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Addio a Carlo Croccolo: l ultima memoria storica del cinema italiano

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Academic year: 2022

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Addio a Carlo Croccolo: l’ultima memoria storica del cinema italiano

“Se n’è andato un pezzo importante del Cinema e del Teatro. Se n’è andato un compagno di vita tenero e amoroso. Se n’è andato, determinato e consapevole così come è vissuto. A noi tutti resta il dovere e la responsabilità di perpetuarne

il ricordo e conservarne il sorriso”.

(Daniela Cenciotti, vedova Croccolo)

“La scomparsa di Carlo Croccolo è un grande lutto per lo spettacolo italiano, che perde un attore, regista e doppiatore che con grazia e maestria ha attraversato

tre generazioni di cinema e teatro. Pilastro della scena partenopea, a lungo a fianco di Totò nella vita e nella professione, è stato protagonista anche a fine

carriera di convincenti interpretazioni che hanno donato gioia e allegria a molti”.

(Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali) La scomparsa, a 92 anni, di Carlo Croccolo, simboleggia qualcosa di più della semplice (seppur dolorosa) dipartita di un grande artista del cinema e del teatro italiano; è, insomma, la malinconica fine di un’epoca. L’attore napoletano era l’ultimo depositario della memoria storica del leggendario cinema italiano di personaggi, oserei dire, mitologici, come Totò, Peppino De Filippo, Erminio Macario, Nino Taranto, Aldo Fabrizi, Carlo Dapporto, Vittorio De Sica e potremmo ancora continuare.

Nella sua carriera ha interpretato la mastodontica cifra di 118 film, sporadicamente da protagonista, ma sempre gustoso nelle sue interpretazioni e quasi sempre indispensabile per la buon riuscita delle pellicole da lui interpretate. Amatissimo, fin da subito, dal pubblico, leggendario è il

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suo rapporto con il principe De Curtis, in arte Totò. Con il principe della risata ha interpretato ben 4 film (47 morto che parla, Miseria e nobiltà, Totò lascia o raddoppia? e Signori si nasce), ma quel rapporto lavorativo, dal punto di vista personale era una devozione e un’amicizia sincera e duratura.

Croccolo, infatti ha doppiato Totò, molto spesso a partire dal 1957, nelle scene realizzate in esterno, dove non era possibile girare in presa diretta e che Totò non riuscì a doppiare a causa dei suoi problemi alla vista. Croccolo è stato l’unico doppiatore di Totò autorizzato dall’attore stesso (insieme al quale, nel 1964, scrisse la sceneggiatura per un film, Fidanzamento all’italiana, che non fu mai realizzato).

Carlo era anche molto amico dei fratelli De Filippo, apprezzatissimo per quella sua comicità diretta ed esplicita (Ragazze da marito, con Eduardo e Peppino; Non è vero…ma ci credo, I quattro moschettieri e Signori si nasce, con Peppino). Ma l’attore, degnissimo figlio di Napoli, ha avuto anche alcune prove, in parti principali, tra cui I cadetti di Guascogna(1950), Arrivano i nostri (1951) o Gli eroi del doppio gioco (1962), giusto per fare alcuni esempi. Nel cinema impegnato è stato diretto da Vittorio De Sica, nell’episodio Adelina, di Ieri, oggi, domani, film del 1963 con Marcello Mastroianni e Sophia Loren, che vinse l’Oscar come migliore film straniero; e da Luigi Magni nel film in costume O’ re del 1988, pellicola che gli valse il David di Donatello come miglior attore non protagonista, vista dalla sua persona e dalla critica specializzata come un meritatissimo premio alla

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carriera.

Dopo il cinema, l’altra grande passione, che ha reso popolarissimo e leggendario il nome di Carlo Croccolo è il lavoro nel doppiaggio, prestando, tra gli altri, la sua voce ad Oliver Hardy (succedendo in questo ruolo ad Alberto Sordi), prima negli anni ‘50 con Fiorenzo Fiorentini e poi negli anni ‘60 con Franco Latini. In alcuni casi ha perfino doppiato entrambi i personaggi di Stanlio & Ollio, come ad esempio ne L’eredità o Tempo di pic-nic. Carlo Croccolo era sposato con Daniela Cenciotti, attrice di 34 anni più giovane dell’attore napoletano; in gioventù, inoltre, parliamo degli anni ’50, nei quali Croccolo veleggiava tra i 25 e i 30 anni, ebbe una relazione durata tre mesi con Marilyn Monroe.

Insomma, la figura che perdiamo, in questo triste ottobre di fine decennio, è una delle più conosciute dello spettacolo italiano; ma non solo, è una di quelle che andrebbero riscoperte, ammirate, studiate, dalle nuove generazioni, per una poliedricità naturale, che lo rende pari a quelle più celebrate e ricordate.

Addio a Paolo Villaggio: il re del paradosso all’italiana

Paolo Villaggio era uno di quei personaggi familiari, eterni, che conoscono anche le pietre.

