione, occorre accertare quale sia il grado di diligenza, la violazione del quale integra l’inadempimento da parte dell'avvocato.

In particolare, è necessario: a) stabilire quando sia sufficiente la violazione della diligenza media ex art. 1176, comma 2, cod. civ.; b) ovvero quando egli sia

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21) Su tale ultimo punto, giurisprudenza pacifica.

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responsabile per dolo o colpa grave ex art. 2236 cod. civ., tenendo conto che l' accertamento di tali elementi (apprezzamento di fatto) è riservato ai giudici di merito ed è incensurabile in Cassazione se sorretto da adeguata motivazione (22); c) stabilire quali siano i contenuti dell’una e dell’altra tipologia di diligenza.

Si tratta di una serie di problemi assai delicati.

Si può affermare, senza timore di smentita, che, sotto la vigenza del codice del 1865, l’atteggiamento delle giurisprudenza risultava assolutamente negativo: fonte di responsabilità era considerato soltanto quell’ errore che apparisse come conseguenza di evidente incuria o di palese insipienza. La giurisprudenza riaffermava, in pratica, che la valutazione della colpa professionale non potesse né dovesse prescindere dalle ragionevoli incertezze che umanamente ineriscono agli apprezzamenti del professionista.

Con l'entrata in vigore del codice del 1942 – come nota Barca – si è prospettata la necessità di rinvenire un nuovo punto di equilibrio idoneo a recepire le giuste istanze di tutela del consumatore, salvaguardando, al tempo stesso, le prerogative professionali – insopprimibili – dell’avvocato. Questo delicato punto di equilibrio – stretto tra un pericoloso, eccessivo favor nei confronti del professionista ed ingiuste rappresaglie da parte del cliente – è stato trovato rispettivamente negli artt. 1176, comma 2, cod. civ. e nell'art. 2236 cod. civ.

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In particolare, nella Relazione del Guardasigilli (Rel. del Guardasigilli, n. 917) si legge che «Il legislatore del 1942, nel regolare il profilo contrattuale del rapporto, ha accolto i risultati dell'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, prevalsi nell'applicazione dell'abrogato Codice. Di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista, con il timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente, in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista, si è ritenuto che il punto di equilibrio si trovi nell’applicazione delle normali regole di responsabilità, stabilendo, per i soli casi in cui ricorrono problemi tecnici di speciale difficoltà, l’esenzione del professionista per colpa lieve».

Riservandoci di tornare, tra un momento alla nozione della “speciale difficoltà” ed all’esegesi dell’art. 2236 c.c., va detto fin d’ora che il parametro ordinario di diligenza alla stregua del quale valutare i doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale risulta essere, in luogo di quello generale della diligenza del bonus pater familias previsto dal comma 1 dell’art, 1176 cc., il parametro della diligenza professionale fissato dal secondo comma dello stesso art. 1176 cc.

Si tratta della diligenza rapportata a quella del professionista di preparazione professionale media e di attenzione media nell’esercizio della propria attività. Sul punto, la giurisprudenza risulta assolutamente chiara. Così si esprime, ad esempio tra i molti possibili, Cass. 26 febbraio 2002, n. 2836:

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Le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzo e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Ne deriva che l'inadempimento del professionista (nella specie: avvocato) alla propria obbligazione non può essere desunto, "ipso facto", dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall'art.

1176, secondo comma, cod. civ. - parametro da commisurarsi alla natura dell'attività esercitata - sicché, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente (nella specie, del giudizio di appello), il danno derivante da eventuali sue omissioni (nella specie, tardiva proposizione dell'impugnazione) intanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri (necessariamente) probabilistici, si accerti che, senza quell' omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (nella specie, il gravame, se tempestivamente proposto, sarebbe stato giudicato fondato), secondo un'indagine istituzionalmente riservata al

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giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici.

