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FU FUCILATO DUE VOLTE

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Academic year: 2022

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www.lacompagniadellibro.com

(Libri usati, vecchi, fuori catalogo. Fumetti e riviste) Brano tratto da: “Storia illustrata febbraio 1973”

La verità sulla morte di Mussolini

FU FUCILATO DUE VOLTE

A ventotto anni di distanza, sulla scorta di numerose interviste coi più autorevoli capi della Resistenza, è possibile oggi rivelare come realmente avvenne l'esecuzione di Mussolini e Claretta Petacci. Soltanto pochissime persone, legate a un patto di silenzio che doveva durare cinquant'anni, conoscevano la verità. Per arrivare alla soluzione di questo incredibile "giallo", Franco Bandini ha ripreso dall'inizio l'intera vicenda scardinando quella che fino a oggi è stata ritenuta la verità ufficiale.

« Se mi venisse la voglia » dichiarò a Silvio Bertoldi, nel luglio 1959, il colon nello « Valerio » « lo farei io, un giorno, un gran colpo giornalistico, di quelli sensazionali. Basterebbe che scrivessi cinque capitoletti come m'intendo sulla storia di cui sono stato protagonista, per un rotocalco... e le assicuro che si raggiungerebbe una tiratura...! ». Quali che fossero, allora, i motivi che indussero il ragionier Walter Audisio, presunto autore della morte di Mussolini, a rilasciare questa straordinaria dichiarazione ad un giornalista, sta di fatto che « Valerio » diceva - forse per la prima volta dal 1945 - una autentica verità. La storia segreta della fucilazione di Mussolini e di Claretta Petacci è infatti talmente sensazionale da avermi indotto mille volte, mentre stavo portandola faticosamente alla luce, a chiedermi se davvero fdsse accettabile. Neppure la fantasia di un romanziere riuscirebbe a mettere in piedi una così straordinaria somma di circostanze, fatti e persone, legati, tutti, da un filo conduttore di grana così teatrale. Non soltanto non fu « Valerio » (né « Guido », né Michele Moretti) ad uccidere Mussolini, ma l'esecuzione non avvenne affatto alle quattro del pomeriggio del 28 aprile 1945 - come si è sempre detto: né nel luogo, il cancello di Villa Belmonte, che venne indicato fin dal primo momento.

In una parola: Mussolini fu ucciso circa quattro ore prima di quanto affer ma il suo atto ufficiale di morte, in altro luogo e da altre perone rimaste fino a questo momento sconosciute.

Per coprire la cui figura politica, di rilievo allora, ed ancor più poi, fu necessario eseguire una seconda ed affrettata falsa fucilazione - questa sì alle quattro del pomeriggio ed al cancello di Villa Belmonte - che fu il capolavoro organizzativo di « Valerio ». Un uomo al quale vanno restituiti meriti di fedeltà al suo partito e di tetragono silenzio forse più alti di quelli che gli sono stati tributati come uccisore di Mussolini: rappresentò una parte e si assunse resl3onsabilità che non gli com- petevano per pura disciplina. Accettò rischi, ed un certo tipo di giudizio pubblico, oltreché vari processi, perché al suo partito faceva comodo così: e, salvo qualche intemperanza verbale come .quella che ho riportato (destinata forse a ricordare alle gerarchie der Partito Comunista che lo star zitti non equivaleva necessariamente a farsi confermare nel rango degli « utili idioti »), non derogò mai dalla sua linea di condotta, accettando in silenzio, con giornalieri mucchi di lettere di insulti e minacce, la loro naturale conseguenza: un serio infarto per sé, ed uno stato di scompenso cardiaco, con angosce profonde, per sua moglie. A storia ormai nel cassetto, son portato a ritenere oggi che essa non abbia oggi che essa non abbia potuto saltar fuori prima per due ragioni fondamentali. In quanto

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italiani, abbiamo un sacro rispetto per le verità « ufficiali », e facciamo sempre grande fatica ad ammettere che qualcuno, per ragioni sue, non ci racconti la verità. Detto molto sbrigativamente, questo è il motivo numero uno per il quale abbiamo sempre trangugiato senza batter ciglio le « versioni » (furono almeno tre) del colonnello .c Valerio ». Si deve anzi segnalare e sottolineare che ogni inchiesta critica (tra le quali, purtroppo, anche un paio scritte da me) sono state condotte - tutte - all'interno di una forma mentale tipica. Abbiamo sempre cercato infatti di « far quadrare » i racconti di « Valerio » coi fatti che a mano a mano andavamo scoprendo: ma sempre ammettendo tacitamente che la fucilazione di Mussolini fosse avvenuta, più o meno, come ci era stato più volte raccontato, salvo particolari non essenziali.

La seconda ragione che può spiegare il lungo silenzio, è che noi abbiamo sempre avuto della Resi- stenza un quadro incredibilmente distante dalla realtà. Ce la siamo figurata come un esercito, nel quale gli uomini di un reparto ignorano tutto degli uomini di quello contiguo: ed abbiamo facilmente accettato, per conseguenza, che i fatti relativi a Mussolini si fossero potuti svolgere casualmente, nel gioco di persone che non si conoscevano, con rapporti segnati dalla diffidenza e dalla incomprensione. La verità invece è un' altra: comunque si sia mostrata al pubblico la Resi- stenza al 25 aprile, sta di fatto che essa fu condotta al suo epilogo da un numero ristrettissimo di persone, soprattutto nelle città. Poche decine di uomini e donne, che furono anima e motore di tutto quello che accadde nel corso di un anno e mezzo di lotta.

I PROTAGONISTI

Valerio

rag. Walter Audisìo, colonnello a disposizione del C.V.L.

Italo o Gallo

Luigi Longo, vicecomandante del C.V.L.

Guido

Aldo lampredi, sostituto di Longo Riccardo

Alfredo Mordini, ispettore generale delle Brigate Garibaldi per la Lombardia Piero

Orfeo Landini, commissario politico dell'Oltrepò Pavese Neri

Luigi Canali, ufficiale del Genio e capo di S.M. della 52° Garibaldi Gianna

Giuseppina Tuissi, gappista Pietro Gatti

Michele Moretti, commissario politico della 52" Garibaldi Pedro

conte Pier Bellini delle Stelle, comandante 52' Divisione Garibaldi Fabio

Pietro Vergani, ispettore generale delle Brigate Garibaldi

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I corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci a Piazzale Loreto

All'inizio, addirittura soltanto una dozzina, i « duri » dei PCI, rientrati dalla Francia fortunosamente, avendo sulle spalle l'esperienza della Scuola Lenin, della guerra di Spagna, del «maquis»

francese. Distribuitisi a piccoli gruppi di due o tre persone per ognuna delle grandi città dell'Italia settentrionale e centrale, essi organizzarono le prime « squadre G.A.P. », che ebbero il potere di scuotere brutalmente e sanguinosamente, a colpi di pistola nelle vie, la soporizzata coscienza della nazione. Una ad una, queste G.A.P. vennero distrutte, ma i loro pochi superstiti salirono in monta- gna e costituirono il nocciolo, duro e fidato, delle future Divisioni partigiane. Non si comprenderebbe nulla della Resistenza, quale essa veramente fu, se non si tenesse sempre presente questo suo filo segreto che riunì un esile pugno di uomini, sparsi per tutta l'Alta Italia, ma cementati da vincoli poderosi. Essi si conoscevano tutti, ed avevano fiducia assoluta l'uno nell'altro:

nel momento del pericolo o della necessità ad essi, e soltanto ad essi, si faceva ricorso. La fucilazione di Mussolini, questo atto decisivo e conclusivo della Resistenza, li vide in prima fila, coi loro legami segreti: ma anche col loro silenzio.