Paolo Villaggio era l’italiano del ‘900, era l’ultima grande Maschera del nostro cinema, era il re del paradosso. Paolo Villaggio ha rappresentato le mille anime dell’Italia post-boom economico, quella che si affacciava agli anni ’80, con convinzione, con coraggio, con determinazione. Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz, erano tutte facce della stessa medaglia, tutte sfaccettature di un attore intelligente, che sapeva i gusti del pubblico e ne coglieva alla perfezione i mille tic, così come

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aveva fatto qualche anno prima il Sordi nazionale. Villaggio lo fa però, esagerando i caratteri grotteschi dell’italiano medio, raccontando l’Italia, in maniera ancora attualissima: è con queste caratteristiche che si afferma e arriva immediatamente nel cuore della gente, la figura del ragionier Ugo Fantozzi, innegabilmente il capolavoro di Paolo Villaggio.

Quella di Fantozzi è una maschera che rimarrà indelebilmente appiccicata addosso al Villaggio attore. Così come il principe De Curtis non poteva fare a meno di Totò, cosi Villaggio dal 1975 in poi, non potrà fare a meno di Fantozzi. E’ la sua fortuna, il suo trionfo. Si registrano in 25 anni, dieci film della serie dedicata a Fantozzi, due invece sono quelli incentrati sulla figura del timido Giandomenico Fracchia. Ad un certo punto Villaggio, si divide tra Fantozzi e Fracchia, l’artista (e chi lo mette sotto contratto) comincia a sfruttare sistematicamente la sua comicità in una serie ininterrotta di “pellicole cloni”, dove l’attore ha modo di ribadire mimica e gag dei suoi personaggi. Così come Totò era sempre Totò in ogni personaggio rappresentato, così Villaggio, in tutte le parti indossate, oscilla costantemente, tra Fracchia e Fantozzi: è l’apoteosi della sua Maschera. E da questa serie di film, possiamo dire anche “ripetitivi”, che fuoriesce la sagacia e l’intelligenza di un attore, che a differenza di altri non diventa schiavo della sua maschera, ma la utilizza, ad un certo punto, per diventare attore a tutto tondo.

P a o l o V i l l a g g i o i n t e

rpreta Fantozzi

E lo fa in grande, con il Maestro dei Maestri, ovvero con Federico Fellini, che disegna magistralmente su di lui, un film folle, uno strepitoso elogio alla follia, che è anche una satira della volgarità dilagante di fine secolo. La voce della luna (1990) dà l’occasione a Villaggio di ricevere il primo David di Donatello, come migliore attore, e gli apre le porte del cinema d’autore. La partecipazione al film di Fellini segna per il comico genovese l’inizio di una parallela attività nel cinema d’autore, lavorando con altri importanti registi.

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Sublime risulta in tal senso, Io speriamo che me la cavo (1992), pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller. Il film è un affresco sul disagio economico del Sud ed è tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta che raccoglie temi scolastici di una terza elementare di Arzano (Napoli). La figura del maestro, assente nel libro, diviene, sullo schermo, il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo, e la realtà di degrado in cui vivono. Il Maestro è ovviamente Paolo Villaggio, che dona al professore tratti di incredibile e straziante comicità amara, sguardi, gestualità e tonalità di voce estremamente diversi dai film a cui eravamo abituati. E’

la rivincita dell’Attore sulla Maschera.

L o c a n d i n a

“ I o s p e r i a m o c

he me la cavo”

E questa carriera parallela di attore a tutto tondo, continua con Il segreto del bosco vecchio (1993), di Ermanno Olmi, (tratto dal libro di Dino Buzzati), con cui vince il Nastro d’argento, come migliore attore e Cari fottutissimi amici (1994), di Mario Monicelli, presentato al Festival di Berlino nel 1994 e vincitore di un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale.

In questi anni anche la critica specializzata si accorge di lui. E’ del 1992 infatti, il premio più prestigioso della sua carriera e avviene per merito del regista Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra del cinema di Venezia che decide, nel 1992, di premiare l’attore con il prestigioso Leone d’oro alla carriera. Anni dopo, ai microfoni del Corriere della Sera, l’artista dichiarerà: «In seguito lo vinsero anche Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Ma io fui una rottura assoluta. Era la prima volta che si premiava un comico». Infine, degli oltre 70 film interpretati da Paolo Villaggio, va ricordata la serie ispirata alle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, interpretata insieme a Renato Pozzetto: “Le comiche, Le comiche 2, Le nuove comiche(1992-

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94). I tre film, ottennero un grande successo di pubblico, ma piacquero molto anche alla critica, che lodò, di entrambi gli attori, la primordiale carica comica, avulsa da qualsiasi logica, quasi fumettistica, un po’ slapstick e un po’ paradosso.

R e n a t o P o z z e t t o e P a o

lo Villaggio in “Le Comiche”

E di Villaggio rimane l’amor di popolo, il grande affetto di una nazione intera che si riconosce nei suoi personaggi, nelle sue maschere e nella sua gestualità. Indubbiamente con la morte di Paolo Villaggio se ne va un pezzo di storia del nostro Paese, uno degli artisti italiani più influenti del ‘900, al livello di un Totò, di un Mastroianni o di un De Sica, per la capacità di descrivere l’Italia e gli italiani meglio di qualunque trattato sociologico. Per Paolo Villaggio andrà esattamente come per Totò, i suoi film saranno rivalutati e il suo nome rimarrà per sempre, sfidando lo scorrere impetuoso del tempo e degli anni.

Lo Specchietto Retrovisore: salvataggio Banche Venete... "E io pago"

E io pago” direbbe Totò, ma anche il contribuente, dinanzi al salvataggio delle due banche venete si trova pressoché dello stesso avviso.

