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3. Studio radiometrico e geochimico di acque ad uso idropotabile del Monferrato orientale

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Academic year: 2021

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3. Studio radiometrico e geochimico di acque ad uso idropotabile del

Monferrato orientale

3.1. Premessa ed obiettivi della ricerca

La seguente ricerca si propone di indagare, in collaborazione con il Dipartimento Tematico Radiazioni dell’ARPA Piemonte, dal punto di vista geochimico e radiometrico, avvalendosi anche dell’integrazione di metodologie isotopiche, campioni di acque prelevate presso pozzi utilizzati ad uso idropotabile ubicati nei pressi della città di Alessandria; a tal fine sono stati campionati anche alcuni campioni di acque dei maggiori fiumi che attraversano la zona ed una sorgente effimera. La collaborazione tra il Dipartimento Tematico Radiazioni dell’ARPA Piemonte e il CNR-IGG di Pisa è stata formalizzata nel 2009 attraverso una convenzione che ha avuto come oggetto oltre allo studio di una parte del territorio della provincia di Alessandria, che si è svolto attraverso l’acquisizione di dati e l’esecuzione di campagne di prelievo con successive analisi, il confronto sui risultati delle misure eseguite e il sostegno reciproco riguardo alle comuni tecniche radiometriche. L’interesse dal punto di vista scientifico nasce dal fatto che alcune misure preliminari e di controllo su comuni campioni di acqua idropotabile di quest’area avevano evidenziato valori radiometrici alfa piuttosto elevati. Le misure di attività totale alfa/beta svolte tra l’anno 2006 e il 2008 dal Dipartimento Tematico Radiazioni di Alessandria nell’ambito del controllo radiometrico delle acque potabili avevano infatti evidenziato, in un territorio della provincia (che approssimativamente si estende a Sud del Po dal territorio del comune di Valenza a quello di Isola Sant’Antonio e a sinistra del Tanaro dal comune di Pietra Marazzi a Bassignana) valori di attività alfa totale mediamente più elevati rispetto alla media provinciale e regionale e spesso superiori al valore di riferimento di 100 mBq/l1, assunto come livello al di sopra del quale vengono eseguite le analisi di approfondimento.

Dai risultati di queste prime analisi la causa primaria di questi valori di attività alfa era stata attribuita alla presenza di uranio, elemento radioattivo la cui concentrazione nella acque di falda può variare da punto a punto sia per cause naturali sia per cause di origine antropica, queste ultime

1 Il D.Lvo 31/01 relativo alle acque destinate al consumo umano indica come limite della dose totale indicativa il valore

di 0,1 mSv/anno. La dose totale indicativa si deve valutare in base alla concentrazione di ogni radionuclide emettitore alfa o beta e alla sua specifica radiotossicità. In linea di principio ciò presuppone di effettuare analisi molto dettagliate per identificare tutti i radionuclidi presenti e calcolarne la specifica concentrazione. Per semplificare le procedure di analisi, sono stati definiti a livello internazionale dei valori di concentrazione di attività alfa totale e beta totale da impiegarsi nelle attività di screening. Tali valori corrispondono attualmente a 0,5 Bq/l per l’attività alfa totale e 1 Bq/l per l’attività beta totale (Guidelines for drinking water quality, 3rd edition, Vol. 1, Recommendations, Geneva, World Health Organization, 2004), ma gli enti di controllo italiani preferiscono porre il limite per le alfa totale a 0,1 Bq/l, così come proposto dalla raccomandazione2000/473/Euratom (art.36).

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connesse all’utilizzazione in agricoltura di fertilizzanti fosfatici caratterizzati da elevato contenuto del radioelemento. L’area, posta tra due corsi d’acqua principali e su un substrato abbastanza differenziato, pur essendo di limitata estensione risulta particolarmente complessa dal punto di vista geologico ed idrogeologico.

Lo studio è stato preceduto dalla ricerca dei dati territoriali, geologici e idrochimici disponibili e dalla ricerca della letteratura scientifica internazionale inerente la tematica oggetto di studio.

Sulla base, quindi, di una serie di considerazioni generali si sono scelte alcune località ritenute maggiormente rappresentative ed idonee per l’esecuzione di una campagna di prelievi.

La campagna di prelievo delle acque potabili comprendente 20 pozzi dell’acquedotto, appartenenti a tre diversi gestori, ha avuto luogo nella prima settimana di giugno del 2009. Su questi campioni sono state eseguite analisi idrochimiche, radiometriche ed isotopiche, a questa prima campagna ne è seguita un’altra, più limitata, durante il 2010. Questi ultimi campioni sono stati analizzati esclusivamente dal punto di vista radiometrico.

Inoltre, per avere un quadro più completo possibile sul fondo radiometrico presente nell’area, si è proceduto alla determinazione in spettrometria gamma del contenuto di attività naturale di alcuni campioni di roccia e sedimenti prelevati nell’area in studio. Per tre campioni di roccia, particolarmente significativi, è stata determinata anche la composizione mineralogica. Questi ultimi sono stati analizzati presso i laboratori del Dipartimento di Scienze e Tecnologia Avanzate della sede di Alessandria dell’ Università del Piemonte Orientale.

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3.2. Inquadramento geologico

Dal punto di vista geologico, il territorio in esame si colloca al contatto tra i depositi sedimentari di origine marina del Basso Monferrato appartenenti al Bacino Terziaro Ligure-Piemontese (BTP) e le serie sedimentarie, prevalentemente di origine continentale, del settore meridionale di Pianura Padana indicato nella letteratura geologica come “ Bacino Piemontese Settentrionale”.

Il Monferrato è separato dal settore meridionale del BTP dalla fascia di depositi pliocenici dell’Astigiano che è stato oggetto di recenti studi di carattere biostratigrafico, stratigrafico e strutturale (Clari et al. 1995; Dela Pierre et al., 1995; Piana, 2000; Valleri et al., 1995). Precedentemente considerato come un unico dominio corrispondente al sistema collinare Torino-Valenza, viene suddiviso dalla Collina di Torino da cui differisce sia per quanto riguarda la successione stratigrafica sia per l’assetto strutturale. I due domini sono separati da una zona di taglio transpressiva di orientazione NNW-SSE di estensione plurichilometrica (zona di deformazione di Rio Freddo, Piana & Polino, 1995) che ha fortemente controllato la sedimentazione delle successioni oligo-mioceniche (Fig. 3.1).

Fig. 3.1 – Schema srutturale dei bacini terziari nella zona di giunzione tra Alpi ed Appennini. LI: Linea Insubrica; LVV: Linea Villalvernia-Varzi; ZDRF: Zona di Deformazione di Rio Freddo; ZSV: Zona Sestri-Voltaggio; BTP: Bacino Terziario Piemontese; AM: Alto Monferrato; BG: Zona Borbera-Grue. Le linee tratteggiate indicano le isobate della base del Pliocene. (Modificato da: AA.VV. Structural Model of Italy, 1990)

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Il Monferrato è contraddistinto da un assetto stratigrafico e stutturale che riflette un’evoluzione avvenuta in un contesto caratterizzato da una notevole mobilità tettonica esplicatasi in maniera continua durante la sedimentazione.

