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3.1.3. L’inadeguatezza della visione dell’imposta come “obbligazione di riparto” nei moderni sistemi di tassazione.

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3.1.3. L’inadeguatezza della visione dell’imposta come “obbligazione di riparto” nei moderni sistemi di tassazione.

Si è già evidenziato che parte della dottrina tributaria ravvisa nell’imposta un’“obbligazione di riparto”.

Da questa qualificazione alcuni fanno derivare che gli indici di ricchezza individuati dal legislatore fungerebbero da meri criteri per attuare la suddivisione delle spese pubbliche tra i consociati

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, mettendone in secondo piano la sostanza economica, ed anche chi fa riferimento a quest’ultima condivide l’idea che l’imposta rappresenti la quota individuale di un debito comune, cioè una “obbligazione di riparto” della spesa pubblica

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. Tanto che, vista dal lato dell’ente impositore, l’imposta rappresenterebbe un credito di ripartizione, cioè un credito che si suddivide tra una molteplicità di soggetti, tutti ugualmente debitori – ciascuno per la sua quota – nei confronti dello Stato. Quest’ultimo non potrebbe perciò liberamente disporre di quel credito nei confronti di taluni debitori, poiché, se lo facesse, finirebbe per ledere gli interessi degli altri debitori, sui quali ricadrebbe l’onere dei tributi non assolti.

143In tal senso FEDELE, A., Appunti, cit., 16 ss., per il quale l’art. 53 Cost. costituisce una mera proiezione del principio di uguaglianza.

144FALSITTA, G., Manuale di diritto tributario, cit., 2012, 23; Id., Giustizia tributaria e tirannia, cit., 57, dove si osserva che “in ragione del fatto incontrovertibile che ogni imposta è uno strumento di riparto, in ogni legge di diritto tributario sostanziale … dovrà sempre ritrovarsi la determinazione dei relativi indici di riparto: cioè dei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la determinazione della quota di contribuzione facente carico a ciascun singolo e alla quale corrisponde il debito individuale di imposta. Fatti e situazioni dunque che non tanto tendono a risolvere il conflitto di interesse esterno tra ente pubblico e contribuente, quanto il conflitto interno fra contribuente e contribuenti, determinando appunto il rapporto relativo di partecipazione individuale alla comune “contribuzione””.

Sull’imposta come meccanismo di riparto e fissazione delle quote individuali di contribuzione alla copertura delle pubbliche spese vedi già BERLIRI, L.V., op. cit., 37 ss.

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Dall’imposta come “obbligazione di riparto” discenderebbe dunque l’indisponibilità del credito tributario da parte dell’Autorità fiscale

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. E tutto questo come se vi fosse, nella sostanza, un importo complessivo da riscuotere, stabilito in anticipo, da ripartire su una certa platea di coobbligati, in cui le quote risultate inesigibili fossero automaticamente ribaltate sugli altri coobbligati, alla stregua di quanto avviene comunemente in un condominio, ed avveniva nei “sistemi a ripartizione”, di cui quello “del contingente” trovò applicazione nell’Italia postunitaria per un breve periodo, tra il 1864 e il 1866

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.

145 Cfr. FALSITTA, G., op. ult. cit., 55 ss.; BEGHIN, M., Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta, cit., 245 ss.; FERLAZZO NATOLI, L., Diritto tributario, Milano, 2010, 16-17; BUZZACCHI, C., La solidarietà tributaria. Funzione fiscale e principi costituzionali, Milano, 2011, 18-19. La critica a questa impostazione si deve, in particolare, a STEVANATO, D., Determinazione della ricchezza, cit., 7 ss., da cui è attinto, in massima parte, il presente paragrafo.

146LUPI, R., in Manuale professionale di diritto tributario, cit., 45, parla del c.d. sistema tributario “a ripartizione” tipico di antichi tributi come il focatico e il testatico in cui, partendo da una stima della situazione economica complessiva di una (piccola) collettività (coesa) ai fini dell’imposizione di una certa contribuzione globale, si perveniva alla suddivisione del carico fiscale complessivo tra i membri della collettività sulla base di indici ritenuti espressivi della condizione economica dei singoli o dei nuclei familiari. Era questo il parametro tendenziale per l’attribuzione ai singoli di una quota maggiore o minore di quanto chiesto al gruppo nel suo complesso. Ibidem, 178-179: nell’antichità si poteva anche pensare a una stima comparativa della situazione economica globale dei vari individui e nuclei familiari (v. nota 28, un po’ come se considerassimo le nazioni come un grande condominio per cui concepire una “tabella millesimale” che rapporta la ricchezza propria a quella degli altri condomini ai fini della divisione delle spese comuni. Qualcosa di simile veniva tentato nell’antico censo della Roma repubblicana, ma il numero delle persone da

“censire” era modesto e l’istituto aveva anche forti valenze extratributarie, in termini di prestigio sociale e peso politico.).

Superati questi vecchi sistemi della tassazione per contingente – che l’autore imputa alla progressiva frammentazione dei gruppi sociali e all’allentamento dei vari vincoli di comunità, sia territoriali, sia etnico-religiosi o professionali – oggi la situazione economica generale di una persona è fatta di tanti profili, ognuno dei quali è diversamente individuabile.

Tutti i sistemi tributari moderni sottopongono a tassazione singole manifestazioni economiche, o loro aggregati limitati; ad esempio costruendo un “reddito complessivo”

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Nel sistema del contingente, la singola evasione o comunque il mancato introito a carico di un certo soggetto era compensato da una maggiore tassazione a carico degli altri soggetti all’interno del contingente.

L’assimilazione dell’imposta ad una “obbligazione di riparto” è però tanto diffusa nella pubblicistica giuridico-tributaria quanto imprecisa e inadatta a descrivere compiutamente la realtà dell’imposizione fiscale.

La stessa potrebbe anche essere mantenuta per fini puramente descrittivi, se non fosse che la figura della “obbligazione di riparto” viene utilizzata per ricostruzioni più impegnative sulla determinazione tributaristica della ricchezza e viene associata poi col principio di legalità, ricavandone la formula paralizzante dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Si arriva addirittura in questo modo a svalutare il riferimento della tassazione alla sostanza economica e quindi ad affermare che le manifestazione di

“capacità” evocate dall’art. 53 Cost. non sarebbero altro che criteri per ripartire una certa spesa tra tanti condebitori, dunque una mera proiezione del principio di uguaglianza.

Ad essere in discussione, aderendo all’idea dell’obbligazione di riparto, non sarebbe dunque il modo di essere del “rapporto esterno”, dei debitori nei confronti del creditore comune (lo Stato o comunque l’ente pubblico dotato dello ius impositionis), bensì soltanto i criteri di ripartizione dei carichi pubblici tra i condebitori, dunque la dimensione dei “rapporti interni”.

Il legislatore, secondo un certo sviluppo di tali riflessioni, sarebbe dunque soltanto tenuto a rispettare il principio di uguaglianza, unitamente a criteri di

dove entro certi limiti si compensano arricchimenti e impoverimenti eterogenei; anche questa tendenza si è però ridotta negli ultimi anni, in cui viene sempre più rivalutata la c.d.

“realità dell’imposizione”, cioè la tassazione della ricchezza oggettivamente considerata, tralasciando le altre condizioni soggettive del titolare e le altre ricchezze da lui possedute.

Per eventuali approfondimenti sugli antichi sistemi a ripartizione di impronta medievale si rimanda a PULVIRENTI, D., NOBILI, D., LUPI, R., Lustralis collatio, focatico e testatico:

punti fermi nella storia dei tributi, in Dial. dir. trib. n. 1/2006, 1-10.

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razionalità e coerenza nella ripartizione di un “carico pubblico” tra una pluralità di debitori, senza essere affatto vincolato a scegliere “indici di riparto” connotati in senso economico-patrimoniale, cioè aventi nei diritti proprietari dei consociati il loro necessario termine di riferimento.

