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Editoriale del Presidente UniTre Pablo Gorini. all insegna di un almeno moderato ottimismo. a livelli lombardi, forse anche per-

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Academic year: 2022

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Sommario

Editoriale ... 2

La biblioteca dell’UniTre ... 3

La musica barocca ... 4

25 Marzo: Dantedì ... 7

L’arte a tavola ... 10

Il teatro fatt’in casa ... 13

L’horror nelle fiabe... 15

Tra mistero e realtà ... 22

Simbologia nell'arte: la Fenice ... 23

La filosofia e il tramonto dell’Occidente ... 25

Primo Amore ... 29

Le utilitarie che motorizzarono l’Europa ... 30

La Principessa Elisa e il maleficio dei Corinki ... 34

La scatola dei ricordi ... 38

I cani parlano? ... 42

Come il mare di marzo ... 44

Centro Giovani ... 47

L’albero di Pasqua ... 48

Collaborazione di Unitre con “Edizioni Il Foglio” ... 48

Editoriale

del Presidente UniTre Pablo Gorini Avrei voluto scrivere quest’editoriale

all’insegna di un almeno moderato ottimi- smo. Le circostanze attuali mi spingono, viceversa, a considerazioni dettate, per così dire, dal “pessimismo della ragione”:

la pandemia, dopo oltre un anno, non ac- cenna ad allentare la sua pressione, proli- ferano le sue varianti (inglese, brasiliana, nigeriana...), molto più virulente e facil- mente trasmissibili. I vaccini non sono al momento sufficienti e, come se non ba- stasse, mentre sto scrivendo, si stanno avanzando forti dubbi sulla pericolosità di uno dei più diffusi. Fortunatamente in questa parte della Toscana i numeri dei

contagiati e dei deceduti non è mai arri- vato a livelli “lombardi”, forse anche per- ché l’alta percentuale di over 70 che ci ca- ratterizza è di per sé garanzia di rispetto delle regole. Non ci resta dunque che aspettare e sperare (il cognome dell’attuale ministro della sanità dovrebbe essere suf- ficientemente scaramantico!). L’impor- tante è non disperderci, non perdere i con- tatti fra di noi, continuare a dialogare, a confrontarci, con tutti i mezzi che questa situazione di emergenza ci consente. La reazione collettiva di fronte alla “seconda ondata” si è rivelata diversa, rispetto alla prima. Ricordate la gente che cantava e

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ripetendo come un mantra ossessivo quel

“ce la faremo”? Poi l’arrivo dell’estate, l’il- lusione che, col caldo, l’incubo scompa- risse, gli affollamenti sulle spiagge, gli ec- cessi “vacanzieri”. La seconda, inevitabile ondata ci ha sorpresi più stanchi e sfidu- ciati, storditi dal martellamento inces- sante dei media, sempre più chiusi in noi stessi e, quel che è peggio, ormai quasi as- suefatti e rassegnati all’isolamento. Inoltre la terribile crisi economica nei confronti della quale i “ristori” statali, pur consi- stenti, sono ben poca cosa di fronte alle necessità degli aventi diritto. Dubito, pur- troppo, che ad oggi si possa fare molto di più. Il vantaggio di noi Piombinesi è che alle crisi siamo ormai abituati da oltre vent’anni, da quando, cioè, il declino dell’industria dell’acciaio in occidente ha affossato irreversibilmente la nostra side- rurgia, indirizzandoci verso un destino prematuramente post industriale, con scarse alternative a disposizione. In pochi anni abbiamo assistito alla caduta verti- cale delle attività produttive con, di conse- guenza, disoccupazione dilagante, chiu- sura di moltissimi esercizi commerciali, crollo delle nascite, forte invecchiamento della popolazione. E se non siamo ancora arrivati alla tragedia lo si deve proprio alla

“falsa economia” movimentata dalle pen- sioni degli anziani, spesso unica risposta

ai bisogni primari di figli e nipoti. Altro che scontro generazionale! I nostri giovani do- vrebbero davvero custodire nella bamba- gia i loro cari vecchietti, veri e propri “te- soretti” in carne ed ossa. A Piombino, quindi, la pandemia ha solo esasperato una situazione già di per sé grave, aumen- tando, semmai, il tedio giornaliero e chiu- dendoci in una sorta di “spleen” cui non è facile reagire. Ma voglio chiudere con una lieve immagine di speranza. ‘E da oltre un anno sotto gli occhi di tutti lo spettacolo desolante delle palme uccise, senza scampo, da un micidiale insetto venuto da oriente: il “punteruolo rosso”. Il paesaggio urbano ne è stato irrimediabilmente scon- volto anche se qualche “purista” saluta con (assurda) soddisfazione la scomparsa di piante di origine “esotica”. Vani sono stati i tentativi di curarle e di farle rina- scere. Con una sola eccezione: una delle due palme da datteri che, da oltre mezzo secolo, adornano il giardino di “Villa Del Greco”, ora sede della Curia Vescovile, data ormai per morta, ha ripreso a germo- gliare ed è di nuovo abbellita da una ricca corona di foglie. Prendiamolo come un buon auspicio per un futuro più roseo.

Cari saluti a tutti, buona Pasqua e, so- prattutto, non perdiamoci di vista!!

La biblioteca dell’UniTre di Paolo Brancaleone

Qualche anno fa, e precisamente nel settembre 2016, durante una riunione del di- rettivo, fu approvata la proposta di “dar vita ad una biblioteca” dell’UNITRE. Nei giorni successivi avevamo la segreteria letteralmente invasa da scatole traboccanti di libri pervenuteci dai singoli consiglieri e da nostri iscritti. Insomma, nel giro di qualche mese avevamo già una biblioteca composta da qualche centinaio di libri. Si trattava di testi,

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nella maggior parte, di narrativa italiana e straniera. Arrivarono anche tante enciclo- pedie per cui fu necessario fare una “sofferta” selezione; in poco tempo si era creato, come in tutte le biblioteche, un serio problema di spazio.

Oggi la biblioteca dispone di circa duemila volumi, quasi tutti catalogati e suddivisi per materie e settori; dalla narrativa italiana a quella straniera, poi ci sono la saggistica, la storia e le materie letterarie con diversi testi di latino, un’ampia presenza di volumi di storia dell’arte, storia del cinema, teatro, poesia. Una ricca collezione di libri gialli e di dischi in vinile di musica classica e lirica.

Il nostro punto di forza sono alcuni testi di una certa vetustà inseriti nel settore

“archivio storico”; si tratta di libri pubblicati, quasi tutti, nella prima metà del ‘900, molti dei quali di indubbio valore storico-culturale. Inoltre la biblioteca può vantare la presenza di alcuni volumi editi nel 1800 e uno addirittura stampato nel MDCCXCIII (1793) dal titolo “Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi”;

tra questi “autori viventi” ci sono i fratelli Giovanni e Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti.

Quasi tutti i testi sono stati inseriti in un file che permette, in poco tempo, di con- sultare il catalogo completo per categoria dei libri presenti nella biblioteca. Tale cata- logo si può trovare anche in forma cartacea in prossimità delle scaffalature per un veloce esame dei testi presenti.

Fin dalla sua nascita la biblioteca dell’UNITRE aveva tra gli obiettivi quello di dare la possibilità di usufruire della lettura dei libri messi a disposizione ai propri iscritti e frequentatori della scuola. Pertanto chi ha necessità di consultare o leggere un libro può prelevarlo facendoselo registrare in segreteria da un consigliere presente e di co- municare la riconsegna per il successivo riposizionamento.

Pagine di Letteratura, Musica, Teatro, Filosofia, Arte, Storia…

La musica barocca di Fabio Gambassi

L’arte, la poesia e la musica del Seicento e della prima metà del Settecento sono indicate con il termine “barocco”. I caratteri più evidenti di questo stile sono la gran- diosità, la potenza, la teatralità e la ricerca di complicati effetti decorativi, che rispec- chiano la fastosità delle nascenti monarchie assolute europee.

Anche le maggiori città italiane (soprattutto Roma, Firenze e Venezia) riescono a in- serirsi con prestigio nella vita artistica europea: anzi, si può affermare che il centro più importante in tutta Europa e nel quale il barocco affonda le sue radici fu proprio Roma.

Nel Seicento la nobiltà è ancora la classe dominante, ma in quest’epoca si va affer- mando un’altra classe, la borghesia, assai potente sul piano economico, che rappre- senta la fascia produttiva (banchieri, mercanti, manifatturieri, artigiani) e che costi-

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poveri) e la smisurata ricchezza dei nobili.

Le corti dei nobili si affermano prepotentemente come centri dell’attività musicale.