Guardiamo assieme i fatti, almeno quelli dell’ultim’ora. Giunto nella giornata di domenica il

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decreto governativo con il quale viene trovata una soluzione per Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. Una soluzione che va incontro alle esigenze dei risparmiatori, dei dipendenti e del tessuto sociale di una regione che continua ad essere un motore dell’economia italiana. Per usare le stesse parole di Gentiloni, Presidente del Consiglio italiano, l’operazione è stata messa in atto per scongiurare “un fallimento disordinato”.

Traduciamo in numeri le belle parole: 17 miliardi di euro mobilitati dallo Stato, di cui 5.2 da erogare da subito nelle casse di Intesa San Paolo. Una delle richieste dell’Istituto torinese era di giungere ad un accordo tale che il proprio Tier 1 non venisse deteriorato dall’acquisizione della parte buona delle due banche. Così ai 4.785 miliardi necessari si aggiungono 400 milioni a garanzia post due diligence condotta da Intesa San Paolo.

S a l v a t a g g i o B a n c

he Venete. Fonte: ilpost.it

I 12 miliardi che mancano al totale stanziato, hanno invece l’obiettivo di garantire l’eventuale deterioramento dei crediti in Bonis e crediti ad alto rischio.

Correntisti e obbligazionisti senior vengono pertanto protetti e gli sportelli saranno funzionanti senza soluzione di continuità. Lo Stato (si legga i contribuenti) hanno pertanto evitato il bail-in anche degli obbligazioni senior. Tutto questo reso possibile grazie al fatto che la BCE ha dichiarato che i due istituti veneti sono in una condizione di “failing o likely to fail” e che pertanto si è lasciata all’Italia la possibilità di applicare le proprie procedure di insolvenza.

Questo porta ad una seria considerazione, seria perché il parallelismo è troppo fresco e perché si mina al sistema di credibilità che l’Unione Europea sta cercando di costituire.

Due settimane fa, è stata la volta di Banco Santander che ha acquistato ad un prezzo simbolico Banco Popular, acquisendo però anche i non-performing loans e chiedendo al mercato nuovo capitale. Si è rivolto al mercato e non ai contribuenti. Differenze che contano molto perché si tratta di regole. E quando il piano di gioco è comune le regole applicate devono coincidere altrimenti

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si ipotizzano, in Europa, diverse tipologie di chi paga le tasse.

Christian Zorico: LinkedIn Profile

L’eterno Totò

Il 15 aprile 1967, esattamente 50 anni fa, moriva il grande Totò, colpito da una serie di infarti a catena che non gli lasciarono scampo. Da lì, da quel momento ebbe inizio il mito di Totò, che oggi, a ragione, è venerato praticamente come un dio, ed è amato soprattutto dalle nuove generazioni. La sua morta fu un vero e proprio lutto nazionale, a renderli l’estremo saluto si precipitò mezza Roma e tutta Napoli. Tutto il mondo dello spettacolo è presente al completo, a rendere omaggio al Maestro ineguagliabile: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia arrivano per primi a baciare devotamente la mano del Principe de Curtis. Anna Magnani non si stacca un momento dal collega e amico di tante avventure. A Napoli Nino Taranto tiene una straziante orazione funebre con il cuore in gola. Ci sono anche Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Luigi Pavese e tra i tanti anche Walter Chiari, distrutto dal dolore, che si prodiga in mille modi per consolare Franca Faldini, la compagna di Totò. Sono tutti muti e increduli, incapaci di darsi ragione che la morte, tante volte rappresentata per burla e così lontana dal carattere di Totò, questa volta aveva fatto sul serio. Quel che allora forse non si sapeva, o non si poteva immaginare a priori, è che il Mito di Totò, sarebbe sopravvissuto alla morte fisica, e che anzi negli anni a seguire avrebbe guadagnato una luminosità sempre crescente.

Il revival di Totò, oggi ha raggiunto dimensioni universali. Totò unico, inimitabile e anche indistruttibile. A lui è successo ciò che non è successo neppure a Charlie Chaplin né alla coppia Stan

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Laurel e Oliver Hardy, un tale amore di popolo davvero insuperabile: un mito senza tempo. Quello di Totò è un personaggio amatissimo, che appartiene alla cultura, alla tradizione e alla storia del nostro Paese. E poi c’è la storia personale del principe De Curtis, un uomo austero, all’antica, ma dal cuore d’oro e umanissimo; un uomo che aiutava tanta gente a campare:

«Era veramente un gran signore, generoso, anzi, generosissimo. Arrivava al punto di uscire di casa con un bel po’ di soldi in tasca per darli a chi ne aveva bisogno e comunque, a chi glieli chiedeva.»

(Vittorio De Sica su Totò) In 31 anni di attività (dal 1937 al

1968) Totò prese parte, come protagonista assoluto o in episodi, a ben 97 film che lo consegnarono alla storia del cinema. Possiamo quindi arguire che molti capolavori i m m o r t a l i ( c o m e “ L a d r i d i biciclette” o “Umberto D”) che non incassarono al botteghino, furono prodotti con i guadagni procurati da Totò. Una serie di film girati a ritmo frenetico, cinque-sei-sette film all’anno, che dimostrano quanto Totò sia stato seguito e amato anche in vita.

“Non mi faccio capace che la gente, per vedere un mio film, esca di casa, lasci le comode pantofole, calzi un paio di scarpe, magari pure strette e paghi il biglietto. Ci penso spesso e mi commuovo. Umilmente ringrazio il mio pubblico, con la promessa che cercherò di fare sempre meglio”.