L’assimilazione, oramai tralatizia, delle prestazioni tributarie a delle

“obbligazioni di riparto”, con cui una certa spesa è ripartita su una platea di soggetti, è con ogni probabilità un retaggio delle imposizioni fiscali “per contingente”, utilizzate, ad esempio, ai tempi dell’istituzione dell’imposta sulla ricchezza mobile, avvenuta con la legge n. 1830 del 14 luglio 1864: lo Stato stabiliva a priori un certo importo da riscuotere, e lo ripartiva tra le varie comunità territoriali sulla base di determinati criteri generali (quali l’ammontare dell’imposta fondiaria, gli stipendi corrisposti dallo Stato, la popolazione, ecc.). Stabilito il totale del contingente dovuto da ciascun ambito territoriale, provinciale o comunale, questo veniva quindi ripartito tra i singoli contribuenti sulla base di stime comparative, cui erano finalizzati i catasti preunitari

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.

In un simile contesto, essendovi una rigida predeterminazione, stabilita dall’alto e per legge, dell’importo del contributo complessivo da richiedere ai consociati appartenenti ad un certo ambito territoriale in relazione ad un unico

“indice di ricchezza” (nel contesto post-unitario la “ricchezza mobile”, cioè i redditi di fonte mobiliare), quest’ultimo fungeva effettivamente da indice di riparto della somma da riscuotere

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.

147FAZZINI, E., Attività economiche e imposizione fiscale, Padova, 2005.

148É interessante la lettura del volumetto contenente i discorsi del deputato Luigi Minervini alla Camera dei deputati del Regno, Intorno al progetto di legge sull’imposta pei redditi di ricchezza mobile, Torino, 1863. Quest’ultimo aveva perorato l’imposta di quotità, cioè il comune modo di tassazione basato sull’applicazione di un’aliquota d’imposta sulla ricchezza da tassare. Il sistema di tassazione basato sul contingente, che venne invece approvato dal Parlamento (pur sostituito da lì a poco con l’imposta di quotità, ad opera della legge 28 giugno 1866, n. 3021), avrebbe garantito allo Stato un gettito certo, in mancanza di statistiche affidabili sulla dimensione e la distribuzione della ricchezza della nazione.

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Si tratta tuttavia di un criterio di ripartizione molto diverso da quello che connota l’attuale sistema fiscale, in cui il gettito delle singole imposte da riscuotere non viene predeterminato dalla legge o dall’autorità governativa e non sarebbe in ogni caso – nemmeno volendo – conoscibile a priori, giacché la sua entità dipende dalla ricchezza prodotta in ciascun periodo amministrativo, che dunque non può essere assimilata ad un indice di ripartizione tra i consociati del debito comune.

Insomma, nella tassazione “per contingente” la ricchezza (cioè i redditi individuali) era effettivamente un criterio per ripartire e suddividere tra gli obbligati di ciascuna circoscrizione un gettito il cui ammontare era prestabilito in cifra fissa e non dipendeva da un rapporto aritmetico tra l’aliquota e la base imponibile, dunque non risentiva del concreto andamento di quest’ultima.

Non risentiva, cioè, dell’effettiva ricchezza prodotta dai contribuenti.

Nelle moderne imposte basate sulla capacità contributiva (che nel diciannovesimo secolo si sarebbero chiamate “imposte di quotità”), invece, il gettito dipende dalla ricchezza prodotta (oltre che, ovviamente, dall’aliquota fissata dalla legge) ed è conoscibile soltanto a posteriori: gli indici di ricchezza non sono dunque degli indici di riparto di un debito prestabilito, poiché il gettito non è fissato ex ante dalla legge, bensì determinato ex post.

La ricchezza non può dunque fungere da indice di riparto, non essendo noto il gettito da ripartire, che a sua volta dipenderà, nella sua dimensione effettiva, proprio all’ammontare della ricchezza che risulterà assoggettata al tributo

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.

149Sul punto si veda anche MARONGIU, G., Alle radici dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988, 147-148, il quale ricorda che il sistema del contingente assicura all’Erario l’intera e completa riscossione di un’imposta nella somma totale prestabilita, “a differenza del sistema di quotità che non può rendere che quel tanto che si ottiene in somma variabile, applicando un’aliquota fissa ad un dato variabile, il reddito”. Sulla differenza tra imposte di contingente ed imposte di quotità cfr. anche GRAZIANI, A., Istituzioni di scienza delle finanze, Torino, 1897, 399: nelle prime l’autorità pubblica, “stabilita dapprima la somma che intende riscuotere, la distribuisce o la lascia distribuire tra le varie frazioni del territorio … e da ultimo tra i singoli contribuenti, senza determinare a priori le quote

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La figura della “obbligazione di riparto” si addice dunque soltanto all’esazione per contingente, che non a caso veniva anche chiamata “imposta di ripartizione”, sottolineando così l’importanza dell’equità orizzontale e del rapporto relativo tra i singoli consociati, mentre il rapporto verticale, tra contribuente e Stato, sarebbe rimasto sullo sfondo.

In tale sistema di tassazione, perde in effetti importanza la dimensione

“assoluta” della capacità contributiva, ed il rapporto tra cittadino ed ente impositore.

Il centro della scena viene occupato dalla dimensione relativa dei rapporti tributari, in cui la ripartizione di un carico pubblico determinato a priori e per masse, a prescindere dalle ricchezze attribuibili ai singoli, sposta il conflitto di interessi dentro la comunità, dapprima tra le diverse circoscrizioni territoriali, e quindi all’interno di ciascuna di esse, tra individuo ed individuo, posto che quello che non viene pagato da coloro che si sottraggono al dovere tributario andrà automaticamente a gravare su tutti gli altri soggetti assegnati a quel territorio

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.

Non ha invece molto senso continuare ad evocare la figura dell’obbligazione di riparto

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e del credito di ripartizione in relazione ai moderni sistemi

individuali”, mentre nelle seconde l’autorità “determina la misura nella quale devono concorrere i singoli enti soggetti all’imposta, senza stabilire a priori l’ammontare complessivo della somma da pagarsi”. Per EINAUDI, L., Corso di scienza della finanza, Torino, 1914, 233 ss., “nel sistema del contingente si parte dal gettito totale dell’imposta per arrivare all’aliquota … Dicesi invece sistema o metodo della quotità o dell’aliquota quello che comincia collo stabilire l’aliquota dell’imposta … Variabile è qui invece il prodotto dell’imposta”.

150Cfr. PESCATORE, M., La logica delle imposte, Torino, 1867, 65 ss., il quale osserva che

“nella imposta di quotità la ricerca si vuole adoperare come mezzo di accertamento assoluto dei redditi di ogni individuo: nella imposta di ripartizione la ricerca procede per giudizi comparativi e non mira ad accertare che una verità di semplice relazione … Per vero nei giudizi comparativi il fatto assoluto perde ogni importanza”.

151Essa deve il proprio successo alla conosciutissima metafora del condominio, ed alla tendenza a sistematizzare le categorie pubblicistiche tributarie utilizzando in modo improprio strumenti interpretativi attinti dal diritto dei privati.

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impositivi ed alle imposte di “quotità”, come se nulla fosse cambiato dall’Unità d’Italia e dal metodo di esazione dei tributi basato sul

“contingente”.

L’icastica similitudine smithiana, secondo cui “the expense of government to the individuals of a great nation is like the expense of management to the joint tenants of a great estate, who are all obliged to contribute in proportion to their respective interests in the estate”

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, pur esercitando ancor’oggi la sua suggestione

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, è però semplicistica e inadatta a descrivere l’imposizione tributaria affidata a prelievi basati sulla capacità contributiva.