Prescindendo, per il momento, dai profili del nesso causale tra comportamento del professionista e danno, va evidenziato come la giurisprudenza, soprattutto quella di merito, abbia introdotto il parametro della c.d. “diligenza tecnica” (Trib. Pavia, 7 novembre 1989) precisando che la valutazione della condotta del professionista nello svolgimento dell’incarico affidatogli dal cliente «deve arrestarsi alla soglia di quel parametro di diligenza tecnica (che deve connotare) l’impegno debitorio nell’eseguire una prestazione di comportamento, ossia dell’esattezza o meno della condotta contrattuale, sia pure alla stregua di specifiche regole tecniche ancorché non codificate». Tale valutazione deve avvenire «in un ambito per così dire non aprioristico, ma relativo ed elastico, vale a dire commisurabile alle peculiarità e varietà di ogni singola situazione concreta».

Dunque, pare di capire che la diligenza tecnica soffra dell’impossibilità di una enucleazione di caratteri generali e vada piuttosto commisurata al caso concreto.

In ogni caso «tenendo sempre presente che a dare la prova della negligenza professionale deve essere sempre il cliente, nel senso che cioè che, ove questi non dimostri l’inosservanza,da parte del professionista, di regole precise ed acquisite dalla disciplina ufficiale e che siano in relazione causale con l’evento dannoso lamentato, non

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può restare alcuno spazio ad ipotesi di responsabilità risarcitoria, particolarmente in un campo, come quello della professione legale, dove l’errore professionale sovente può verificarsi pur in assenza di violazione di regole d’arte e diviene pressoché impossibile prefigurare un astratto modello del comportamento debitorio».

La pronuncia appena sintetizzata manifesta la difficoltà di fondo di esprimere criteri generali ed astratti per la valutazione del grado di diligenza richiesto: la professione forense, scissa com’è da norme di riferimento e regole scientifiche cui attenersi, sembra svincolata dai tradizionali e canonici canoni che solitamente permettono di identificare il contorno della diligenza.

La discrezionalità dell’avvocato è, infatti, un portato ineliminabile della professione forense: essa, d’altra parte, rende estremamente «difficoltoso individuare l’inadempienza del suo operato alle regole di diligenza poste dalla legge» (Baldassari).

Nondimeno, la discrezionalità in nessun caso si può prospettare senza confini.

Questo significa – come notano alcuni Autori (23) – «che, indipendentemente dalle personali convinzioni del professionista (che potrebbe ad esempio essere seguace di impostazioni interpretative del tutto minoritarie) questi dovrà agire mantenendosi entro i limiti di regole giuridiche comunemente accettate. Si dovrà pertanto ritenere inadempiente sotto il profilo dell’imprudenza professionale l’avvocato che suggerisca al cliente l’avvio di un’azione basata su un’ardita, quanto improbabile interpretazione di

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23) Cfr. GARELLO, PISELLI e SCUTO, La responsabilità dell’avvocato, Ed. Ilsole24ore, Milano, 2003, p. 20

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una norma ovvero il legale che, potendo scegliere tra le diverse impostazioni, abbia scelto quella più lontana dalla comune esegesi della legge e, pertanto, meno suscettibile di accoglimento.

Sapientemente è stato notato (24) come risulti ben difficile enucleare la nozione di diligenza in astratto: «certamente, l’avvocato medio è quello che si aggiorna;

l’avvocato medio è quello che studia tutte le carte del processo. Ma evidentemente tutto ciò non è sufficiente». La medesima dottrina propone allora una sorta di percorso inverso, ricavando cioè la il concetto di diligenza media solo in correlazione a fatti negativi: «stabilire, cioè, che cosa rientra nel concetto di negligenza, per poi poter dire in che cosa consiste la diligenza media». Così, è negligente l’avvocato che non propone appello o opposizione tempestivamente; l’avvocato che non iscrive a ruolo tempestivamente i procedimenti; che non rileva una prescrizione: e così via.