(Totò, nel 1965, in riferimento al grande apprezzamento che ha ricevuto dal pubblico nel corso della sua carriera cinematografica)

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La televisione, proiettando e riproiettando i suoi film, ha poi operato il miracolo di far amare Totò anche da coloro che, nati dopo la sua morte avvenuta nel 1967, non avevano avuto la possibilità di conoscerlo e seguirlo nelle sale cinematografiche dove vengono proiettate soltanto le ultime uscite.

E poi vennero, saggi, libri, collezioni, insomma sul principe De Curtis, per farla breve è stato già

scritto l’impossibile, ma mai abbastanza, per tutta l’umanità e la classe che ci ha donato. Secondo un sondaggio del 2009, con mille intervistati equamente distribuiti per fasce d’età, sesso e collocazione geografica (Nord, Centro, Sud e Isole), Totò risultava essere l’attore italiano più conosciuto ed amato, seguìto rispettivamente da Alberto Sordi e Massimo Troisi. I suoi film, visti all’epoca da oltre 270 milioni di spettatori (un primato nella storia del cinema italiano), molti dei quali rimasti attuali per satira e ironia, sono stati raccolti in collane di VHS e DVD in svariate occasioni e vengono ancora oggi costantemente trasmessi dalla tv italiana, riscuotendo successo soprattutto tra il pubblico più giovane.

Inoltre talune sue celebri battute, espressioni-mimiche e gag sono divenute perifrasi entrate nel linguaggio comune. Umberto Eco ha espresso così l’importanza di Totò nella cultura italiana:

«In questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistono ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli [cioè cinesi e italiani] di cui uno ignora Totò?».

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Liliana De Curtis, la figlia del c o m i c o , t u t t o r a a t t i v a p e r mantenere vivo il ricordo del p a d r e , h a , n e l c o r s o d i un’intervista, dichiarato che molti italiani, ancor oggi, si rivolgono a Totò inviando lettere e biglietti alla sua tomba, per confidarsi, chiedere favori e addirittura grazie, come fosse un santo. La notorietà di cui Totò gode in Italia è andata anche oltre i confini nazionali: ad esempio in America, dove il comico Jim Belushi lo ha definito un «clown meraviglioso». L’attore George Clooney, intervistato in Italia in occasione del remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood (2002), in cui lui interpretava il corrispettivo ruolo di Totò, ha

altresì dichiarato: «Era un vero poeta popolare, un fantasista espertissimo nell’arte di arrangiarsi e di arrangiare ogni gesto ed espressione», precisando inoltre che, secondo il suo parere, tutti i comici più celebri come Jerry Lewis, Woody Allen o Jim Carrey devono qualcosa all’attore italiano.

«Non era certo solo un comico, proprio come Buster Keaton. I suoi film potrebbero essere anche muti: riesce sempre a trasmettere il senso della storia. Grazie ai vostri sceneggiatori e alla sua mimica, dai suoi film traspare un personaggio a tutto tondo: astuto, ingenuo e anche vessato dalle circostanze della vita. Per questo continuerà a essere imitato, senza speranza di eguagliarlo. C’è sempre suspense nella sua recitazione: si aspetta una sua nuova battuta, una strizzatina d’occhi, ma resta imprevedibile il suo modo di sviluppare una storia».

E poi? Beh e poi c’è la storia del principe De Curtis, che spogliatosi dei panni di Totò, torna ad essere l’austero uomo d’altri tempi, di spirito caritatevole, poetico, malinconico. Quell’uomo, che altro non era che l’altra faccia della stessa medaglia, per tutta la sua vita compì molteplici gesti d’altruismo, che includevano sostegno e offerte di viveri ai più bisognosi. Con l’avanzare dell’età si dedicò sempre più spesso a numerose opere di beneficenza: la vita privata dell’attore, negli ultimi

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anni, si limitava a sporadiche apparizioni in pubblico ma anche (seppur non avendo guadagni eccelsi per il fatto che pretendeva sempre poco dai produttori) a un’intensa attività di benefattore, aiutando ospizi e brefotrofi, donando grandi somme alle associazioni che si occupavano degli ex carcerati e delle famiglie degli stessi. Franca Faldini, la storica compagna di Totò, che lo conobbe in profondità e lo amò per quello che era, affermò:

“Principe? Altezza reale? Poco importa che lo fosse o meno. Antonio De Curtis era nobile di fatto, nell’animo e nel cuore, a prescindere da qualunque appartenenza a un casato illustre. Inoltre a mio parere il suo titolo più bello è racchiuso nelle quattro lettere del suo nome d’arte: Totò”.

E Totò fu un nobile vero, ma soprattutto è l’anima d’Italia e lo sarà forse per sempre.

