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Vantaggi (e svantaggi) del mediatore-arbitro: considerazioni sparse intorno al procedimento arbitrale affidato alle commissioni di conciliazione - Judicium

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www.judicium.it PAOLA LICCI

Vantaggi (e svantaggi) del mediatore-arbitro: considerazioni sparse intorno al procedimento arbitrale affidato alle commissioni di conciliazione

1. Premessa. – 2. Conciliazione facoltativa e arbitrato nell’art. 412 c.p.c. – 3. I vantaggi della continuità del collegio dalla fase conciliativa a quella arbitrale. - 4. I sospetti sulla indipendenza e imparzialità della commissione di conciliazione e arbitrato. – 5. Il mediatore-arbitro nel D.Lgs. 28/2010 e il dovere di riservatezza. - 6. Segue La riservatezza e l’inutilizzabilità delle informazioni acquisite nel corso della procedura di conciliazione nel successivo procedimento arbitrale ex art. 412 c.p.c. – 7. Conclusioni

1. Dopo un travagliato iter parlamentare è venuta alla luce la L. 183/2010 (c.d. collegato lavoro) che introduce una molteplicità di nuovi modelli di arbitrato (irrituale) di lavoro modificando la precedente disciplina del codice di rito prevista dai decreti legislativi 80 e 387 del 19981. Gli artt.

412 ter e quater c.p.c., con il loro arbitrato da contratto collettivo, vengono meno e lasciano spazio ad un gran numero di modelli arbitrali finalizzati – almeno nelle intenzioni del legislatore – a ridurre il carico di contenzioso giuslavoristico dei tribunali italiani. A prima vista, l’idea della ricerca di un modello arbitrale unico (cui sembrava essersi giunti con la vecchia disciplina codicistica2) parrebbe abbandonata3: l’art. 31 contempla ben quattro tipi di arbitrato di lavoro da

1 L’iter di riforma del processo del lavoro ha avuto inizio, nel corso della XVI legislatura, con il disegno di legge C 1441 quater del 5 agosto 2008 in tema di “Delega al Governo in materia di lavori usuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavoro sommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro”, approvato per la prima volta dalla Camera il 28 ottobre 2008. Per la sua approvazione definitiva sono occorse ben sette letture con conseguenti modifiche che hanno portato il testo originario della legge da 9 articoli a 50 in quello definitivo. Durante la

“navetta” tra i due rami del Parlamento non sono mancate le discussioni di natura politica sulle novità del collegato soprattutto in ordine all’arbitrato previsto nelle clausole compromissorie inserite all’interno dei contratti individuali di lavoro, tanto da impedirne la promulgazione dopo il placet di Camera e Senato. Il Presidente della Repubblica investito del compito di promulgare la legge ai sensi dell’art. 73 Cost., il 31 marzo 2010, ha rinviato il ddl alle Camere con messaggio motivato per richiedere al Parlamento modifiche del testo, soprattutto in tema di arbitrato (sul messaggio del Presidente della Repubblica v. infra). Così il provvedimento è tornato alla Camera dei deputati per essere emendato nel rispetto delle osservazioni del Capo dello Stato, poi al Senato ed infine il 18 ottobre 2010 è stato definitivamente approvato dalla Camera (nel frattempo il ddl è divenuto il C 1441 quater- F), senza ulteriori modifiche, entrando in vigore il 24 novembre 2010. Prima dell’approvazione definitiva della legge molti sono i contributi sul disegno di legge.

V. ex plurimis BALLESTRERO, Perturbazione in arrivo. I licenziamenti nel d.d.l. 1167, in Lav. e dir., 2009, 3 ss.;

MARIUCCI, Il diritto del lavoro ondivago, ivi, 2009, 25 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA,L’arbitrato nelle controversie di lavoro, in questa Rivista, 2008, 459 ss.; PUNZI,L’arbitrato in materia di lavoro: fonti e impugnazioni, in Mass. giur.

lav., 2010, 356; CAPPONI, Le fonti degli arbitrati di lavoro, ibid., 361; VALLEBONA, L’arbitrato irrituale per le controversie di lavoro, ibid., 363 s.; BERTOLDI,Il regime di impugnazione dei lodi irrituali in materia di lavoro, ibid., 368 ss.; TISCINI,Nuovi disegni di legge sulle controversie di lavoro tra conciliazione e arbitrato, ibid., 372 ss.;

BORGHESI, Le nuove frontiere dell’arbitrato del lavoro secondo il disegno di legge n. 1441-quater, Lav. dir., 2009, 13 ss.; PELLACANI, Il cosiddetto “collegato lavoro” e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro, in Riv. it.

dir. lav., 2010, 215 ss.; MISCIONE, Quale arbitrato d’equità in materia di lavoro, in Dir. prat. lav., 2010, 1298;

SPEZIALE, La riforma della certificazione e dell’arbitrato nel “collegato lavoro”, in Dir. lav. merc., 2010, 129 ss.;

CENTOFANTI, Le nuove norme, non promulgate, di limitazione della tutela giurisdizionale dei lavoratori, in Lav. giur., 2010, 329 ss.; BARRACO, Il Collegato lavoro: un nuovo modus operandi per i pratici e, forse, un nuovo diritto del lavoro, ivi, 2010, 344 ss.; MURONI,Arbitrato in materia di lavoro, in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO, RADICATI DI BROZOLO Padova, 2010,396, 397;

STROPPARO,Commento sub S. 1167-- b/bis, in Codice di procedura civile commentato, a cura di CONSOLO,Padova 2010, 2387; SAVANCO,Controversie di lavoro, in Il diritto dell’arbitrato. Disciplina comune e regimi speciali, a cura di RUBINO SAMMARTANO,tomo II, Padova, 2010, 1387; PESSI,La protezione giurisdizionale del lavoro nella dimensione nazionale e transnazionale: riforme, ipotesi, effettività, in Riv. it. dir. lav., 2010, 195 ss.