Il richiamo all’obbligazione di riparto dei carichi pubblici rimanda in effetti ad un criterio di suddivisione di una spesa comune tra più soggetti, come si verifica nei consorzi o nei condomini, dove le spese vengono ripartite sulla base dei millesimi di proprietà.

Si tratta di un’impostazione che risente in parte delle teorie sulla “protezione sociale”, in cui l’imposta veniva assimilata ad un premio di assicurazione per ottenere dallo Stato protezione in ragione delle proprietà possedute, per cui a maggiore proprietà corrisponderebbe maggiore protezione e dunque un

152Cfr. SMITH, A., Wealth of Nations, 1776, Book V, Chapter 2, Part. 2.

153Come si può appurare su FALSITTA, G., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 58, il quale, per enfatizzare l’interesse del singolo contribuente al corretto riparto dell’imposta, richiama la situazione della proprietà condominiale, paragonando lo Stato ad un “grande condominio”: “se uno dei condomini paga meno del dovuto o non paga affatto, rimanendo inalterato l’ammontare delle spese condominiali, l’inadempienza si ripercuote a danno degli altri condomini. Perciò ogni forma di “generosità” o “rinunzia” verso il cattivo condomino si converte in bastonatura patrimoniale dei restanti condomini. Questo effetto è più facilmente visibile nelle organizzazioni piccole (per esempio, nel Comune, consorzio o condominio). Ciò non toglie che non scompaia affatto in quel più grande condominio che è lo Stato”. Prima ancora BERLIRI, L.V., op. cit., 42, per il quale “il parallelo dell’imposta nel campo del diritto privato … è da ricercarsi nella gestione di affari esercitata nell’interesse di una collettività di interessati e in particolare nei contributi posti a carico dei singoli partecipanti ad un consorzio (cfr. art. 2604 c.c.) che, si noti, possono anche essere obbligatori e come tali costituiti per legge”.

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tributo, a copertura delle spese per i servizi di tutela resi dall’autorità pubblica, più elevato.

A sua volta questa impostazione rimanda alle teorie contrattualistiche liberali, come quelle di Hobbes e di Locke, che spiegano la decisione degli individui di riunirsi in un “consorzio” politico e civile con l’esigenza di cercare protezione ai loro diritti di libertà e di proprietà, messi continuamente a repentaglio nello stato di natura.

Nell’assimilare l’imposta ad una “obbligazione di riparto”, e lo Stato ad un grande “condominio”, in cui i singoli contribuenti-condomini sono obbligati al pagamento delle spese comuni secondo il loro rispettivo interesse alla proprietà condominiale, non ci si è nemmeno resi conto che la metafora smithiana si inseriva in un contesto in cui era prevalente il principio dell’interesse o del beneficio del privato rispetto ai servizi dell’ente pubblico.

La teoria dello Stato come grande condominio, consorzio o società per azioni, era sinergica al principio del beneficio, onde istituire un collegamento tra il vantaggio tratto da ciascun individuo grazie ai servizi prestati dallo Stato, e la porzione di spesa pubblica che sarebbe stato corretto addossare, in ragione di tale vantaggio, a ciascun contribuente.

È abbastanza curioso, per tale motivo, che gli odierni sostenitori del principio di capacità contributiva come unico criterio ispiratore della tassazione concepiscano l’imposta come un’obbligazione di pagamento collegata all’interesse di ciascun consociato al funzionamento della “cosa comune”, cioè dello Stato, considerato una sorta di “grande condominio”.

È vero che la concreta quantificazione delle cosiddette “obbligazioni di

riparto” viene correlata alle possibilità economiche degli individui, almeno per

coloro che non riducono il principio di capacità contributiva a mera

specificazione di quello di uguaglianza; tuttavia, tali “capacità”, nella

prospettiva della suddivisione di una spesa comune, sono indice del vantaggio

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che ciascuno ricava dalle spese pubbliche, secondo la logica del principio del beneficio.

In ogni caso, guardando alla ripartizione dei carichi pubblici tra i consociati, la situazione è molto diversa da quella in cui si trovano i proprietari di un condominio, i partecipanti ad un consorzio, o coloro che pagano un premio proporzionale al valore dei beni assicurati

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, per le ragioni che seguono.

Anzitutto, l’indice di riparto, espressivo di “capacità contributiva”, dovrebbe consentire una suddivisione dell’intera spesa pubblica sui consociati, ma ciò richiederebbe l’adozione dell’imposta unica, il che contrasta con l’esperienza empirica, visto che gli ordinamenti tributari sono tutti connotati da una pluralità di tributi, considerata la maggiore efficienza e completezza nella mappatura delle varie manifestazioni di ricchezza che tale pluralità garantisce.

Se invece si assume una compartimentazione dei carichi pubblici in tante voci o capitoli di spesa, da finanziare attraverso altrettante imposte, si postula una destinazione del gettito dei singoli tributi alla copertura di specifiche e determinate spese pubbliche, e ciò pure contrasta con la tendenziale inesistenza di un vincolo di destinazione dei tributi, dati il principio di unità del bilancio, per cui il totale delle entrate serve a finanziare il totale delle spese

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.

154Per uno spunto in questo senso, da ultimo, cfr. anche LUPI, R., Manuale giuridico di scienza delle finanze, Roma, 2012, 87, il quale, nel sottolineare la necessità di far riferimento, ai fini della tassazione a frammenti a ricchezza, osserva che, rispetto al paragone del grande condominio, manca un parametro simile al valore degli appartamenti, da usare come tabella millesimale per ripartire le spese.

155Su tale principio vedi tra i tanti FORTE, F., Manuale di scienza delle finanze, Milano, 2007, 280; BUSCEMA, S. – BUSCEMA, A., Contabilità dello Stato e degli enti pubblici, IV, Milano, 2005, 44, secondo cui “la regola della assegnazione di tutte le entrate alle spese, comporta la completa separazione tra la causa di una qualsiasi entrata e quella di una qualsiasi spesa”. Come già osservava un secolo fa HOBSON, J.A., Taxation in the New State, New York, 1920, 9, “convenience and elasticity of expenditure in the modern State are in such strong conflict with the specific tax (le imposte speciali o di scopo, finalizzate al finanziamento di un ben determinato servizio pubblico, n.d.a.) that this method of taxation

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In terzo luogo, non esiste coincidenza tra l’ammontare dei carichi pubblici e il gettito dei tributi, visto che la spesa può essere in parte coperta anche facendo ricorso all’indebitamento, oppure utilizzando gli introiti e i frutti derivanti dal patrimonio pubblico o dall’esercizio di attività economiche da parte dello Stato (cioè da fonti della “finanza patrimoniale”).

Non è per nulla chiaro, dunque, come dovrebbero operare i singoli indici di riparto prescelti dalle diverse leggi d’imposta, in relazione gli uni agli altri, e tutti insieme con riferimento alle spese pubbliche, complessivamente intese od oggetto di compartimentazione.

Quando si afferma che ciascun tributo esprime un criterio di riparto delle spese pubbliche

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, si enuncia un concetto oscuro e allusivo, dai contorni indefiniti, non solo privo di ogni valenza operativa, ma anche inconsistente sul piano concettuale.

Occorrerebbe infatti definire preliminarmente l’ammontare delle spese da ripartire, per l’ovvia ragione che, prima di stabilire il criterio per la ripartizione di un “carico”, bisognerebbe conoscerne le dimensioni o almeno la fisionomia.

C’è poi un ulteriore aspetto che non consente di considerare le manifestazioni di ricchezza di volta in volta ritenute dal legislatore espressive di capacità contributiva (il reddito, il patrimonio, i consumi, ecc.), alla stregua di “indici

has virtually disappeared, leaving the State full liberty to dispose of its whole revenue according to its annual estimate of its several requirements”.