Sport, calcio e cinema italiano

Domenico Palattella (117)

Forse nessuno ci ha mai pensato, eppure non è un caso se lo sport comincia ad assumere largo peso nella vita sociale con le Olimpiadi del 1896 ad Atene, cioè in pratica contemporaneamente al momento iniziale di diffusione del cinematografo. Infatti le riprese d’attualità giocano un ruolo primario, in questa prima fase di assestamento del linguaggio cinematografico, nel diffondere assieme alla popolarità del nuovo medium anche quella delle varie discipline sportive. Dunque lo sport, inteso con

l’accezione moderna del termine, e il Cinema, inteso come forma d’Arte, sono coetanei e dalla loro unione hanno spesso creato cortocircuiti artistico-sportivi veramente notevoli. Inutile nascondere che la posizione preponderante, intesa come attività sportiva che si fonde con il Cinema, è appannaggio del calcio, soprattutto in Italia, dove ad onor del vero il calcio non ha mai trovato sullo schermo una messinscena che fosse in grado di renderne al meglio le peculiarità agonistiche. Ma

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non mancano di certo casi eclatanti, interessanti, professionali, rimasti nella memoria collettiva.

Così Totò è un delizioso presidente di calcio di una scalcinata squadra della provincia pugliese, nel film “Gambe d’oro”(1958). In quegli anni comunque, sul terreno del Cinema, il calcio si va affermando come pretesto per raccontare storie sviluppate all’interno di vari generi. In “Parigi è sempre Parigi” (1951) Luciano Emmer, dopo “Domenica d’agosto” (1950), continua a descrivere i desideri e i sogni della piccola borghesia narrando la trasferta francese di alcuni italiani al seguito della nazionale, dove a tenere le redini di tutto c’è la professionalità attoriale autoriale di Aldo Fabrizi. Mario Camerini, in “Gli eroi della domenica” (1952), utilizza Raf Vallone, ex giocatore del Torino, per portare in scena un giocatore corruttibile in una squadra che ha la possibilità di passare in serie A. In “L’inafferrabile 12” (1950) di Mario Mattoli, Walter Chiari fa la parte di un portiere della Juventus con un gemello che scatenerà la commedia degli equivoci. Nel film di Mattoli compaiono i ‘veri’ giocatori della squadra dando il via a un fenomeno che diventa in breve una caratteristica del film calcistico: la costante apparizione di calciatori o operatori del settore nel ruolo di sé stessi.

Ben riuscita appare anche la parodia del cinema di Sergio Leone nella regia accorta di un calcio di rigore contenuta nel divertente film “Don Franco e don Ciccio nell’anno della contestazione” (1970) di Marino Girolami, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia deliziosi mattatori della pellicola. E in quello stesso anno Alberto Sordi convince nei panni del

“Presidente del Borgorosso football club”. Nell’omonimo film Sordi è perfetto nel tratteggiare questo carnale e sanguigno presidente, che dapprima disinteressato, piano piano si appassiona al calcio e alla sua squadra, diventandone il più accanito tifoso. Storie del passato, in chiave nostalgica, ambientate nel mondo del calcio e del consumo che gli ruota attorno sono messe in scena in “Italia-Germania 4 a 3” (1990) di Andrea Terzini e in “Figurine” (1997) di Giovanni Robbiano. In “Pane e cioccolata”(1974) di Franco Brusati,

Nino Manfredi ha il ruolo di un cameriere emigrato in Svizzera, il quale, pur essendosi tinti i capelli di biondo per apparire più simile al modello nordico, non si contiene di fronte a un gol della nazionale italiana, denunciando così le proprie origini. Questa scena codifica una situazione tipica del film ad argomento calcistico: l’incapacità di autocontrollo emotivo da parte del tifoso. Il tifoso semplicemente non riesce a contenere umori e rabbie.

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Degni di nota, nell’ambito di una comicità grezza, al passo con l’involuzione culturale degli anni ’70 e ’80, sono da evidenziare sia “I due maghi del pallone”(1970), con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, sia “L’allenatore nel pallone”(1984), con Lino Banfi. Il suo personaggio di Oronzo Canà,ha avuto talmente tanto successo, da essere rimasto nella memoria collettiva del nostro Paese.

Struggente e nostalgico è invece “Ultimo minuto”(1987), film di alta scuola diretto da Pupi Avati e interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue ultime memorabili interpretazioni.

Invece l’episodio sportivo più in generale, malgrado la curiosità sociale sempre crescente verso la vita privata di divi-calciatori o ciclisti e l’interesse generalizzato per lo spettacolo dello sport, ha sempre faticato a decollare. Alcuni esempi però se non sono memorabili, poco ci manca.

E’ il caso di “Totò al Giro d’Italia” (1949), dove al fianco del grande Totò sfilano Boblet, Coppi, Bartali e tutti i più grandi ciclisti dell’epoca; e poi la coppia Vianello-Tognazzi è utilizzata nel film “Le olimpiadi dei mariti” (1960), girato in contemporanea con le Olimpiadi di Roma ’60 e che contiene alcune scene di repertorio di quei Giochi Olimpici italiani. Lo spunto delle Olimpiadi è un pretesto per sviluppare la storia da pochade francese di due mariti che spediscono le mogli in villeggiatura ( Sandra Mondaini e Delia Scala) per potersela spassare con due turiste giunte a Roma appunto per le Olimpiadi. A questo punto va citato, necessariamente, Bud Spencer, che inaugura nel cinema italiano la figura dell’atleta-attore. Lui

che era stato campione italiano e internazionale di nuoto e pallanuoto, aveva poi, quasi per caso sfondato nel mondo del cinema, e allora il suo utilizzo si legherà spesso allo sport, su tutti “Lo chiamavano Bulldozer”(1977), in cui interpreta un ex campione di rugby e “Bomber”(1982), in cui interpreta un ex campione di boxe. Due film quasi in fotocopia, che sfruttano il fisico e la simpatia di Bud Spencer, oltre che la sua estesa popolarità.