2 Alla disciplina prevista dagli abrogati artt. 412 ter e quater c.p.c. era attribuita valenza di disciplina generale da TARZIA,Manuale del processo del lavoro, Milano 2008, 70 ss.

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compromesso4 con una disciplina apparentemente variegata nonché un arbitrato giuslavoristico da clausola compromissoria5. Così facendo, la proliferazione dei modelli della L. 183/2010 si pone in contrasto con la tendenza del legislatore, manifestata da ultimo nella L. 69/2009, art. 54, di

“semplificazione” del processo civile (vero è che qui si opera nel campo delle ADR e non nel processo giurisdizionale, ma una maggiore coerenza legislativa sarebbe stata quanto meno opportuna)6 .

2. Il primo modello disegnato dalla L. 183/2010 è regolato dal comma 5 dell’art. 31 L. cit.7. Con esso si sostituisce il contenuto dell’art. 412 c.p.c. con la previsione secondo cui le parti, in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, possono accordarsi per risolvere per via arbitrale la controversia affidando alla commissione di conciliazione il relativo mandato. La procedura di cui al comma 5 dell’art. 31 L. cit. si presenta quindi preceduta dall’esperimento del tentativo di conciliazione.

Occorre rilevare che, sebbene dalla lettera della norma il tentativo di conciliazione appaia quale presupposto imprescindibile per la proposizione della domanda arbitrale, esso non costituisce condizione di procedibilità di detta domanda atteso che la conciliazione, a norma del nuovo art. 410 c.p.c.8, è facoltativa. Sicché i litiganti che coscientemente e volontariamente optano per la procedura

3 Così PUNZI,L’arbitrato in materia di lavoro, cit., 356; ID., L’arbitrato per la soluzione delle controversie di lavoro, in Riv. dir. proc., 2011, 10.

4 Più esattamente gli arbitrati introdotti dalla L. 183/2010 sono: l’arbitrato ex lege regolato dall’art. 412 c.p.c.

affidato alle commissioni di conciliazione, l’arbitrato ex contractu dell’art. 412 ter c.p.c., l’arbitrato ex lege dell’art. 412 quater c.p.c.

5 Ai sensi dell’art. 31 comma 10 L. 183/2010, le parti possono decidere di devolvere in arbitrato una controversia di quelle previste dall’art. 409 c.p.c. secondo le procedure degli artt. 412 o 412 quater c.p.c., tramite clausola compromissoria quando ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative sul piano nazionale e purchè tale clausola sia, a pena di nullità, certificata dagli organismi di certificazione di cui all’art. 76 D. Lgs. 276/2003.

6 In argomento v. CENTOFANTI,Accordi preventivi e accordi contingenti per la scelta delle forme di arbitrato nel Collegato lavoro 2010, in Corr. Giur. 2011, 99 ss. secondo cui i problemi della giustizia del lavoro dovrebbero essere risolti attraverso un miglioramento dell’efficienza, celerità ed effettività della stessa e non proponendo «itinerari alternativi».

7 La disciplina dell’art. 412 c.p.c. assume particolare importanza rispetto agli altri modelli arbitrali introdotti dalla L. 183/2010 in quanto stabilisce una serie di regole (quali quelle sull’impugnazione, sulla decisione secondo equità e, più in generale, sulla sua modalità di svolgimento) esportabili alle altre forme di arbitrato giuslavoristico regolate dal codice in forza degli espressi richiami in esse contenuti all’art. 412 c.p.c. o alla sua disciplina.

8 L’odierna previsione della facoltatività del tentativo di conciliazione mitiga i dubbi che aleggiavano intorno al rapporto tra il vecchio arbitrato giuslavoristico degli artt. 412 ter e quater c.p.c. e il tentativo ex art. 410 c.p.c. Sotto l’egida della vecchia disciplina codicistica, e quindi con l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione dell’art. 410 c.p.c., vi era chi affermava che la formulazione letterale dell’art. 412 ter c.p.c. (abr.), equiparando il fallimento del tentativo di conciliazione all’avvenuto decorso del termine per il suo espletamento, ai fini della possibilità di promuovere la domanda, proprio come previsto per il processo del lavoro dall’art. 410 bis c.p.c. sembrava porre sullo stesso piano le condizioni per la proposizione del ricorso arbitrale a quelle per la domanda giudiziale. Sicchè, in tale prospettiva, il tentativo di conciliazione avrebbe assunto la veste di condizione di procedibilità dell’arbitrato. Cfr. BOCCAGNA, Riforma dei rapporti di lavoro e del processo nelle pubbliche amministrazioni, in Le nuove leggi civili commentate, Padova, 1999, sub artt. 36, 39, II, 1568, secondo cui il tentativo di conciliazione non costituirebbe condizione di procedibilità della domanda arbitrale ma addirittura condizione di arbitrabilità della controversia; CHIARLONI, Prime riflessioni sulla riforma del pubblico impiego e processo, in Corr. giur., 1998, 628, al quale sembra che il tentativo di conciliazione sia previsto come condizione di validità del compromesso, ai sensi dell’art. 412 ter, comma 1, c.p.c.;

MONTELEONE, , L’arbitrato nelle controversie di lavoro – ovvero – esiste ancora l’arbitrato irrituale?, in Riv. trim. dir.