156Osserva FEDELE, A., La funzione fiscale e la “capacità contributiva”, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 23, che “poiché il sistema tributario è, tendenzialmente, costituito da una pluralità di tributi, ognuno di essi è individuato e caratterizzato da un criterio di riparto delle spese pubbliche, che si risolve in uno specifico indice di capacità contributiva e si identifica, in sostanza, con la ratio cui è ordinato ciascun singolo istituto”. In termini analoghi, in precedenza, BERLIRI, L.V., op. cit., 38, per il quale i singoli tributi dovrebbero in realtà considerarsi come “altrettante interdipendenti applicazioni di un’unica pubblica contribuzione e quasi come altrettanti titoli di un’unica legge, onde il riparto individuale viene opportunamente rapportato a diversi indici di riparto (che sono volta a volta la rendita fondiaria, il reddito mobiliare, il consumo, l’entrata, ecc.)”.

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di riparto” del tipo di quelli che vengono utilizzati per stabilire la ripartizione delle spese tra i membri di un condominio, di un consorzio di proprietari, dei titolari delle merci imbarcate in una nave, e via discorrendo

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.

Negli esempi testé riportati, ed in altri simili che si potrebbero immaginare, gli indici di riparto della spesa da suddividere – ovvero i millesimi di proprietà nel condominio, l’estensione dei fondi dei partecipanti al consorzio, il valore delle merci imbarcate – consentono effettivamente la ripartizione integrale della spesa sostenuta nell’interesse comune, poiché si tratta di valori frazionari che vengono moltiplicati per la spesa da suddividere, fornendo le singole quote di compartecipazione alla spesa.

L’indice di riparto, per funzionare come tale, deve infatti rappresentare una frazione di una certa grandezza già conosciuta (i mille millesimi del condominio, l’estensione totale dei fondi dei consorziati, il valore complessivo delle merci caricate sulla nave), e funge da coefficiente da applicare alla spesa complessiva per ricavare le singole quote individuali.

Questo però non si verifica con gli indici di ricchezza assunti a fondamento e giustificazione delle imposte basate sulla capacità contributiva, giacché i redditi, i patrimoni o i consumi di ciascun singolo contribuente non possono affatto essere visti come dei “coefficienti” da moltiplicare per la spesa pubblica da ripartire onde ricavare le quote individuali di contribuzione.

Non è insomma possibile, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche, considerare l’imposta come “la quota individuale di contribuzione alla copertura della spesa residuale di funzionamento dell’ente pubblico, dovuta dai singoli cointeressati, in corrispondenza di determinati fatti o situazioni assunti come indici di riparto”

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.

157Si riportano gli esempi fatti da BERLIRI, L.V., op. cit., 48.

158Secondo la definizione di BERLIRI, L.V., op. cit., 37, ripresa dalla dottrina successiva.

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Per determinare la “quota individuale di contribuzione”, infatti, occorre prima di tutto conoscere la spesa da ripartire; inoltre, è necessario che gli indici di riparto consentano una integrale copertura della stessa, il che può avvenire soltanto laddove tali indici rappresentino, nel loro manifestarsi in capo al singolo contribuente, una frazione di un totale noto, in modo che la somma di tali frazioni restituisca appunto il totale: occorrerebbe dunque conoscere in anticipo la ricchezza complessiva assoggettabile a tassazione, cioè la base imponibile aggregata; ed a quel punto tali indici dovrebbero essere utilizzati alla stregua di “coefficienti” per stabilire le quote individuali della contribuzione alla spesa complessiva. Ma tutto questo non si verifica affatto con i presupposti delle imposte, i quali vengono determinati in relazione alle concrete manifestazioni di ricchezza verificatesi in capo ai contribuenti in un dato periodo amministrativo di riferimento, senza che sia possibile stabilire alcuna relazione quantitativa, in un’ottica di ripartizione dei carichi pubblici, con le spese di funzionamento degli enti pubblici.

È sorprendente che tutti questi elementi di riflessione siano stati completamente pretermessi nella teorizzazione dell’imposta come

“obbligazione di riparto”, specie se si considera che quest’ultima si è sviluppata con riferimento a imposte fondate sul principio di capacità contributiva previsto dall’art. 53 Cost.

Nelle teorie della tassazione incentrate sull’ability principle, cioè sulla capacità contributiva, l’aspetto quali-quantitativo della spesa è del tutto indeterminato.

È insomma inconcepibile considerare le imposte basate su indici di capacità

contributiva (cioè, essenzialmente, sulle ricchezze degli individui) come

obbligazioni di riparto di un determinato carico pubblico, per la semplice

ragione che le dimensioni di un tale carico non entrano in alcun modo in gioco

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nella progettazione delle imposte basate su tali capacità economiche

159

. Dunque, proprio non si vede come queste potrebbero essere considerate dei debiti di ripartizione di una predeterminata spesa pubblica.

Per classificare l’imposta come un’obbligazione di riparto, e gli indici di capacità contributiva come degli “indici di riparto”, occorrerebbe adottare il sistema della tassazione per contingente, abbandonato oramai da centocinquant’anni. Altrimenti si rimane alla suggestiva, ma fuorviante, metafora smithiana del condominio.

Sotto un altro profilo, l’idea dell’imposta come obbligazione di riparto di un carico pubblico predeterminato fa a pugni col fatto che tra spesa pubblica ed entrate fiscali vi è un rapporto di tipo circolare, in quanto l’ammontare delle entrate – che dipende non solo dal tipo di imposte, dai criteri di determinazione degli imponibili e dal livello delle aliquote, ma altresì dalla ricchezza prodotta annualmente dalla nazione – influisce sui livelli di spesa, e un calo delle entrate rispetto a quello programmato può indurre ad attuare delle riduzioni di spesa, una ridefinizione, postergazione o un definitivo accantonamento di programmi sociali di assistenza, di progetti infrastrutturali, di aiuti alle imprese, e via dicendo.

Come pure, all’opposto, un incremento delle entrate legato ad un ciclo economico espansivo potrebbe portare ad un incremento della spesa pubblica rispetto ai livelli programmati. Tra entrate pubbliche (non solo tributarie) e livelli di spesa sussiste dunque un rapporto circolare, mentre la categoria delle

“obbligazioni di riparto” induce a pensare a spese rigidamente predeterminate, fissate a priori, ed a specifici tributi in grado di assicurare un gettito certo e sicuro sufficiente al loro sostenimento.

159 Come rileva anche MYRDAL, G., The Political Element in the Development of Economic Theory, Routledge & Paul, 1953, 175, nelle teorie della tassazione basate sull’ability to pay (ovvero sulla “capacità di contribuire”), “the scope of public activity and hence the amount of totale revenue required is left indeterminate”.

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L’idea che le leggi di imposta contengano dei criteri per ripartire tra i consociati un certo debito (carico pubblico) determinabile a priori, stabilendo le quote individuali dovute da ciascun debitore, non è affatto realistica, anzitutto perché non appare predeterminabile l’entità del “carico pubblico”

oggetto dell’asserita ripartizione (se non nei sistemi di tassazione basati sul

“contingente”). Per questa ragione, non sembra nemmeno sensato desumere l’indisponibilità del credito tributario qualificando l’imposta come “credito di ripartizione” dell’ente pubblico, che non potrebbe alterare i criteri di riparto fissati dalla legge se non ledendo gli interessi degli altri contribuenti.

Si è peraltro affermato che il conflitto di interessi implicito nella ripartizione di una spesa comune sarebbe caratteristico non solo delle tassazioni per contingente, ma anche delle imposte di “quotità”, in quanto chi si sottrae alla ripartizione lede gli interessi dei restanti contribuenti, cui saranno perciò addossate le quote di costo della spesa comune rimaste inevase

160

.