Parlarono, invece, gli altri, coloro che non avevano mai fatto parte di questo duro nocciolo. E tanto più parlarono, quanto meno vi erano stati vicini. Scrissero libri, rilasciarono interviste, redassero memoriali: riempiendo l'aria di una loro personale - e spesso in buona fede - visione dei fatti. Che per essi erano stati davvero scollegati e senza un perché. Così poté molto naturalmente accadere che noi giornalisti accettassimo per buona una divisione artificiale e abbastanza illogica tra i vari gruppi che avevano operato nella ricerca e successiva fucilazione di Mussolini. Ritenemmo che la 52' Divisione « Garibaldi » di Dongo, quella che ne operò l'arresto, non avesse nulla a che vedere con gli esecutori materiali della condanna, giunti da Milano. E che questi fossero un qualcosa di separato e distinto dalla Divisione OItrepò Pavese dalla quale erano stati tratti. Invece il « filo segreto » riuniva tenacemente, attraverso un ridotto numero di persone, questi pezzi di mosaico

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incoerenti, fino a comporre un nuovo disegno: il cui segno caratteristico era - intanto - il silenzio.

Nessuna di queste poche persone aveva mai fiatato. Molte, anzi, non erano neppure note. Per anni, ci eravamo sguinzagliati dietro un buon numero di richiami » disseminati per via.

Mi pare valga la pena di narrare qualcosa di questi legami segreti. Intanto perché la loro scoperta mi ha fornito una nuova chiave interpretativa: e poi perché una tal narrazione fornisce un'ottima occasione per ricapitolare al lettore i fatti essenziali di quel tempo, ormai così distante. Per quanto strano possa sembrare, tutto - per me - cominciò quando mi

misi a pensare ai documenti che il colonnello « Valerio » aveva in tasca quando partì da Milano, per andare a fucilare Mussolini.

Molti forse ricordano che il colonnello, al momento della sua missione « storica » esibì a quanti lo fermarono per la strada, ed anche al comando della Brigata partigiana che due giorni prima aveva arrestato Mussolini, a Dongo, due documenti del Corpo Volontari della Libertà che lo autorizzavano a circolare con la sua scorta nel territorio dei Lago di Como.

La fucilazione dei gerarchi a Dongo, 28.04.45. Di spalle “Riccardo”

Che diresse il fuoco del plotone d’esecuzione

Uno di essi era in inglese e l'altro in italiano, ma entrambi si riferivano a lui come al titolare « della Carta d'identità del Comune di Milano N. 279045, rilasciata a Magnoli Giovanbattista di Cesare ». Questo nome - « Magnoli » - è stato fino ad oggi giudicato una « copertura » priva di un particolare significato. In alcune storie scritte alla svelta, anzi, « Valerio » viene addirittura chiamato « colonnello Magnolia ».

Per una di quelle felici idee che purtroppo capitano raramente, mi venne in mente una mattina di controllare anche questo particolare. Mi pareva strano che un documento di riconoscimento, rilasciato tra l'altro il 25 aprile 1945, cioè in piena Liberazione, fosse anche cosi dettagliato. Mi chiesi cioè se non si trattasse, alle volte, di un documento autentico. Perciò ne ricercai il « doppio » al Comune di Milano, apprendendo che ogni dieci anni i duplicati delle Carte d'identità vengono per legge

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inviati al macero. Tuttavia per il decennio 1940-1950 uno sconosciuto funzionario aveva ritenuto più saggio trasferirli in Questura. Qui si erano giaciuti qualche anno, poi erano stati riuniti in mazzette e sepolti in archivio. Fu così che scopersi una prima sorprendente verità: il signor Gio- vanbattista Magnoli esisteva veramente, con un volto che non aveva nulla in comune con quello di « Valerio ».

Dalla fine della guerra in poi il signor Magnoli aveva cambiato quattro volte indirizzo. Quando lo raggiunsi, mi raccontò, con qualche esitazione, una storia abbastanza sconcertante. II 20 ottobre 1943, dunque sei settimane dopo l'armistizio, egli era giunto a Milano da Cremona, a sera, su un treno affollatissimo. Sul piazzale della Stazione un giovanotto in tuta accanto ad un motocarro, stava offrendo i suoi servigi di estemporaneo tassista alla fiumana di viaggiatori. Magnoli decise di profittarne e salì nel cassone dei motocarro, assieme ad altri tre uomini, a tre donne e due bambini. A Piazzale Fiume si aggiunse un militare - sembra - della « Muti », dopodiché il motomezzo proseguì per il Parco. Ma qui saltarono fuori dagli alberi tre militari armati di mitra, uno in divisa tedesca e due con quella della « Muti » che fermarono il motocarro, rapinandone coscienziosamente i passeggeri di 78 mila lire in denaro, orologi e documenti. Tra i quali, naturalmente, la carta d'identità del Magnoli. Nei giorni successivi, fino al 30 ottobre, il terzetto, o meglio il quartetto, poiché ne faceva parte anche il conduttore dei motocarro, compì svariate rapine, tirandosi addosso l'intera Questura di Milano. Poi sparì, ma uno dei suoi elementi, Sergio Dell'Acqua, capomanipolo della Milizia Fascista, venne fucilato per rapina comune il 31 dicembre 1943, assieme a tre « gappisti » milanesi frattanto arrestati: Arturo Capettini, Cesare Poli e Gaetano Andreoli.

Questi fatti permettevano di stabilire un legame evanescente, ma sicuro, tra « Valerio » e le squadre G.A.P. milanesi che avevano operato nella metropoli lombarda durante tutto l'inverno 1943-1944:

esse erano state costituite per l'iniziativa di Longo, Roasio, Egisto Rubini, Italo Busetto e pochi altri, servendosi di elementi raccolti qua e là, soprattutto a Porta Romana e nella zo na dello Scalo Farini, senza badare tanto per il sottile. La loro attività, energica e drammatica, portò alla morte di una lunga serie di capi fascisti, primo fra tutti il federale Resega, e scosse fin dalle fondamenta il sonnacchioso torpore nel quale la città era caduta dopo l'armistizio.

Come ho già detto, se la Resistenza poté cominciare, cominciò qui, per opera di pochi:

coinvolgendo l'intera popolazione. Per loro natura le squadre G.A.P. duravano poco. La prima G.A.P. di Egisto Rubini durò pochissimo: il 2 marzo 1944, Rubini ed altri vennero arrestati. Molti si tolsero la vita in carcere, per non essere obbligati a parlare: gli altri furono fucilati ad intervalli, in varie località. Tre soli elementi sfuggirono alla rete: « Tarzan », « Tom » ed « Otto ». II 13 maggio 1944, dopo un avventuroso ripiegamento da Milano, essi salirono nelle montagne tra Varzi e Stradella e vi costituirono con elementi locali il primo nucleo di quella che doveva divenire la Divisione

« Oltrepò Pavese ». Diedero il nome di « Capettini » alla loro prima formazione: anche le successive formazioni, « Aliotta », « Barni » e « Magni » vennero battezzate con il nome di gappisti milanesi.

Mi ero dunque imbattuto in un filone interessante, che si richiudeva ad anello. « Valerio » aveva in tasca una Carta d'identità rapinata sedici mesi prima a Milano da elementi che erano stati, magari fuggevolmente, in contatto con quegli stessi superstiti della Prima G.A.P. ai quali si doveva la costituzione nelle montagne di Varzi della « Capettini ». Ma proprio da questa formazione, giunta a Milano nel pomeriggio del 27 aprile 1945, era stato tratto il plotone d'esecuzione che avrebbe fucilato il giorno seguente i gerarchi sulla piazza di Dongo. E vi era anche di più, poiché quel plotone era comandato da due persone che avevano una ragguardevole esperienza « gappista » sulle spalle. Uno di essi era Orfeo Landini (« Piero »), ex gappista milanese, poi salito in montagna nell'Oltrepò con i primi nuclei, e successivamente divenuto commissario politico e poi dirigente dei S.I.P., il Servizio Informazioni Partigiano.