proc. civ., 2001,60, il quale fa discendere dalla qualificazione del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda arbitrale l’impossibilità di attribuire all’arbitrato di cui agli artt. 412 ter e quater c.p.c. la natura di irrituale. V. invece LUISO, L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo al riforma del 1998, in questa Rivista., 1999, 32, 33, secondo cui le parole introduttive del vecchio art. 412-ter c.p.c. hanno portata descrittiva e

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conciliativa, nel fermo proposito di evitare la via giurisdizionale per la risoluzione della loro controversia, ove questa non riesca, «possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia». L’utilizzo congiunto di conciliazione e arbitrato è quindi solo espressione della volontà del legislatore di potenziare gli strumenti di soluzione alternativa delle liti. Ove le parti non intendano accordarsi amichevolmente nel corso o al termine della procedura di conciliazione, e stabiliscano invece di voler risolvere la controversia attraverso una decisione vincolante assunta da un soggetto terzo, possono rivolgersi allo stesso organismo che ha tentato di mediare la lite, e quindi ne conosce i contenuti, perché la decida. Il che non vuol dire che la conciliazione sia condizione di procedibilità della via arbitrale ma piuttosto condizione di opportunità della stessa, atteso che solo con essa le parti sono in grado di capire se vi sono margini transattivi o, in ogni caso, chance di evitare la via contenziosa9. In altri termini, il tentativo di conciliazione si pone solo come antecedente logico necessario e non come condizione in senso tecnico di procedibilità10. Il suo mancato esperimento non comporta pertanto invalidità del lodo11.

D’altronde, imporre il tentativo di conciliazione alle parti che intendono devolvere la loro lite ad arbitri si rivelerebbe privo di utilità. Se infatti il tentativo de quo può avere nei confronti del processo giurisdizionale una funzione di economia processuale, impedendo che vengano inopportunamente caricati gli uffici giudiziari di controversie bonariamente risolvibili in via extragiudiziale, analogo ruolo non può essergli attribuito nei riguardi del processo arbitrale posto che in esso non sorgono le stesse esigenze di economia processuale 12.

non precettiva. «Esse non pongono un presupposto necessario per la validità del lodo, ma descrivono quello che normalmente accade: le parti si rivolgono all’arbitrato dopo aver constatato che la controversia non può essere risolta attraverso una conciliazione». Così anche MURONI, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Corr. giur., 1998, 1345.

9 Sotto questo profilo è certamente da guardarsi con favore la neo facoltatività del tentativo di conciliazione nel lavoro. La consecutio conciliazione – arbitrato è espressione dell’autonomia delle parti che, decidendo di sottrarsi alla via giurisdizionale, tentano prima spontaneamente la via conciliativa e poi, ove questa non riesca, ma vi siano comunque margini per un accordo, scelgono di rivolgersi sempre alla stessa commissione di conciliazione perché, dopo aver vanamente cercato una soluzione amichevole della controversia, possa essere investita della risoluzione della lite.

Valuta positivamente la scelta di rendere facoltativa la conciliazione al fine di favorire il ricorso all’arbitrato TISCINI, Nuovi disegni di legge sulle controversie di lavoro, cit., 373 ss. Così anche BORGHESI, L’arbitrato ai tempi del

“collegato lavoro” in www.judicium.it, § 1; LICCI,L’arbitrato, in I profili processuali del collegato lavoro, Dike 2011, 64 ss.

10 V. TISCINI,op. ult. cit., 377, secondo cui il venir meno della fase conciliativa come condizione di procedibilità nel processo davanti ai giudici, esclude che essa venga prevista come condizione di procedibilità dell’arbitrato.

D’altronde era già dubbio sotto l’egida della vecchia disciplina prevista dagli artt. 412 ter e quater c.p.c. che il mancato esperimento del tentativo di conciliazione (allora obbligatorio ai sensi dell’art. 410 c.p.c.) comportasse la nullità del lodo (v. LUISO,L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo al riforma del 1998,cit.. 1999, 32 ss.; MURONI, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., 1345; MAGRINI, La «piccola riforma» della conciliazione e dell’arbitrato, in Dir. prat. lav. 1998, 1591;VACCARELLA,Appunti sul contenzioso di lavoro cit., 34);

ancor più oggi, con il venir meno dell’obbligatorietà della conciliazione, dovrebbe negarsi che il mancato svolgimento della stessa comporti vizi della decisione arbitrale.

11 Le cause di invalidità del lodo sono quelle indicate nell’art. 808 ter c.p.c. e tra di esse non si rinviene l’ipotesi di mancato esperimento del tentativo di conciliazione prima della proposizione della domanda arbitrale a meno di non voler considerare tale vizio alla stregua della violazione delle regole che presiedono la formazione dell’organo giudicante.

12 Così LUISO,L’arbitrato irrituale, cit., 32. V. anche MURONI, La nuova disciplina , cit., 1345, secondo cui imponendo il tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità della via arbitrale si introdurrebbe uno strumento volto a perpetuare le controversie piuttosto che a favorirne la risoluzione.

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3. La creazione di una continuità tra conciliazione e arbitrato (continuità che, come si è detto, non è qualificabile in termini di condizione di procedibilità) non è nuova al nostro ordinamento13 e, nel caso della procedura dell’art. 412 c.p.c. si rivela una scelta alquanto opportuna considerato che l’organo chiamato a decidere della controversia – commissione di conciliazione – è lo stesso dinanzi al quale le parti hanno tentato la conciliazione14. Si tratta perciò di organo già

“sperimentato” in quanto informato dei termini della controversia, delle posizioni delle parti e dell’eventuale spazio per un accordo, ed in grado quindi di giungere più rapidamente alla soluzione della lite 15.