Cantanti, strumentisti, compositori, maestri di cappella e maestri di danza gravitano intorno alle lussuose residenze dei monarchi assoluti che, senza badare a spese, cer- cano di dare un’immagine di magnificenza e di grandezza. Ogni avvenimento impor- tante, pubblico o privato, viene solennemente festeggiato per giorni interi e in queste feste la musica costituisce l’attrazione principale: teatro in musica, danza, balletto, musica strumentale.

Il pubblico non è più costituito da nobili ma anche da ricchi borghesi, ambiziosi di prestigio sociale. La Chiesa, nel frattempo, perde sempre più la sua egemonia in campo musicale, mentre sta per nascere un luogo che dominerà la vita musicale fino agli inizi del Novecento: il teatro.

Nel Seicento comincia dunque per la musica un importante periodo che si protrarrà fino a metà del Settecento e vedrà la nascita di generi, stili e forme musicali completa- mente nuovi.

Le principali novità saranno:

l’affermazione e la diffusione del melodramma;

il declino della polifonia che si trasforma in armonia (accordi che accompagnano la melodia o monodia accompagnata);

la differenziazione tra le musiche da sonar (sonata) e musiche da cantar (cantata);

la diffusione e la riscoperta degli strumenti: organo, clavicembalo, violino;

il declino dello stile a cappella (solo voci) e l’affermazione dello stile concertante (voci e strumenti);

la nascita dell’orchestra e di due forme prettamente orchestrali: il concerto grosso e il concerto solista;

la nascita del balletto;

IL MELODRAMMA

Il melodramma (dal greco μελοs: “canto” e ράμα: “azione scenica”) detto anche opera lirica o, più semplicemente, opera, è lo spettacolo in cui la recitazione teatrale si svolge attraverso il canto e la musica: è una diretta conseguenza della monodia accompa- gnata, nata nell’ambito della Camerata dei Bardi a Firenze.

L’anno della vera e propria nascita del melodramma fu il primo anno del nuovo se- colo, il 1600, anno in cui a Firenze, si rappresentò l’opera Euridice di Giulio Caccini.

Da Firenze questo nuovo stile musicale si diffuse a poco a poco in altre città, sempre nei palazzi principeschi e per un pubblico colto e aristocratico: l’allestimento di un’opera comportava infatti preparativi complessi e molto dispendiosi.

Un tentativo fatto a Venezia cambiò la situazione. Nel 1637 fu aperto il primo teatro a pagamento, il San Cassiano, e finalmente anche le persone di ceto medio poterono assistere alla rappresentazione di un melodramma. Il pubblico accorse numeroso e dimostrò di gradire molto questo tipo di spettacolo. In conseguenza di questo successo altri teatri furono aperti in varie città italiane, in particolare a Roma.

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Contemporaneamente alla diffusione del melodramma nacque la figura dell’impre- sario, che scritturava poeti, musicisti, cantanti, strumentisti, scenografi, ballerini e or- ganizzava la rappresentazione dell’opera.

In questa nuova situazione era il giudizio della gente che decideva la sorte e la for- tuna degli artisti e dell’impresario. Acquistò così molta importanza la messa in scena, che doveva sbalordire il pubblico con la grandiosità delle scenografie e la bravura dei cantanti lirici, ai quali si chiedevano voci sempre più eccezionali.

LA MUSICA STRUMENTALE

Il melodramma e la musica strumentale del 1600, pur così diversi tra loro, avevano un elemento in comune: protagonista era quasi sempre un solista virtuoso, capace di usare il proprio strumento (tale infatti è anche la voce) per trarre effetti mai sentiti prima ed entusiasmare il pubblico.

Questo parallelismo trova conferma anche nello sviluppo di alcune forme musicali:

ad esempio della cantata (un pezzo da cantare) oppure della sonata (un pezzo da suo- nare), da camera o da chiesa a seconda della loro destinazione profana o sacra.

Nel Seicento nacque un’altra forma musicale nuova: il concerto, che alla fine del secolo lasciò il posto al concerto solista: un solo strumentista si contrapponeva a tutta l’orchestra. Tipica, all’interno del concerto solista, era la presenza della cosiddetta “ca- denza”: ad un certo momento l’orchestra cessava di suonare e lasciava al solista la possibilità di lanciarsi in passaggi liberi nei quali rielaborava e variava i temi principali del discorso per mostrare la propria abilità. Altre forme musicali del periodo barocco sono:

Suite: composizione strumentale basata su una successione di danze, destinata però all’ascolto e non alla danza e utilizzata come musica d’intrattenimento per i nobili.

Oratorio: forma musicale “drammatica”, che prevede la narrazione di un evento sa- cro, con personaggi e dialoghi. Veniva rappresentato in locali detti “oratori”.

Nel Seicento si affermarono definitivamente strumenti già noti da tempo, come l’or- gano, o di recente diffusione, come il clavicembalo e il violino.

Conseguenza di questa affermazione della musica strumentale fu lo sviluppo tecnico nella costruzione degli strumenti stessi. Primo fra tutti fu il violino, che si impose nei confronti degli altri strumenti ad arco grazie anche ad abilissime scuole di “liuteria”, cioè di costruttori, come quelle cremonesi degli Amati, dei Guarneri e degli Stradivari, le cui famiglie si tramandavano i segreti di padre in figlio.

Principali autori

Tra i numerosi autori ricordiamo: Giovanni Pierluigi da Palestrina, Domenico Scar- latti, Girolamo Frescobaldi, Claudio Monteverdi, Arcangelo Corelli, Giovanni Battista Pergolesi, Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel.

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Il 25 marzo è il giorno di Dante, il Dantedì, istituito nel gennaio 2020 dal Consiglio dei Ministri su proposta dell’allora Ministro per i Beni e le Attività culturali e il Tu- rismo, Dario Franceschini che oggi, con la nuova denomi- nazione, è il Ministro della cultura.

Fu stabilito che il Dantedì sarebbe stato celebrato ogni anno il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio immaginario di Dante nell’al di là, attra- verso i tre regni dell’oltretomba.

“Dante ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia” ha sottolineato l’anno scorso il ministro Franceschini.

Effettivamente, Dante è la nostra lingua ed è l’Italia.

È la nostra lingua in tutte le sue sfumature, è la lingua colta con le sue similitudini, le metafore e tutte le figure retoriche che Dante usa, con le sue terzine perfette, con lo stile elegante delle disquisi- zioni filosofiche e teologiche ma è anche la nostra lingua di tutti i giorni con i detti, i paragoni, i proverbi, i modi di dire, con le descrizioni bellissime di angoli della nostra Italia, con le parolacce, con il suo crudo realismo.

E dell’Italia Dante è non solo il padre di una lingua comune ma anche di un paese che ha sì “vagheggiato” e coltivato con amore, secondo una concezione medievale, sotto il governo di un imperatore, ma che ha immaginato unito, sogno che si è realizzato dopo circa cinquecentocinquanta anni.

Quindi una visione del nostro paese che superava le contese comunali del suo tempo e spaziava in una dimensione completamente moderna.

La giornata di Dante è stata creata per ricordare a tutta l’Italia e al mondo il suo genio, con moltissime iniziative che coinvolgono scuole, studenti e insegnanti, associa- zioni, istituzioni culturali e non, e che, quest’anno, si sono moltiplicate a dismisura poiché ricorre il 700° anniversario della morte del Poeta.

In quest’ultimo periodo sono stati pubblicati anche tanti libri sulla sua vita, sulle sue opere, sulle figure che lui ha cantato. Da Santagata a Barbero, da Cazzullo a tanti, tanti altri.

Tra questi, un libretto di poche pagine mi ha particolarmente colpito perché è un libro singolare che è insieme storia e scoperta, viaggio e sosta, tributo al grande poeta e consolazione, come solo la letteratura può procurare, in un momento, come quello dello scorso anno, nel quale l’Italia “si trovava in piena pandemia, il numero dei decessi era altissimo e la curva dei contagi non accennava a scendere”.

Si tratta di “Ogni sera Dante ritorna a casa. Sette passeggiate con il poeta” di Roberto Mosi.

25 Marzo: Dantedì di Lucilla Lazzarini

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Questo libro non è una cosa conclusa, è un progetto che prevede di “riscoprire, in- sieme alla poesia e alla recitazione ad alta voce, i luoghi che videro Dante crescere come uomo, affermarsi come politico e poeta, fino alla condanna all’esilio”, attraverso le lapidi con i versi della Commedia che il Comune di Firenze fece collocare nel 1907 nelle vie e nelle piazze della città, sui muri delle case storiche, per ricordare fatti ed episodi illu- strati nel poema. Furono collocate trentaquattro lapidi, la maggior parte delle quali si trova nel sestiere di san Piero dove Dante nacque e visse sia ragazzo che dopo il suo matrimonio con Gemma Donati.