Permettetemi poi una citazione della saga di “Fantozzi”, che di fronte ad una partita della Nazionale in tv prepara il suo programmino irrinunciabile con “ infradito, mutande, canotta rigorosamente

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macchiata, frittatone di cipolle, familiare di birra ghiacciata, tifo indiavolato e rutto libero”. Non mancano nei vari capitoli delle avventure di Fantozzi, numerosi, memorabili ed esilaranti episodi che riguardano lo sport,tra cui quella della partita di calcio tra scapoli e ammogliati; quella della Coppa Cobram e la favolosa gara di ciclismo; oppure quella della gara di atletica leggera. Tutte sopra le righe, grottesche, esagerate, ma dotate di un’irriverente carica comica davvero eccezionale.

Lo sport ha dunque influenzato e continua ad influenzare il Cinema, anche quello italiano, spesso riottoso a fondersi con esso. Lo sport rimane assolutamente comunque come cultura popolare del nostro paese, basti pensare, in conclusione, che in “Notte prima degli esami”(2006), il regista Fausto Brizzi, per raccontare i giovani degli anni ’80, ha ambientato il film proprio durante le epiche notti mondiali dell’82, in cui l’Italia vinse il suo storico terzo mondiale di calcio. E l’anno dopo nel trasferire ai giorni d’oggi l’esame di stato,cosa fa? Ambienta “Notte prima degli esami-oggi”(2007), proprio nell’estate del 2006, l’anno dell’incredibile quarto mondiale azzurro.

Cinema italiano, politica e censura

Domenico Palattella (117)

Nel rapporto ormai centenario tra Cinema e Politica, ha sempre avuto una posizione predominante la cosiddetta censura cinematografica. Un istituto quello della censura, che mai come in Italia, in 100 anni di storia, è riuscita a segnare profondamente il nostro cinema, attraversando le epoche, i regimi, gli anni della democrazia cristiana, la liberalizzazione post-sessantottina, i “mitici” anni ’80 arrivando fino ai giorni nostri. La storia di un istituto che ha visto

nel corso degli anni, allargare sempre di più le sue maglie austere che hanno imbrigliato il cinema soprattutto a cavallo degli anni del regime fascista, fino agli inizi degli anni ’60. Ma la censura è stata quasi sempre un mezzo di ingerenze politiche essendo il complesso di procedimenti attraverso

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il quale una autorità o un ente attuano il controllo preventivo, in itinere, o successivo all’ uscita di un’opera cinematografica, limitando o negando la sua proiezione in pubblico. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l’ordine pubblico.

U n a s c e n

a del film Sciuscià del 1946 di Vittorio De Sica.

E così produttori, registi e sceneggiatori hanno sempre dovuto averci a che fare, e in alcuni casi i più scaltri, impararono anche a confrontarsi. Numerosi sono i mezzi con cui operava la censura democristiana: dal ritardo nella concessione del visto per l’esportazione (“Sciuscià-1946, di Vittorio De Sica), al fermo in tutte le sale cinematografiche (“Adamo ed Eva”-1950, con Macario) in virtù dei tabù religiosi e di scene che rappresentavano donne in abiti succinti. Era l’Italia morale e moralizzatrice dei primi anni ’50, quando un bacio non poteva durare per più di tre secondi e le parolacce erano completamente bandite, come anche i nudi di donna. Lo spettacolo tuttavia, tentava ogni tanto di prendersi timide vendette. All’amante del suo predecessore Pepé, che risentita delle sue domande in atteggiamento comicamente pretesco gli chiede “Ma che fai?”, Totò le Mokò risponde: “Il democratico cristiano: censuro la tua anima”, assolutamente geniale! Era il 1949 di

“Totò le Mokò”, una delle migliori totoate in assoluto.

L’asfissiante censura cinematografica, che nella maggior parte dei casi coincideva con l’effettuazione di tagli censori, che snaturavano il significato intrinseco del film, si sarebbe attenuata a partire dalla metà degli anni ’60. L’allentamento dei freni censori allargò le maglie della censura in maniera definitiva, netta e irreversibile. In quegli stessi anni le ingerenze politiche, non erano finalizzate soltanto nel bloccare eventuali attacchi eversivi scaturiti dalle pellicole, ma in alcuni casi le pellicole stesse erano finanziate o create dalla politica stessa.

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Il caso più importante, e forse anche il più misconosciuto, riguarda il film “Ho scelto l’amore”, del 1953, recitato da Renato Rascel e commissionato dalla Democrazia Cristiana, in persona.

Stavolta l’ingerenza politica determina il risultato della pellicola stessa, non deve intervenire per evitare che ciò avvenga. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico.

Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente

correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile.

Ed infatti il film ottiene ( guarda caso ) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese ( l’Italia ) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per

“Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo- americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50.

I l r e g i s t a E l i o Petri.