La successione stratigrafica è tradizionalmente suddivisa in un “substrato”, costituito da unità liguri ad assetto caotico, seguito in discordanza da una successione “molassica” estesa dall’Eocene al Pliocene (Bonsignore et al., 1969). Recenti rilievi eseguiti per la realizzazione del Foglio Trino (progetto CARG) hanno evidenziato che la successione è caratterizzata, nell’intervallo compreso tra l’Oligocene ed il Messiniano, da brusche variazioni laterali di facies ed è interrotta da superfici di discontinuità stratigrafica tracciabili lateralmente a scala dell’intera area studiata. Queste superfici costituiscono la registrazione stratigrafica delle più importanti fasi deformative.

Fig. 3.2 – Spaccato stratigrafico, non in scala, della successione dei Monferrato, mostrante la distribuzione dei sintemi riconosciuti. CCP: Complesso caotico di la Pietra (Cretacico sup.?); MMP: Marne di Monte Piano (Eocene sup.); CAD: Formazione di Cordona (Oligocene p.p.), ANT1: membro siltoso-marnoso della Formazione di Antognola (Oligocene sup.-Aquitaniano); ANT2: membro arenaceo-conglomeratico della Formazione di Antognola (Aquitaniano?); MPI1: membro marnoso-siliceo delle Marne a Pteropodi inferiori (Aquitaniano-Burdìgaliano inf.); MP12: membro dìatomitico delle Marne a Pteropodi inferiori (Burdigaliano inf); PDC: Pietra da Cantoni (Burdigalìano-Langhiano p.p.); AMA: Arenarie di Moransengo (Burdigaliano-Langhiano p.p.); CT01: membro terrigeno delle Areniti di Tonengo (Langhiano); CT02: membro carbonatico delle Areniti di Tonengo (Langhiano); MIN: Marne di Mincengo (Serravalliano); SAF; Marne di S. Agata Fossili (Tortoniano); CCV: Complesso caotico della Valle Versa (Messiniano); LUG1 membro siltoso delle Argille di Lugagnano (Pliocene inferiore); LUG2: membro argilloso delle Argille di Lugagnano (Pliocene inferiore); LUG3: membro siltoso-sabbioso delle Argille di Lugagnano (Pliocene inferiore); AST1: membro calcarenitico delle Sabbie dì Asti (Pliocene inferiore); AST2: membro sabbioso delle Sabbie di Asti (Pliocene inferiore); SFR: Sabbie di Ferrere (Pliocene medio); SSM: Sili di San Martino; ZDRF: Zona di deformazione di Rio Freddo; D1...D7: discontinuità stratigrafiche, modificato da Dela Pierre et al., in

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La loro correlazione laterale ha consentito di suddividere la successione in sei unità a limiti inconformi (sintemi, Chang, 1975) che sono stati utilizzati come riferimento per l’intepretazione dell’evoluzione tettonico-sedimentaria del Monferrato (Fig. 3.2).

I primi due sintemi (Oligocene inf.-Burdigaliano) sono intensamente dislocati e attualmente preservati all’interno di unità tettoniche ad assetto geometrico distinto, bordate da faglie o da “zone di deformazione” caratterizzate dalla presenza di sistemi di faglie nastriformi. I sintemi più recenti sono invece meno deformati e non facilmente suddivisibili in unità geometriche. Essi ricoprono parzialmente in discordanza le unità strutturali pre-langhiane. Il principale sistema di faglie del Monferrato ha direzione compresa tra WNW-ESE e NNW-SSE ed è costituito da superfici plurichilometriche, in genere, molto inclinate e ad andamento anastomosato. Il cinematismo di queste strutture è principalmente trascorrente (con prevalenza di movimenti sinistri) e subordinamente inverso. Esse sono spesso associate a sub-parallele antiformi asimmetriche (ripetute a scala chilometrica) che costituiscono l’elemento strutturale più indicativo del Monferrato.

Queste strutture sono spesso costituite da due fianchi asimmetrici, caratterizzati da strati da molto inclinati a subverticali, giustapposti al centro dell’antiforme da faglie individuali o da zone di faglia; esse includono al nucleo porzioni di successioni talora rovesciate o interessate da pieghe di trascinamento. L’insieme di queste strutture sono interpretate come connesse a zone di faglia trascorrenti (Harding, 1985).

Una delle più importanti strutture di questo sistema affiora al margine occidentale del Monferrato: si tratta della zona di faglia di Bric Buontempo (Piana, 2000), che si prolunga nell’adiacente dominio della Collina di Torino.

Un terzo sistema, sviluppato in direzione NNE-SSW, è invece caratterizzato principalmente da movimenti trascorrenti sinistri o normali.

Le faglie hanno geometria relativamente semplice, poco evoluta, essendo rappresentate da superfici individuali ad andamento rettilineo. I rapporti di antecedenza con gli altri sistemi ne suggeriscono una età di attivazione relativamente recente. E’ inoltre presente un sistema a direzione E-W meno frequente dei precedenti, ma talora corrispondente a zona di faglie composite (nastriformi) di dimensioni plurichilometriche, prevalentemente trascorrenti o più raramente inverse.

Infine, si riconosce un sistema di faglie Nord-Sud che rappresenta la famiglia meno importante dal punto di vista statistico, sia per quel che riguarda la frequenza delle strutture, sia in merito al rigetto stratigrafico. Recenti studi di immagini satellitari (Morelli & Piana, 2006) hanno però messo in risalto un notevole sviluppo di lineamenti sub-paralleli a questo sistema all’interno dei depositi

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pliocenici, lasciando supporre che la scarsa rappresentatività di questo sistema sia da imputare ad una sua età relativamente recente.

L’intersezione tra diversi sistemi di faglie ha localmente generato lo scompaginamento delle relazioni primarie tra le successioni stratigrafiche, individuando zone di deformazione caratterizzate da scaglie tettoniche di successioni sedimentarie appartenenti ad unità tettoniche diverse, giustapposte o sovrapposte con una geometria “a mosaico” risultante dalla convergenza di segmenti di faglia distinte. La più significativa di queste è la zona di deformazione di Rio Freddo (ZDRF, Piana & Polino, 1995; Piana, 2000). Si tratta di una fascia allungata in direzione NNW-SSE.

Il Basso Monferrato e il Bacino Piemontese Settentrionale sono porzioni di questo territorio così complesso e articolato e sono maggiormente rappresentati, geologicamente, dal quarto e quinto sintema.