Una tale visione del fenomeno tributario, riferita alle moderne imposte basate sulla capacità di contributiva, appare però difficilmente accoglibile; sussiste certo un interesse di fatto di ciascun consociato ad un elevato livello di diffusa fedeltà fiscale, posto che è nel vantaggio di tutti e di ciascuno che allo Stato pervengano le risorse necessarie a finanziare le spese e i servizi pubblici. Non esiste tuttavia alcun automatismo tra i tributi rimasti non pagati da alcuni contribuenti (ad esempio, perché evasi, oggetto di un condono o di un atto dispositivo da parte dell’Amministrazione finanziaria) e la ripartizione del relativo peso sugli altri consociati.

Il minor gettito di un tributo, rispetto alle attese, potrebbe infatti dar luogo ad una pluralità di reazioni, non necessariamente implicanti una ripartizione delle

“quote inevase” sui contribuenti che non si sono sottratti all’imposizione. I

160Cfr. in tal senso FALSITTA, G., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 59-61. Nello stesso senso BEGHIN, M., Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta, cit., 245 ss.

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minori introiti erariali potrebbero anzitutto essere colmati ricorrendo al finanziamento, oppure alla vendita di beni appartenenti al patrimonio o al demanio pubblico, come pure potrebbero dar luogo ad una riduzione della spesa pubblica; ed anche volendo mantenere inalterato il livello del gettito rispetto alle previsioni iniziali, ciò potrebbe avvenire ponendolo a carico – attraverso altri tributi – di altre classi sociali e categorie di contribuenti, diverse da quelle che avevano interamente sopportato il prelievo rimasto parzialmente inevaso.

Per affermare che alla base dell’imposta vi è un criterio di riparto selezionato dal legislatore in vista della sua idoneità ad addossare a ciascun contribuente una “quota” di un debito (gli oneri o carichi pubblici), occorrerebbe poi – come già detto – quantomeno conoscere in anticipo l’entità di tale debito, da ripartire tra i consociati chiamati a pagare il tributo. Ma ciò non sembra possibile, data la mancanza di un vincolo di destinazione del gettito delle singole imposte, e la sua fungibilità.

Occorrerebbe invece, a tal fine, quantomeno una determinazione congiunta e simultanea della spesa e dell’entrata, ed una reciproca interdipendenza dell’una e dell’altra, come peraltro teorizzavano i sostenitori della teoria del beneficio e della controprestazione, che si ponevano il problema dell’efficienza allocativa, e non certo quello di un equo riparto dei carichi pubblici tra i consociati, in applicazione del principio di capacità contributiva.

Ragionando il termini di “obbligazioni di riparto”, l’indice selezionato per la

suddivisione dei carichi pubblici tra gli obbligati dovrebbe essere tale da

consentire l’integrale copertura di una spesa individuata: tuttavia, nel caso

delle imposte basate sulla capacità contributiva, ciò non può verificarsi,

poiché la misurazione della capacità dei singoli è affidata ad indici che

potrebbero non garantire affatto la copertura integrale della spesa (ammesso

che questa sia conosciuta in anticipo, e che sia possibile istituire una

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correlazione con una specifica fonte di entrata), o all’opposto risultare eccedenti rispetto alle effettive necessità finanziarie

161

.

L’“obbligazione di riparto” sembra allora più che altro un ambiguo espediente dialettico, onde enfatizzare il profilo dell’equità orizzontale

162

, a scapito di altri significati attribuibili all’art. 53 della Costituzione, e di altri profili, rilevanti per la tassazione, in esso racchiusi.

Se la sua funzione fosse effettivamente quella di prescrivere al legislatore l’adozione di indici di riparto dei carichi pubblici razionali, non discriminatori, ecc., in una parola, rispettosi del principio di uguaglianza, tutto sommato qualsiasi indice andrebbe bene, alla sola condizione di garantire una effettiva parità di trattamento tra i consociati che si trovano in situazioni analoghe con riferimento all’“indice” in concreto prescelto. Ma se si esclude che l’art. 53 possa effettivamente svolgere tale funzione, attesa la differenza concettuale tra il concorrere, dinamicamente, ad una spesa pubblica in divenire con risorse anch’esse continuamente mutevoli (senza oltretutto possibilità di correlare i singoli gettiti ai diversi capitoli della spesa pubblica), e il ripartire tra una pluralità di soggetti una spesa predeterminata,

161Si immagini infatti di ripartire tra i consociati un determinato ammontare di oneri pubblici utilizzando il reddito individuale quale criterio di riparto: ebbene, anche ammettendo di riuscire a fissare la struttura delle aliquote, delle deduzioni, delle detrazioni, ecc., in modo da preventivare con grande precisione il gettito annuale dell’imposta destinato a fornire copertura finanziaria alla spesa stanziata a bilancio, un rallentamento dell’economia o un periodo di crisi potrebbero determinare una caduta dei redditi prodotti e conseguentemente un gettito minore del previsto. Con la conseguenza che il budget di spesa resterebbe parzialmente privo di copertura.

162Profilo che è stato collegato anche al dogma della “indisponibilità dell’obbligazione tributaria”, che venne fatto derivare da un’esigenza di eguaglianza nell’esazione dei tributi, cioè “nell’intuizione che riducendo o rinviando l’imposta nei confronti di un singolo contribuente, la pubblica amministrazione subordinerebbe all’interesse di quel singolo non tanto il suo proprio interesse alla integrale percezione di quella certa entrata, quanto l’interesse individuale degli altri contribuenti uti singuli a che sia l’imposta giustamente ripartita a carico di tutti e di ciascuno” (BERLIRI, L.V., op. cit., 33).

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l’espressione “capacità contributiva” assume un significato diverso e più pregnante.

È infatti riduttivo ritenere che quest’espressione si limiti a richiedere che le leggi di imposta individuino razionali indici di riparto delle spese pubbliche, esprimendo unicamente un’esigenza di equità orizzontale, nei rapporti tra i singoli consociati, e ponendo lo Stato nella posizione di un semplice e disinteressato osservatore “olimpico”, comunque garantito nelle sue previsioni di gettito.

La capacità contributiva non ha d’altra parte soltanto un valore “per differenza”, rispetto al principio della controprestazione o a quello del beneficio. Si tratta invece di una direttiva vincolante per il legislatore nella scelta dei fatti economici da tassare, i quali devono avere una base patrimoniale e insistere su diritti proprietari dei soggetti obbligati, su espressioni di forza e capacità economica. L’angolo visuale non è dunque soltanto quello, distributivo, della ripartizione di una data spesa su una platea di obbligati, secondo un’asettica logica di suddivisione di carichi pubblici predeterminati; l’imposta non può infatti prescindere dalle ricchezze private in relazione alle quali attingere, non può insomma fondarsi se non sull’effettiva idoneità dei fatti indice, cui si collega il tributo, a far presumere la capacità di fronteggiare l’obbligazione di pagamento stabilita dalla legge.

Su queste basi vi sono seri indizi che l’art. 53 non sottenda – per i consociati –

una garanzia solo relativa, nei rapporti con gli altri consociati, ma altresì una

garanzia assoluta, di ciascun singolo contribuente nei confronti dello Stato

impositore. E tale garanzia si collega anzitutto alla necessità che la tassazione

abbia una base economico-patrimoniale e insista sulle concrete possibilità del

contribuente di assolvere all’obbligo tributario, in altre parole sulla sua ability

to pay.

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Per concludere sull’argomento, pare obiettivamente che vi sia più di un valido motivo per ritenere destituita di fondamento la concezione dell’imposta come un diritto di credito per sua natura indisponibile

163

.

3.2. Le teorie sul fondamento normativo, finanche costituzionale, dell’indisponibilità del credito tributario

Tanto chiarito in via preliminare, se una qualificazione di indisponibilità realmente connota il credito tributario, essa non può che trovare fondamento in una o più norme di diritto positivo ed è appunto a queste ultime, allora, che occorre volgere lo sguardo al fine di stabilire se possa configurarsi una indisponibilità c.d. legale del tributo, derivante cioè da un’espressa disposizione di legge

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.