Negli anni ’70, con l’allentamento definitivo dei freni censori, non è più la politica a condizionare le opere cinematografiche con l’istituto della censura, ma è il cinema che si erge a denunciare le corruzione dilagante della politica stessa. Il cinema d’autore degli anni ’70 effettua il proprio

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percorso affrontando tematiche differenti. Dalle regie di Maestri come Francesco Rosi e Elio Petri. si emancipa una nuova visone autoriale che vede nel cinema un mezzo ideale per denunciare corruzioni e malaffare, sia del sistema politico che del mondo industriale. Nasce così la struttura del film inchiesta che partendo dall’analisi neorealista dei fatti, aggiunge a essi un conciso giudizio critico, con il manifesto intento di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica. Tale tipologia tocca volutamente questioni scottanti, spesso prendendo di mira il potere costituito, con l’intento di ricostruire una verità storica il più delle volte negata o celata. Il simbolo attoriale di tale genere, diventa Gian Maria Volonté, che con la sua recitazione duttile e spontanea, conquista le platee italiane.

I l g r a n d i s

simo attore Gian Maria Volontè.

Uno dei punti di arrivo del percorso artistico di Francesco Rosi è senz’altro Il caso Mattei (1972); un rigoroso documento in cui il regista cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano: l’Eni. La pellicola, con Gian Maria Volonté protagonista, vince la Palma d’oro al festival di Cannes e diviene un vero modello per analoghi film di denuncia civile prodotti nei successivi decenni. Ormai Gian Maria Volontè è l’attore più richiesto da entrambi i registi ed è assolutamente strepitoso nel film di Elio Petri, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”(1970), il capolavoro del genere, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Volonté ottenuta la notorietà (Felice Laudadio lo definì “il più grande attore italiano del suo tempo”), decide di dedicarsi ad un tipo di cinema politicamente impegnato, recitando nel corso degli anni ’70 e ‘80, in film come “Uomini contro” di Francesco Rosi (1970), “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo (1971), “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio (1972), “Il caso Moro”(1986), di Giuseppe Ferrara. Ma è soprattutto con Petri e con Rosi che Volonté ha modo di esprimere in piena libertà il suo talento, dando vita ad una miriade di “uomini illustri”

rappresentanti una dura critica alla classe dirigente dell’epoca, divenendo quindi un punto di riferimento del cinema d’impegno civile italiano. Parallelamente alla sua carriera d’attore, Volonté vi accosta un assorto attivismo politico portando avanti numerose battaglie, manifestazioni e scioperi per i diritti dei lavoratori.

Il rapporto tra Cinema e Politica dunque, ha attraversato anni di scontri, collaborazioni, tagli censori, ed è per gli studiosi una vera e propria miniera, per capire la società italiana attraverso il Cinema, che come è noto è lo “specchio della società”.

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The Rearview Mirror – April 2016

Christian Zorico (160)

Late in 1966, Studio Uno was the location and Prince De Curtis, alias Toto’ performed in a magnificent sketch.

I will report the transcript of the conversation with Mario Castellani: “a big young man, big like that, came in front of me, looked at me straight in my eyes, and said: Pasquale!” followed by a guffaw that obstruct him from talking, “it is such a long time that I have been looking for you, son of a gun! In the end, I have found you! He raises his hand, and BAM! I got slamped, very strongly…” he continues to laugh even louder than before by arousing the audience. “I was asking myself how this silly guy would like to go on.” He continued to laugh, “he yanked me, slammed me up against the wall and I let him continue. Pasquale! I am going to kill you, BAM. He smacked me twice…oh my god, I thought this was funny, where does this idiot want to go with this?” at this point he bent over laughing …”Pasquale! Take your hat off. I did not let him repeat it twice. Pasquale, damn it! I have got to crack in your skull! BAM! And he kept on laughing. “A punch on my head, and I am still black and blue. Again I was thinking, where is he going with this?” By now, the performance sounds like an involving roaring laugh. “But why did not you react?” At this point Mario Castellani asked. Toto’, who seriously replied: “what do I care, I am not Pasquale”.

Moving right along in analyzing the statement of Janet Yellen, late on Tuesday 29th of March, at the

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Economic Club in New York – one of the crucial periods is the following: “Major thing that’s changed” between December and March affecting the Fed’s baseline outlook is “a slightly weaker projected pace of global growth.” So that, now we are informed that the Federal Reserve is adding a third variable at its dual policy’s mandate. The FED is caring about worldwide economic health. Now the main issue is its credibility, because it will be very difficult to manage a variable that is not, by definition, directly controllable. Moreover market expectations cannot be adequate if FED’s operate is not easily estimable. By the way, apparently these were the magic words that market participants have longed to hear. Low rates for the long run. In fact, equity indexes rallied and government’s bond yields dropped.

And now what comes to my mind is Toto’ famous quote: “what do I care, I am not Pasquale”. Right, because, even if the equity guys’ are celebrating and bond investors as well, the latter could suffer some losses forward looking, due to prices pressure.

Nowadays, the trend on yields is clear, thanks to the easing by ECB and BOJ, combined with the dovish attitude of FED. Ultimately, the USD is beneficiating

against the other currencies (only the Pounds weakened vs. the US dollar, since concerns about BREXIT are continuing to mount up). One of the consequences of the weaker dollar is related to commodities. It seems that their price action remain sustained and of course, emerging countries whose trade balances are depending from commodities’ behaviour are experiencing a relief since the beginning of the year. Nonetheless, US economy remains the big winner of FED policy, since the exportations could be revitalized and at the same time it is materializing the hope of some inflation linked to higher commodities’ price.

The phenomenon of prices’ dynamics is already showing a support coming from the unemployment conditions. Latest data from the Bureau of Labour Statistic have provided a positive sign for the US Economy. Actually Nonfarm payrolls increased by 215,000 in March and the headline unemployment rate rose to 5.0 percent (from 4.9 percent), the first month-over-month increase since May 2015.