Per altro verso ed in senso quasi contrario, si colloca il rilievo che l’obbligo di diligenza – come notato da più di un Autore − è un obbligo “composito”, abbracciando diversi profili, tutti egualmente rilevanti ed importanti.

In esso, infatti, si ricomprendono (Martini):

- il dovere di aggiornamento, necessario per mantenere il livello di professionalità richiesto per l'espletamento delle funzioni di avvocato;

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24) R. CONTE, Profili di responsabilità civile dell’avvocato, in N.G.Civ.Comm., 2004, 144 ss. La citazione è a p. 153.

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- il dovere di competenza, riguardante la necessità di una capacità specifica nell'attività professionale richiesta dalla parte assistita;

- il dovere di segretezza e di riservatezza, poiché il segreto è una componente fondamentale dell'attività professionale del professionista forense;

- il dovere di difesa, pure se si tratta soprattutto di un diritto, presidio costante dell'attività professionale al fine della realizzazione della stessa giustizia;

- il dovere di informazione al cliente per quanto attiene l'andamento della lite

Non senza considerare – prima di passare ad un’analisi della concreta casistica in tema di configurazione di violazione del dovere di diligenza per colpa lieve – altri fattori che rendono ancora più complessa tale individuazione.

A titolo meramente esemplificativo, una serie di fattori di “sistema” possono rendere oltremodo complessa l’opera dell’avvocato. Così, nella valutazione della diligenza non si potranno ignorare fattori quali «la continua proliferazione delle leggi, l’obiettiva confusione normativa dell’epoca presente, l’esistenza di correnti dottrinali e giurisprudenziali in contrasto tra loro, la tecnica dei richiami e dei rinvii da una disposizione all’altra, l’uso di inserire precetti esulanti dalla materia disciplinata»: fattori, questi, che devono, in qualche modo, entrare nella complessiva valutazione della diligenza richiesta.

4. SEGUE: LA DILIGENZA IN RELAZIONE ALLA SPECIALIZZAZIONE DELL’AVVOCATO.

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Proprio per tentare di sopperire alla indeterminatezza ed astrattezza della nozione di diligenza, la dottrina ha posto il problema della sua possibile commisurazione alla specializzazione dell’avvocato ed all’organizzazione, in concreto, della sua attività professionale. Ci si è chiesto, insomma, se una perizia professionale “ufficialmente”

certificata (o, come si dirà, anche de facto riconosciuta) possa interagire con la parametrazione della diligenza richiesta al professionista.

Va premesso che, allo stato, sul problema non si riscontrano specifici precedenti giurisprudenziali, mentre la riflessione dottrinale è già abbastanza approfondita. In particolare, alcuni Autori (25) si sono chiesti se il riferimento effettuato dall'art. 1176, comma 2, cod.civ., alla natura dell'attività esercitata può essere interpretato nel senso di diversificare il livello di diligenza richiedibile all'avvocato, sotto il profilo della perizia, in base alla presenza di specializzazioni in determinate materie giuridiche.

In particolare, si è osservato (Martinuzzi) che «l'avvocato può effettivamente assumere obbligazioni più gravose nei confronti dei proprio cliente, vuoi perché la sua specializzazione finisce per incidere sulla natura dell'attività esercitata, in quanto ci si deve attendere da lui la diligenza del buon specialista; vuoi in dipendenza delle modalità in cui egli si presenta, sotto l'aspetto organizzativo, alla platea degli utenti dei suoi servigi, indipendentemente dall'eventualità che si sia addirittura spinto a promettere ai cliente un certo risultato».

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25) Cfr. MUSOLINO La responsabilità dell’avvocato e del notaio, cit., p. 386 ss. ed ivi gli ulteriori autori citati. Cfr. anche BALDASSARI BALDASSARI, La responsabilità civile del professionista, cit., p. 979

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Si tratta di stabilire se la specializzazione − ufficialmente riconosciuta, come nel caso di diplomi ufficiali di scuole di specializzazione o legata all’attività di docenza universitaria o anche connessa ad una situazione di fatto scaturente da “una fama consolidata che accompagna il professionista forense e lo propone alla collettività come esperto in una determinata branca” − assegni o meno a quel soggetto «standard tanto più esigente di diligenza quanto migliore sia l’abilità e la formazione tecnica del professionista».