Orbene, poiché è pacificamente escluso che possa rintracciarsi siffatta previsione in norme di diritto comune (ossia nel codice civile), prima dell’emanazione della Costituzione repubblicana, la disposizione alla quale si faceva solitamente risalire il carattere indisponibile dell’obbligazione tributaria era costituita dall’art. 13 della precedente legge del registro approvata con r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269, che formulava un divieto al Ministro delle finanze, ai funzionari da esso dipendenti e a qualsiasi altra autorità pubblica di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovrattasse

163Meno tranchant il giudizio di GUIDARA, A., Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 121, il quale afferma, comunque, che “tali argomentazioni (quelle addotte da Falsitta a sostegno della sua tesi, n.d.a.), nella sostanza anche condivisibili, non appaiono decisive a fondare l’indisponibilità del tributo”.

164In senso critico, RUSSO, P., Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, cit., 601, per il quale i diversi contributi offerti dalla dottrina – in vista dell’individuazione della disposizione (di legge ordinaria) da cui far discendere, in via generalizzata, l’indisponibilità del diritto di credito tributario, sorto a fronte dell’intervenuta verificazione del presupposto d’imposta – non hanno fornito spunti soddisfacenti.

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stabilite da questa legge, né sospendere dalla riscossione senza divenirne personalmente responsabili”.

Analoga disciplina era introdotta dall’art. 8 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3270, in materia di imposta sulle successioni e, soprattutto, dall’ancora vigente art.

49 del “Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato”, approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 827, che così ancora oggi dispone: “Nei contratti non si può convenire esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca della loro stipulazione”.

A ben vedere trattasi di norme che, in relazione a specifiche fattispecie, vieta(va)no all’Amministrazione finanziaria di accordare dilazioni o esenzioni non previste dalla legge o comunque di applicare l’imposta in maniera difforme dalle statuizioni normative.

Dunque, in ossequio all’impostazione tradizionale, il soggetto passivo di imposta né per contratto, né per concessione dell’Amministrazione finanziaria, può essere liberato dagli oneri tributari che, sulla base del disposto normativo, gravano su di esso

165

.

Infatti, il debito d’imposta trova il proprio fondamento giuridico nella legge (rectius: nella situazione o nell’atto che in base a questa sono idonei a farlo sorgere) e il rapporto di imposta appartiene essenzialmente al diritto

165Per GIANNINI, A.D., Circa la inderogabilità delle norme regolatrici dell’obbligazione tributaria, cit., 293, solo la stessa legge tributaria può disporre in modo diverso, stabilendo espressamente delle esenzioni totali o parziali a favore di coloro che si trovano in una determinata condizione; ma, in mancanza di una norma siffatta, l’applicazione immediata del tributo, ogniqualvolta si realizzi il presupposto previsto dalla legge, non ammette eccezioni. Dello stesso avviso, FANTOZZI, A., Diritto tributario. Parte generale, cit., 222, per il quale, laddove il legislatore non disponga altrimenti, anche in modo implicito, “ogni pattuizione tra ente impositore e contribuente è illegittima qualunque ne sia l’oggetto (esenzioni, accolli, rimborsi)”. Tale conclusione permane “anche se la condotta dello Stato sia illegittima in quanto non abbia emanato esenzioni a seguito di impegni internazionali assunti con Stati stranieri”. L’Autore aggiunge, poi, che è altresì illegittima l’obbligazione, contratta dallo Stato nella convenzione con un privato, di far approvare dal Parlamento una norma di esenzione o di agevolazione.

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pubblico

166

. Il tributo è, quindi, espressione della sovranità: l’obbligazione tributaria verso l’ente impositore assume la natura di obbligazione di diritto pubblico, pertanto inderogabile

167

.

Siffatte conclusioni risultavano peraltro coerenti con le disposizioni costituzionali dell’epoca, ove particolare rilievo rivestiva il principio di legalità di cui all’art. 30 dello Statuto Albertino

168

; se nessun tributo può essere imposto se non in base alla legge, allora esorbita dal potere dell’Amministrazione dello Stato e di ogni altro ente pubblico la facoltà di accordare ai singoli esenzioni o agevolazioni che non siano previste dalla legge stessa.

Delle tre disposizioni degli anni venti richiamate, due – quelle dettate in materia di imposta di registro e di imposta di successione – sono state abrogate in occasione degli interventi di riforma che hanno interessato i rispettivi settori impositivi; principale attenzione va perciò riservata

166REDI, M., Appunti sul principio di indisponibilità del credito tributario, cit., 408, in relazione alla tesi tradizionale di M.S. Giannini e più in generale alla ricostruzione del dibattito sul tema.

167POMINI, R., L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria fra privato e Comune, in Riv.

dir. fin., 1950, II, 51 ss. L’Autore ricorda come qualsiasi convenzione tra privati diretta a modificare gli elementi strutturali dell’obbligazione tributaria sia assolutamente nulla nei rapporti esterni con l’Amministrazione finanziaria. D’altronde, come ci insegnò PAPINIANO, “tale conventionem, quantum ad fisci rationem, non esse servandum respondi:

pactis etenim privatorum forman iuris fiscalis convelli non placuit”, in D. 2, 14, 42. L’unica eccezione a tale regola è costituita dai patti comportanti l’assunzione del debito d’imposta altrui, la cui liceità è stata espressamente riconosciuta dall’art. 8, co. 2, della legge n. 212 del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente), purché non abbiano l’effetto di liberare dall’obbligazione tributaria l’originario debitore (c.d. accollo cumulativo) e non si pongano in contrasto con specifiche disposizioni di legge che prevedono ipotesi di rivalsa obbligatoria (per una trattazione approfondita dell’argomento, v. PAPARELLA, F., L’accollo del debito d’imposta, cit.).

168Oggi sancito dall’art. 23 Cost., anche se la norma dello Statuto, in base alla quale nessun tributo poteva essere imposto o riscosso se non era stato consentito dalle Camere ed approvato dal Re, non era altrettanto valorizzata, presumibilmente, alla luce della natura flessibile che caratterizzava la vecchia Carta costituzionale.

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all’esegesi dell’unica norma rimasta in vigore, l’art. 49 del regolamento sulla contabilità generale dello Stato.

Ebbene, tale enunciato normativo, in verità, ha una portata ed un alveo applicativo ben più circoscritti di quelli che gli attribuiscono coloro che l’hanno eletto a fonte legale dell’indisponibilità del tributo.

Difatti, come ha osservato accorta dottrina

169

, supportata da risalentissima giurisprudenza

170

, l’articolo in questione è destinato unicamente a disciplinare la stipula di appalti, forniture o altri lavori pubblici che, come noto, sono condizionati a precisi stanziamenti di bilancio degli enti appaltanti, a volte coincidenti proprio con gli enti preposti all’applicazione e alla riscossione dei tributi.

L’intento originario perseguito dal legislatore è evidente: evitare che si possa far strada l’idea di concedere abbuoni “selettivi” di tributi per indurre il fornitore a ridurre il prezzo e far rientrare così il lavoro nelle disponibilità di bilancio.

In termini più espliciti, la norma in esame pone un divieto all’utilizzazione dello sgravio fiscale come “merce di scambio” per ottenere forniture ed opere

169CROVATO, F. – LUPI, R., Conferme sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pubblica, in Dial. trib. n. 3 del 2008, 7.

170Corte di cassazione del Regno, sent. 26 febbraio 1937, n. 574, in Dial. trib. n. 3 del 2008, 12. In tale pronuncia, il giudice di legittimità esamina una clausola contenuta in un capitolato speciale di oneri, collegato ad un contratto privatistico con cui un Comune aveva concesso a cottimo dei lavori stradali ed edilizi ad un’impresa. Con detta clausola era stata accordata all’impresa appaltatrice l’esenzione per l’imposta di consumo sui materiali da costruzione impiegati nei lavori. C’è da immaginare che applicare il tributo avrebbe provocato una richiesta di maggiorazione del prezzo o comunque compromesso l’equilibrio economico tra fornitore e committente pubblico.