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L'altro, ancora più ragguardevole, era proprio uno dei « lingotti d'oro » dei PCI, Alfredo Mordini, det- to « Riccardo ». « Riccardo » era espatriato nel 1930 dall'Italia, aveva partecipato alla guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali, con Longo e Roasio, ed aveva eseguito in Provenza, durante l'occu- pazione tedesca, i più spettacolari colpi « gappisti » specializzato nell'abbattimento dei tralicci dell'alta tensione, aiutato da una intrepida moglie, Alfredo Mordini era davvero un « duro » che non tremava: una volta aveva freddato due tedeschi, sparando loro dalla bicicletta, e poi aveva mandato sua moglie ai loro funerali, perché depositasse sulle bare un mazzo di fiori. Ma imbottito di bombe a mano.

Rientrato in Italia per la via del Clapier, quasi contemporaneamente ai grossi » del PCI, Roasio, Secchia, Dozza, Lampredi, « Riccardo » era divenuto - dopo un poco illustrato periodo « gappista » a Milano, - Ispettore generale delle Brigate « Garibaldi », alle dirette dipendenze di Longo. In questa sua qualità non soltanto aveva partecipato a vari combattimenti dell'Oltrepò, con la qual Divisione teneva i collegamenti, ma aveva visitato più volte il Lago di Como, dove aveva conosciuto personalmente, come vedremo, gran parte dei personaggi centrali delle ultime ore di Mussolini. Già a questo punto diveniva possibile concludere - almeno intuitivamente - che gli avvenimenti del Lago di Como dovevano essersi svolti su un filo ben diverso da quello narrato da « Valerio ». Il suo passato partigiano - pur senza macchia - non lo qualificava affatto alla figura di Comandante di una spedizione così delicata: e nella quale, tra l'altro, i suoi apparenti sottoposti ne sapevano dieci volte più di lui. Pareva incredibile che, pur disponendo di uomini di grande valore, come per esempio « Riccardo », si fosse pensato di affidare un incarico così aspro invece ad un uomo del quale il minimo che si poteva dire era che non se ne sapeva nulla. Come è stato nar rato più volte, il ragioniere Walter Audisio, antifascista alessandrino, era stato arrestato prima della guerra e spedito al confino, appunto per le sue attività antifasciste. II 15 dicembre 1943 era stato nuovamente arrestato in Alessandria, assieme a qualche altra decina di persone, per un attentato eseguito da due « gappisti » nella persona del colonnello Salvatore Ruggeri, dei 37° Fanteria. II 17 marzo successivo il Tribu- nale provinciale Straordinario lo aveva mandato assolto, e « Valerio » aveva iniziato una attività clan- destina partigiana, dapprima nelle vicinanze, poi nelle S.A.P. di Cremona e di Mantova.

È molto probabile che la Carta d'identità intestata a Giovanbattista Magnoli gli sia stata fornita dal suo partito proprio in questo periodo: il vero Magnoli era nativo di Castelvetro Piacentino, ed a « Valerio » un documento locale poteva far comodo. In o gni modo la sua attività militare era stata molto ridotta: va anzi aggiunto che le S.A.P. di Cremona lasciarono alquanto a desiderare per tutto il periodo della clandestinità. Per cui non fa meraviglia che sul principio dell'anno 1945, il « colonnello » fosse richiamato a Milano, a disposizione del Comando Generale. Vi giunse senza alcuna fama particolare: comunque non certamente con quella di « lingotto d'oro ».

La scoperta decisiva venne quando mi misi ad indagare sulle attività milanesi di « Valerio », nel breve periodo che corre tra il gennaio e l'aprile del 1945. Trovai che egli era ospite, in quei giorni, di una sua cugina, Francesca De Tomasi, una avvenente ragazza sui vent'anni che personalmente Longo aveva chiamato al Comando Generale per il disbrigo dei lavori di segreteria. La De Tornasi, comunista, era in un certo senso la segretaria di Raffaele Cadorna, Comandante Militade del CVL, nonché di Longo:

ed era anche la stessa persona che aveva battuto a macchina le varie relazioni stese dai « testimoni » subito dopo l'esecuzione di Mussolini. In questo non vi era nulla di eccitante: il lato sorprendente era rappresentato dal fatto che la De Tomasi, oltreché cugina di « Valerio », era anche impiegata alla « Borletti » come addetta alla contabilità industriale: in questo grande alveare operaio, vera roccaforte dell'attività clandestina milanese, essa aveva fatto parte del Comitato Segreto di Agitazione, ed era stata lungamente in contatto con i « gappisti » milanesi di « seconda generazione », quelli ricostituiti

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sulle macerie della « Prima G.A.P. » nel luglio 1944, da Giovanni Pesce: ai quali si dovette - tra l'altro - il doppio attentato alla Stazione Centrale ed all'autocarro tedesco in viale Abruzzi, le cui conseguenze dirette furono la fucilazione dei Quindici Martiri a Piazzale Loreto. Vi era di più. Uno dei « gappisti » della « Borletti », era Cesare Tuissi che il 28 agosto 1944 era sfuggito per un pelo alla fucilazione in via Tibaldi. Quel giorno, un « commando » di cinque persone avrebbe dovuto attac- care la sede della « Muti » in via Rovello, introducendovisi con divise false: il colpo era stato studiato e preparato da Luigi Longo, che quella volta, tuttavia, si era fidato di un elemento non sicuro. Costui aveva un fratello nella « Muti » e fece sapere che il 28 agosto, in un ristorante di via Tibaldi, si sarebbe proceduto alla consegna delle divise necessarie. I « gappisti », invece delle divise, trovarono la « Muti » in carne ed ossa: arrestati, vennero fucilati la sera stessa. Tra di essi vi era Giovanni Alippi, un giovanotto di Baggio, fidanzato con una coraggiosa ragazza. Costei era Giuseppina Tuissi, sorella di Cesare Tuissi, impiegata alla « Borletti », e dipendente della De To- masi. Subito dopo la fucilazione del fidanzato, la ragazza dovette prendere il largo e venne mandata a Como a cura dei Partito, dove assunse il nome di battaglia di a Gianna in ricordo del fidanzatofucilato. Qui conobbe un ragioniere, ufficiale effettivo del Genio col grado di capitano:

Luigi Canali, meglio noto sotto il nome di « capitano Neri », capo di Stato Maggiore della 52' Brigata « Garibaldi », la stessa che avrebbe avuto la ventura di arrestare Mussolini. Come ognuno sa, la

« Gianna » ed il « capitano Neri » non solo sono strettamente connessi all'arresto del dittatore, ma anche alla sua morte. Fino al punto che vennero assassinati subito dopo. Vedremo meglio come.

Così, dunque, si ritornava ancora una volta ad una stretta cerchia di persone unite da vincoli molteplici: in ogni modo e sempre connesse all'azione delle G.A.P. ed ai nomi dei massimi dirigenti dei PCI. Alla « Borletti », base operativa con la « Pirelli » del novanta per cento della attività partigiana milanese, ritroviamo quasi tutti i personaggi del dramma successivo: vi è la cugina di « Valerio », vi è la « Gianna » e suo fratello Cesare, che sarà presente addirittura all'arresto di Mussoli- ni. Vi sono alcuni superstiti della Seconda G.A.P. di Giovanni Pesce, che nel settembre 1944 prende- ranno, come i superstiti della Prima, la via della montagna. Destinazione: l'Oltrepò Pavese. E, coin- cidenza straordinaria, vi è anche, come direttore di mensa, il « vero » Giovanbattista Magnoli, assunto alla « Borletti » nel gennaio 1944, cioè due mesi dopo esser stato depredato della sua carta d'identità. E sulla « Borletti » gravitano anche « Riccardo », Piero Vergani (« Fabio »), braccio destro di Longo, ed un'altra decina di importanti elementi direttivi del PCI. È possibile, ora, raccontare cosa esattamente avvenne il 28 aprile 1945 tra Dongo e Giulino di Mezzegra. Abbiamo sottomano tutti i personaggi: altri se ne inseriranno, in un gioco complicato, in gran parte determinato dal caso, dall'imperscrutabile capriccio degli avvenimenti. In fondo, è bene dirlo subito, nessuno riuscì vera- mente a fare quanto voleva: tutti si dovettero adattare con varie reazioni ad una realtà che evolveva troppo rapidamente per essere governata del tutto. Come si sa, Mussolini parte da Milano alla ricerca di una precaria salvezza la sera dei 25 aprile 1945, con una colonna di fidi e quasi tutti i gerarchi della sua effimera Repubblica. Dorme a Como, in Prefettura, ed alla mattina del 26 cerca senza riuscirci di riparare in Svizzera. Subito dopo si reca a Menaggio, poi sale a Grandola, ridiscende ancora a Menaggio, perdendo in sterili discussioni ed attese una preziosa giornata. La mat- tina del 27, si aggrega alle sue scarse forze una colonna della « Luftwaffe » tedesca, e con essa si de- cide di raggiungere l'alto Lago.