Se quello che in prima battuta ha tentato di conoscere dell’esistenza di un margine transattivo è lo stesso organo che in un secondo momento è chiamato a decidere della controversia, allora il suo compito è notevolmente semplificato e sarà probabilmente assolto nel modo più corretto e conforme alla verità sostanziale dei fatti e in tempi più ragionevoli.

Inoltre la continuità tra le due fasi è espressione della volontà chiara delle parti di prediligere un sistema alternativo di risoluzione delle controversie: ove la conciliazione non riesca, o dia un esito solo parzialmente positivo, è assicurata ai litiganti la possibilità di proseguire per la via delle ADR, assecondando così la loro volontà originaria16, attraverso il ricorso all’arbitrato.

4. Ferma restando l’utilità della successione tra organo conciliativo e arbitrale, è stato osservato17 che l’identità tra chi concilia e chi decide potrebbe ledere i principi di imparzialità, indipendenza e riservatezza che dovrebbero governare la fase di mediazione, principi che imporrebbero a chi giudica di essere equidistante dalle parti e a chi concilia di non utilizzare le dichiarazioni rese nella fase di mediazione nel corso del giudizio18.

13 In particolare l’art. 5 L. 108/1990, in materia di licenziamenti individuali, ha previsto che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia seguito dall’arbitrato facoltativo dinanzi allo stesso collegio. Analoga stretta relazione tra arbitrato e conciliazione è ravvisabile nel modello di arbitrato ex lege previsto dall’art. 7 L. 604/1966 in materia di licenziamento individuale nonché nel nuovo Statuto dell’Ufficio del lavoro della Sede apostolica, in vigore dal 1°

gennaio 2010 per cui si rinvia a PICARDI,Il Collegio di conciliazione ed arbitrato dell’Ufficio del lavoro della Sede apostolica in AA.VV.,Sull’arbitrato.Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli,2010,626.

14 La procedura dell’art. 412 c.p.c. richiama quella del med-arb impiegata negli ordinamenti anglosassoni in cui mediazione e arbitrato confluiscono in un unico procedimento all’interno del quale la fase arbitrale segue quella conciliativa senza soluzione di continuità e davanti allo stesso soggetto. Sulla figura del med-arbiter anche nel contesto internazionale v. PANZAROLA,“Nessuno può servire a due padroni”? Riflessioni sul mediatore che diventa arbitro, in AA.VV.,Materiali e commenti sulla mediazione civile e commerciale, a cura di MARTINO, Bari, 2011, 143 ss. il quale osserva come il fatto che le parti affidino alla medesima persona il compito di mediare e di decidere la controversia possa segnare al contempo il successo e il fallimento dei sistemi di med-arb; ID.,Il D. Lgs. n. 28 del 2010 tra mediazione ed arbitrato: arb-med, med-arb e medaloa, in Materiali e commenti, cit., 90 ss. Sul tema v. anche CUOMO ULLOA,La conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, 396.

15 In tal senso PANZAROLA,op. ult. cit., 93, secondo cui «le conoscenze e le informazioni che il mediatore abbia acquisito in relazione alle questioni controverse gli sarebbero comunque utili al momento di stendere il lodo. Se ne gioverebbero, in vario modo, anche i contendenti, ai quali sarebbe risparmiato il tempo altrimenti necessario per curare ex novo la quaestio facti».

16 Osserva TISCINI,Nuovi (ma non troppo)modelli di titolo esecutivo, in www.judicium.it, 10, in particolare nota 80, che la volontà espressa in sede conciliativa non è solo quella di giungere ad un accordo ma di scegliere la via delle ADR.

17 In tal senso ZUCCONI GALLI FONSECA, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., 2008, 481; CANALE, Arbitrato e “collegato lavoro”, in www.judicium.it. Contra AULETTA, Le impugnazioni del lodo nel «Collegato lavoro» (L. 4 novembre 2010, n. 183), in www.judicium.it, 1.

18 Così è ad esempio nella mediazione disciplinata dal D. Lgs. 28/2010 ove all’art. 10 è previsto che le informazioni rese nel corso della mediazione siano inutilizzabili in sede contenziosa nei giudizi aventi «il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione». Osserva la contraddizione legislativa BORGHESI,L’arbitrato ai tempi del “collegato lavoro”, in www.judicium.it; ID,Gli arbitrati in materia di lavoro, in Il diritto processuale del lavoro, a cura di VALLEBONA,Padova, 2011, 653.

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Quanto all’imparzialità, deve osservarsi innanzitutto che la successione degli stessi commissari dalla fase conciliativa a quella di giudizio non può identificarsi con l’avvicendamento degli organi giudicanti nei vari gradi del processo o nel passaggio da arbitro a giudice. In tali ultime ipotesi, l’imparzialità di chi giudica viene garantita dalla previsione dell’obbligo di astensione e nella possibilità per le parti di richiedere la ricusazione19. In particolare, perché si verifichi una incompatibilità tale da consentire l’operatività degli artt. 51 e 52 c.p.c. occorre che il giudicante abbia già compiuto una effettiva cognizione della causa in sede decisoria e in un altro grado del processo20. In altri termini, è necessario che l’attività svolta in prima battuta dal giudice abbia natura analoga a quella (decisoria) espletata in un secondo momento nel giudizio.