L’autore, con una compagnia di amici, sperimenta il camminare insieme, per cono- scere meglio il poeta attraverso un progetto che parte dalla lettura del testo della Com- media, si allarga alla storia e si prolunga per sette settimane sia nella realtà sia in video conferenza (per due volte, nei momenti di massima criticità dovuta alla pandemia, le passeggiate sono state solo virtuali) sostenuto dall’incontro e dalle suggestioni dei luo- ghi “ci siamo incontrati sulle strade dall’antico selciato…nel paesaggio medievale…luo- ghi carichi di memorie”.

Di queste sette escursioni e incursioni, direi, nel mondo di Dante, Mosi ha fatto una specie di diario che unisce il piacere del cammino e della scoperta con la lettura, la musicalità dei versi, le riflessioni, le voci, le atmosfere, le emozioni.

Il percorso, che segue come guida il libretto di Foresto Niccolai, “Firenze. Le lapidi dei luoghi danteschi”, inizia dalla cosiddetta “casa di Dante” con l’iscrizione

“[…] io fui nato e cresciuto

sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa”

[Inferno c. XXIII, vv.94 – 95]

e termina al Battistero (il suo “bel san Giovanni”) con i versi nei quali il poeta si augura di poter tornare a Firenze, proprio in virtù del suo poema, e di esservi incoro- nato pubblicamente

“Se mai continga che ‘l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, ed in sul fonte del mio battesmo prenderò ‘l cappello”

[Paradiso, c. XXV, vv.1 – 9]

Nel mezzo, le difficoltà di un’intera esistenza e la fragilità di un uomo vissuto nelle atmosfere della Firenze trecentesca tra le case dei Donati, degli Alighieri, dei Portinari, nel sestiere al centro della città, intorno alla Badia Fiorentina e alla Torre della Casta- gna. In questo paesaggio si alzano ancora le case torri (nelle quali le famiglie-fazioni, al

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vecchio acciottolato a grosse lastre, gli stretti, tortuosi passaggi fra un edificio e l’altro, le chiese, i conventi. In questo ambiente, di ieri e di oggi, ancora si sente, e commuove, il suono della campana del campanile della Badia e riporta con il pensiero alle parole di Cacciaguida, l’avo di Dante:

“Fiorenza dentro dalla cerchia antica ond’ella toglie ancora e terza e nona,

si stava in pace, sobria e pudica”

[Paradiso, c. XV, vv.97-99]

Un percorso, a volte reale a volte virtuale per la pandemia, durante il quale bal- zano con impeto davanti ai nostri occhi, come usciti da un fondale di scena, il nobile Farinata degli Uberti che, nella dieta di Empoli, convocata dopo la vittoria ghibellina di Montaperti, fu l’unico che difese la città di Firenze dalla furia dei senesi e dei pisani che volevano radere al suolo la città sconfitta.

Oppure si incontrano gli usurai, trafitti da una pioggia di fuoco e, cosa singolare, la lapide che tratta di loro si trova in via de’ Tornabuoni, sul palazzo che appartenne ai Gianfigliazzi, proprio vicino al negozio di Gucci. E Mosi commenta con spirito “proprio in questa strada oggi si vendono borse a prezzi da…usuraio”.

Poi è Gerione che si presenta ai nostri occhi, pronto a portare, in una “folle di- scesa”, Dante e Virgilio nelle Malebolge:

“…la fiera con la coda aguzza,

che passa i monti, e rompe i muri e l’armi!

[…] colei che tutto ‘l mondo appuzza!”

[Inferno, c. XVII, vv.1 – 3]

e sembra risuonare ancora di grida e di strepiti la piazzetta dei Donati “nella quale si fronteggiavano le case dei Cerchi e dei Donati […] e ci sembra ancora di avvertire l’eco sanguinosa degli scontri”

Durante le passeggiate, ecco venirci incontro, attraverso le lapidi, il potente e iracondo Filippo Argenti o il traditore Bocca degli Abati che, durante la battaglia di Montaperti, nel 1260, tagliò la mano di Iacopo Nacca deì Pazzi che sorreggeva la ban- diera della cavalleria fiorentina provocando così la caduta della bandiera e lo sbanda- mento delle milizie guelfe. Dante lo colloca nell’Antenora, dove sono puniti i traditori della patria.

Ci affascina, poi, proseguendo il cammino, la figura di Corso Donati, capo dei Guelfi Neri e ci attrae il racconto della sua tragica morte. Corso Donati uomo spregiudicato e senza scrupoli, bello e crudele, violento, corruttore e corrotto, valoroso in guerra, con- quistava il popolo con la sua abilità di oratore ma fu proprio il popolo a rivoltarglisi contro. E allora “per paura di cadere nelle mani dei suoi nemici, [prima] si asserragliò nelle torri dei Donati, assediate dal popolo, [poi] fuggì di tetto in tetto, di torre in torre”

con un cavallo che gli aveva procurato un suo uomo fidato, incitando disperatamente con gli speroni i fianchi dell’animale. Ma, inseguito da un drappello di soldati catalani al servizio del Comune di Firenze, in breve fu raggiunto e cadde da cavallo. Poi, la lancia

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di uno dei cavalieri lo raggiunse alla gola e Corso il bello, il prepotente, il violento, il dominatore, morì.

Queste e tante altre figure ci vengono incontro dalle lapidi e dal libro in un dialogo continuo tra presente e passato, in un viaggio immaginario e dello spirito ma anche reale, che è poi la vita che rappresenta il viaggio che ciascuno di noi compie attraverso gli orrori e il male dell’Inferno, il pentimento e le penitenze del Purgatorio fino ad arri- vare alla luminosità della Grazia e dell’Amore nel Paradiso.

L’arte a tavola di Pablo Gorini

Considerazioni “sparse” sulla percezione della sfera alimentare nell’ambito dell’imma- ginario artistico attraverso i secoli.

...E, dietro, giunse un vassoio con dentro un cinghiale immenso che aveva in testa un berretto. Dalle zanne gli pendevano due pic- cole sporte intrecciate di foglie di palma, contenenti datteri freschi e datteri secchi.

Intorno erano distribuiti porcellini di latte che sembravano voler succhiare il latte dalla scrofa... Un gigante barbuto, con le fa- sce alle gambe ed un mantello di damasco, snudato un coltellaccio, lo piantò nella pan- cia del cinghiale dalla quale spiccò il volo uno stormo di tordi...C’era un grande vas- soio rotondo che portava incisi i 12 segni dello zodiaco e su ciascuno il cuoco aveva disposto una burlesca vivanda: sopra l’Ariete, ceci cornuti, sopra il Toro, una bi- stecca di manzo, sopra i Gemelli, animelle e rognoni, sopra il Leone, fichi africani, sopra il Capricorno, un’aragosta...nel centro una zolla erbosa con un favo di miele...Tolta la parte superiore del vassoio apparve il ri- pieno di cacciagione e di petti di scrofa, che stava sotto. Nel mezzo troneggiava una le- pre con le ali, perché somigliasse a Pegaso.

Agli angoli del piatto c’erano poi quattro sa- tiri, dalle cui cornamuse gocciolava una

salsa piccante sopra i pesci che vi nuota- vano come in un lago...Queste sono solo al- cune delle pietanze della “Cena di Trimal- chione”, l’episodio certamente più famoso di una delle più straordinarie opere mai prodotte dalla cultura latina: il Satyricon di Petronio, risalente all’età di Nerone. Pur trattandosi di un brano letterario, sarebbe molto agevole interpretarlo in chiave icono- grafica, sia pittorica che cinematografica (come ha fatto, magistralmente, il nostro regista più visionario, Federico Fellini). Ne verrebbe fuori un senso estremamente tea- tralizzato e scenografico della tavola, all’in- segna di un gusto barocco “ante litteram”, per l’eccesso e il desueto. Leggendo queste pagine mi vengono in mente i grandiosi banchetti allestiti alla corte di Luigi XIV, il Re Sole, che, da un punto di vista etico, erano una vera e propria ingiuria nei con- fronti della miseria e della fame del popolo.