Ma a Musso, e poi a Dongo, nel primo pomeriggio del 27 ci si deve arrendere alle sparute forze di

« Pedro », il conte fiorentino Pier Bellini delle Stelle, che fanno buona guardia. Questa 52' Divisione

« Garibaldi » (in realtà composta di forse una ventina di uomini) ha una « testa » che ci conviene conoscere subito: « Pedro » ne è il comandante militare, ma il Commissario politico è un ex- calciatore della squadra del Como, Michele Moretti, nome di battaglia « Pietro Gatti ». Il capo di Stato Maggiore è il « capitano Neri », sopravvissuto ad una brutta avventura: arrestato a Como il 7

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gennaio 1945, torturato e seviziato assieme alla sua amica « Gianna », è riuscito a scappare ed a riparare a Milano nel marzo. La sua fuga è seguita da un'ondata di arresti tra i quadri comunisti della città, soprattutto tra i « gappisti » : « Neri » si reca alla « Borletti », alla ricerca di aiuto, appellandosi agli amici di « Gianna » ed al fratello di lei. Ma viene guardato con marcato sospetto. Va a casa dell Ispettore generale delle Brigate « Garibaldi », Pietro Vergani, « Fabio », ma non lo trova. Subito dopo arrivano però le Squadre politiche fasciste, quasi guidate da un segnale misterioso e « Fabio » si salva per miracolo. Si sparge la voce che « Neri » ha tradito, che è pericoloso avvicinarsi a lui. In marzo, il professore Alberto Mario Cavallotti, commissario politico dell'Oltrepò, sta camminando con « Riccardo » lungo viale Abruzzi, quando « Riccardo » gli dà un poderoso pugno in un fianco, sibilandogli, « corri, corri alla svelta ». Quando si ritrovano un quarto d'ora dopo, e Cavallotti chiede spiegazioni, « Riccardo » gli dice: « Ma non hai riconosciuto in quella macchina piena di fascisti, il "Neri"? ».

Al principio di aprile « Neri », torna nella zona di Canzo, avendo al fianco la « Gianna », misteriosamente liberata, e sulle spalle una condanna a morte spiccatagli dal Comando Generale per tradimento. « Fabio » non perdona e non perdonerà più tardi: ma per il momento la condanna non viene eseguita. Anzi, il 26 aprile, « Neri » riprende il suo posto di capo di Stato Maggiore della 52' « Garibaldi », dove ci si fida di lui. Arriva a Dongo con la « Gianna » e Cesare Tuissi: non sa che le prossime ore segneranno per lui la maggiore impresa di partigiano e la definitiva condanna a morte. Mussolini viene arrestato, interrogato tumultuosamente e poi « portato in luogo sicuro », alla casermetta della Guardia di Finanza in Germasino, a dodici chilometri sul monte. Ma alle 1,35 della notte, la notte tra il 27 ed il 28 aprile, viene svegliato da « Pedro » che gli avvolge la testa in dense garze che lasciano scoperti soltanto occhi e bocca, facendolo poi ridiscendere a Dongo. Qui viene organizzato un piccolo convoglio di due vetture, su una delle quali si trovano Mussolini, « Pedro », Michele Moretti. Sull'altra prendono posto Claretta, « Neri », la « Gianna ». Vi sono anche due autisti e due partigiani, « Lino » e « Sandrino ». In totale, dunque, dieci persone, cinque per macchina.

Si è sempre discusso per quale ragione fu organizzata questa notturna spedizione e su quale fosse il suo obiettivo. Oggi, con altri decisivi elementi in mano, è possibile concludere che essa fu diretta e- sclusivamente al recupero di Mussolini, perché tale - qualunque cosa si possa dire - era in quel momento l'orientamento del Comando Generale. Non si può assolutamente dimenticare che il Comando era « obbligato », in forza delle clausole d'armistizio, alla consegna di Mussolini: e gli Alleati non avevano certo risparmiato sforzi per mettere al corrente di questo loro ordine, più che desiderio, tutti i comandi partigiani di qualche importanza. È anche possibile rivelare, oggi, che al momento dei suo arresto, nel gennaio 1945, il « capitano Neri » era stato agganciato dai servizi allea- ti in Svizzera, che egli si apprestava a raggiungere proprio durante la notte in cui venne invece sor- preso dalla Squadra Politica di Como. Questo contatto venne però ripreso dopo la sua avventurosa fuga e germinò in un complesso piano che « Neri » stesso cercò di mandare ad effetto nella notte sul 28 aprile.

Mussolini avrebbe dovuto raggiungere Moltrasio, imbarcarsi su un mezzo mandato da Como fino a Blevio e di qui raggiungere Brunate. Come racconterò più diffusamente nel mio libro di prossima pubblicazione (Longanesi e C. La doppia fucilazione di Mussolini ») una pattuglia partigiana, oltreché l'industriale Remo Cademartori, attesero tutta la notte a Blevio che Mussolini e Claretta sbarcassero.

Essi avrebbero dovuto scortarlo per un ripido sentiero fino a Capovico e di lì a « Baita Noé » sulla strada di San Maurizio. La villa, poiché di villa si tratta, era stata apprestata fin dal pomeriggio del 27 su ordine dei « capitano Neri » : non meno di cinque persone hanno testimoniato su questa parte della vicenda, senza contare che « Pedro » stesso, narrando i fatti, ha sempre lealmente ammesso che il suo capo di Stato Maggiore voleva realmente portare Mussolini a Brunate. Come è ormai noto,

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nella serata del 27 il Comando Generale fu raggiunto da due messaggi radio dei Comando Alleato, nei quali, puramente e semplicemente, si richiedeva la consegna di Mussolini, segnalando che nel pomeriggio del 28 un bombardiere americano sarebbe atterrato ali' aeroporto di Bresso per caricare Mussolini e Claretta Petacci.

Tutto ciò è stato abbondantemente documentato, e può non persuadere soltanto coloro che credono nelle coincidenze. In realtà, per tutta la sera del 27 al Comando Generale di via del Carmine, a Milano, si fu persuasi che tutto quello che c'era da fare fosse « recuperare » Mussolini per scodellarlo, vivo, nelle mani degli Alleati. « Neri » fu il perno di questa manovra, che fu sostenuta e rinforzata da una ricchissima gamma di iniziative: la « Special Force » inglese fece partire dal campo di Rosignano Solvay un « Dakota » scortato da due « Spitfire », carico di dieci dei più bei nomi dell'aristocrazia milanese, guidati dal capo della stessa S.F., colonnello Vincent. Ed il maggiore americano Max Corvo della gemella O.S.S. dette draconiani ordini perché da tutta la Lombardia, oltreché dalla Svizzera, affluissero a Como senza indugio tutti i comandanti delle Missioni O.S.S.