Nel modello descritto dall’art. 412 c.p.c. e, quindi, nella successione tra conciliazione e arbitrato, tale identità di funzioni non è ravvisabile. Il compito che svolge l’arbitro è ben diverso da quello spiegato dal conciliatore: l’uno rappresenta un terzo estraneo alla lite, chiamato a risolverla e la cui decisione diviene vincolante per le parti indipendentemente dalla loro volontà. L’altro è un intermediario che agevola la ricerca di una soluzione della controversia tra i litiganti, soluzione non imposta dal mediatore ma voluta e scelta dalle parti. Il fatto che la stessa persona svolga entrambe le funzioni non può avere rilevanza sul piano dell’imparzialità, atteso che non si tratta di compiere una identica attività di giudizio in due momenti distinti ma di esercitare dei compiti differenti ognuno dei quali con finalità diverse. D’altra parte, il previo svolgimento di attività conciliativa da parte dell’arbitro non è configurabile come ipotesi di ricusazione dello stesso ai sensi dell’art. 815 c.p.c.

Inoltre deve osservarsi come l’attribuzione del duplice potere di tentare la conciliazione e decidere la lite in capo ad un unico soggetto sia già nota al processo civile: nella conciliazione giudiziale, in particolare in quella descritta dall’art. 420 c.p.c. per il processo del lavoro, il giudizio prosegue innanzi alla medesima persona fisica che ha previamente tentato la conciliazione. Non si comprende perciò come la figura del conciliatore-giudice non desti le analoghe perplessità che gravano sul conciliatore-arbitro.

Vero è che la conciliazione giudiziale soggiace a regole differenti rispetto a quelle proprie della conciliazione stragiudiziale, ma il ruolo svolto da chi è chiamato a mediare la lite e poi a deciderla non cambia. Tanto più che oggi, a seguito della riforma dell’art. 420 c.p.c. ad opera della L.

183/2010, anche il giudice, come la commissione di conciliazione ai sensi del nuovo art. 410 c.p.c., è tenuto a formulare una proposta in caso di esito negativo della procedura conciliativa21. Nessuna differenza è quindi prospettabile sul piano dei poteri attribuiti al conciliatore tra conciliazione giudiziale e stragiudiziale22, sicchè se la prima non determina una violazione del principio di imparzialità, ad analoghe conseguenze dovrebbe giungersi con riferimento alla conciliazione espletata da chi poi diverrà arbitro della causa.

Il problema, semmai, andrebbe osservato sotto un diverso angolo visuale.

Il limite principale della conciliazione-arbitrato23 è di carattere pratico. La procedura di mediazione instaurata volontariamente dalle parti potrebbe essere privata ab origine dell’elemento della confidenzialità che, di norma, rappresenta il motore che consente il corretto ed efficace funzionamento della conciliazione. I litiganti, infatti, sapendo con anticipo che il conciliatore può divenire arbitro della controversia, potrebbero agire in modo da non palesare i propri reali interessi,

19 L’art. 51 c.p.c. prevede l’obbligo di astensione per il giudice che abbia conosciuto della causa come magistrato in un altro grado del processo o come arbitro.

20 V. in argomento LUISO,Diritto processuale civile, I, Milano, 2009.

21 Critico nei confronti della previsione dell’obbligo di formulazione della proposta da parte della commissione di conciliazione è PESSI,La protezione giurisdizionale del lavoro, cit., 202. L’A., al contrario, ritiene che l’analoga previsione in capo al giudice abbia carattere incisivo sino ad ipotizzarsi la sola in grado di ridurre il contenzioso giuslavoristisco.

22 Contra CANALE,op. cit., in particolare nota 46.

23 Il limite della conciliazione- arbitrato è comune alla conciliazione giudiziale poiché in entrambi i casi le parti hanno difficoltà ad aprirsi, confidando i loro reali interessi, con chi poi sarà chiamato a giudicarli.

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impendendo così al mediatore di facilitare il raggiungimento dell’accordo e rendendo inutile l’esperimento del tentativo di conciliazione24.

Tuttavia, occorre tenere presente che le parti dopo il fallimento della conciliazione sono libere di scegliere o meno la via arbitrale e l’opzione per la procedura dell’art. 412 c.p.c. costituisce prova di fiducia delle stesse nei confronti del collegio. Sicchè esse compiono una scelta consapevole tanto all’atto della proposizione del tentativo ex art. 410 c.p.c., quanto al momento della devoluzione della controversia ad arbitri. Ove pertanto ravvisino profili di parzialità derivanti dal cumulo di funzioni, possono, una volta esperito il tentativo, rinunciare a promuovere la domanda arbitrale25.

5. Ulteriore questione posta in relazione al giudizio arbitrale instaurato dopo il fallimento del tentativo di conciliazione è quella della riservatezza delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso del procedimento.

Si è detto che la via della conciliazione (scelta in prima battuta dalle parti) può funzionare solo se i litiganti confidano nell’imparzialità della commissione ma soprattutto se nutrono la certezza che le informazioni personali che esse rendono nella fase di mediazione non siano in grado di influenzare il successivo ed eventuale giudizio arbitrale. Il che implica per il conciliatore l’obbligo di non divulgare sia a terzi sia alle parti quanto appreso nel corso del procedimento conciliativo e nell’impossibilità di utilizzare le dichiarazioni rese dai litiganti per decidere la controversia quando egli vestirà i panni dell’arbitro.