Ad accogliere questa prospettiva, ne scaturirebbe una responsabilità legata a forme di colpa “lievissima” (se è consentito il termine), tutte le volte in cui il professionista altamente specializzato dovesse incorrere in negligenze banali (ad es. il professionista che, nell’ambito della branca di propria specializzazione, non abbia tenuto conto di una evidente modificazione normativa o, addirittura −ma ciò è più opinabile− di una evoluzione giurisprudenziale ampiamente conoscibile).

D’altra parte, la rilevanza della specializzazione potrebbe indurre a ritenere che ciò che per l’avvocato medio costituisce questione di “speciale difficoltà” − e, come tale, soggetta al limite “elevato” di colpa grave e/o dolo – sia, per l’avvocato fortemente specializzato, ascrivibile a titolo di colpa lieve, in quanto da considerare routinario rispetto al grado di specializzazione.

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E’ di tutta evidenza come, muovendo fino a tale grado di concretezza, la diligenza richiesta si incammina verso una “personalizzazione” dello standard, idonea a strutturare la responsabilità in capo al professionista, forse eccessiva.

Tuttavia, in proposito, non si è mancato di osservare che «il legislatore sembra aver rifiutato ogni valutazione puramente soggettiva, sol che si pensi che l'art. 1176, secondo comma, C.C. fa riferimento ad una diligenza da valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata, il che sembra escludere qualsiasi criterio di carattere soggettivo nella valutazione della difficoltà tecnica che la questione di diritto presenta per l'avvocato» (26).

D’altra parte, la medesima dottrina evidenzia che «se il rapporto di patrocinio nasce in forza di una scelta operata esclusivamente in base ad una presunta specializzazione dell’avvocato e se questi - proprio per la specialità della materia che gli viene sottoposta - avanza pretese di compensi assolutamente sproporzionate rispetto alla normalità non solo delle tariffe forensi, ma anche degli usi e delle consuetudini, di ciò non potrà non tenersi conto nel caso in cui quel medesimo professionista avrà commesso errori o negligenze od omissioni; cioè, non potrà negarsi che un rapporto di correlazione tra le pretese economiche dall'avvocato avanzate sulla base di una sua presunta specializzazione e la valutazione obiettiva delle difficoltà tecniche della materia

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26) J. PENSA, Avvocati e procuratori:responsabilità civile, penale e disciplinare, Ipsoa, Milano, 1989, p. 39

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potrà rientrare nel generale giudizio di responsabilità per colpa grave eventualmente da formularsi nella fattispecie» .

Analogo discorso vale per il profilo della rilevanza del livello di organizzazione dello studio. Quest’ultimo è riconosciuto attraverso l'attestazione Iso 9000, ma può essere anche desunto semplicemente da indicazioni riscontrabili sulla carta intestata, come l'associazione con studi di altre città, o l'appartenenza a GEIE o altro.

Nei confronti di un avvocato «certificato» Iso 9000 è inevitabile che la valutazione degli obblighi di diligenza e dell'osservanza delle relative norme di condotta sia più rigorosa"(Martinuzzi). Del resto, se un avvocato richiede la certificazione del livello organizzativo del proprio studio, lo fa proprio per evidenziare e garantire al cliente un più elevato standard professionale.