La Corte di merito aveva ritenuto valida la clausola inserita nel capitolato, considerando lecito il patto con cui si veniva a determinare un corrispettivo di natura patrimoniale attraverso un’esenzione tributaria. La Cassazione ha annullato la sentenza invocando a tal fine, anche per i Comuni, in quanto espressione di un principio di portata generale in materia di contratti pubblici, l’art. 49 del regolamento sulla contabilità generale dello Stato (R.D. 23 maggio 1924, n. 827).

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pubbliche a condizioni migliori, risparmiando sul prezzo oggi, ma rinunciando ad un’entrata tributaria domani. Il che creerebbe mancanza di trasparenza del costo dei lavori per non parlare della confusione tra spese ed entrate pubbliche.

È però altrettanto chiaro che quanto precede non ha assolutamente nulla a che vedere con il rischio di intromissioni degli Uffici amministrativi tese a ridurre il carico tributario in nome di interessi extrafiscali di ordine generale

171

.

Una conferma viene proprio dalla collocazione della disposizione in commento nell’ambito della disciplina dei contratti.

Se con questa e con le altre previsioni cui viene tradizionalmente ricondotta la formula dell’“indisponibilità del credito tributario” il legislatore avesse inteso vietare l’abbuono di tributi in virtù della rilevanza sociale di determinati interessi, la questione avrebbe potuto riguardare anche l’imposta generale sull’entrata o, ai nostri giorni, le imposte sui redditi, e non solo le regole sulla tassazione degli atti giuridici; la norma avrebbe conseguentemente dovuto essere inserita in una disposizione di carattere generale ed essere indirizzata all’autorità amministrativa di vertice

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.

Ma per sancire questa indisponibilità che vietasse sgravi di tributi in funzione della meritevolezza di determinati soggetti o attività (sviluppo, sanità, assistenza, ecc.) non c’era bisogno di disposizioni specifiche, essendo sufficienti quelle sull’azione dell’autorità fiscale, sui compiti che le sono affidati e gli interessi che le è dato considerare

173

.

171La ratio unitaria delle vecchie disposizioni in tema di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è confermata dall’inserimento delle stesse nell’ambito della disciplina del tributo di registro e di imposte assimilate. Questo non perché i rischi rilevati nel testo fossero limitati ai tributi in esame, ma perché all’interno degli atti giuridici potevano inserirsi

“abbuoni di imposta” di altro tipo, che si spiegavano con la convenienza della parte pubblica ad ottenere la prestazione ad un prezzo minore (così LUPI, R., op. ult. cit., 10).

172In questi termini, CROVATO, F., op. ult. cit., 8.

173Come osserva la Cassazione nella sentenza n. 574/1937, “il cittadino non può sottrarsi al pagamento dei tributi, l’Ente pubblico è tenuto a chiederli e destinarli ai loro fini naturali, senza poterli alienare o cedere fuorché nei casi permessi dalla legge… Analogo divieto vige

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Collocata nel giusto contesto, come aiuta a fare la datata sentenza della Corte di cassazione del Regno, l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nel regolamento sulla contabilità generale dello Stato appare quindi come un’innocua norma di rigore amministrativo-contabile, riferita alla stipula di appalti, forniture o altri lavori pubblici, ovvero costruzioni di beni da dare in gestione; lo scopo sottostante è di correttezza contabile, per evitare l’aggiramento dei vincoli di bilancio esistenti, inducendo le controparti private a svolgere determinati lavori grazie alla promessa di futuri sgravi fiscali

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.

per le esenzioni, che non siano consentite dalla legge per considerazioni di ordine obiettivo e d’interesse generale”. L’esenzione è comunque sempre “una deviazione dal principio di uguaglianza” e non può essere concessa “di sua iniziativa” dall’Amministrazione; e “se lo facesse”, aggiunge la Corte nella sentenza in rassegna, verrebbe meno “al suo ufficio” ed

“eserciterebbe un potere costituzionalmente illegittimo”.

174Per un caso simile, v. Cass., 30 maggio 2002, n. 7945, in Dial. dir. trib. n. 1/2004, 21 ss., con commento di LUPI, R., Sull’impossibilità del comune di rinunciare alla Tarsu nel quadro di una convenzione per lo svolgimento di un servizio pubblico. A proposito di disponibilità del credito tributario, e in Banca dati BIG Suite, Ipsoa, relativa ad un caso in cui un Comune aveva dedotto, nel contratto per la costruzione di un’opera pubblica a cura di un terzo, che l’avrebbe gestita, anche l’esenzione dalla Tarsu.

Particolare attenzione merita inoltre, per le rilevanti implicazioni di ordine costituzionale cui si accompagna, Cass., 9 novembre 2004, n. 21311, in Riv. giur. trib., 2005, 668 ss., con nota di PICIOCCHI, P., Alcune considerazioni sull’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nell’ordinamento delle autonomie locali. Con la pronuncia in commento il giudice di legittimità, in forza del principio di inderogabilità dell’obbligo di corresponsione dei tributi, ha impedito ad un Comune di avvalersi, in sede di regolamento contrattuale, della rinuncia alla Tosap in funzione riequilibratrice dell’assetto negoziale di un contratto stipulato dallo stesso ente impositore per l’esecuzione di un’opera pubblica.

Più precisamente, nel caso deciso dalla Suprema Corte, la Commissione tributaria regionale, confermando la pronuncia dei giudici di prima istanza, aveva ritenuto che il principio dell’irrinunciabilità dei tributi codificato nel Regolamento di contabilità dello Stato non era stato violato dalla presenza di una clausola, nell’ambito di un contratto per la realizzazione di un parcheggio, in forza della quale l’Amministrazione committente rinunciava alla Tosap, in quanto “il mancato gettito fiscale, correlato all’area pubblica occupata, sarebbe stato compensato da altra utilità conseguita dal Comune”.

Il vantaggio arrecato dalla riscossione di un’entrata tributaria, in altri termini, poteva essere sostituito dalla convenienza economica derivante da un’operazione di natura diversa. Nel caso di specie, infatti, la società si era obbligata alla costruzione di un parcheggio e, in cambio della rinuncia del committente pubblico alla riscossione della Tosap, aveva accettato

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“di cedere da subito al Comune l’utilizzo gratuito di cinquanta posti auto”. Il beneficio per l’ente impositore risiedeva nel fatto che “tale utilizzo anticipato, per tutta la durata dei lavori, valeva molto di più di quanto il Comune avrebbe potuto incassare a titolo di Tosap”.

L’Amministrazione, pertanto, non aveva disposto dell’obbligazione tributaria mediante il rifiuto alla percezione della tassa perché “un calcolo superficiale, anche riguardante il valore di simile facoltà di utilizzo, conduce chiaramente a ritenere che, in concreto, l’amministrazione comunale non abbia rinunciato ad alcun provento assicurandosi, al contrario, un introito certamente superiore rispetto a quanto avrebbe riscosso applicando il tributo in questione”.

L’argomentazione dei giudici di merito dischiude un’interessante prospettiva dogmatica:

con essa, infatti, non si contesta l’esistenza della regola dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, ma si avanza la suggestiva tesi della fungibilità di siffatta obbligazione con altra utilità e ciò in modo tale da non alterarne la doverosità.

Questa rilevante provocazione, tuttavia, non è stata raccolta dalla Corte di cassazione che nella propria decisione ribadisce l’insegnamento tradizionale per cui, “in presenza del presupposto impositivo, il contribuente è tenuto al pagamento del tributo, salvo che non ricorrano le ipotesi di esenzione espressamente previste dalla legge. Né l’obbligazione tributaria può essere barattata con altre forme di corrispettivo, anche se, in ipotesi, risultassero più convenienti”.