La previsione dell’obbligo di riservatezza rappresenta quindi una chiave essenziale per consentire che le parti coinvolte nella conciliazione si aprano al conciliatore manifestando i loro reali interessi. Tuttavia la L. 183/2010 non si è preoccupata di affrontare il problema che invece ha costituito oggetto d’attenzione da parte del D. Lgs. 28/201026. Il legislatore della disciplina della mediazione civile e commerciale27, muovendo dall’idea che solo se le parti nutrono piena fiducia nella persona che guida la procedura di mediazione possono aprirsi con essa e, “scoprendo le carte”,

24 Così CANALE, op. cit., 11 il quale ritiene che per superare l’ostacolo sarà necessario e sufficiente che l’organizzazione degli uffici di conciliazione preveda una separazione tra coloro che compongono le commissioni di conciliazione e coloro che compongono gli eventuali collegi arbitrali, così che la persona fisica chiamata ad ascoltare le confidenze delle parti nella mediazione non sia la stessa che è chiamata a giudicarle. In tal senso v. ZUCCONI GALLI FONSECA,op. ult. cit., 471. Per PANZAROLA,Il D. Lgs. n. 28 del 2010, cit., 93, il pericolo legato all’istituzione della più generale figura del mediatore-arbitro potrebbe essere fugato attraverso la previsione nella clausola di conciliazione- arbitrato di un potere di “to opt-out” e cioè del potere di rinunziare all’impiego del mediatore come arbitro ogniqualvolta vi siano dubbi sulla imparzialità dello stesso. L’A. tuttavia rileva come detta soluzione non sia esportabile al modello disegnato dal legislatore nell’art. 412 c.p.c. atteso che in esso le parti non godono del potere di scelta del proprio med- arbiter.

25 Cfr. DONZELLI,La risoluzione arbitrale delle controversie di lavoro, in Il contenzioso del lavoro, a cura di CINELLI, FERRARO,Torino, 2011, 126, secondo cui il problema dell’imparzialità della commissione va affrontato distinguendo l’ipotesi in cui il potere di decidere in via arbitrale sia conferito prima o dopo il tentativo di conciliazione.

In tale ultima ipotesi, il problema dell’imparzialità non sussiste. Nel caso in cui la soluzione arbitrale sia invece intrapresa prima o durante lo svolgimento della conciliazione, resta aperta per le parti la possibilità, nel caso di sospetto di parzialità della commissione, di attendere l’infruttuoso esperimento del tentativo per poi decidere se conferirle o meno l’incarico di risolvere la controversia.

26 Cfr. VALERINI,Il tentativo facoltativo di conciliazione, in I profili processuali, cit., 18 ss. secondo cui il legislatore della L. 183/2010 ha perso l’occasione di migliorare qualitativamente il procedimento di conciliazione del D.

Lgs. 28/2010 al quale si sarebbe dovuto ispirare anche il c.d. collegato lavoro.

27 Prima del D. Lgs. 28/2010 mancava un riferimento unico in materia di doveri ed obblighi del conciliatore. Ciò dipendeva dalla presenza di tante forme di conciliazione ratione materiae le quali a loro volta comportavano una varietà di organi chiamati a svolgere la funzione conciliativa con una corrispondente varietà di regolamenti. Così BUONFRATE, LEOGRANDE, La giustizia alternativa in Italia tra ADR e conciliazione, in questa Rivista, 1999, 387.

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consentire di comprendere se effettivamente vi siano margini transattivi, ha organicamente regolato i doveri e gli obblighi del conciliatore28.

Occorre però rilevare come la disciplina sulla riservatezza (art. 9 D. Lgs. cit.) e inutilizzabilità delle dichiarazioni e informazioni rese nel corso della procedura di mediazione (art. 10 D. Lgs. cit.) non spieghi in maniera esplicita se nella conciliazione introdotta dal D. Lgs. 28/2010 sia possibile dare ingresso alla figura del mediatore-arbitro. In dottrina il dibattito è diviso tra coloro29 che, fondandosi sulla previsione del dovere di riservatezza, sostengono che il D.Lgs. cit. escluda l’eventualità che il conciliatore possa - nel caso di esito negativo della conciliazione – decidere la controversia e coloro che, perlomeno in astratto, lo considerano possibile30.

Stando a quest’ultima tesi, il carattere derogabile del dovere dell’art. 9 D. Lgs. cit., nonché di quello dell’art. 10 D. Lgs. cit., accorda sempre alle parti il potere di esprimere liberamente e consapevolmente il consenso a che lo stesso soggetto che ha vestito i panni di mediatore possa vestire quelli di arbitro 31. Tuttavia, residua l’ostacolo delle eventuali incompatibilità tra le due figure, incompatibilità che, ai sensi dell’art. 7 D.M. 180/2010, devono essere determinate dal regolamento di procedura dell’Organismo di mediazione. Infatti, ove lì si escludesse esplicitamente che il mediatore possa svolgere la funzione di giudice privato nella stessa controversia, in caso di insuccesso della conciliazione, allora ogni eventualità di dare ingresso al med-arb nella mediazione civile e commerciale sarebbe vanificata. Si pensi, a tal proposito, al Codice etico predisposto e allegato da Unioncamere al proprio regolamento di procedura, ove al punto 12 si esclude espressamente che le due attività (di mediazione e di conduzione dell’arbitrato) siano svolte dallo stesso soggetto.

6. Nessuna disciplina sulla riservatezza è stata invece pensata per la conciliazione nel lavoro.

Sicchè deve domandarsi se, in assenza di una espressa previsione normativa, possano applicarsi alla commissione di conciliazione gli stessi doveri incombenti sul mediatore e se, nel caso di inoperatività del dovere di riservatezza, la conciliazione –arbitrato sia predestinata a non funzionare

28 In particolare gli artt. 9, 10 e 14 del D.Lgs. 28/2010 offrono, in conformità alla normativa comunitaria, un quadro dei doveri ed obblighi cui è tenuto il mediatore tanto nel corso della procedura quanto al di fuori di essa. In primis il legislatore ha previsto all’art. 9 D.Lgs. cit. il dovere di riservatezza in virtù del quale il mediatore è tenuto a garantire la riservatezza di tutto quanto attiene alla procedura conciliativa sotto un duplice profilo: esterno ed interno.