disponibili: fu per l'effetto di que sti ordini che già la sera dei 27, poche ore dopo che Mussolini era stato arrestato, giunse a Como il tenente Larry Bigelow con il suo radiotelegrafista Mario Zirafa. E fu ancora per questo che la missione « accreditata » presso l'Oltrepò Pavese giunse a Como, la mattina del 28, quasi contemporaneamente al colonnello « Valerio ». Sul lago, quel giorno, c'erano quasi più americani che fascisti, o partigiani. Chiarire questa atmosfera del Comando Generale ha grande importanza, poiché essa fu all'origine dei fatti che seguirono. In altre parole, nel tardo pomeriggio dei 27 aprile i « grandi capi » partigiani, segnatamente Longo, Secchia e Pertini, si resero conto al- l'improvviso che in realtà non c'era alcuna intenzione di uccidere Mussolini. Fino al punto che, come ha testimoniato il colonnello, poi generale della Finanza, Alfredo Malgeri, l'incarico di « andarlo a prendere in consegna » era stato affidato a lui, e proprio da « Valerio » in persona. Non solo, ma il CVL aveva diramato istruzioni non equivoche agli stessi catturatori di Benito Mussolini, di « trasferirlo in luogo sicuro, senza sparare nemmeno in caso di fuga ».'Prova provata che lo si voleva, e vivo.

lo non sono qui per giudicare se queste decisioni fossero corrette o meno, ma semplicemente a dire che furono queste e non altre. Me lo ha confermato, molto gentilmente, l'onorevole Sandro Pertini narrandomi che rimase allibito - al Comando Generale - dal corso che stavano prendendo le cose. « Passando accanto a Longo » egli narra « gli dissi esterrefatto: "Longo, qui bisogna fare qualcosa". "Stai tranquillo", mi rispose ». Lo stesso Leo Valiani, che stava in quel momento impaginando il primo numero de L'Italia Libera si sentì chiamare al telefono da Emilio Sereni che, « con scatti di sdegno nella voce », lo informò della richiesta alleata di consegnare Mussolini.

Perché « Valerio » attese fino al mattino?

Questo sdegno divenne rapidamente una volontà politica, anche se non così conclamata come si vorrebbe oggi. In realtà tutti capirono cosa bolliva in pentola, ma tutti più o meno giocarono sull'equivoco. In teoria - quella sera del 27 - si parlò di andare a « prendere » Mussolini, ma ognuno intese ben chiaramente che lo sbocco di questo « prendere » sarebbe stato fatalmente un altro.

Perciò quando alcuni comandanti partigiani vennero « invitati » ad accollarsi la missione, essi rifiutarono cortesemente. Cominciò Italo Pietra, exdirettore del Giorno, allora Comandante dell'Oltrepò, allegando di non poter lasciare senza guida i suoi uomini. Si schernì Luchino Dal Verme, comandante di una delle Brigate, sempre dell'Oltrepò. Alberto Mario Cavallotti, come ci ha narrato, prese una mezz'ora di tempo per riflettere. Uscì dal Comando, trovò in Piazza della Scala suo padre, il figlio di Felice Cavallotti che conversava con il sindaco Antonio Greppi. « Hai già

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fatto il tuo dovere » gli disse il padre. « Ora non fare il boia ». Poiché il colonnello Malgeri aveva già rifiutato qualche ora prima, finì che l'incarico venne affidato a « Valerio »: il quale, in quel momento, lo prese alla lettera. Doveva andare a Como e ricevere in consegna Mussolini. Si accorgerà soltanto il giorno dopo di aver preso un granchio. La decisione di « arrivare agli estremi » coagulò negli alti gradi comunisti e socialisti prima delle 21 del 27 aprile. A queil'ora Sandro Pertini fu alla Radio di corso Sempione, la defunta E.I.A.R., e vi tenne quel discorso che è stato chiamato dei « cane tignoso ». Un discorse importante, poiché è la quasi letterale prefigurazione di quanto successe realmente poi « Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini » disse Sandro Pertini « mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. Egli dovrà essere consegnato ad un tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest'uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso

». È sorprendente a questo punto notare come nessuno abbia mai posto . mente al contrasto esistente tra l'urgenza della situazione e la calma olimpica di « Valerio ». Da testimonianze precise sappiamo che verso le 22,30, egli si recò alle Scuole Elementari di Viale Romagna, dove era accasermata I'OI- trepò, per scegliere assieme a Cavallotti e « Riccardo » gli uomini della sua scorta. Ma non partì fino alla mattina dopo alle sette. Per quale ragione?

Posso rispondere, oggi, a questo interrogativo. In realtà, quando egli tornò verso mezzanotte al Co- mando Generale, il meccanismo per il recupero di Mussolini era in moto, e nessuno probabilmente volle e poté dirgli dove la preda si trovava. Per gran parte della notte il dittatore, con la scorta che ho detto, scese il Lago fino a Moltrasio, dove giunse verso le 3 o le 3,30 del mattino del 28. Ma qui

« Neri », per ragioni dei tutto sconosciute anche oggi, dette l'ordine di tornare indietro, dopo una breve sosta. O la barca attesa da Como non venne (è questa l'ipotesi più probabile), o veramente, osservando razzi levarsi dalla conca di Como, egli pensò che non gli convenisse cacciarsi in un pa- sticcio. Fatto sta che tornò indietro di qualche chilometro e riparò Mussolini e la sua amante a casa De Maria, presso una coppia di contadini che egli conosceva bene: la madre di Lia De Maria era stata la balia di un suo cognato, ed era amica dei partigiani.

Qui « Neri » depositò con molte raccomandazioni i due prigionieri, esattamente alle cinque dei matti- no. Poi, mentre « Lino » e « Sandrino » rimanevano di guardia, e « Pedro » e la « Gianna » tornavano con una macchina a Dongo, « Neri » e Michele Moretti si recarono a Como, alla locale Federazione Comunista, rimessa frettolosamente in piedi da Dante Gorreri, « Guglielmo », un parmigiano di 45 anni che aveva avuto la sventura-di essere arrestato nel gennaio, assieme a « Neri », nelle stesse carceri di Como. Rimesso in libertà e poi fuggito in Svizzera, era rientrato a Como da poche ore, varcando il confine.

Se Michele Moretti, commissario politico comunista di una formazione partigiana comunista, andava da Gorreri per ragioni del tutto ovvie, « Negri » ci andò per motivi più complicati. Aveva una condanna a morte sulle spalle e, qualunque fosse la giustizia di essa, gli conveniva di certo riscattarsi dalle sue colpe, vere o presunte che fossero. Perciò andò da Gorreri e gli raccontò per filo e per segno tutto. Poi fece un salto a casa, da sua madre, e le disse: « Ora mi son liberato la coscienza ed ho fatto il mio dovere. Ho detto ai miei capi dove si trova Mussolini ». Sia lui sia Michele Moretti, subito dopo, ripresero la strada di Dongo. Ed è proprio là che li ritroveremo.

Non appena Dante Gorreri ebbe telefonato a Milano la felice notizia della ripresa di contatto con Mussolini, la macchina implacabile della giustizia sommaria poté mettersi in moto. « Valerio », che aveva atteso impaziente tutta la notte, si precipitò alle 6,30 del mattino alle Scuole di Viale Romagna, imbarcò quattordici uomini su un camioncino della Ovest Ticino frattanto requisito e partì verso Como, su una « 1500 » nera nella quale si trovavano « Riccardo », del quale ho già parlato, ed Aldo Lampredi: del quale resta da parlare, benché sia molto conosciuto. Lampredi (questo è

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semplicemente il nome della madre) era un alto funzionario del PCI, un politico per eccellenza.

Esule in Francia, sostituiva ora Luigi Longo al Comando Generale, come rappresentante dei PCI.