Quarto sintema (Tortoniano)

E’ interamente costituito da una monotona successione di marne argillose (Mame di S. Agata Fossili) che poggiano, tramite una discordanza angolare (D4) su vari termini della successione sottostante (Fig. 3.2). Questi depositi, riferibili alla biozona a Globìgerinoides obliquus extremus di Iaccarino (1985), mostrano una forte omogeneità anche se gli spessori sono maggiori nel settore Nordorientale del Monferrato rispetto a quello Sudoccidentale, dove essi sono localmente assenti. Ciò può essere imputato sia ad una eterogeneità laterale del bacino tortoniano, sia all’erosione differenziale messiniana.

Le evidenze strutturali dirette dell’evento tettonico sigillato della D4 sono scarse, tuttavia esso può essere correlato alla fase tettonica tardo-serravalliana riconoscibile anche nel bacino delle Langhe e responsabile dell’individuazione dell’avanfossa Sud-padana (Roure et al., 1996). Questo evento avrebbe attivato sistemi di faglie inverse vergenti a E-SE a persistenza chilometrica, facenti parte di un sistema di sovrascorrimenti regionali est-vergenti (Schumacher & Laubscher, 1996). Il passaggio da tettonica transpressiva (faglie subverticali) a tettonica compressiva (sovrascorrimenti a basso angolo) è indicato anche dai rapporti di antecedenza tra le strutture tettoniche: le faglie inverse serravalliane tagliano infatti le faglie trascorrenti che bordano i diversi settori fisiografico-deposizionali evidenziati dai sedimenti oligo-miocenici.

Quinto sintema (Messiniano)

È costituito dai depositi messiniani, che sono delimitati alla base da una discordanza angolare (D5) e sono seguiti, sempre in discontinuità (D6), dai depositi pliocenici.

A differenza di altri settori del BTP, ove il Messiniano è costituito dalla successione ben conosciuta grazie ai lavori di Sturani (1973, 1976), in gran parte del Monferrato si osserva il Complesso

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caotico della Valle Versa, costituito da blocchi di varia composizione e dimensioni, inglobati da una matrice fine.

Fig. 3.3 – Rappresentazione schematica delle tre fasi deposizionali messiniane, desunte dalla composizione dei blocchi costituenti il Complesso caotico della Valle Versa. 1) fase pre-evaporìtica; 2) fase evaporitica; 3) fase post-evaporitica (sono rappresentati i conglomerati poligenici, interpretati come depositi di fan-delta), modificato da Dela Pierre et al. (2002).

Gran parte dei blocchi sono riferibili alle tre fasi in cui, tradizionalmente, viene suddiviso il Messiniano (Fig. 3.3):

 alla fase pre-evaporitica sono da riferire blocchi di rudstones bioclastiche e lumachelle conchigliari, spesso dolomitizzate, a bivalvi, gasteropodi, frammenti di echinoidi, alghe corallinacee, briozoi e foraminiferi ben tonici (Dela Pierre et al., 2002) che mostrano forti analogie composizionali e diagenetiche con i carbonati del Messiniano inferiore pre-evaporitico della regione mediterranea (Esteban, 1996);

 la fase evaporitica è rappresentata da alternanze cicliche di gessi selenitici e di peliti anossiche, confrontabili con i coevi depositi delle successioni appenniniche (Vai & Ricci Lucchi, 1977). Sono inoltre riconoscibili blocchi di brecce monogeniche a clasti di sedimenti conchigliari e di calcari dolomitici vacuolari testimonianli complessi processi diagenetici avvenuti durante la fase evaporitica (Cavagna et al., 2002);

 alla fase post-evaporitica possono essere riferiti blocchi di conglomerati poligenici e di calcari “laminati”. Questi ultimi sono interpretabili, sulla base delle caratteristiche

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geochimico-isotopiche, come depositi salmastri (Cavagna et al., 2002). Altri blocchi sono costituiti da calcari micritici e brecce carbonatiche molto cementati con abbondanti resti di faune oligotipiche a grandi bivalvi riferibili al genere Lucina. Sulla base delle caratteristiche petrografiche e geochimico-isotopiche, essi sono stati definiti come calcari metano-derivati, risultanti cioè dalla fuoriuscita di fluidi freddi e ricchi di idrocarburi leggeri (metano) sul fondo del bacino (Clari et al., 1994).

La matrice che ingloba i blocchi è esposta solo localmente ed è costituita da mud breccias contenenti clasti da millimetrici a centimetrici di manie e siltiti poco cementate (Dela Pierre et al., 2002).

Le caratteristiche del complesso caotico della Valle Versa ne rendono piuttosto difficoltosa l’interpretazione genetica (Dela Pierre et al., 2002). Il fatto che esso sia "inquadrato" da sedimenti marini normali attraverso superfici di chiara origine sedimentaria (discontinuità D5 e D6) suggerisce che esso sia il prodotto di processi di risedimentazione gravitativa che hanno coinvolto la successione messiniana prima deposta. Tuttavia, la presenza di blocchi di carbonati metano-derivati impone di considerare anche il contributo dei fluidi ricchi di idrocarburi nella genesi di questo deposito. Nella loro risalita verso la superficie i fluidi in sovrapressione possono infatti trascinare quantità notevoli di sedimenti fini e non consolidati, dando origine in profondità a diapiri di fango ed in superficie a vulcani di fango costituiti da depositi caotici del tutto analoghi a quelli prodotti da eventi di risedimentazione gravitativa.

Il diapirismo e l’espulsione dei fluidi da un lato e i processi di risedimentazione gravitativa dall’altro sono spesso associati e possono avere una causa comune. Infatti la deformazione tettonica di successioni sedimentarie solo parzialmente consolidate può facilitare la risalita di fluidi lungo discontinuità tettoniche preesistenti e, al contempo, innescare eventi di risedimentazione gravitativa a grande scala (Brown & Westbrook, 1988). Gli stessi processi possono essere indotti da un abbassamento del livello del mare il quale, attraverso una drastica riduzione della pressione idrostatica, può causare la dissociazione dei gas idrati (clatrati) eventualmente presenti nella colonna sedimentaria e la repentina liberazione di ingenti quantità di fluidi (acqua e gas, Pierre et

al., 2002). Questo processo può a sua volta ridurre la coesione dei sedimenti innescando fenomeni

di scivolamento gravitativo e formazione di depositi caotici.

Nel Messiniano, sono ben conosciute ripetute oscillazioni del livello marino (Esteban, 1996), ma a scala regionale è anche documentata un’intensa deformazione tettonica che ha determinato il sovrascorrimento delle successioni cenozoiche del BTP sull’avanfossa padana, a causa della propagazione verso N del thrust padano (Piana, 2000). E’ quindi difficile, se non impossibile, riconoscere quale di questi due fattori abbia maggiormente contribuito alla messa in posto finale

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del Complesso caotico della Valle Versa. Tuttavia, la presenza di una marcata discordanza angolare alla base del quinto sintema suggerisce che la deformazione tettonica conseguente all’attivazione del sovrascorrimento padano abbia giocato un ruolo determinante, innescando da una parte imponenti fenomeni di scivolamento gravitativo e dall’altra la risalita di fluidi ricchi di idrocarburi, attraverso la riattivazione di discontinuità tettoniche preesistenti che hanno agito come via di risalita preferenziale per i fluidi stessi.