Esterno, in quanto egli non deve divulgare le informazioni e le dichiarazioni acquisite nello svolgimento delle proprie funzioni ai soggetti estranei alla procedura; interno poiché il mediatore è tenuto alla riservatezza di quanto appreso da una delle parti nei confronti delle altre. Corollario del dovere di segretezza è l’inutilizzabilità delle informazioni rese nel corso della mediazione in sede contenziosa nei giudizi aventi “il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione” nonché l’inammissibilità della prova testimoniale e del giuramento decisorio sul contenuto delle stesse informazioni e dichiarazioni. Quanto ai requisiti soggettivi il comma 1 dell’art. 14, D. Lgs. cit., prevede l’indipendenza del mediatore e dei suoi ausiliari nella parte in cui li impegna a non assumere diritti o obblighi connessi – direttamente o indirettamente – con gli affari trattati e vieta loro di percepire compensi direttamente dalle parti. A presidio dell’imparzialità e neutralità del mediatore è previsto che egli sia tenuto a sottoscrivere una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste nel regolamento di procedura applicabile, e che sia obbligato ad informare l’organismo di mediazione e le parti “delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione”. Sul dovere di riservatezza nella mediazione v. BORGHESI, Riservatezza e segreto nella mediazione, in www.judicium.it; LICCI, Doveri del mediatore, in Mediazione e conciliazione nel nuovo processo civile, a cura di SASSANI,SANTAGADA,Dike, 2011, 37 ss.

29 In tal senso BOVE,ADR nel c.d. collegato lavoro (Prime riflessioni sull’art. 31 della legge 4 novembre 2010 n.

183), in www.judicium.it, 17, in particolare nota 29; BORGHESI,L’arbitrato ai tempi, cit., § 1, secondo cui il D. Lgs.

28/2010 si ispira ad una filosofia opposta rispetto a quella che regola la conciliazione della L. 183/2010. Ed invero nella prima, a differenza della seconda, la fase di mediazione va affidata ad un organo privo di poteri decisori e va tenuta separata da quella di decisione.

30 Così PANZAROLA,“Nessuno può servire a due padroni”?, cit., 143 ss.

31 Per PANZAROLA, op. ult. cit., 153-154, dovrebbe in ogni caso farsi salva la possibilità per le parti, attraverso una clausola pattizia, di rinunziare all’impiego del mediatore-arbitro.

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per il timore delle parti che le risultanze della fase conciliativa siano in grado di influenzare quella arbitrale.

Può agevolmente sostenersi che la disciplina contenuta negli artt. 9 e 14 D. Lgs. 28/2010 assolva al ruolo di regola generale per tutte le forme di conciliazione32 sicchè essa è esportabile anche alla conciliazione dell’art. 410 c.p.c. Pertanto pure il conciliatore nel lavoro è tenuto alla riservatezza delle informazioni assunte e alla loro inutilizzabilità nel successivo ed eventuale giudizio. Deve altresì ritenersi che detto dovere operi per il conciliatore non solo nel caso di un successivo giudizio innanzi agli organi giurisdizionali dello Stato ma altresì in caso di arbitrato33. Quest’ultimo infatti è un procedimento a natura decisoria che, né più né meno di un processo, conduce ad un giudizio sulla controversia. Ecco quindi che la commissione di conciliazione è tenuta a garantire la riservatezza delle informazioni e dichiarazioni rese nella fase conciliativa anche quando essa stessa sia poi chiamata a decidere della causa in veste di arbitro.

La mancata previsione del dovere di riservatezza non implica perciò che il conciliatore non vi sia comunque tenuto ma che possa, sempre nel rispetto della segretezza delle informazioni acquisite, utilizzare quanto emerso nella fase di mediazione per offrire nella decisione arbitrale un risultato quanto più giusto possibile3435.

Tuttavia, ed indipendentemente dalla applicabilità del dovere di riservatezza, non deve meravigliare l’idea che un arbitro possa fondare la propria decisione sulla base di fatti emersi nel corso della conciliazione e che egli abbia ritenuto rilevanti. Vero è infatti che per l’arbitro, a differenza del giudice, non opera il divieto di fare uso della scienza privata36 sicché è ben possibile che le dichiarazioni o informazioni acquisite nella conciliazione possano essere utilizzate per la decisione della controversia. Anzi, potrebbe anche darsi che le parti decidano di rivolgersi alla commissione in qualità di arbitro (e dopo l’inutile espletamento della conciliazione) proprio perché sanno che è a conoscenza dei fatti di causa37. D’altronde tanto il tentativo dell’art. 410 c.p.c. quanto l’arbitrato dell’art. 412 c.p.c. hanno natura facoltativa e volontaria. Se le parti optano per entrambe le procedure può significare che esse nutrono fiducia nell’operato della commissione38.

Resta fermo però che i fatti rilevanti di cui l’arbitro sia venuto a conoscenza nel corso del tentativo di conciliazione, e che rientrano quindi nel bagaglio delle sue conoscenze private, possono essere posti a fondamento della decisione purchè siano filtrati attraverso un controllo di un rigoroso contraddittorio39 40 così da «arginare il rischio di dilacerazioni nella trama del giudizio arbitrale in chiave marcatamente «asimmetrica»»41.

32 V. SANTAGADA, La conciliazione delle controversie civili, Bari, 2008, 289 ss., secondo cui il dovere di riservatezza sembra inquadrabile nei doveri connessi al contratto di mandato sottoscritto dal conciliatore con le parti, costituendo una specificazione dei doveri di diligenza e di correttezza del mandatario.