Il fondamento normativo di tale conclusione sarebbe, ad avviso della Suprema Corte, recato dall’art. 49 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), per cui “nei contratti non si può convenire esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca della loro stipulazione”.

Questa disciplina, osserva il massimo Collegio, è conforme al dettato della Costituzione che sancisce “i principi di riserva di legge in materia tributaria (art. 23), di uguale trattamento dei cittadini (art. 3) e di trasparenza degli uffici pubblici (intesa come buon andamento ed imparzialità degli stessi, ex art. 97 Cost.)”.

Sorge, alla luce delle precedenti considerazioni, la necessità di interrogarsi sull’esistenza di un fondamento normativo di carattere generale del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria in modo da poter valere anche nei confronti dell’ordinamento degli enti locali.

L’Autore è convinto che siffatto fondamento non possa rinvenirsi, al contrario di quanto asserito nella sentenza in rassegna, nel regolamento di contabilità generale dello Stato in ragione del potenziamento dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali conseguito alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, sebbene non rinneghi che, molto probabilmente, il miglior deterrente contro la disponibilità del credito tributario è proprio contenuto nelle norme del Regolamento di contabilità dello Stato che configurano la responsabilità degli “agenti che hanno l’obbligo di riscuotere le entrate” per i danni erariali derivanti dalle loro omissioni (artt. 188 ss.).

E poiché la Suprema Corte ha accolto il ricorso sulla base della riconosciuta violazione del principio di indisponibilità sancito da tale regio decreto – e non sulla scorta delle

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disposizioni costituzionali invocate semplicemente ad adiuvandum nella sentenza in commento – l’esito della pronuncia avrebbe potuto essere di segno diverso qualora il massimo Collegio avesse meditato più attentamente sulle conseguenze di ordine sistematico delle proprie affermazioni e sulla possibilità di serbare salda la rigorosa applicazione, in un quadro costituzionale radicalmente mutato, di una normativa contabile dello Stato nei confronti degli enti locali.

Con la riforma del titolo V, infatti, si è inteso innovare la concezione tradizionale che attribuiva allo Stato apparato un ruolo di evidente superiorità nei confronti delle altre autonomie territoriali, quasi che le seconde costituissero un’articolazione del primo (OLIVETTI, M., Lo Stato policentrico delle autonomie, in La Repubblica delle autonomie, a cura di T. Groppi – M. Olivetti, Torino, 2001).

Si è invece preferito valorizzare il concetto di Repubblica come entità comprensiva dei Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato e ciò in una sconosciuta ed inedita dimensione di “pluralismo istituzionale paritario” (CAMMELLI, M., Amministrazione e interpreti davanti al nuovo Titolo V, in Le Regioni, 2001, 1274).

Resta, tuttavia, il bagaglio di una legislazione che, elaborata anteriormente alla inattesa riforma costituzionale, è assolutamente inadeguata nello svilupparne gli indirizzi e manifestarne gli effetti: circostanza vieppiù grave alla luce della improvvida scelta del legislatore costituzionale di non accompagnare il proprio intervento con la predisposizione di una disciplina transitoria che favorisse un’armonica transizione dall’ancien régime al nuovo assetto. Tale scelta, invero, ha indotto la Corte costituzionale ad elaborare il criterio della continuità normativa per evitare la sopravvenuta incostituzionalità della legislazione ordinaria in contrasto con il nuovo Titolo V (cfr. Corte cost., sent. nn. 376 e 383 del 2002, in www.giurcost.it).

La fattispecie sub iudice, da questo punto di vista, offre un clamoroso esempio di queste contraddizioni laddove si presuppone l’applicazione nei confronti degli enti locali di una disciplina contabile dello Stato elaborata durante l’era fascista che, notoriamente, si caratterizzava per l’enfasi posta sulla rigida verticalità tra le diverse amministrazioni e sul centralismo dell’amministrazione statale.

Nessuna sorpresa, dunque, per il fatto che, nell’impostazione del Regolamento di contabilità, le autonomie territoriali non sono neppure ritenute degne di una considerazione autonoma perché nei confronti di esse si assume un ruolo tutorio dello Stato attraverso un’immedesimazione pressoché totale di tali enti autonomi nell’amministrazione erariale. E da ciò non può che conseguire, nella logica dell’esecutivo del 1924, la naturale estensione ai primi dei principi organizzativi e contabili che interessano la seconda.

Si tratta tuttavia di una situazione che l’Autore ritiene non più accettabile in generale e, per quanto rileva in questa sede, nella materia finanziaria e tributaria oggetto di specifiche ed innovative disposizioni costituzionali.

Occorre allora domandarsi se, alla luce delle precedenti considerazioni, anche il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, stante l’assenza di una norma che in via generale e diretta lo disciplina, concorra nella composizione della cornice di regole, immanenti nell’ordinamento tributario, nell’ambito delle quali può esplicarsi la potestà

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Essa non può quindi essere adoperata a presidio di una generica e indifferenziata vincolatezza di tutta l’attività degli Uffici finanziari, enfatizzando il profilo della legalità dell’imposizione, come se questi ultimi non dovessero bilanciare moltissimi aspetti per guardare a quello che viene visto, in modo monolitico, come l’interesse alla “pronta e perequata percezione dei tributi” e che invece si stempera in tanti profili diversi che vanno dalla precisione, alla semplicità, alla certezza dei rapporti, all’economicità nell’uso dei tempi e delle risorse, alla previsione dell’esito

impositiva di Regioni ed enti locali (in senso affermativo, LUPI, R., op. ult. cit., 10, il quale rinviene nel citato art. 49 del regolamento sulla contabilità generale dello Stato un principio di portata generale comportante il divieto, per qualsiasi articolazione della Pubblica Amministrazione, di utilizzare lo sgravio fiscale come moneta di scambio per spuntare condizioni economiche migliori nei contratti pubblici) .

La Corte di cassazione, nella sentenza in rassegna, non si è accostata al problema in questi termini, ma, nondimeno, ha inconsapevolmente risolto il quesito in senso affermativo. Il Comune, infatti, non può disporre dei suoi tributi rinunciando a riscuoterli e, nella misura in cui si verifica il presupposto, è costretto ad esigerli.

Si potrebbe, a questo punto, sminuire la portata di siffatta affermazione attraverso la menzione della giurisprudenza della Consulta sui tributi propri, in forza della quale la paternità statale, regionale o locale del prelievo si decide esclusivamente in relazione all’ente che vi ha posto la relativa disciplina (cfr. ex pluribus, Corte cost., sent. n. 296/2003, in Riv. giur. trib., 2003, 20, con commento di MARONGIU, G., Solo lo Stato può esonerare dal versamento dell’Irap); giurisprudenza ampiamente contestata in dottrina (cfr.

ANTONINI, L., La prima giurisprudenza costituzionale sul federalismo fiscale: il caso dell’Irap, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2003, II, 97) da cui, comunque, discende la conclusione che la Tosap, come la maggioranza dei tributi tradizionalmente considerati locali nel linguaggio comune, costituisce, in realtà, una tassa propria dello Stato perché la relativa normativa è stata posta in essere dal legislatore nazionale, residuando, al più, un potere regolamentare delle autonomie territoriali. Sicché, secondo questa ricostruzione, la Corte di cassazione potrebbe aver ragionato nel solco di tale impostazione, applicando un principio dell’ordinamento tributario dello Stato – quello dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria – a un tributo che resta dello Stato stesso, nonostante la circostanza, ininfluente, che il gettito sia devoluto all’ente locale.

Soltanto in tal senso potrebbe essere coerente la cassazione della sentenza della Commissione regionale in forza della violazione dell’art. 49 del Regolamento di contabilità generale dello Stato. Questo percorso argomentativo, tuttavia, non è stato minimamente considerato e, a quanto pare, neppure presupposto nella sentenza in rassegna.

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