In definitiva il Basso Monferrato, rappresentato in questo studio dalle colline prossime ad Alessandria, risulta costituito da un substrato roccioso terziario e da un complesso di depositi sedimentari più recenti databili Miocene superiore-Quaternario (Carraro et al., 1995).

Dal punto di vista stratigrafico, come si evince dalla lettura dei Fogli 70 “Alessandria” e 58 “Mortara” della Carta Geologica d’Italia, con relative note illustrative (Boni et al., 1970; Braga et

al., 1969), i depositi marini, partendo dai termini più antichi, possono essere schematizzati come

segue (Fig. 3.4):

E3-1 - Marne di Monte Piano (Eocene superiore-inferiore?): marne in parte argillose grigio-verdognole, con intercalazioni di calcari bioclastici e calcareniti;

O3-E3 - Arenarie di Ranzano (Oligocene medio-superiore-Eocene superiore): arenarie e sabbie grossolane alternate a livelli marnosi e calcareo-marnosi e a potenti lenti di conglomerati poligenici; O3-E3 - Marne di Antognola (Aquitaniano inferiore-Oligocene superiore): marne grigio-verdastre localmente alternate a livelli sabbiosi o arenacei;

M3-2a - Formazione di Mombissaggio (Serravaliano superiore-Langhiano): calcari marnosi, silts e argille siltose passanti verso l’alto a marne.

M5-4 -Marne di S. Agata Fossili (Tortoniano-Serravalliano sommitale): marne e argille passanti

inferiormente ad alternanze centimetriche di argille e sabbie;

i - Complesso Indifferenziato (Tortoniano?): formazione caotica di tipo argilloso e marnoso con frammenti calcarei di probabile origine tettonica;

M5 - Formazione Gessoso solfifera (Messiniano): argille e marne localmente gessifere a concrezioni calcaree, con subordinate intercalazioni di calcari marnosi vacuolari e di sabbie e arenarie;

P1M5 - Conglomerati di Cassano Spinola (Pliocene inferiore-Messiniano): conglomerati ed arenarie

in grosse bancate intercalati a marne con microfaune per lo più rimaneggiate;

P - Argille di Lugagnano (Pliocene medio-inferiore): argille e silts con intercalazioni di sabbie giallastre;

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Fig. 3.4 – Stralcio della Carta Geologica d’Italia, Foglio 70 “Alessandria” e relativa sezione geologica

I depositi continentali del Bacino Piemontese Settentrionale sono stati, invece, deposti in un intervallo di tempo che va dal Pliocene superiore all’Olocene. Nel Pliocene medio-superiore iniziò, infatti, il ritiro dell’antico bacino che occupava tali zone (regressione marina), ritiro che si protrasse fino al Pliocene superiore. In questo periodo coesistettero ambienti sedimentari eterogenei: da quello marino fino a quello fluviale. Il progressivo ritiro delle acque lasciò libere superfici sub-pianeggianti sempre più estese, contraddistinte da ambienti sedimentari di piana costiera lagunare-deltizia, ma soprattutto da ambienti lacustri e palustri. In seguito su tali superfici si organizzò progressivamente, sotto la spinta dell’evoluzione geodinamica, un reticolato fluviale embrionale, scarsamente gerarchizzato, caratterizzato da corsi d’acqua a bassa energia. I sedimenti deposti in questo lasso temporale corrispondono al cosiddetto “Villafranchiano”: presentano una facies

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inferiore sabbioso-argillosa con rare intercalazioni ghiaiose ed una superiore, prevalentemente ghiaiosa, con intercalazioni argillose a luoghi di notevole spessore. Tali sedimenti sono modellati all’interno dei depositi marini del margine collinare sepolto descritto in precedenza; risultano separati da quest’ultimo da contatti stratigrafici di tipo erosionale.

Dal Pleistocene inferiore, gli ambienti lacustri e palustri lasciarono rapidamente il posto ad ambienti sedimentari di tipo “piana alluvionale”. Sotto la spinta geodinamica si assistette al progressivo innalzamento dei rilievi collinari e ad una sempre maggiore gerarchizzazione, in tale ambito, del reticolato fluviale, con la presenza di numerosi corsi d’acqua ad elevata energia. A questo fatto si associarono una serie di cambiamenti climatici che portarono, dal Pleistocene medio e fino all’Olocene, alla formazione di estesi ghiacciai alpini, che localmente arrivarono fino allo sbocco delle vallate alpine in pianura. Tale periodo fu caratterizzato da ripetute fasi di avanzamento e arretramento delle fronti glaciali con deposizione, più o meno intensa, nel bacino subsidente padano, di depositi fluviali e fluvio-glaciali che formarono le estese conoidi fluviali, spesso coalescenti, responsabili del progressivo riempimento del bacino stesso.

Il Pleistocene medio fu anche il periodo di forti terrazzamenti del territorio; molti dei terrazzi fluviali che vediamo ora si formarono, per l’appunto, in questo periodo.

Nel periodo olocenico, è infine proseguita la deposizione di depositi fluviali ad opera del reticolato idrografico.

I depositi fluviali e fluvioglaciali pleistocenici sono modellati all’interno dei sottostanti depositi villafranchiani dai quali risultano separati da contatti erosionali. Solo localmente, in corrispondenza di lacune sedimentarie, sono modellati direttamente nel substrato terziario.

La serie stratigrafica, partendo dal termine più antico, è la seguente (Carta Geologica d’Italia, Foglio 70):

Villafranchiano (Pliocene sup.): ghiaie e sabbie quarzose, frequentemente alternate con banchi di

argille varicolori di origine fluvio-lacustre.

Interglaciale Mindel-Gunz (Pleistocene inferiore): depositi conglomeratici poligenici fluviali, ghiaie

poco cementate con lenti sabbiose o argillose ricoperte da loess mindeliano.

Fluvioglaciale Mindel (Pleistocene inf.-medio): alluvioni fluvioglaciali a ciottoli silicei e silicatici

alteratissimi, con paleosuolo argilloso rosso-bruno (ferretto).

Singlaciale Riss (Pleistocene medio): argille sabbiose lacustri stratificate.

Fluviale e fluvioglaciale Riss (Pleistocene medio-sup.): alluvioni ghiaiose e lenti sabbiose argillose

con paleosuolo rosso-arancio.

Cataglaciale Riss (Pleistocene superiore): deposito loessico argillificato connesso alle fasi

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Fluvioglaciale e fluviale Wurm (Pleistocene superiore): alluvioni ghiaioso-sabbiose da grossolane a

minute localmente con lenti argillose con debole strato di alterazione brunastro.

Alluvioni antiche (Olocene): alluvioni fluviali ghiaioso-sabbiose, con debole strato di alterazione

grigio-bruno.