33 In tal senso, con riferimento alla conciliazione societaria, v. CUOMO ULLOA,op. ult. cit., 402 ss.

34 Sarebbe stato certamente più opportuno prevedere una apposita disciplina della riservatezza anche nella procedura conciliativa/arbitrale della L. 183/2010, sulla falsariga di quella contenuta nel D. Lgs. 28/2010, allo scopo di migliorare e rafforzare la soluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro. Così VALERINI,op. loc. cit.

35 Cfr. LUISO,voce Conciliazione, in Enc. dir. Sole 24 ore, 504, il quale ritiene che quando il conciliatore possa svolgere, ove l’accordo non sia raggiunto, il ruolo di giudice o arbitro, la conciliazione deve avere necessariamente natura aggiudicativa-valutativa. In altre parole deve terminare con una proposta che rappresenti l’ anticamera della sentenza o del lodo e che non tenga conto perciò degli interessi rivelati dalle parti. In tale procedura l’importanza del dovere di riservatezza verrebbe notevolmente attenuato in quanto le informazioni fornite dalle parti, dovendo servire solo per formulare una decisione, non potrebbero coincidere con i loro interessi.

36 In argomento v. VERDE,Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 135 ss.; PANZAROLA,Arbitrato e

«fatto notorio», in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli 2010, 603 ss.

37 V. VERDE Lineamenti, cit. 135.

38 V. invece PANZAROLA,“Nessuno può servire a due padroni”, cit., 157 secondo cui nella conciliazione-arbitrato dell’art. 412 c.p.c., non disponendo le parti della possibilità di scelta dell’organismo conciliativo, si contraddice uno dei presupposti della med-arb.

39 V. VERDE,op. ult. cit., 136.

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In estrema sintesi. La mancata previsione del dovere di riservatezza in capo alla commissione di conciliazione dell’art. 410 c.p.c. non implica che essa non vi sia tenuta, atteso che il predetto dovere incombe sul conciliatore in ragione del contratto di mandato che lo lega alle parti. Tuttavia, in virtù della inoperatività in arbitrato del divieto di scienza privata, nulla vieta alla commissione di porre a fondamento della propria decisione i fatti di cui sia venuta a conoscenza nella fase di conciliazione purchè ne faccia comunicazione alle parti.

7. In conclusione. Il nuovo art. 412 c.p.c. introduce la figura del mediatore-arbitro nelle controversie di lavoro prevedendo che la stessa commissione di conciliazione chiamata in prima battuta a tentare di conciliare la lite possa poi deciderla attraverso un lodo irrituale.

Il modello così introdotto presenta il vantaggio di responsabilizzare i litiganti e spingerli a tenere in considerazione le proposte e gli input provenienti dal mediatore, nella prospettiva che quest’ultimo possa divenire in futuro il giudice della controversia. La med-arb dell’art. 412 c.p.c. si rivela inoltre conveniente se si pensa che, in caso di esito negativo della conciliazione, l’attività svolta dalla commissione di conciliazione non andrà persa ma sarà utile ai fini dell’assunzione della decisione in sede arbitrale, risparmiando altresì alle parti il compito di allegare fatti già acquisiti nella fase di mediazione.

A fronte degli evidenti benefici, altrettanti sono i dubbi che il modello in esame pone agli interpreti. Primo fra tutti la possibilità che dalla confusione dei ruoli di mediatore ed arbitro possa discendere una violazione del dovere di riservatezza, soprattutto alla luce della mancata previsione di norme – come quelle contenute nel D.Lgs. 28/2010 – idonee a regolare i comportamenti che è tenuto ad osservare chi concilia. Tuttavia, si è avuto modo di vedere42 come la disciplina contenuta negli artt. 9, 10 e 14 D. Lgs. 28/2010 possa avere la funzione di regola generale per tutte le forme di conciliazione e pertanto rendersi applicabile anche alla conciliazione dell’art. 410 c.p.c. Ne consegue che, per potersi avvalere nella fase arbitrale delle dichiarazioni e informazioni rese durante la conciliazione, la commissione dell’art. 412 c.p.c. dovrà ottenere il consenso dalla parte dichiarante o, in ogni caso, ove intenda porre a fondamento della decisione la propria scienza privata, dovrà comunicarlo alle parti affinché si possa sviluppare un corretto contraddittorio.

Infine, ove residuassero dubbi sulla imparzialità del mediatore-arbitro che già conosce i fatti di causa, resta sempre salva la possibilità per le parti, attesa la natura volontaria e facoltativa della procedura dell’art. 412 c.p.c., di non avvalersi dell’arbitrato una volta esperita inutilmente la conciliazione. Il che, tuttavia, segnerebbe il fallimento del modello in esame43.

40 L’arbitro dovrà quindi rendere noti a tutti i contendenti quei fatti rilevanti ai fini della decisione e dei quali sia venuto a conoscenza nel corso della fase di mediazione. Cfr. PANZAROLA,“Nessuno può servir a due padroni”?, cit., 149.

41 Così PANZAROLA,Arbitrato e «fatto notorio», cit., 607.

42 V. supra § precedente

43 Cfr. PANZAROLA,“Nessuno può servir a due padroni”?, cit., 157, in particolare nota 89, secondo cui la libertà delle parti, nella procedura dell’art. 412 c.p.c., si estrinseca solo nella possibilità di scegliere la via arbitrale e non anche in quella di decidere i componenti della commissione. Sicchè, venendo meno il potere di individuare il mediatore- arbitro, l’istituto è destinato a non funzionare con successo.

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