5. IPOTESI DI RESPONSABILITÀ SCATURENTI DA COLPA LIEVE: A) EVOLUZIONE STORICA; B) PRINCIPI ATTUALI DELLA GIURISPRUDENZA E CASISTICA.

a) Evoluzione storica

Chiunque si sia accostato, in prospettiva diacronica e storico-ricostruttiva al problema della responsabilità per colpa lieve dell’avvocato ha rilevato una sorprendente evoluzione, oggi ancora in corso. Sorprendente in quanto alla tesi negatrice,

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consolidatasi nel corso di oltre un secolo, è subentrata una serie di aperture ed affermazioni che sembrano preludere ad ulteriori imminenti evoluzioni, soprattutto per il profilo della progressiva “tipizzazione” delle ipotesi di colpa lieve forense.

Va detto ancora che, sotto tale profilo, la responsabilità professionale dell’avvocato per colpa lieve è conquista dei tempi d’oggi. Invero, vigente il codice del 1865, la giurisprudenza escludeva espressamente tale ipotesi (per alcuni esempi: Corte app. Roma, 28 febbraio 1888, in Foro it., 1888, I, p. 599) o, al più, la ammetteva come ipotesi assolutamente limite, come, ad esempio, Cass. Roma 11 giugno 1894,in FI, 1894,I, 816, secondo cui poteva configurarsi una responsabilità per omissioni integranti una colpa «sia per supina ignoranza sia per negligenza inescusabile».

Peraltro, successivamente, la situazione non si modifica di molto: i giudici di legittimità concepiscono la responsabilità dell’ avvocato esclusivamente per le omissioni (Cass. 5 luglio 1927, n. 2520: «Il procuratore può nuocere in omittendo non in commettendo») e ricorrono a concetti-limite, anche semanticamente, assai roboanti ed impegnativi.

Si afferma, ad esempio, la sussistenza di una responsabilità quale conseguenza di un errore come frutto colposo di «evidente incuria o di palese insipienza», con una formula che identifica, più che altro, un’ipotesi di colpa grave.

Come evidenziato dalla più attenta dottrina (Barca), anche la giurisprudenza del periodo immediatamente successivo d'entrata in vigore del codice civile escludeva, in

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linea generale, la responsabilità dell'avvocato in caso di colpa lieve, sostenendo che l'attenuazione della responsabilità ex art. 2236 cod. civ. operasse sempre.

Al proposito, l’Autore ricorda un’ ordinanza del Tribunale di Cassino del 1954 (27), con la quale i giudici affermano che «nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di una attività professionale, 'la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata, ex art. 1176 cod.civ. Nel caso dell'avvocato, poiché non è possibile mortificare I'iniziativa e sopprimere la discrezionale valutazione della condotta da seguire nella causa, e d'altro canto la sua prestazione implica generalmente la soluzione di problemi temici di speciale difficoltà, la sua responsabilità non è, di norma, configurabile se non a titolo di dolo o colpa grave.»

Tale decisione riprende un trend giurisprudenziale assai in voga in quegli anni, fondato sulla distinzione tra comportamento del difensore frutto della scelta di un’impostazione della controversia a lui affidata (e, rispetto alla quale, potevano venire in rilievo soluzioni diverse prospettate dalla dottrina o adottate dalla giurisprudenza), dal comportamento (pregiudizievole) derivante da incuria o da ignoranza di disposizioni di legge, ritenendo che solo in quest'ultimo caso fosse configurabile un errore fonte di civile responsabilità per l’avvocato.

In breve: il concetto di prospettazione giuridica della vicenda non risulta foriero (in nessun caso) di responsabilità, laddove – come nota Francesco Magni − «l’errore

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27) Trib. Cassino, 15.12.1954, in Foro it., 1955, I, 589, con nota di MUSATTI, Errore professionale del procuratore e dell'avvocato.

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professionale civilisticamente rilevante riguarda altri addendi dell’attività tecnica dell’avvocato, quali la ricostruzione e la prospettazione del fatto nonché l’errore procedurale che abbia impedito al giudice di entrare nel merito della decisione» (28).