Ma non era e non era mai stato un uomo d'azione. II Partito lo aveva costantemente impiegato in missioni diplomatiche, sia nei difficili contatti coi partigiani iugoslavi, sia al C.L.N. di Treviso: era tutt'altro che uno sparatore, anche meno di « Valerio », ma la fedeltà al Partito, in lui, era testimoniata da lunghissimi anni di milizia. In quella vettura - per concludere - c'era un solo sparato- re, ed era « Riccardo ». Macchina e camioncino furono a Como alle otto precise, parcheggiando sotto la Prefettura. Fedele alla lettera della sua missione, « Valerio » chiese aiuti al C.L.N. locale, al neoprefetto Virginio Bertinelli, a chiunque gli capitò di incontrare. Ma alle nove e trenta « Guido » gli portò la più grande sorpresa della sua vita, informandolo - si può immaginare con quale aria - che il vero obiettivo della missione era in realtà quello di uccidere Mussolini: sul posto se necessario. Subito dopo « Guido » scese in strada, prelevò Riccardo » che era andato a bere un bicchiere di vino, e partì verso la Federazione Comunista di Como. Debbo sottolineare che la divergenza tra la rivelazione di « Guido » e la buona fede di « Valerio » era così forte, che il « co- lonnello » non se la sentì di digerire la novità tranquillamente. Ma volle telefonare a Milano, per averne conferma. Sudando e smaniando riuscì a parlare soltanto alle undici personalmente, è stato detto, con Luigi Longo. Dopodiché non ebbe più dubbi: soltanto allora cominciò a tempestare per- ché gli venisse dato un autocarro coperto e a benzina. E soltanto allora cominciò a guardare l'orolo- gio ogni trenta secondi. « Guido » era sparito dalle 9,30: ormai la soluzione del dramma dipendeva da chi sarebbe arrivato prima a destinazione.

Come si sa da testimonianze concordi, « Valerio » e la sua scorta - partiti da Como alle 12,30 - giun- sero sulla piazza di Dongo alle 14,10, impiegando un'ora e mezzo a percorrere i 57 chilometri disseminati di posti di blocco partigiani. Ma sappiamo pure, senza ombra di equivoco, che alle 14,20, dunque dieci minuti dopo, vi arrivarono anche « Guido » e « Riccardo », che erano partiti da Como non alle 12,30, come « Valerio », ma tre ore prima. Poiché questi sono fatti indiscutibili, e poiché ne emerge che « Valerio » superò, durante il tragitto, la 1500 nera, resta da chiedersi dove fu e cosa fece « Guido » in queste quasi cinque ore misteriose. La risposta è che assistette alla fucilazione di Mussolini, attorno al mezzogiorno di quello stesso 28. Ho detto che assistette, poiché in realtà l'esecuzione fu opera di « Riccardo » e di un'altra persona, giunta da Milano alle pri- me luci e prelevata da « Guido » presso la Federazione Comunista. Era un « lingotto d'oro » del Partito, la cui presenza (e le cui fotografie) furono bastanti a far sparire istantaneamente, lungo tutto il Lago, a Dongo come a Giulino, a Como come a Milano, la voglia di parlare a chiunque.

Costui, che chiamerò « X », partì poco dopo « Valerio » da Milano, in coincidenza con un « passo ufficiale » di Leo Valiani presso Cadorna.

All'incirca verso le otto, Valiani infatti si presentò al generale recando l'ordine di fucilare Mussolini, a nome del Comitato di Liberazione Nazionale. Tutti sappiamo che almeno una parte del Comitato non fu in effetti neppure consultata e che alcune firme furono addirittura abusive: ma non si può negare - ed io non voglio certo farlo - che gli umori prevalenti fossero quelli. Ma gli umori, se hanno un interesse storico, non costituiscono né delibere, né avalli: il fatto sta ed è, che quando « X » partì da Milano, sorse naturale la preoccupazione di giustificarne in qualche modo l'azione. Si fece anche di più: dietro ad « X » venne spedito con un grosso autocarro un plotone di partigiani, sempre dell'Oltrepò, ma di altre Brigate, per cercare di fermare i giustizieri. Invano: terribili scrosci di pioggia fermarono il motore dell'autocarro alla Camerlata. Per pochi minuti, questo ten- tativo di salvataggio in extremis non raggiunse il suo scopo.

La 1500 nera, pilotata dall'autista Giuseppe Perotta, partì da Como attorno alle dieci, mentre « Valerio » stava affannandosi nel cercare di comunicare con Milano. Vi erano « Riccardo >>, « Guido », Dante Gorreri e naturalmente « X », oltre all'autista: ma per quanto essi sapessero dove si trovava

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Mussolini, tuttavia nessuno di loro era materialmente in grado di andarci, senza parlare del fatto che non sarebbero stati riconosciuti dai partigiani di guardia. Perciò fu necessario, per prima cosa, recarsi a Dongo, dove si trovavano le uniche persone capaci di funzionare da apriscatole: Michele Moretti, ma soprattutto il « capitano Neri », eventualmente la « Gianna ». Il viaggio fu alquanto tribolato, poiché la macchina venne fermata a numerosi posti di blocco: ma alle undici passate di poco si fu a Dongo, non come sconosciuti in visita inopinata, ma come vecchi amici, anche se strani amici. Incontrando « Neri »,Riccardo », per esempio, dava la mano ad un condannato a morte. E Gorreri ad una persona che, se anche non lo aveva tradito durante la prigionia, ci era andata molto vicino, o così si diceva. La « Gianna » e suo fratello, in più, non soltanto cono- scevano benissimo « Guido » e « Riccardo », ma - naturalmente - anche « X ». Chiunque avesse militato nelle ristrette file della Resistenza milanese non poteva non conoscerlo, e bene.

Come si riuscì

a « prelevare » Mussolini

Poche decine di minuti dopo essere arrivati, i visitatori voltarono la macchina e ripartirono per Az- zano, giungendovi poco prima di mezzogiorno, seguiti da una seconda vettura sulla quale avevano preso posto Michele Moretti, « Neri » e la « Gianna ». Non arrivarono sino alla piazza centrale di Azzano, là dove la statale genera la strada in salita che porta a Bonzanigo, ma presero per una laterale che conduce direttamente a casa De Maria, e che è percorribile in macchina fino a metà. La carta che è pubblicata a pagina 23 è di grande aiuto nel seguire questi percorsi. Il vero problema dei giustizieri era quello di estrarre Mussolini, senza far troppo rumore, dalla camera in cui si trovava, possibilmente senza Claretta. In parte essi si erano già cautelati, da questo punto di vista, spedendo qualcuno in paese ad avvertire che tra poco Mussolini sarebbe passato prigioniero lungo la statale, per esser esibito alla folla. Questo qualcuno lavorò bene: i cinquanta abitanti di Bonzanigo (che tanti erano in quel momento) ingollarono in fretta ciò che stava sul loro desco frugale e scesero a precipizio verso il Lago, ad attendere lo straordinario corteo. Subito dopo, essendosi udite alcune raffiche di mitra verso il monte, fu diffusa una seconda voce: che si stava dando la caccia a due ufficiali fascisti fuggiaschi. Anche questo stratagemma - ovviamente destinato a distogliere l'attenzione dalle inevitabili raffiche di mitra - funzionò benissimo. La signora Rosita Barbanti, sfollata a Bon- zanigo, notò per esempio il trambusto e sentì gli spari. Ma si tenne paga della spiegazione.

Alla casa De Maria salì soltanto la coppia già conosciuta da Mussolini fin dal momento dell'arresto Canali e Michele Moretti, che cercarono di sostenere la parte loro affidata. « Neri » aveva parlato a Mussolini del suo piano di recupero, nella notte, ed ora si acconciò a far finta che esso proseguisse,, nella speranza che il « duce » gli andasse dietro senza difficoltà. Tuttavia commise un errore psicologico, poiché comunicò a Mussolini la necessità di lasciare la « signora » dove si trovava. Ma questo poteva ingannare il dittatore, non Claretta: con l'intuito acuito dalla tensione, essa comprese in un lampo che qualcosa non andava, e si gettò alla porta dichiarando affannosamente che « aveva la promessa » del Comando partigiano di essere lasciata, comunque, assieme al suo uomo. Indeciso e nervoso, Canali finì per prenderla per un braccio, dicendole bruscamente: « e allora venga anche lei ». Questa è la ragione per la quale Claretta non ebbe il tempo né di mettersi la pelliccia, né le mutandine. Uscì com'era, ed egualmente fece Mussolini che sì trovò all'aperto, in quella fredda giornata d'aprile, senza cappotto e senza berretto. Stivali, camicia, giacca e pantaloni, esattamente come venne poi appeso a piazza Loreto.