Su queste tavole imbandite con sfarzo inaudito, facevano la loro comparsa, per le prime volte nella storia della gastronomia, ricercatissimi cibi esotici, provenienti dall’Oriente e dal nuovo mondo, oltre a

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Dando un rapido sguardo ai numerosi di- pinti che ci mostrano i vassoi e le posate d’oro e d’argento, l’esercito di valletti in li- vrea, le decine e decine di portate, tal- mente complesse nella loro preparazione e tanto esuberanti e ridondanti nell’aspetto da sfiorare il kitsch, si ha la chiara perce- zione di come il cibo, in quel particolare contesto, avesse ormai perso il suo nor- male valore d’uso, per assumere quello dello status symbol, con lo scopo di in- durre allo stupore, alla meraviglia chi si trovava ad assistere ad una delle tante di- mostrazioni d’onnipotenza della classe do- minante. Faceva da contrasto stridente la fame atavica della plebe, passata indenne attraverso i secoli, senza essere né toccata né mitigata dagli splendori di Roma antica o da quelli, più tardi, della civiltà rinasci- mentale. Solo il Medioevo, da questo punto di vista, si era mostrato più vicino al dramma delle classi meno abbienti, appa- rendo più incline, anche nell’arte, a docu- mentare la sobrietà, la privazione del cibo da parte di santi, monaci, asceti, piuttosto che il consumo eccessivo e smodato. Prima di continuare questo rapido excursus, mi sembra opportuno fare alcuni, doverosi ri- ferimenti al passato più remoto. Scorrendo le pagine della storia sembra di poter ca- pire come i dipinti e i graffiti sulle pareti delle grotte di Francia e Spagna, opera di cacciatori paleolitici di oltre 15.000 anni fa, oltre ad assumere un significato propi- ziatorio, si riferissero a bisonti, cavalli, cervi, orsi e mammuth intesi come soggetti concreti dell’alimentazione quotidiana.

Procedendo in estrema sintesi: il tema del banchetto è presente, con ripetitività quasi ossessiva, sui vasi greci ed etruschi ed è il

motivo dominante dei cicli dell’antica pit- tura tombale. Quasi sempre si allude ad un banchetto funebre che simboleggia, nel momento del trapasso dalla vita alla morte, ciò che il defunto si lascia dietro e ciò che gli si prospetta nell’al di là. Nel mondo ro- mano non mancano riferimenti espliciti al cibo: dai mosaici raffiguranti fondali ma- rini dove nuotano spigole, orate, aragoste, murene, prelibatezze ittiche particolar- mente apprezzate sulle tavole dei ricchi, ai

“pavimenti non spazzati”, opere musive o pittoriche dove si ammassano, in un pitto- resco miscuglio, chele di crostacei, lische di pesce, gusci di conchiglie, ossa di pollo, evidenti resti di pasti consumati con sod- disfazione. Dopo le allusioni, per lo più re- ligiose ed eucaristiche tipiche della simbo- logia alimentare dell’arte medievale, il Ri- nascimento presenta una nutrita serie di artisti, quasi tutti dell’Europa del Nord, (quelli italiani sono maggiormente legati alla lezione del classicismo) che passano dal carnevale alla quaresima, dal digiuno agli alberi della cuccagna. Non mancano, anche in Italia, personalità stravaganti, come Giuseppe Arcimboldi (Arcimboldo), pittore del pieno ‘500, famoso per la sua personalissima tendenza a realizzare, con fiori, foglie, frutti e ortaggi vari, volti e fi- gure umane, in una sorta di gioco estroso ed intellettualistico che sottintende nasco- sti simbolismi. Ancora in Italia, alla fine del

‘500, Annibale Carracci dipinse un quadro, oggi conservato a Roma, presso la Galleria Colonna, il “Mangiafagioli”, dove si vede un popolano che ingoia, con foga e voracità, un piatto di saporiti legumi, ed il realismo della scena è tanto accentuato che si vede chiaramente il liquido della minestra goc- ciolare dal cucchiaio di legno. Al contrario

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delle numerose scene di “genere” che la pit- tura fiamminga dedicherà a soggetti analo- ghi rappresentati con assoluta perfezione stilistica e minuzioso e freddo calligrafi- smo, sembra qui di scorgere, da parte dell’autore, un atteggiamento più emotiva- mente coinvolto. Il ‘600 barocco, caratte- rizzato, in pittura dall’esubero di soggetti, religiosi e civili, dominati dall’idea osses- siva della caducità della vita e della morte incombente e, di conseguenza, pervasa da macabre simbologie, rappresenta anche l’affermarsi della natura morta. Nata come semplice complemento, spesso senza una vera ragione di essere, all’interno di com- posizioni di più ampio respiro, acquista sempre maggiore dignità divenendo genere a sé stante in cui si cimentano pittori di altissimo livello, dando origine a veri e pro- pri capolavori, Si riscoprono le classi più povere, spesso colte nel loro (drammatico) rapporto quotidiano col cibo. Perfino il grande Diego Velasquez, prima di interes- sarsi (per interesse economico) alla rappre- sentazione dei fasti della corte spagnola, si era dedicato a soggetti molto più popolari, come interni di cucine, con pesci, uova e spezie, magari inseriti nell’ambito di epi- sodi evangelici (“Cristo in casa di Maria e Marta” 1618), oppure come “La friggitrice di uova” e “I tre uomini a tavola”, ascrivibili al genere cosiddetto “del bodegòn”: scene che riproducevano la cottura dei cibi ed il loro consumo all’interno di locande e di osterie, con chiaro e realistico riferimento alla povera alimentazione dei popolani spa- gnoli. Fra i moltissimi pittori di nature morte, mi piace citare Juan Sanchez Co- tàn, contemporaneo di Velasquez, in cui frutta, ortaggi e uccelletti, già inseriti negli

opportuni spiedi, pendono dall’alto di cor- nici squadrate e sembrano caricarsi del ca- rattere quasi metafisico di miraggi gastro- nomici. Niente a che vedere con la giocosa naturalezza con cui i “chicos” del Murillo, raffigurati in una sdrammatizzata miseria, mangiano (pochi decenni più tardi) uva e meloni. Per non citare Caravaggio, fin troppo scontato, voglio far riferimento al fiammingo Jacob Jordaens che nella “Fe- sta del re dei fagioli” trova il modo di sotto- lineare, allusivamente, i pericoli insiti nell’abuso del bere… Rembrandt, Gerrit Dou, Steen, Bosch, Hals, Vermeer, tutti fiamminghi.... Louis le Nain, francese, Georg Flegel, tedesco, attraverso le loro na- ture morte vogliono conseguire, trattando del rapporto fra uomo e cibo, un intento profondamente moralistico ed evangelico.

Per interrompere un elenco che sarebbe lunghissimo, voglio infine ricordare Salva- dor Dalì, genio inarrivabile del surreale, che rivela, in molte sue opere, un rapporto inaspettatamente fisico, fino alla carnalità, col cibo, che lui attribuisce alle sue origini catalane. Lo stanno a dimostrare i celeber- rimi “orologi molli”, nati da “un sogno di Camembert colante”, le “uova al tegame senza tegame”, il “pane antropomorfo”, il

“telefono astice”, la “natura morta-viva”, con frutti, bicchieri di vino, bottiglie e po- sate che si alzano, fluttuando, dal tavolo, quasi fossero dotati di vita propria. ....

(n.d.a) Non ho potuto, per ovvi motivi, alle- gare a queste pagine il necessario reperto- rio iconografico. Se l’argomento vi inte- ressa, potete colmare questa lacuna, con centinaia di altri esempi che non vi sarà difficile reperire, dati i mezzi che la mo- derna tecnologia ci mette a disposizione.

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Il teatro fatt’in casa di Nunzia Sciannandrone

Continuiamo il nostro viaggio nell’Italia dei dialetti facendovi conoscere altri autori che si sono cimentati in opere scritte nella loro lingua locale. Iniziamo con I Legnanesi:

una compagnia teatrale dialettale fondata da Felice Musazzi.

Egli, nell'immediato dopoguerra decise di costituire insieme a Tony Barlocco e Re- nato Lombardi una compagnia teatrale all'oratorio di Legnanello (quartiere di Legnano) che fu denominata I Legnanesi. In questi anni negli oratori della Diocesi di Milano era vietata la partecipazione di attrici donne e quindi i tre decisero di recitare i loro spetta- coli en travesti dovendo recitare anche ruoli femminili

L'ambientazione tipica delle loro commedie era la corte lombarda, all'interno della quale ruotano le vicende della famiglia "Colombo". L'idea vincente fu quella di raccon- tare alla gente le storie di paese, del quotidiano, con le loro gioie e i loro dispiaceri, caratteristica che rese unico il gruppo e gli consentì di riscuotere un notevole successo tra il pubblico. Musazzi, oltre a recitare, scriveva anche i testi delle commedie.