Ma l’impostazione che limitava la responsabilità dell’avvocato ai soli casi di colpa grave o dolo viene superata verso la fine degli anni ’50. Precisamente, secondo la dottrina più accorta (Barca), attraverso una decisione della Corte di Cassazione del 1957 (29). In detta pronuncia, si è affermato che «l'articolo 2236 cod. civ., che limita la responsabilità civile del professionista ai casi di dolo o colpa grave, è applicabile qualora si siano dovuti risolvere problemi temici di speciale difficoltà; in ogni altra ipotesi si applica l'articolo 1176 cod. civ., sulla diligenza del buon padre di famiglia, da valutarsi con riguardo all'attività esercitata dal professionista».

La giurisprudenza successiva si è presto adeguata a tale importante affermazione che, come evidenziato dalla dottrina, «costituisce veramente un “giro di boa” nel campo della responsabilità professionale dell’avvocato», appartenendo a quelle decisioni che

«concretamente mutano il senso delle cose» (30). Per la prima volta, infatti, la decisione del 1957 correggeva espressamente l’errore in cui incorreva la giurisprudenza

«nell'affermare che la responsabilità del professionista si abbia soltanto in caso di dolo o

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28) Cfr., anche per l’esito finale di tale evoluzione, Cass. 18.11.1996, n. 10068, in Mass. Foro it., 1996, la quale ha ritenuto che l'avvocato «deve considerarsi responsabile verso il cliente in caso di incuria e di ignoranza di disposizioni di legge e, in genere nei casi in cui per negligenza ed imperizia comprometta il buon esito del giudizio, dovendosi invece ritenere esclusa la detta responsabilità, a meno di dolo o colpa grave, solo nel caso di interpretazioni di legge o risoluzione di questioni opinabili».

29) Cfr. Cass. 3.10.1957, n. 3589, in Foro it., 1957, I, 1774, ed in Foro pad., 1958, I, 295, con nota di LEGA, In tema di responsabilità civile dell'Avvocato e del Procuratore.

30) Così BARCA, op.ult.cit.

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colpa grave» rilevando subito dopo che, per contro, «l'art. 2236 riguarda prestazioni implicanti soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; in tutti gli altri casi invece, deve trovare applicazione il principio sancito nel comma 2 dell'art. 1176 cod. civ., in virtù del quale, appunto, nell'adempimento di opera professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata» e concludendo con l’affermazione secondo cui «(...) Le oscillazioni della giurisprudenza, pur giustificate dalla varietà dei casi costituiscono ulteriore elemento per procedere con cautela nell'identificare la colpa del professionista legale».

In questo breve percorso di ricostruzione storica, merita di essere segnalata la decisione del 1973 (dunque, di circa tre lustri successivi alla svolta del ’57) (31), con cui la Corte di legittimità ha affermato che l'imperizia professionale presenta un contenuto variabile da accertare in relazione ad ogni singola fattispecie, rapportando la condotta effettivamente tenuta dal professionista alla natura e alla specie dell'incarico professionale e alle circostanze concrete in cui la prestazione deve svolgersi.

Nel caso di specie la Suprema Corte, pur riconoscendo una responsabilità dell'avvocato per non avere adempiuto in tutto o in parte alle obbligazioni che nascono dal mandato (in particolare 725 pratiche erano rimaste inevase), respinge la richiesta di condanna generica del cliente nei confronti dell’avvocato.

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31) Cass. 20.8. 1973, n. 2230.

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b) principi attuali della giurisprudenza e casistica.

Dunque: l’affermazione secondo cui la responsabilità dell’avvocato può fondarsi anche su ipotesi di colpa lieve può ormai ritenersi principio condiviso. Esso emerge infatti a contrario dalla norma di cui all’art. 2236 CC, posto che, in forza di essa, l’attenuazione di responsabilità opera soltanto in presenza di profili tecnici di «speciale difficoltà» e, dunque, la culpa levis non struttura la responsabilità solo se viene richiesta una perizia professionale maggiore rispetto a quella media (ex art. 1176, comma 2, cod.civ.) che deve possedere ogni avvocato.