Scese le scale, i due prigionieri vennero avviati lungo la mulattiera in discesa che già avevano per-

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corso nella notte per giungere a casa De Maria. Con ogni probabilità, e proprio dal loro abbigliamento sommario, compresero che non sarebbero andati lontani. Svoltarono a sinistra alla prima curva, là dove comincia la strada percorribile in macchina e giunsero ad una piazzetta triangolare, a pochi passi dalla quale si trovavano le macchine e i giustizieri. « Riccardo » ed « X » si av- vicinarono velocemente: ebbero un attimo di esitazione vedendo che con Mussolini si trovava anche Claretta, poi fecero fuoco, uno dalla destra ed uno dalla sinistra, mentre Moretti e « Neri » si scostava- no in fretta. I due caddero di schianto, in un lago di sangue, Mussolini stroncato da sette colpi di mitra cecoslovacco, Claretta da circa altrettanti. All'esecuzione, in posizione lontana, assistettero « Guido », la « Gianna » e Dante Gorreri, oltre a « Neri » e Michele Moretti. Dopo pochi istanti giunsero di corsa « Lino » e « Sandrino », che aiutarono « Riccardo » e Moretti a trascinare i due cadave- ri in macchina. Fu un'operazione faticosa, durante la quale Claretta perse le scarpe, ed a Mussolini si sfilò uno stivale quasi completamente. Sulla vettura venne prima issato il corpo dei dittatore, quasi a sedere: di traverso, praticamente sdraiata, gli venne posta Claretta. Immediatamente dopo la macchina scese qualche decina di metri, per entrare nel cortiletto di una piccola costruzione, abitata da un simpatizzante comunista locale. A guardia, rimasero « Lino », « Sandrino » ed « X », al quale, ora, premeva soltanto tornare alla svelta a Milano, senza più mostrarsi in giro. Era già rimasto qualche minuto, imprudentemente, sulla piazza di Dongo, esattamente nel momento in cui un fotografo dilettante, certo Luca Schenini, stava andando in giro con la sua cinepresa. Non conveniva che si esponesse ulteriormente. Comunque « Valerio » più tardi pensò anche a questo, sequestrando il film e le fotografie scattate. Pochi istanti dopo, tutti gli altri abbandonarono la scena del dramma. Gorreri ed « X » diretti a Como, « Guido », Moretti e « Neri », con la « Gianna » ancora a Dongo. Come ho già detto, scesero dal luogo dell'esecuzione pochi minuti dopo il passaggio, lungo la statale, dell'auto- carro di « Valerio » che stava dirigendosi di furia a Dongo. Alle 14,20 si arrestavano sulla piazza for- micolante del paese, giusto in tempo per togliere dagli impicci il « colonnello » e la sua scorta, che erano stati scambiati per fascisti in cerca di Mussolini dal Comandante « Pedro » della 52' Garibaldi. Ne abbiamo una testimonianza fedele nel resoconto che il sindaco di Dongo, Rubini, lasciò all'indomani degli avvenimenti: là dove egli racconta di aver appreso da Michele Moretti, che ci si poteva fidare di « Valerio » avendone egli avuta garanzia da un Ispettore delle Brigate Garibaldi, « casualmente » incontrato a Dongo, e suo amico. Era costui, evidentemente, « Riccardo », il quale ben poteva garantire per il collega. Toccò però a « Guido », Aldo Lampredi, di illuminare « Valerio » su quello che era appena successo, e sulla spiacevole necessità di sostenere pubblicamente, dal momento che era già morta, la fucilazione della Petacci. « Valerio » ebbe probabilmente, in quel momento, un vero e proprio travaso di bile, e rimproverò aspramente il collega. Ma poi smise di discutere e si applicò con la consueta diligenza alla sua nuova parte. Afferrò la lista dei prigionieri che

« Pedro » gli porgeva e cominciò a segnarla di crocette: « Benito Mussolini, a morte. Clara Petacci, a morte... ». Stupito e sconvolto, « Pedro » gli fece osservare che si trattava di una donna, senza colpe politiche precise: non certo una gerarca o una torturatrice. Ma « Valerio » fu irremovibile: né poteva non esserlo, sapendo quello che sapeva. Fu quello, probabilmente, il suo « momento » più doloroso, quando dovette caricarsi sulle spalle il peso di un cadavere, destinato a giocare una gran parte nel giudizio pubblico complessivo su quei tatti. Per Mussolini non ci furono, né ci sono oggi, grandi obiezioni.

Persino incalliti fascisti, che però lo conoscevano bene, furono uditi mormorare: « meglio così ». Ma per Claretta fu ed è affare diverso: le donne, da noi, hanno un posto speciale nella storia del nostro costume politico. Ed è sempre un cattivo affare mischiarle, e in questo modo, alla « cosa pubblica ». Alle quindici e venti « Valerio » fu pronto per la seconda parte della sua « missione ». Spedì « Pedro » a racimolare i prigionieri « importanti » rimasti a Germasino, e poi partì di volata, prendendo seco, una volta ancora, gli inesausti Michele Moretti, « Neri », « Guido » e la « Gianna », su due macchine. Ma si portò dietro anche un altro personaggio. Era costui il partigiano molto giovane, ex gappista di

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Baggio e poi garibaldino nella « Capettini ». La sera prima, assieme ad altri due o tre fedelissimi di quella formazione, giunta a Milano nel pomeriggio, aveva chiesto ed ottenuto di raggiungere i suoi parenti di Musso, dei quali non aveva notizie da gran tempo: e questa speciale licenza gli era stata accordata, perché era un elemento fidato, al quale si poteva ben dare un premio. Così aveva raggiunto in mattinata Musso e poi Dongo, richiamatovi dalle eccitanti notizie dell'arresto di Mussolini.

E qui aveva riabbracciato Cesare Tuissi, la vecchia amica « Gianna » ed anche « Riccardo ». Egli capitò a proposito per risolvere il piccolo problema che « Valerio » stava per affrontare.

Giunta al punto in cui, poche ore prima, erano saliti a mezza costa i giustizieri, la spedizione fu divisa in due parti. Mentre « Valerio » saliva lungo la statale fino al lavatoio di Bonzanigo, come più volte poi raccontò, accompagnato da Michele Moretti, gli altri si diressero a piedi, per la ben nota mulattiera, a casa De Maria: qui giunta, la « Gianna » indossò il cappotto di stoffa nera di Claretta, recando in mano la sua pelliccia. Si mise un foulard in testa e fu pronta. Accanto a lei il partigiano di Baggio, la cui corporatura era, dal più al meno, la stessa di Mussolini, indossò il suo cappotto, uno sciarpone ed il berretto del dittatore, calcandoselo ben bene sulla fronte. Con « Valerio » si era rimasti d'accordo che, quando egli fosse stato pronto sulla piazza del lavatoio, avrebbe sparato un colpo d'avvertimento. Cosa che puntualmente fece, dopo aver passeggiato nervosamente in su ed in giù un paio di minuti. A questo segnale, da casa De Maria la piccola comitiva si mosse, davanti « Lino » e

« Sandrino », poi i falsi Mussolini e Claretta, quindi « Guido » che chiudeva il corteo. Essi percor- sero tutta la via Mainoni d'Intignano sbucarono sulla piazza dei lavatoio e fecero salire le due comparse in macchina. Fedeli alla consegna, la « Gianna » e il falso Mussolini si guardarono bene dal fiatare, e scesero sollecitamente quando la macchina giunse al cancello « fatale », quello di Villa Belmonte. Qui, pochi attimi prima, « Neri » e gli altri avevano scaricato gli ormai freddi Mussolini e Claretta. Poiché Mussolini era rimasto in posizione seduta, in tal modo lo acconciarono al muro.

Claretta gli venne distesa al fianco, mentre i sopraggiunti con « Valerio » si tiravano da parte.