Alluvioni Medio-recenti (Olocene): alluvioni prevalentemente ghiaiose e ghiaioso-sabbiose, con

lenti argillose, degli alvei abbandonati dei fiumi principali esondati in periodo storico ed ancora attualmente esondabili.

Alluvioni Attuali (Olocene): alluvioni prevalentemente ghiaiose e ghiaioso-sabbiose degli alvei

attuali dei fiumi principali.

Analizzando più in dettaglio l’area dal punto di vista della geologia strutturale, si denota come il substrato collinare, partendo dai rilievi collinari e procedendo verso Nord e NE, sia stato dislocato e rapidamente abbassato fino a formare un bacino subsidente da una serie di faglie ad andamento circa parallelo al bordo collinare.

Le principali faglie sono: la faglia inversa detta “Faglia di Balzola” o “Faglia del Monferrato” che si estenderebbe da Tortona a Torino (Pieri & Groppi, 1981) e la faglia diretta “Faglia di Lucedio” che si sviluppa poco più a Nord (Fisso et al., 1987). Un altro elemento strutturale è l’asse d’anticlinale sepolto avente direzione NNW-SSE, ubicato tra Morano sul Po e Balzola. Tale struttura a piegafaglia, vergente a Nord, coinvolge le formazioni oligo-mioceniche e passa lungo il margine meridionale del Rilievo Isolato di Trino (R.I.T.). Per ciò che concerne la neotettonica, in altre parole gli effetti “recenti” indotti dalle spinte geodinamiche, si osserva come le aree rilevate, costituite dal substrato marino pre-pliocenico, sono state interessate, durante il Quaternario, da un generale sollevamento. Quest’ultimo è stato intervallato da episodi di stabilità, cui corrisponde la mancata sedimentazione dei depositi pliocenici

e l’esiguità di quelli pleistocenici. Per le aree marginali, dove sono invece diffusi i depositi pliocenici, è indicata una subsidenza iniziale seguita, dal Pleistocene medio-superiore, da sollevamento talora interrotto da fasi di stasi (Carraro et al., 1978).

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3.3. Descrizione degli aspetti fisici del territorio

3.3.1. Inquadramento geografico

Il territorio in esame si colloca in un’area che va dalla sponda destra del fiume Po prossima ai comuni di Casale Monferrato, Valenza e Bassignana, e lungo i rilievi collinari del “Basso Monferrato” dove sono ubicati i comuni di Montecastello e Pietra Marazzi, fino ad una zona di pianura estesa ad est nei comuni di Sale, Guazzora, Castelnuovo Scrivia.

Le quote altimetriche sono comprese tra 75 e 350 m s.l.m., con valori decrescenti, sia nel settore di pianura sia in quello collinare, procedendo da Ovest verso Est.

In particolare il settore collinare è caratterizzato da quote comprese tra i 140 e i 350 m nella zona intorno a Casale Monferrato, e tra i 100 e i 260 m nella zona di Valenza. Il settore di pianura, invece, presenta valori compresi tra i 75 e i 155 m.

In quest’area sono evidenti due tipologie di paesaggio alquanto differenti: la prima tipologia paesaggistica è caratterizzata da una forte presenza dell’agricoltura intensiva (coltivazioni cerealicole e meno frequentemente risicole) ed una seconda costituita da rilievi collinari, invece caratterizzati da una minore impronta antropica che lascia spazio ad una forte presenza d’aree boschive e prative: qui l’agricoltura è praticata solamente su piccoli appezzamenti ed è orientata principalmente sulla coltivazione della vite. Il paesaggio, caratterizzato da un succedersi di creste e valli, è sottolineato dalla presenza di piccoli borghi siti principalmente in corrispondenza degli spartiacque collinari. In alcune porzioni collinari che si affacciano direttamente sul fiume Po sono presenti scarpate calanchive con rada vegetazione, denominate “Rocche”. Tali forme spiccano, soprattutto in estate, per una netta differenza cromatica, rispetto al circostante paesaggio collinare maggiormente vegetato.

3.3.2. Inquadramento idrografico e idrologico

Il reticolato idrografico principale risulta caratterizzato dalla presenza del fiume Po che funge da livello di base locale; i suoi principali affluenti di sinistra sono, in questo settore, il Dora Baltea e il Sesia, quelli di destra sono lo Stura del Monferrato, il torrente Grana, il Tanaro ed lo Scrivia.

L’idrografia superficiale ha subito, dal Pleistocene, una serie d’importanti cambiamenti ascrivibili solo indirettamente all’avanzamento verso Nord del settore collinare (fronte appenninico sepolto). Altri fattori condizionanti sono stati le periodiche variazioni di portata liquida e solida dei corsi d’acqua, le variazioni climatiche a lungo, medio e breve periodo

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In particolare, il settore del Bacino Piemontese Settentrionale, posto a Nord dei rilievi del Monferrato era drenato, dal Pleistocene inferiore, da un collettore fluviale diverso dall’attuale F. Po che scorreva invece in quel periodo a sud della Collina di Torino. Tale colletore, proveniente dal quadrante N-NO, aveva un tracciato solo in parte sovrapponibile a quello dell’attuale fiume Po: antiche testimonianze di tale tracciato sono oggi, infatti, riscontrabili a Sud del Po all’interno del settore collinare. L’assetto idrografico attuale del Po, nel settore considerato da questo studio, si è impostato da un non meglio precisato momento del Pleistocene superiore. In questo periodo, in seguito ad un fenomeno di diversione (cambiamento di percorso per cause tettoniche) in prossimità della soglia di Moncalieri (TO), esso ha assunto una nuova direttrice di deflusso verso NO (ad Ovest della Collina di Torino e a Nord del basso Monferrato), divenendo il principale collettore del Bacino Piemontese Settentrionale (Carraro et al., 1995).

Il reticolato idrografico secondario, localizzato essenzialmente in corrispondenza del settore collinare, è caratterizzato invece dalla presenza di un elevato numero di piccoli bacini idrografici, solcati da corsi d’acqua alcuni a portata perenne ma, nella maggioranza dei casi, stagionale. La linea spartiacque, dei suddetti bacini, si sviluppa a grande scala dapprima con andamento tendenzialmente NNO-SSE, tra Verrua Savoia e Casale M., poi con andamento NO-SE, tra Valenza e Montecastello.

3.4. Caratteristiche degli acquiferi

3.4.1. Tipologie di acquiferi

Sono presenti nell’area d’indagine, in accordo con l’assetto idrogeologico di questo settore della Pianura Piemontese, una falda superficiale classificabile come falda libera (in relazione con l’idrografia superficiale) e più falde profonde classificabili come falde confinate o semi confinate. I dati disponibili riguardano essenzialmente la prima, sfruttata in maniera intensiva, mentre le falde profonde risultano meno sfruttate e meno indagate.

Sono inoltre presenti sia risorgive poste in corrispondenza di scarpate morfologiche (sorgenti) sia risorgive emergenti a livello del piano di campagna, chiamate comunemente polle (Salazar, 1984; Bracco et al., 2001).