Il primo spettacolo importante - per il successo che ebbe tra il pubblico - fu quello recitato al Teatro Villoresi di Monza nel 1955, mentre il vero primo grande successo fu quello conquistato al Teatro Odeon di Milano nel 1958. Dopo questi spettacoli per I Legnanesi fu un successo crescente, sia di pubblico che di critica. La compagnia iniziò anche ad esibirsi fuori dalla Lombardia ricevendo plausi da vari personaggi dello spettacolo come Luchino Visconti, Federico Fellini e Wanda Osiris. In particolare Giorgio Strehler, riferendosi a Musazzi, disse "Peccato che la più grande attrice italiana sia un uomo".

In questo contesto Musazzi e Barlocco debuttarono sul grande schermo grazie ad una partecipazione nel film Splendori e miserie di Madame Royale di Vittorio Caprioli e con Ugo Tognazzi (1970), dove interpretavano il ruolo di due travestiti. Per Musazzi però non fu un esordio dato che aveva già recitato nel film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960).

Nel 1986 morì Tony Barlocco e Musazzi, che era tentato dal ritiro dalle scene, decise di riproporre gli spettacoli senza Mabilia. Il pubblico, infatti, chiedeva insistentemente il ritorno sul palco della famiglia Colombo.

L'ultima commedia preparata da “I Legnanesi”, Va là tramvai (1988), non andò però in scena a causa dei problemi di salute di Musazzi. All'attore era infatti stato diagno- sticato un tumore alla gola. Nel giugno del 1989 fu colpito da paresi e il 4 agosto 1989

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si spense a Legnano; venne sepolto nel cimitero monumentale della città del Carroccio.

Vi propongo ora un altro grande interprete del teatro in lingua, e parlo di Gilberto Govi, fondatore del teatro dialettale genovese, considerato uno dei simboli della città della Lanterna.

Tra i suoi maggiori successi figurano classici di questo genere teatrale, diventati suoi cavalli di battaglia come I manezzi pe majâ na figgia, Pignasecca e Pignaverde, Colpi di timone. Inoltre, si devono ricordare anche Quello buonanima, Gildo Peragallo ingegnere, I Guastavino e i Passalacqua e Sotto a chi tocca.

Dotato di grande talento artistico, Govi, forte degli studi compiuti all'Accademia di belle arti, usava disegnare grottesche autocaricature che delineavano compiutamente ogni ruga e riproducevano su carta il suo viso in ogni sua parte; poté sviluppare in tal modo un sistema originale per creare personaggi nuovi per le sue interpretazioni. For- midabile caratterista, era una miniera di fantasia.

All'apice della carriera era considerato in tutto il mondo un grande interprete: sapeva far muovere i suoi personaggi con una semplicità e una facilità solo apparenti; in realtà aveva la capacità e la sponta- neità, un vero e proprio talento naturale, per far sca- turire il riso anche con una sola espressione o un semplice ammiccamento.

Nelle sue interpretazioni Govi faceva rivivere la vita di tutti i giorni con una grande facilità. A chi lo accu- sava di non essersi mai esibito in un repertorio tea- trale impegnato o di non avere affrontato argomenti più colti, lui replicava affermando che i teatri erano

già pieni di attori impegnati che si atteggiavano in scena ma che non rappresentavano la vita di tutti i giorni; lui preferiva raccontare la storia della gente umile, dall'operaio al falegname, e raccontarla con semplicità, facendo divertire (ma anche riflettere) il pubblico fino a farlo ridere di cuore.

Nel 1911 incontrò in filodrammatica Caterina Franchi, in arte Rina Gaioni, divenuta poi sua moglie il 26 settembre 1917, e che gli restò sino alla fine accanto, sia nella vita che nella carriera teatrale.

Con Alessandro Varaldo e Achille Chiarella, intorno al 1913 fondò la compagnia "La dialettale", recitando a Genova e in provincia con sempre crescente successo: si divi- deva tra il ruolo di capocomico, direttore artistico e animatore. Un po' accentratore (qualcuno dice anche stretto di borsa), di fatto instancabile. La compagnia continuò ininterrottamente a recitare anche durante la Prima guerra mondiale.

Nel 1926 Govi lasciò per la prima volta l'Italia per una tournée in America Latina, vera e propria spedizione in piroscafo, durata mesi, che lo portò a rappresentare in giro

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per il mondo ben settantotto commedie, direttamente nei luoghi dove vivevano nume- rosi italiani, che da pochi anni avevano ripreso un intenso movimento migratorio, spe- cie verso l'Argentina e l'Uruguay.

Fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale la carriera di Govi fu sempre in ascesa, con ripetute tournée teatrali sia in Italia che all'estero. Il conflitto mondiale non risparmiò tuttavia neppure la sua abitazione genovese, colpita dai pesanti bombarda- menti portati dal mare e dal cielo, e insieme con essa l'attore avrebbe voluto ricostruire anche il proprio repertorio, che sentiva forse ormai superato da nuove istanze; in quel periodo era dubbioso, non avendo la certezza che il pubblico lo gradisse ancora, nono- stante le sue commedie riscuotessero il consueto successo e la gente accorresse sempre numerosa ai suoi spettacoli in ogni città.

Quella del 1960 fu la sua ultima stagione teatrale, quando portò in scena la comme- dia Il porto di casa mia scritta dal poeta Enrico Bassano; a settantacinque anni decise che era giunto il momento di lasciare il palcoscenico e dedicarsi ad un meritato riposo;

sosteneva infatti che: «Il teatro è come una bella donna, bisogna lasciarla prima che sia lei a lasciare te».

Morì a Genova il 28 aprile 1966, a ottantuno anni. I funerali, celebrati nella centrale Chiesa di Santa Zita affollata all'inverosimile, videro tra i presenti anche Erminio Ma- cario, visibilmente commosso. Govi è sepolto nel cimitero di Staglieno a Genova.

L’horror nelle fiabe di Maria Gestri Prima di iniziare a parlare dell’Horror

nelle fiabe, è necessario fare una impor- tante premessa, ovvero spiegare la diffe- renza tra fiaba e favola.

La differenza principale è la presenza o meno dell’elemento magico.

Nelle fiabe, che hanno antichissima ori- gine popolare, infatti i personaggi e gli am- bienti sono fantastici (fate, orchi, giganti), i fatti narrati inverosimili, il periodo tem- porale non determinato: l’incipit tradizio- nale è il classico “C’era una volta…”. La morale di solito non c’è e se comunque esi- ste un insegnamento questo è sottinteso.

Le favole invece, dal sostantivo latino

“fabula-ae” e dal verbo “for- faris-fatus

sum-fari” con il significato di “dire-raccon- tare”, narrano avvenimenti realistici, i per- sonaggi sono spesso rappresentati da ani- mali dal comportamento umanizzato e so- prattutto la morale è esplicita.

Ed ecco quindi il perché del titolo: men- tre le favole generalmente non fanno paura (anche se talvolta possono rattri- stare per la misera fine dell’agnellino, del corvo o dello sfortunato animale di turno), le fiabe in realtà, contrariamente all’imma- gine disneyana generalmente diffusa, sono spesso tragiche e spaventose, specie le più famose. Raramente raccontano epi- sodi divertenti ed anzi, quasi sempre, nar- rano di situazioni drammatiche, mostri terrificanti, pericoli tremendi, crudeltà

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estrema.

Sia che si tratti del francese Charles Perrault con il suo “Racconti e storie di un tempo passato, con una morale” pubbli- cato nel 1680, che dei fratelli Grimm che, nei primi anni dell’800, raccolgono ed ela- borano numerose fiabe tramandate oral- mente della tradizione popolare tedesca e francese, (“Fiabe del focolare, prima edi- zione del 1812”), le loro fiabe sono carat- terizzate da un’ambientazione tenebrosa, sono piene di troll, perfide streghe, orchi feroci, ed è presente una notevole quantità di particolari macabri e cruenti, solo suc- cessivamente tagliati ed edulcorati dall’ul- tima traduzione inglese (settima edizione) delle loro raccolte, pubblicate nell’anno 1857.

Ma veniamo al dunque e facciamo qual- che esempio. Due delle fiabe più sdolci- nate e con il finale alla “e vissero felici e contenti” di disneyana memoria sono le fa- mose “Cenerentola” e “La Bella addor- mentata nel bosco”.

Dobbiamo però immediatamente ricordare che, an- cor prima delle versioni di Per- rault e dei Fratelli Grimm, entrambe le storie sono state narrate dal napoletano Giambattista Basile nella rac- colta “Lo cunto de li cunti” (Il racconto dei racconti), pubblicata tra il 1634/36. La prima fiaba si intitolava “La gatta ceneren- tola”, nomignolo dispregiativo con cui viene chiamata la protagonista, per la sua vicinanza con la cenere del focolare, dalla

quindi sono ben sei!!).