For this reason I believe that if the OIL recovery will support a broad price pressure, then we all will fully understand the real meaning of Toto’s quote. “FED is not Pasquale”. The US Treasury yields will increase to incorporate a level of inflation that is not priced in yet. In the end, bond investors will understand that low interest rates for the long term will not coincide with low yields. And if I think about Draghi and Kuroda, about their ability to avoid a currency war during latest meeting, I can find another reading of the famous quote: “Federal Reserve Chairwoman Janet Yellen is not

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Pasquale”.

Lo Specchietto Retrovisore – 03/04/2016

Christian Zorico (160)

Correva l’anno 1966 e nello Studio Uno il principe De Curtis, in arte Totò, ci regalava un meraviglioso sketch.

Ecco cosa racccontava a Mario Castellani: “mi è venuto incontro un pezzo di giovanottone, grosso così, mi ha guardato fisso negli occhi, mi ha detto: Pasquale!” segue una risata che gli impedisce di parlare, “era un pezzo che ti cercavo, figlio di un cane! Finalmente ti ho trovato! Alza la mano, pum! Mi ha dato uno schiaffo, ma forte…” continua a ride sempre più convulsamente trascinando la platea. “Io pensavo, chissà sto stupido dove vuole arrivare?” ride ancora, “mi ha preso per il petto sbattendomi al muro e io lo lasciavo fare. Pasquale! Te possino ammazzatte! Pum! Mi ha dato due schiaffi…. oddio sta cosa mi scompiscia…io pensavo fra me e me, chissà sto stupido dove vuole arrivare?” a questo punto si piega dal ridere….“Pasquale! Togliti il cappello! Non gliel’ho fatto dire due volte. Pasquale, maledetto! Ti debbo sfondare il cranio! Pum!” Sempre continuando a ridere, “un cazzotto qui, che c’ho ancora il ficozzo. Io pensavo, chissà sto stupido dove vuole arrivare?” Ormai l’interpretazione è solo una coinvolgente risata. “Ma perché non hai reagito?” a questo punto chiede Mario Castellani. Totò risponde, divenendo serio all’istante: “E che mi frega a me, che so’ Pasquale io!”.

Proviamo ora a riascoltare il discorso della Yellen tenuto lo scorso giovedì all’Economic Club a New York e a soffermarci su uno dei passaggi cruciali: “i rischi dell’economia globale giustificano una politica continuativa di tassi bassi”.

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Innanzitutto apprendiamo che al mandato duale (inflazione e disoccupazione), già più complicato da interpretare rispetto ai mandati che hanno un singolo obiettivo, si aggiunge un elemento di più difficile lettura. La FED si riferisce ufficialmente all’economia globale nell’implementare la propria politica monetaria. La FED con questa mossa rischia di rendere più opaca la sua credibilità nel ruolo sempre più spinto di banca centrale del mondo, con la sua politica ancorata a variabili non direttamente controllabili (prezzo delle materie prime, rischi geopolitici, rallentamento della Cina) e, con il suo operato, che potrebbe essere difficilmente misurabile. Osservando la reazione dei mercati, sembra chiaro che gli operatori finanziari volessero sentire proprio queste parole: tassi bassi a lungo termine. E in effetti l’azionario ha festeggiato, i rendimenti lungo tutta la curva americana hanno continuato a scendere.

Ed è proprio qui che mi ritorna in mente la frase di Totò: E che mi frega a me, che so’ Pasquale io!”. E già perchè il mercato non è costituito solo dagli investitori azionari. C’è anche chi investe in obbligazioni (sia esse governative che corporate). Per ora anche il mondo dei bond festeggia. Ma attenti al tema inflazione. Al momento continua il trend di rendimenti più bassi, sulla spinta di un easing della BCE e della BOJ, e su una politica monetaria americana che tarda ad essere restrittiva.

Conseguenza diretta di tutto questo è un dollaro più

debole (solo la sterlina si è indebolita sensibilmente rispetto al dollaro, ma questa è un’altra storia tutta legata al BREXIT). Il biglietto verde più competitivo aiuta i paesi emergenti le cui economie sono maggiormente legate alle commodities, ma resta il miglior aiuto anche per l’economia americana che oltre a beneficiarne nelle esportazioni, può sperare nell’altra gamba dell’inflazione, quella legata alle materie prime.

Da un lato infatti l’America può già contare su dinamiche del lavoro, che restano ancora a supporto di un incremento dei prezzi (a marzo il numero dei Nonfarm Payrolls ha segnato +215.000 nuovi occupati e un tasso di disoccupazione al 5%, primo rialzo mese su mese da maggio 2015). Qualora spinte inflazionistiche provenissero anche dall’OIL, allora ci ritroveremo a comprendere il senso vero della frase

di Toto’. La FED non è Pasquale. I rendimenti della curva governativa americana si alzeranno per inglobare l’inflazione. E i poveri investitori in obbligazioni si renderanno conto che “tassi bassi a lungo” non significano rendimenti schiacciati per sempre. Un’altra interpretazione del finale di Totò:

mi viene in mente la figura di Draghi e Kuroda che nell’aver disencitivato una guerra valutaria negli ultimi meeting, ora si ritrovano alle prese con cambi più costosi. E già, la Yellen non è mica Pasquale.

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