Nell’area di studio gli acquiferi esaminati presentano caratteristiche differenti tali da poterli ricondurre a tre differenti tipologie, a loro volta collocabili in tre distinti settori:

1. acquiferi del settore collinare;

2. acquiferi del settore di pianura pedecollinare (comprendente l’area in destra idrografica del Fiume Po da Crescentino fino a Valenza);

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3. acquiferi del settore di pianura estesa, (comprendente l’area in destra idrografica del fiume Po che si estende tra il Torrente Scrivia e il Fiume Tanaro).

1. Settore collinare

La struttura degli acquiferi del settore collinare è legata alle peculiari caratteristiche geologiche di questo settore del Basso Monferrato: i bacini imbriferi che raccolgono le acque piovane sono impostati all’interno dei depositi marini terziari costituenti i rilievi collinari. Tali rilievi sono caratterizzati prevalentemente da litologie marnose-argillose ed arenaceo-conglomeratiche; localmente sono presenti livelli sabbiosi, misti a ghiaietto, con granulometria da media a fine. Gli acquiferi pertanto sono generalmente impostati all’interno del substrato collinare, scarsamente permeabile, e sono caratterizzati da una circolazione idrica poco significativa, localizzata soprattutto lungo le zone di fessurazione delle rocce. Localmente sono invece impostati in corrispondenza di lembi di depositi alluvionali anche se di ridotto spessore. In entrambi i casi, le falde ospitate hanno spesso carattere stagionale e ridotte potenzialità.

2. Settore di pianura pedecollinare

Questo settore occupa una fascia stretta ed allungata ed è caratterizzato dalla presenza di un unico acquifero superficiale costituito da depositi fluviali e fluvio-glaciali con spessori compresi generalmente tra 0 e 20-30 metri. Tali depositi sono modellati direttamente nel substrato terziario dell’edificio collinare e risultano delimitati alla base e lateralmente da superfici erosionali.

L’altopiano di Valenza, pur essendo compreso geograficamente nel settore collinare, presenta caratteristiche idrogeologiche maggiormente assimilabili a quelle sopradescritte per il settore pedecollinare: ciò è dovuto alla particolare conformazione geomorfologica del territorio caratterizzato dalla presenza di una serie di terrazzi fluviali, tra cui quello su cui sorge l’abitato di Valenza. Una particolareggiata descrizione degli acquiferi di questo settore, è riportata nella zonizzazione idrogeologica del territorio di pianura della provincia d’Alessandria realizzata da Peloso e Ariati (1999): l’acquifero di Valenza è descritto come costituito, superficialmente, da depositi argilloso-limosi di spessore variabile e poco permeabili (fino a 5 m.); a questi segue in profondità un orizzonte permeabile costituito da sabbie con ghiaia e ghiaietto sede di una falda con caratteristiche di freaticità che presenta uno spessore variabile dai 5 agli 11 m.

3. Settore di pianura estesa

In questo settore l’acquifero superficiale è costituito da depositi fluviali e fluvio-glaciali d’età olocenica-pleistocenica: tali depositi sono di tipo continentale e riconducibili ad un ambiente

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fluviale ad alta energia. Essi sono caratterizzati da potenti livelli di ghiaie, da fini a grossolane, con intercalati livelli sabbiosi e limosi d’estensione ridotta.

Tale situazione è stratigraficamente riconducibile alla conformazione del substrato collinare sepolto: quest’ultimo, procedendo dai rilievi collinari verso Nord e NE, è stato, in epoca terziaria, dislocato e rapidamente abbassato, da una serie di lineamenti tettonici ad andamento circa parallelo al bordo collinare, fino a formare un ampio bacino subsidente. Un elemento strutturale, di una certa rilevanza ai fini idrogeologici, è la dorsale sepolta “Tortona – Montecastello” che separa idrogeologicamente il bacino Alessandrino dal resto della pianura (Pianura Tortonese).

Il bacino subsidente è stato, progressivamente e contemporaneamente alla sua formazione, colmato dai sedimenti fluviali e fluvio-glaciali provenienti dallo smantellamento della catena alpina. Tali depositi poggiano direttamente, in prossimità del bordo collinare, sui depositi marini terziari dell’edificio collinare e sono separati da quest’ultimi tramite contatti erosionali.

Allontanandosi dal bordo collinare, e procedendo verso Nord, i depositi alluvionali quaternari sono separati dal substrato marino da depositi fluvio-lacustri e deltizi noti come “Villanfranchiano”. Nei punti in cui i depositi, per motivi tettonici, s’infossano (strutture sinclinali) i depositi villafranchiani, appaiono particolarmente potenti, arrivando forse a superare i 200 m di spessore. Al contrario appaiono di spessore ridotto, e talora addirittura mancanti, in corrispondenza delle anticlinali (Bortolami et al., 1976).

L’acquifero, per quanto riguarda la sua configurazione, è del tipo monostrato localmente compartimentato, suddiviso in pratica da più orizzonti a bassa permeabilità ma che garantiscono sempre un’intercomunicabilità nelle condizioni di flusso (Fisso et al., 1987).

Nella zona tra Morano e Frassineto Po l’acquifero è invece caratterizzato da un materasso alluvionale avente spessori compresi tra i 118 metri e i 180-190: si tratta di una fitta successione di livelli ghiaiosi e ghiaioso-sabbiosi alternati con orizzonti argillosi ed argilloso sabbiosi. L’areale tra Bassignana ed il Torrente Scrivia ed in particolare la zona compresa tra Isola S. Antonio e Piovera, sono invece descritte come caratterizzate da un acquifero di spessore medio di 20 metri impostato in depositi sabbiosi-argillosi e argillosi-ghiaiosi passanti a sabbioso ghiaiosi.

Tale acquifero risulta protetto da una copertura argilloso-limosa potente da 3 a 5 m. Nel territorio comunale di Sale, infine, l’acquifero è caratterizzato da sedimenti alluvionali costituiti da sabbie e ghiaie con una potenza media di una decina di metri che poggiano su livelli argillosi del Pliocene.

3.4.2. Direzione e rapporti con l’idrografia superficiale della falda libera

Il Fiume Po e gli altri principali corsi d’acqua che solcano l’area di studio esercitano, in condizioni di portata ordinaria, un’azione di richiamo su entrambe le sponde nei confronti della falda

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superficiale; i fossi irrigui ed i canali non “incamiciati”, al contrario, alimentano la falda, in alcuni periodi in maniera significativa. Durante le piene stagionali o eccezionali il rapporto può eccezionalmente cambiare: i corsi d’acqua alimentano allora la falda o sono in equilibrio con essa. In destra idrografica del fiume Po la direzione della falda è orientata in direzione SSO-NNE ed è fortemente condizionata dalla presenza del settore collinare (Fig. 3.5).