La fiaba di Basile si apre con un omicidio, è infatti la “dolce” Cenerentola che, ves- sata dalla matrigna, decide di ucciderla rompendole il collo, il tutto su istigazione della sua maestra sarta che le promette di sposare suo padre e di amarla e trattarla come una figlia, salvo poi rivelarsi peggiore della precedente. Che dolce eh??

Nella seconda fiaba, che si intitolava

“Sole, Luna e Talia”, Basile narra di questa fanciulla, Talia, che cade addormentata a causa di una lisca e giace in un castello.

Ma non arriva un principe bello e valoroso, nossignori… arriva invece un re un po’ at- tempato, e già sposato (!!), che, vedendo la bella ragazza addormentata, non ci pensa due volte e… le usa violenza, sì, avete ca- pito bene, la stupra! Altro che bacio deli- cato…

Ad ogni modo il re, non contento, se la porta nel suo castello dove, alcuni mesi dopo, Talia si sveglia e partorisce due bei bambini, Sole e Luna appunto. La regina, gelosissima, cerca di convincere il re a mangiarseli (cannibalismo!), ma quest’ul- timo, forse per istinto paterno (o forse era vegetariano?), si sbarazza invece della re- gina gettandola nel fuoco.

E, se non vi basta, dovete sapere che an- che nella prima versione di Cenerentola dei Fratelli Grimm ci sono elementi terri- bili. Le due sorellastre, infatti, tentando di infilarsi a tutti i costi la scarpetta di cri- stallo, si tagliano una il calcagno e l’altra l’alluce, con copiosa perdita di sangue, mentre nel finale due colombe, per punirle della loro cattiveria, cavano a ciascuna un occhio!

Ma veniamo ora alla fiaba forse più famosa

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Qui Basile non c’entra, la fiaba è dei Fratelli Grimm. Ve- diamo allora com’era l’originale, basata su racconti popolari tra- mandati oralmente.

Intanto non si trat- tava di una fanciulla ma di una bambina di sette anni, non c’era nessuna matrigna ma è proprio la madre-regina che, terribil- mente gelosa della bellezza della figlia, chiede al cacciatore di portarla nel bosco, ucciderla e di portarle cuore, fegato e pol- moni (sic!). Sappiamo che il cacciatore ha pietà della piccola e che porta alla regina gli organi di un cinghialetto, che ella…

udite, udite, cucina e divora dopo averli messi sotto sale (di nuovo il cannibali- smo).

Inoltre, quando la regina scopre che la figlia è ancora viva, cercherà di ucciderla per tre volte, prima strangolandola, poi in- filzandola con un pettine avvelenato e in- fine con la famosa mela avvelenata.

Ma che dire della parte del principe, il bellissimo e gentile principe azzurro?

Bene, quest’ultimo arriva (non è sposato stavolta), si invaghisce della ragazzina che dorme nella bara di cristallo e che fa…? La bacia, direte voi…

Macché, chiede ai nani di “vendergliela”

e, solo perché i servitori, nel trasportarla, inciampano e fanno cadere la bara, Bian- caneve sputa la mela e si sveglia. Ma poi si sposarono e vissero felici e contenti, ri- badirete voi.

Si, pare di sì, ma c’è ancora un elemento atroce da ricordare. Biancaneve si vendica e, al suo ricevimento di nozze, invita la

madre e la costringe a ballare con ai piedi un paio di scarpe arroventate, finché que- sta non stramazza a terra morta! Che gen- tile e dolce la ragazzina, eh?

Come ho detto, questa fiaba è certa- mente ispirata ad alcuni fatti realmente accaduti in Germania nei secoli precedenti alla sua stesura. Sono di recente emerse due possibili candidate per la parte di Biancaneve. Come narra lo storico tedesco Sander nel suo libro “Biancaneve, è una fiaba?” del 1994, la prima è una certa Margaretha, nata nel 1533, figlia di Fi- lippo, quarto conte di Waldeck e della sua prima moglie. Nei documenti dell’epoca la fanciulla è rinomata per la sua bellezza. La matrigna non la voleva tra i piedi ed ot- tenne che la ragazza fosse mandata a Bru- xelles, alla corte della sorella dell’impera- tore Carlo V. Qui Margaretha incontrò il figlio di Carlo, il principe ereditario Fi- lippo, il quale si invaghì perdutamente di lei e, pare, lei di lui. La relazione era però

“politicamente scomoda” e la povera fan- ciulla morì, sembra per avvelenamento, a soli ventuno anni. Ma le analogie non si fermano qui, infatti i sette nani sono stati individuati nei piccoli bambini, schiavi del padre, che lavoravano per lui nelle vicine miniere di rame. Solo loro potevano en- trare nei cunicoli più stretti e, a causa di questo terribile lavoro, risultavano de- formi o con la crescita rallentata a causa della denutrizione. E anche la storia della mela avvelenata deriva da un fatto vero:

un vecchio, per punire i bambini che ru- bavano i suoi frutti, avvelenò alcune mele provocando gravi danni ai piccoli.

Un altro gruppo di studiosi, questa volta in Baviera, ha identificato Biancaneve con la leggiadra Maria Sophia Von Erthal, nata

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nel 1725. Anche il padre di Maria si ri- sposò in seconde nozze e naturalmente la matrigna non voleva intorno i figli di primo letto del marito e tanto fece che costrinse la ragazza a fuggire di casa. Maria Sophia visse quindi, come una vagabonda, nei bo- schi che circondavano il castello paterno, aiutata dai piccoli minatori che lavoravano nelle miniere del padre, finendo poi per morire giovanissima, pare di vaiolo.

La curiosità più interessante però è un’altra: nel castello (oggi trasformato in museo) si trova tuttora il famoso “specchio parlante”, giocattolo acustico costruito nel 1720 dalla famosa Industria dello Spec- chio di Magonza, in grado di registrare e riprodurre la voce di chi parlava… “Spec- chio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”

I sette nani sono qui invece identificati con i piccoli minatori di una vicina città mineraria, nascosta tra sette monti, che erano soliti indossare cappucci colorati ed abitavano in capanne con un unico grande ambiente, in cui potevano stare fino a sette persone.

A questo punto pensate veramente che Biancaneve sia solo una Fiaba?

Ma adesso parliamo di un’altra fiaba fa- mosissima, “Cappuccetto Rosso”.

Ci sono diverse versioni di questo racconto, le cui ori- gini af- fondano

nell’Eu- ropa me-

è Perrault che trascrive per primo la storia originale popolare, poi ripresa anche dai Fratelli Grimm.

In ogni caso i temi trattati in entrambe le versioni possono essere ricondotti a tre filoni principali: lo stupro, il cannibalismo e addirittura la pedofilia.

Infatti, in una di queste versioni, il lupo, dopo aver mangiato la nonna, offre alla bambina degli avanzi di cibo che lei, ignara, accetta. Questo particolare poteva avere un significato rituale: simboleggiava infatti la fanciulla fertile che prendeva il posto della donna anziana non più fertile.

In seguito la invita a spogliarsi e ad andare a letto con lui, ed è pertanto chiarissimo il tema della sessualità…che altro dire??

Ecco cosa scrive Perrault: “Il lupo, vi- stala entrare, le disse, nascondendosi sotto le coperte: “Posa la focaccia e il vasetto di burro sulla madia e vieni a letto con me”.

Cappuccetto Rosso si spogliò ed entrò nel letto, dove ebbe una gran sorpresa nel ve- dere com’ era fatta sua nonna, quando era tutta spogliata!”

Beh, sì…immagino la sorpresa…!

E naturalmente, alla fine, non c’è nes- sun bravo taglialegna che, come nella fiaba dei Fratelli Grimm, apre la pancia del lupo, salvando nonna e nipote!

Tornando al tema della sessualità, ci sono ancora degli esempi interessanti.

Forse ricorderete il film della Disney

“Raperonzolo”?

Bene, scordatevelo e sappiate che, nella stanza della torre, la bella fanciulla e il va- loroso principe non si scambiano languidi sguardi, bensì si danno alla pazza gioia tanto che, quando la strega, scoperto l’in- ganno, taglia i capelli alla ragazza e la con-

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alla luce due gemelli, maschio e femmina.

Il principe, dal dolore, si getta (o viene get- tato) dalla torre e perde la vista.

Vi sono poi altre fiabe il cui tema prin- cipale è tipico del periodo storico e dei pro- tagonisti a cui si riferiscono. Questo tema è la fame, cosa per nulla strana se consi- deriamo che le carestie imperversavano e la mancanza di cibo, per la fascia sociale più povera, era la norma.

Mi riferisco alle fiabe di “Pollicino”, o ancora di più, ad “Hansel e Gretel”, dove i genitori abbandonano nel bosco i figli perché in casa non c’è più niente da man- giare.