Al momento di sparare due simboliche raffiche per aria, a « Valerio » si inceppò il mitra. Era un mitragliatore americano che gli aveva consegnato personalmente Cavallotti la sera prima, nuovo di trinca ed ancora ingrassato « col grasso originale ». « Valerio » non lo conosceva, e del resto lo restituì coi caricatore pieno. Estrasse la pistola e ne fece partire due colpi, sempre per aria. Poi so- praggiunse Michele Moretti, che fece partire, a sua volta, due raffiche di mitra: sui corpi vennero gettati la pelliccia, i due cappotti, il berretto, le scar pe di Claretta, che poi vennero abbandonate sul posto. Nessuno si curò di riinfilare lo stivale a Mus solini, che rimase mezzo dentro e mezzo fuori, così come apparve a piazzale Loreto. E nessuno gli rimise il cappotto: ci si sarebbe facilmente accorti, come del resto ci si accorse dalla pelliccia di Claretta, che non aveva buchi.

Un misterioso colpo di pistola

I corpi vennero abbandonati lì, per evitare di dover dare spiegazioni a Dongo. Se li si fosse esibiti alla folla subito, si sarebbero notate troppe cose, che era meglio tener riservate. Perciò tutti par- tirono per Dongo, lasciando ancora una volta « Lino » e « Sandrino » di guardia. Ma senza accorgersi, né allora né poi, che la sorte aveva loro giocato un tiro mancino, sotto le specie di un testimone al quale solo la sua riservatezza di cittadino svizzero impedì, allora e poi, di raccontare quel che aveva visto. Era costui un uomo di mezza età, molto conosciuto nel luogo e proprietario di una bellissima villa sulla statale di Azzano, dotata di un vasto parco che si inerpica sul monte. Quasi al

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termine dei lungo muro di cinta, si apre una porticina discreta, che immette su quella via San Vincenzo che, dopo un centinaio di metri, sbocca direttamente con sei larghi scalini in ciottolo, sulla via in cui Mussolini venne fucilato. Verso le quattro di quel pomeriggio questo signore svizzero udì con sorpresa un colpo di pistola sparato nel cuore di Bonzanigo. Era, senza dubbio, il segnale di « Valerio »: che ebbe il potere di indurlo ad andare a vedere, così come si trovava. Cioè in vestaglia e pantofole, con una strana specie di « foulard » in testa. Egli percorse in fretta la via San Vincenzo, ma ebbe la prudenza di rallentare, salendo gli ultimi gradini: fu così che poté osservare, discretamente dissimulato, la scena straordinaria di alcuni uomini che stavano sparando per aria delle raffiche di mitra, avendo ai piedi quelli che egli obiettivamente giudicò « cadaveri morti da un pezzo

». Non comprese bene cosa stesse succedendo, come non comprese, la mattina dopo, per quale mai ragione un pescatore dei luogo, da lui ben conosciuto, stesse facendo - o così sembrava - dei buchi nel muro. Ma qualche anno dopo, sentendosi prossimo alla fine, volle condensare queste sue singolari osservazioni in una lettera al figlio, a guisa di testamento. Vi incluse anche il nome e cognome del pescatore in questione: ma questa è una storia senza importanza, anche se è da rilevare che il medesimo, dopo la Liberazione, si trasferì a Voghera, dove impiantò un lucroso commercio di raccolta di stracci e rottami, il cui agente principale, caso strano, fu per molti anni « Riccardo ». Il lato più straordinario di questa testimonianza, è che « Valerio » scorse effettivamente il signore in questione, e lo lasciò anche scritto in una delle sue relazioni. Ma, data la fretta e l'abbigliamento stravagante, lo scambiò per una vecchietta intenta a far legna. Una nebulosa vecchietta alla quale noi cronisti siamo stati dietro per anni. Come ognuno sa, la sera stessa Mussolini venne trasportato a Milano con i corpi dei giustiziati di Dongo, e quello di Claretta. La mattina dopo, alle prime luci, i cadaveri furono distesi nello stesso luogo di Piazzale Loreto nel quale, il 10 agosto 1944, erano stati fucilati quindici partigiani. II lunedì mattina, alle ore 7,30, venne eseguita l'autopsia di Mussolini, che è cosa nota, ma anche quella della Petacci, che è cosa assai meno nota. Del tutto sconosciuto è però il fatto che il Comando Generale spedì il compagno Lampredi ad assistere alla necroscopia. Egli firmò il verbale semplicemente « Guido », presentandosi al professor Cattabeni come il « generale medico della sanità del CVL », il che, per molto tempo, me lo ha fatto scambiare con il professor Piero Bucalossi, che appunto rivestiva quella carica, tra l'altro con l'identico nome di battaglia.

E evidente che « Guido », chiunque esso fosse, prese la decisione di non render nota (o addirittura di non far eseguire) la perizia necroscopica su Claretta: ed anche di permettere la pubblicazione di quella relativa a Mussolini, dal momento che non rivelava nulla di quanto era veramente successo. Precauzione che si rese necessaria proprio per il particolare pietoso, ed im- barazzante, delle mutandine di Claretta: i milanesi si erano già chiesti il perché di un fatto così strano. Ed occorreva che altri fatti strani non emergessero.

Però di quello che era veramente avvenuto venne steso un rapporto. Lo scrisse « Riccardo » che tuttavia si intendeva più di armi che di italiano. Era abituato a dire « la traliccia » e « la mitraglietta », con un curioso gergo italofrancese: per cui il rapporto dovette essere riveduto e corretto. L'autore delle correzioni lo consegnò personalmente in Roma (cinque cartelle a macchina) al signor « X », con una appendice recante l'impegno di mantenere il riserbo per cinquant'anni:

impegno al quale, nonostante stante ciò che ho raccontato, non si è venuti meno. Questo è il rapporto di cui il giornalista Ferruccio Lanfranchi ebbe una fugace visione immediatamente dopo la Liberazione, e che probabilmente lo portò tanto vicino alla verità da indurre il Partito Comunista munista ad annunziare pubblicamente, nel febbraio 1947, che I'esecutore di Mussolini era il co- lonnello « Valerio », cioè il ragionier Walter Audisio. E questo è il rapporto al quale, senza dubbio,

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si riferiva « Valerio » stesso nel 1959, quando - come si è detto - confidava ad un altro giornalista, Silvio Bertoldi, che « se avesse voluto, avrebbe potuto fare un colpo sensazionale ».

Palmiro Togliatti, Giancarlo Pajetta, Luigi Longo e Giorgio Amendola

Quando si rifletta che i depositari di quelle ultime drammatiche ore della dittatura sono quasi tutti morti, si riesce a comprendere per quale ragione il silenzio abbia potuto durare tanto. A poche ore dalla Liberazione, sparirono « Neri » e la « Gianna »: il primo giustiziato a Milano per ordine diretto di Pietro Vergani. La seconda gettata nel lago nei pressi di Azzano, con una vicenda francamente orribile. « Lino » venne ucciso in Dongo - . si disse - per un incidente, e « Riccardo » è morto di morte naturale nel 1968. Sopravvivono, essendo morto anche « Sandrino .», soltanto « X », « Valerio » e Michele Moretti. « Guido » è deceduto parecchi anni fa, in Russia.

E tuttavia le persone che seppero almeno una parte, spesso piccolissima, della verità, erano assai più numerose: il mio lavoro è consistito nel raccoglierne faticosamente le confidenze, nel metterle insieme e nel collocare ciascuna tessera al suo posto. Certo, vi sono larghi spazi vuoti, ma debbo onestamente aggiungere che tutti i capi della Resistenza con i quali ho parlato, non hanno avuto difficoltà ad ammettere che !e cose sono andate effettivamente così. « Forse » mi ha detto un nostro grosso politico « "Valerio" rimarrà sollevato da una tal soluzione del mistero. Cosa ci ha guadagnato? Un infarto per sé, e l'angoscia nervosa della moglie ».Rimane da rispondere all'ultima domanda. Chi è « X »? Debbo sinceramente dire che su questo punto le bocche sono ermeti- camente chiuse. Ho tre nomi sul mio taccuino, e non ve ne possono essere altri: ma forse è ancora troppo presto per cancellarne due.

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Franco Bandini

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