Fig. 3.5 – Carta delle isopiezometriche della falda idrica a superficie libera (Modificato da Bove et al., Idrogeologia

della Pianura Piemontese, scala 1:100.000, Regione Piemonte, 2005)

Localmente, come a Sud di Casale M., la presenza di un evidente spartiacque sotterraneo (localizzabile tra Casale M. ed un’area posta tra Frassineto Po e Ticineto) fa sì che a settentrione i flussi si dirigono verso NE -NNE, mentre a meridione verso SE-SSE. Un altro spartiacque, orientato circa SO-NE, è individuabile nei pressi di Bassignana (AL), dove i flussi idrici dirigono rispettivamente verso il Po a NO e verso il Tanaro a NE (Fisso et al., 1987).

Per quanto concerne il settore pedecollinare, l’acquifero superficiale presenta anche una stretta relazione con le acque provenienti dalle falde idriche circolanti nelle formazioni calcareo – marnose del settore collinare. Queste acque alimentano direttamente la falda libera superficiale presente sulla destra orografica del fiume Po, apportandovi caratteristiche chimiche particolari (maggiore conducibilità elettrica, maggior contenuto in solfati e cloruri).

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3.4.3. Soggiacenza della falda libera e rapporti tra le falde

La falda libera presenta oscillazioni stagionali dei valori di soggiacenza rispetto al piano campagna anche se di modesta entità. Esse sono legate principalmente dovute alle precipitazioni atmosferiche e alle escursioni del pelo libero della corrente nei corsi d’acqua.

Le precipitazioni raggiungono, nell’area studiata, valori medi annui oscillanti tra 700 e 800 mm, concentrate prevalentemente nei periodi primaverili ed autunnali. Durante le piene annuali, i corsi d’acqua alimentano la falda e ne provocano un innalzamento (alimentazione di subalveo): l’effetto è maggiormente evidente in prossimità dei corsi d’acqua medesimi e decresce allontanandosi da essi in funzione delle caratteristiche degli acquiferi.

Il settore di pianura estesa è caratterizzato da una falda libera localizzata a modesta profondità rispetto al piano campagna (1-10 m), in stretta relazione con il deflusso idrico superficiale del Po, ma senza alcuna relazione con le acque del settore pedecollinare; il fiume Po costituisce, infatti, l’asse drenante dei due acquiferi e permette solo minimi scambi tra i due sistemi (Peloso & Ariati, 1999).

In alcuni casi, localmente, dove sono presenti litotipi impermeabili o semipermeabili a livello del piano campagna e spessori ridotti (Bassignana, Occimiano, Guazzora, Piovera ed altri), ci sono valori di soggiacenza oscillanti tra i 7 metri e gli 1-2 m e la falda può occasionalmente entrare in pressione (Peloso & Ariati, 1999).

La separazione tra il Complesso idrogeologico profondo e quello superficiale non è sempre continua, soprattutto a livello locale, dove i livelli impermeabili sono di limitato spessore o del tutto assenti a seguito delle eteropie di facies che caratterizzano il complesso sedimentario in questione. Secondo Fisso et al., (1987), vi è nel settore di pianura estesa una completa omogenizzazione tra i due acquiferi testimoniata tra l’altro dalla scarsa salienza della falda profonda.

3.4.4. Parametri idrodinamici degli acquiferi e della falda

I parametri idrodinamici degli acquiferi e delle falde presi in considerazione sono: portata specifica, coefficiente di permeabilità, gradiente idraulico e grado d’artesianesimo.

La portata specifica, cioè il rapporto tra la portata di un pozzo e l’abbassamento del livello dinamico dell’acqua nel pozzo a seguito dell’emungimento, varia sensibilmente nell’areale in esame; ad esempio i valori dei pozzi profondi, nel settore di pianura estesa sono compresi tra 1 e 10 l/s·m. In generale si possono individuare valori di permeabilità variabili tra 10-1 e 10-3 m/s, per il complesso ghiaioso e valori oscillanti tra 10-7 e 10-9 per i limi, mentre i valori osservati per i livelli sabbioso-ghiaiosi del “Villafranchiano” sono compresi tra 10-3 e 10-5.

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Il gradiente idraulico della falda, cioè il rapporto tra carico idraulico tra due punti posti ad una determinata distanza, presenta valori decrescenti lungo un asse orientato NO-SE. In termini assoluti, il gradiente idraulico oscilla tra 7·10–3 e 2·10–3 denotando un’elevata potenzialità dell’acquifero (Fisso et al., 1987).

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3.5. Metodi di campionamento

La fase di campionamento è stata effettuata in due distinti periodi. Il primo ha avuto luogo nella primavera del 2009, più precisamente tra l’8 e il 10 di giugno; durante questo campionamento sono stati effettuati 20 prelievi da relativi pozzi. A questo primo campionamento ne è seguito, nello stesso anno, uno successivo relativo a 5 acque superficiali dei maggiori corsi idrici della zona, cioè del Po, del Tanaro (due punti), del Bormida e dello Scrivia nel mese di ottobre.

La seconda fase si è svolta tra giugno e luglio del 2010; in questa seconda fase sono stati campionati 14 pozzi, di cui 8 già campionati nel 2009. Durante questa seconda fase sono stati raccolti, in prossimità dei pozzi, anche alcuni campioni di rocce (3) e sedimenti (10); nella figura 3.6 è mostrata la carta dei complessi idrogeologici dell’area e la localizzazione dei campionamenti. I campioni sono stati prelevati ai rubinetti di spillamento dei singoli pozzi con modalità differenziate in relazione alle caratteristiche degli analiti. I pozzi sottoposti a campionamento sono stati precedentemente spurgati al fine di garantire il completo ricambio della colonna d’acqua del pozzo e, quindi, assicurare che il campione fosse effettivamente rappresentativo della falda.

L’anno 2009 si è caratterizzato dal punto di vista della piovosità, per la provincia di Alessandria, come leggermente più piovoso (684 mm) se si tiene conto del fatto che in media la pioggia caduta tra il 1989 e il 2007 è stata di 584 mm/anno. Le precipitazioni registrate nell’anno 2009 sono state complessivamente, in tutta la regione superiori (+10%) alla media annuale del periodo di riferimento 1991-2005. Il mese di Aprile è stato il secondo tra i mesi di aprile più piovosi degli ultimi cinquant’anni, e la sua precipitazione media mensile di circa 300 mm è stata superata solo nell’aprile 1986, mentre durante il mese di maggio non si sono verificati eventi piovosi significativi (ARPA Piemonte).