Così parla alla moglie il padre dei due bambini: “Che ne sarà di noi, come potremo nutrire i nostri figli se non ne abbiamo più neanche per noi?” “Senti, marito mio, - ri- spose la moglie – domattina all’alba li con- durremo nel bosco più fitto, accenderemo un fuoco e li lasceremo soli…Non trove- ranno più la strada di casa e noi ce ne sa- remo liberati.”

La fame, come vedete, fa compiere delitti estremi e abbandonare i figli non è il peg- giore…

Altra tristissima fiaba è “Il Pifferaio di Hamelin”, ambientato addirittura nel 1284.

Pare che il racconto si basi su fatti real- mente avvenuti nella città omonima, i cui abitanti, disperati per un’invasione di ratti (peste?), avevano dato incarico al pifferaio di liberarli da quella piaga dietro un ade- guato compenso. Compenso che, però, fu successivamente negato, portando alla vendetta dell’uomo che, con il suo piffero, incantò e condusse via i bambini, di cui non si seppe più nulla. Ad Hamelin esiste tuttora la “presunta” strada chiamata

“Bungelosenstrasse” (traduzione: strada senza batteria rullante), dove a nessuno è permesso suonare o ballare. Alcuni stu- diosi suggeriscono però che siano stati i genitori a mandare via i bambini a causa della povertà, e c’è addirittura chi ha sug- gerito la presenza di un pedofilo che li ra- piva durante il sonno.

L’ultimo famoso autore di fiabe di cui vogliamo parlare è Hans Christian Andersen, con la sua “Si- renetta”. Tutti ricorderete la versione disneyana con Ariel che, diventata final-

mente umana, si sposa con Eric.

Ma neanche per sogno… Eric si sposa sì, ma con la figlia di un re, e la sirenetta, che avrebbe potuto ucciderlo con un pu- gnale magico e salvarsi, decide invece di lasciarsi dissolvere in spuma di mare.

E con questo “bel” suicidio finale termi- niamo questa “bella” fiaba!

Di Andersen voglio ricordare altre due fiabe famose; la prima è “La piccola fiam- miferaia”, una delle più tristi. Ricorderete che la piccola, costretta dal padre, tenta di vendere fiammi-

feri alla gente che invece non la de- gna di uno sguardo. È freddo e la strada è ge- lida. Nel tentativo di scaldarsi, la piccola accende

uno ad uno i fiammiferi, sognando cibo, calore, affetto. Infine li accende tutti in- sieme e vede l’amata nonna che… la salva? La soccorre? La riscalda?... Mac- ché… la chiama in Paradiso.

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Ricordo che, da bambina, non ero per nulla convinta che quello fosse un finale a lieto fine come sembrava voler essere e piangevo pensando alla piccolina morta da sola al gelo.

La seconda e ultima fiaba di cui parle- remo è “Scarpette Rosse”.

Qui si narra di una bambina po- verissima e or- fana, Karen, che viene adottata da una vecchia si- gnora un po’

miope. La piccola un giorno vede passare per la strada la regina con sua figlia, che indossa delle bellissime scarpette rosse di pelle, che fanno innamorare Karen.

Dopo qualche tempo la bambina, in oc- casione della Cresima e della Comunione, deve comprare le scarpe nuove e, pur sa- pendo che in chiesa in quelle occasioni non è indicato indossare scarpe rosse, dato che la signora non ci vede, fa in modo che questa acquisti per lei un bellissimo paio di scarpette rosso fuoco, che natural- mente indossa in entrambe le occasioni, suscitando riprovazione e sdegno.

All’uscita dalla chiesa però un vecchio soldato fa una magia alle scarpe, che, quindi, non si fermeranno mai, costrin- gendo la ragazza a ballare continuamente, fintanto che non chiederà al boia di ta- gliarle i piedi, che, dentro alle scarpette, continueranno imperterriti a ballare…Di seguito un pezzetto della fiaba originale:

“Vicino all’ingresso della chiesa si trovava un vecchio soldato con una stampella e una lunghissima barba, più rossa che bianca, che chiedeva alle persone se volevano farsi

pulire le scarpe. Karen allungò subito il pie- dino. “Che belle scarpette da ballo!”

esclamò il soldato, “state ben salde ai piedi quando ballate!” e batté la mano sulla suola. Karen non poté trattenersi dal fare subito qualche passo di danza e, una volta cominciato, le sue gambe continuarono a ballare.

Quando volle andare a destra, le scarpe la portarono a sinistra, poi volle inoltrarsi verso casa, ma le scarpe la condussero per la strada fino alle porte della città. Ballava e doveva continuare a ballare.

Qualcosa luccicava tra gli alberi del bo- sco e Karen credette fosse la luna, ma in realtà era il volto del vecchio soldato con la barba rossa che le faceva dei cenni col capo dicendo: «Che belle scarpette da ballo!». La fanciulla si spaventò molto e volle gettar via le scarpe rosse, ma queste erano ben salde;

allora si strappò le calze, ma le scarpe ri- masero attaccate ai piedi, e ballava e non poteva fare altro, per campi e prati, sotto la pioggia e col sole, di giorno e di notte; e pro- prio di notte era la cosa più tremenda.

Ballando entrò nel cimitero che era aperto, Karen voleva sedersi, ma per lei non c'era né pace né riposo, e quando si di- resse verso la porta aperta della chiesa vide un angelo con un lungo abito bianco e ali che dalle spalle scendevano fino a terra;

il suo sguardo era severo e in mano teneva una lunga spada.

«Devi ballare» le disse «ballare con le tue scarpe rosse finché non diventerai debole e pallida! finché la tua pelle non si raggrin- zirà come quella di uno scheletro! dovrai ballare da una casa all'altra, e, dove abi- tano bambini superbi e vanitosi, devi bus- sare, così che ti sentano e abbiano paura!

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gridò Karen. Ma non sentì la risposta dell'angelo, perché le scarpe la portarono attraverso il cancello, fuori nei campi, per strade e sentieri, sempre ballando”.

Come vedete, questa fiaba è veramente di una crudeltà estrema e non vi nascondo che mi ha sempre terrorizzato. Sarà per- ché non ci sono orchi, troll o streghe cat- tive che, alla fine, i bambini capiscono che non esistono nella realtà, sarà perché l’im- magine di quelle maledette scarpette rosse che costringono la povera bambina a bal- lare incessantemente “di giorno e di notte, con la pioggia e con il sole, per prati, campi e valli” è davvero inquietante e spaven- tosa… insomma, confesso che non ho mai voluto un paio di scarpe rosse in vita mia!

E ricordo che, da piccola, ero molto ar- rabbiata con il soldato che aveva lanciato l’incantesimo, con la gente della chiesa, addirittura con l’angelo e le sue terribili parole. Ma soprattutto ce l’avevo con il boia che, alla fine, le taglia i piedi per “sal- varla”.

Ma pensateci un attimo… non terrorizza anche voi l’immagine delle sataniche scar- pette rosse, con i piedi sanguinanti den- tro, che se ne vanno per i fatti loro, sempre ballando, ma presentandosi puntuali da- vanti alla chiesa per impedire l’entrata alla poveretta che vorrebbe pentirsi?

Ma pentirsi di che?!

Era solo una povera bambina, felice delle sue scarpette, che cosa mai faceva di male? Ai miei occhi di bambina non sem- brava così grave il fatto che le avesse in- dossate in chiesa, (forse perché anch’io, come tutte le bambine, ero un po’ vani- tosa). Di sicuro la punizione era spropor- zionata al “peccato” commesso!

Comunque non vi nascondo che, per molto tempo, quando vedevo qualcuno che indossava scarpe rosse, mi veniva in mente la povera Karen e controllavo se i piedi si muovevano autonomamente…

Ma adesso basta con le fiabe! Solo un’ultima considerazione:

Se è pur vero che, come ho detto all’ini- zio, le fiabe NON hanno una morale espli- cita, tuttavia è indubbio che i racconti po- polari da cui esse derivano, con tutta la loro crudeltà, gli orchi, le streghe e, non dimentichiamo, i lupi cattivi, dovevano per forza avere una funzione importante.

Questa funzione era quella di avvisare i bambini dei vari pericoli a cui potevano andare incontro, di ammonirli a non fi- darsi degli sconosciuti, di farli maturare in una sorta di rito di iniziazione in cui, guarda caso, è sempre presente il bosco dentro al quale si incontrano le prove da superare per crescere e diventare Uomini e Donne.