Si può anzi affermare che la colpa lieve sia oggi la regola (sia pure faticosamente affermatasi nell’orizzonte culturale della giurisprudenza) e che l’evoluzione cui oggi assistiamo è nella direzione del consolidamento di ipotesi sempre più tipizzate della colpa lieve medesima, che fungono da ideali contenitori di ipotesi tipiche cui ricondurre l’ampia casistica del reale.

L’assenza di colpa, in sintesi, designa quel comportamento posto in essere dall’avvocato che, corrispondendo al modello astratto offerto dalla figura del buon professionista, risulta normalmente idoneo a raggiungere il risultato sperato dal cliente.

Alla luce dei principi fino ad ora esposti, sono state ritenute ipotesi di colpa lieve (e, dunque, parallelamente, è stata esclusa la ricorrenza della limitazione di

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responsabilità di cui all’art. 2236 CC) idonee ad integrare altrettante ipotesi di responsabilità dell’avvocato:

- la notificazione sbagliata (Trib. Roma 27 novembre 1992, NGCC, 1994, I, 267;

Trib. S. Maria Capua Vetere 6 febbraio 1989, FI, 1990, I, 3315);

La prima riguardava un’esecuzione immobiliare nell’ambito della quale l’avvocato aveva proposto un ricorso di opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento di aggiudicazione dell’immobile sul rilievo della nullità della notificazione dell’ordinanza che fissava la data dell’asta, notificata ai sensi dell’art, 143 c.p.c. e perfezionatasi successivamente alla data dell’asta medesima. Erroneamente convinto della validità della notificazione dell’ordinanza medesima, il professionista non aveva coltivato alcun ricorso in opposizione agli atti esecutivi ed invitava il cliente ad abbandonare la causa. Il Tribunale di Roma, adito dal cliente per ottenere il risarcimento del danno nei confronti dell’avvocato, ha ritenuto grave la l’errore commesso dall’avvocato, il quale, con una semplice verifica del dato letterale dell’art.

143 c.p.c. e «senza alcun margine di complessità tecnica» avrebbe dovuto constatare l’intempestività della notifica medesima.

Il caso deciso dal tribunale di S. Maria Capua Vetere riguardava, invece, la redazione di un atto di appello privo della indicazione dell’udienza di comparizione,

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cioè privo di uno dei requisiti prescritti dall’art. 164 c.p.c. a pena di nullità per qualsiasi atto di citazione di primo grado o di appello.

- la mancata impugnazione tempestiva di un atto (Cass. 26 febbraio 2002, n. 2836;

Cass. 1 agosto 1996, n.6937 MFI. 1996, 632; Trib. Roma 11 ottobre 1995, DR, 1996,644; Trib. Milano 25 marzo 1996, RCP, 1997, 1170);

Il primo, emblematico (e famoso) caso (Cass. n. 2836 del 2002) riguardava la seguente fattispecie:con sentenza, passata in giudicato, dell'8 febbraio 1990, la Corte di Appello di Roma, sezione speciale usi civici, aveva dichiarato inammissibile - perché proposto oltre il termine perentorio di trenta giorni, di cui al secondo comma dell'art. 32 legge 16 giugno 1927 n. 1766 - il reclamo di una società immobiliare (San Rocco) avverso la decisione del Commissario regionale agli usi civici del Veneto, di accoglimento della domanda avanzata da cittadini del Comune di Auronzo di Cadore e diretta a far dichiarare che taluni terreni che figuravano di proprietà di detta società ed avevano formato oggetto di una convenzione di lottizzazione tra la stessa ed il menzionato Comune erano gravati da uso civico, ed a ottenerne conseguentemente la restituzione alla collettività titolare del diritto demaniale. Con successivo atto di citazione del 21 ottobre 1992 la menzionata società convenne dinanzi al Tribunale di Venezia l'avv. Antonio Munari - che l'aveva difesa nel giudizio commissariale ed in quello di appello - e ne chiese l'affermazione della responsabilità professionale adducendo che la

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