Nelle fiabe, è vero, si mettono in risalto la furbizia e l’astuzia, ma si lodano anche l’onestà e la giustizia; in pratica si cerca di NON ingannare i bambini con una visione idilliaca e gentile del mondo, quale non era certamente a quei tempi, in cui la maggior parte di loro non “viveva affatto felice e contenta”, ma non per questo doveva ab- battersi o smettere di provare a migliorare la propria vita. La lettura delle fiabe ser- viva, serve e servirà sempre ai bambini per farli crescere emotivamente e psicologica- mente, soprattutto in presenza di fatti an- siosi o paurosi.

Ed ecco, alla fine, spiegata la necessità dell’HORROR NELLE FIABE…

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Tra mistero e realtà

(Giovanni Bragolin - Pittore maledetto) di Roberto Scalabrini

Lui è il pittore veneziano Bruno Amadio, in arte Giovanni Bragolin (1911-1981).

Un nome difficile da por- tare. Un

nome dall’in-

fausta leg- genda ad esso legatasi nel tempo.

Si contraddistinse da subito per gli insoliti protagonisti delle sue opere: dei bambini.

Ma non comuni bambini dalla spensierata e giocosa espressione, i loro occhi desolati e profondi riflettono le sensazioni di una solitudine amara. Sebbene i soggetti fos- sero inconsueti e impopolari, queste pro- duzioni ri- scossero un certo iniziale successo.

Fu però a metà degli anni ot-

tanta, quando ormai il pittore era già morto, che qualcosa sembrò gettare nuova luce su queste opere.

Il caso si verificò in Inghilterra. Qui, al- cune famiglie iniziarono a denunciare strani incendi scoppiati improvvisamente nelle loro abitazioni. Particolarità di questi fenomeni il ripetersi costante di un sor- prendente ritrovamento: le abitazioni di- strutte e i quadri intatti.

Si diceva che l’insostenibile rabbia e in- dignazione vissute dall’artista all’inizio della sua carriera artistica lo avessero spinto, in un momento di rara follia e sde- gno, a rivolgere una accorata preghiera al diavolo. Secondo alcune di queste leg- gende sarebbe stato l’animo oscuro di que- sti bambini a popolare le tele del pittore, disseminando pianto e disgrazie negli sventurati acquirenti.

I bambini sembrano soli, abbandonati, sofferenti: i quadri sono sicuramente belli dal punto di vista tecnico, ma sono anche molto forti e generano emozioni diverse in chi li guarda.

Poi, a metà degli anni ’80, le cose inizia- rono a cambiare: il 3 settembre del 1985, infatti, una casa a Rotterdam venne di- strutta da un incendio, ma fra le macerie venne recuperata, intatta, proprio una di queste opere di Giovanni Bragolin. Da quel momento gli “avvistamenti” comin- ciarono a moltiplicarsi e tanti testimoni raccontarono che i bimbi di Bragolin sem- bravano sempre misteriosamente soprav- vivere a fiamme devastanti, alcuni dissero che la colpa di questa maledizione poteva essere imputata allo stesso artista, che

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avrebbe dannato la sua anima per rag- giungere la popolarità; altri sostennero che la forza oscura che albergava nei qua- dri era dovuta ai soggetti selezionati dal pittore, cioè orfani di guerra scelti come modelli; altri ancora, con un pizzico di morbosità, suggerirono che forse la capa- cità distruttiva delle tele era dovuta ai maltrattamenti che Bragolin riservava a bambini di un orfanotrofio.

Le leggende in merito a queste opere e al loro autore si sprecano. Si dice e che i suoi quadri fossero maledetti. Altre storie parlano di come i bambini dell’orfanotro- fio, presi a modello da Bragolin, siano morti in un tremendo incendio e che le loro anime si siano trasferite nei quadri.

Le testimonianze iniziarono presto a mol- tiplicarsi: i più fantasiosi sostennero che le cornici riuscissero a rimanere attaccate

al muro senza bisogno di chiodi… potere della maledizione! Per quanto tutto ciò possa apparire fantasioso e senza alcun fondamento, in Inghilterra il caso assunse i toni di una minaccia impellente. La stampa arrivò persino a scrivere di questi casi.

“Le riproduzioni dei quadri di Bragolin venivano stampate su pannelli di legno duro, trattati con delle vernici in grado di resistere alle sollecitazioni.

Le imma- gini del pittore ebbero un enorme suc- cesso nel Re- gno Unito du- rante gli anni

’60 e ’70, quando veni- vano commer- cializzate per

pochissime sterline. La loro diffusione fu capillare in tutta la nazione, e quindi in molte delle case che presero fuoco, all’epoca, si trovavano, fra gli altri, anche le stampe di Bragolin.”

Simbologia nell'arte: la Fenice di Cecilia Vanni

Araba fenice o uccello di fuoco, uccello mitologico, il cui motto era "Post fata re- surgo", dopo la morte torno a rialzarmi, simbolo dei cicli di "morte e rinascita".

L'aggettivo “araba” definiva la prove- nienza dell'animale, si pensava vivesse in un'oasi nel deserto dell'Arabia. Il primo in Occidente a citarla fu lo scrittore greco Erodoto, secondo cui veniva dall'Egitto.

Era un'aquila reale con piumaggio color oro nel collo, piume rosse sul collo, az- zurra la coda con penne rosee ed ali in parte dorate e porpora.

Secondo la cultura egiziana, era un uc- cello immortale BENNU, consacrato a Ra, il Dio Sole. Il suo canto era talmente me- lodioso che il Dio del Sole arrestava la sua barca per ascoltarlo.

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Questa creatura era raffigurata con la corona Atef o con l’emblema del disco so- lare, non era dunque simile a un uccello tropicale, ma piuttosto a un passero o a un airone che non risorgeva dalle fiamme (come avviene nel mito greco) ma dalle ac- que.

Era la manifestazione del principio della vita e rappresentava il cammino dell'a- nima, dopo aver superato le prove di Pu- rezza, poteva accedere al mondo ultrater- reno.

Ne poteva esistere un solo esemplare e poiché si autorigenerava era anche consi- derata un simbolo di androginia.

Secondo la versione del mito, la fenice prossima alla morte, si diceva che vivesse fino a cinquecento anni, preparava un nido, in un luogo appartato sulla cima di una quercia o una palma, fatto con spezie, cannella e mirra, ed erbe aromatiche; mo- riva per autocombustione, sbattendo le ali, cantando il suo inno al sole. Dal cu- mulo di cenere emergeva un uovo che i raggi solari facevano trasformare in una nuova fenice, giovane e forte. Nell'arco di tre giorni, volava verso Eliopoli sull'albero sacro.

Eliopoli, dove i sacerdoti di Ra conser- vavano gli archivi dei tempi passati. La fe- nice era il nuovo profeta o messia che "di- struggeva" gli antichi testi sacri per far ri- sorgere una nuova religione dai testi della precedente.

I Padri della Chiesa accolsero la tradi- zione ebraica e fecero della fenice il sim- bolo della Resurrezione della carne e dell'immortalità. L'iconografia della fenice, la ritroviamo spesso nelle catacombe.

Immagini della fenice che arde nel

fuoco, le possiamo trovare nel Bestiario di Aberdeen, oppure nei Mosaici S. Prassede (abside), la fenice sull'albero sacro.

L'uovo di Pasqua, simbolicamente, è l'uovo dell'Araba Fenice connessa alla morte e Resurrezione di Cristo; per questo, secondo la tradizione, regaliamo uova di cioccolato.

La Fenice è da sempre un simbolo di forza, si dice addirittura che le sue lacrime fossero curative e che avesse una grande resistenza fisica. Riuscendo poi a control- lare il fuoco, essa diviene quasi indistrut- tibile.

Ancora oggi, per esempio in Cina, è espressione di potere, prosperità, attributi dell'imperatore e dell'imperatrice, gli unici autorizzati a portare il simbolo del Feng (la fenice rappresentata con la coda di pa- vone)

Nel 1700 a Venezia, si cominciò la co- struzione di teatri per i drammi e la mu- sica, tra tutti questi il più lussuoso era S.

Benedetto.

Dalla famiglia proprietaria fu ceduto alla nobile società veneziana che si pro- pose di costruirne uno nuovo e più grande; nel 1787 nasce il teatro La Fenice.

Simboleggiava la rinascita della società dalle proprie disavventure.

Il 13 dicembre 1836, un incendio cau- sato dal cattivo funzionamento di una stufa, distrusse parte del teatro, che fu ri- costruito e riaperto dopo alcuni anni; più di un secolo dopo, il 29 gennaio 1996, di nuovo, un incendio doloso, lo distrusse. In seguito furono fatti dei lavori di restauro per prevenire ed evitare situazioni di peri- colo, che permisero alla Fenice di rina- scere, ancora una volta, dalle sue ceneri.

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