Di seguito sono esposte sinteticamente le procedure di campionamento per le analisi successive. La determinazione della temperatura, del pH e dell’alcalinità sono state eseguite contemporaneamente alla fase di campionamento, il pH è stato determinato con un pH-metro con elettrodo a vetro DELTA OHM (Mod. HD2156.1) e soluzioni di calibrazione (4 < pH < 7) e l’alcalinità con un microdosimetro digitale e la titolazione di Na2CO3 0.1N con HCl 0.1N

Anioni, cationi e metalli: i campioni sono stati prelevati tal quali in bottigliette da 50 ml in PE per la determinazione di sodio e potassio, mentre l’aliquota (50 ml in bottiglietta in PE) per il calcio, il magnesio, la silice ed i metalli in traccia è stata filtrata (0.45µm) ed acidificata a pH ≤ 2 con HNO3 (1 ml), per la determinazione degli anioni i campioni, tal quali, sono stati raccolti in bottigliette in PET da 125 ml. Tutti i campioni sono stati conservati a 4°C e analizzati nell’arco di pochissimi gior

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Complessi Idrogeologici

Serie dei depositi Continentali Olocene - Pleistocene inf.

Complesso dei Depositi alluvionali olocenici Complesso dei Depositi fluviali-fluvioglaciale del Wurm Complesso dei Depositi fluviali-fluvioglaciale del Riss Complesso dei Depositi fluviali-fluvioglaciale del Mindel

Serie dei depositi di Transizione Pleistocene inf. - Pliocene medio

Complesso dei Depositi Villafranchiani Serie dei depositi marini

Pliocenici Pliocene Complesso delle Sabbie di Asti Complesso delle Argille di Lugagnano Complesso dei Depositi Indifferenziati del Pliocene

Serie dei Sedimenti Prepliocenici del Bacino Terziario Piemontese

Formazioni Conglomeratiche, Sabbiose-Arenecee, Marnoso-Argillose ed Evaporitiche Pliocene inf. – Eocene sup.

Fig. 3.6 – Complessi idrogeologici della pianura di Alessandria e localizzazione dei campionamenti

Complessi idrogeologici

della pianura di Alessandria e

localizzazione dei campionamenti

Modificato da Idrogeologia della Pianura Piemontese, scala 1:100.000, Regione Piemonte, 2005. Localizzazione dei campionamenti









Pozzo









Sorgente









Fiumi









Sedimenti









Rocce









BS









BF

















































Βcs



















BV









BM









BMd









PO









V7









V1









V2









IB









AS









G









CS









S









P









PM









M









RP









F









POv









Vag









Vv









SCM

















Fb Fe









Fd

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Deuterio e ossigeno-18: il campione è posto in bottiglie, pulite ed asciutte, in PET da 500 ml. Il contenitore è riempito completamente fino al tappo e tappato saldamente. L’obiettivo principale è che il campione sia protetto dall’evaporazione e dagli scambi con il vapore acqueo dell’atmosfera. Il campione non è stato filtrato e non è stato necessario che vi siano state aggiunte delle sostanze per la conservazione del campione.

Trizio e carbonio-13: nel caso del trizio la quantità di acqua necessaria per l’analisi dipende dall’età dell’acqua (un’acqua più vecchia contiene poco trizio) e dalla sensibilità richiesta dall’analisi. I campioni sono stati posti in bottiglie di PET da 1 litro senza che siano stati filtrati. Dopo essere state ben tappate, le bottiglie vengono conservate a 4°C.

Alfa e beta totale e 226Ra: l’aliquota necessaria a questo tipo di analisi è di 200 ml, il campione e contenuto all’interno di contenitori in PET dopo essere stato filtrato (0.45µ m) e analizzato nell’arco di pochissimi giorni.

Radon: il prelievo di radon avviene mediante una siringa, il campione d’acqua viene trasferito in una fiala di scintillazione in polietilene teflonato riempita per metà di un liquido scintillante immiscibile all’acqua; in questa fase si presta particolare attenzione al fine di evitare perdite di gas dal campione. Il radon, per breve agitazione, viene estratto in modo quantitativo e selettivo dal liquido scintillante e viene quindi misurato nello scintillatore nell’arco di 24 ore.

Isotopi dell’uranio: per la determinazione degli isotopi 234U e 238U sono necessari 10 litri di campione d’acqua; il contenitore, anche in questo caso è in polietilene (scelta volta a minimizzare i fenomeni di adesione dei soluti sulle pareti).

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3.6. Procedure analitiche di laboratorio

3.6.1. Determinazione degli anioni, dei cationi e degli elementi in traccia

Gli anioni sono stati determinati mediante cromatografia ionica, l’apparecchio utilizzato è un modello Dionex ICS 3000, in dotazione presso i laboratori dell’ARPA di Alessandria, con colonna analitica AS 19 e precolonna AG 19, l’autocampionatore AS è fornito di vials monouso con tappo filtrante. Il soppressore elettrochimico è provvisto di membrane ionoselettive ASRS 300 di 4 mm. L’eluente utilizzato è il KOH (20nM) in generazione automatica e il volume di iniezione è pari a 100 µl. Il limite di detezione è di 1 mg/l per tutti gli anioni. L’incertezza sulla misura, espressa attraverso il coefficiente di variazione CV % ossia 

     µ

σ %, dove σ è la deviazione standard e µ la

media, è mostrata nella tabella 3.1 per le relative concentrazioni.

Tab. 3.1 – Anioni: Precisione delle misure

Elementi Coeff. di variazione

Cloruri CV% = 1,73 a 9,93 ppm; CV% = 0,88 a 49,54 ppm; CV% = 0,87 a 90,16 ppm Nitrati CV% = 2,05 a 9,73 ppm; CV% = 0,89 a 49,13 ppm; CV% = 0,85 a 89,41 ppm Solfati CV% = 2,37 a 9,83 ppm; CV% = 0,93 a 48,96 ppm; CV% = 0,89 a 89,10 ppm

I cationi sono stati determinati anch’essi tramite cromatografia ionica, l’apparecchio utilizzato è il medesimo, con colonna analitica CS12A e precolonna CG12A, l’autocampionatore AS è fornito di vials monouso con tappo filtrante. Il soppressore elettrochimico è provvisto di membrane ionoselettive CSRS 300 di 4 mm. L’eluente utilizzato è MSA (acido metansolfonico, 20nM) in generazione automatica e il volume di iniezione ancora pari a 100 µl. I limiti di detezione sulla misura è di 1 mg/l per tutti i canioni. L’incertezza sulla misura, espressa ancora attraverso il coefficiente di variazione è mostrata nella tabella 3.2.

Tab. 3.2 – Cationi: Precisione delle misure

Elemento Coeff. di variazione

Sodio CV% = 2,04 a 2,28 ppm; CV% = 0,44 a 20,03 ppm; CV% = 0,48 a 28,06 ppm Potassio CV% = 1,57 a 2,11 ppm; CV% = 0,41 a 19,95 ppm; CV% = 0,39 a 28,05 ppm Magnesio CV% = 0,87 a 3,06 ppm; CV% = 0,36 a 30,79 ppm; CV% = 0,44 a 42,45 ppm Calcio CV% = 0,29 a 12,08 ppm; CV% = 0,24 a 56,40 ppm; CV% = 0,25 a 95,37 ppm

La determinazione dei metalli è stata ottenuta mediante ICP Ottico (APHA Standard Methods for examination of Water and Wastewater, 21 st ed. 2005, 3120 B), lo strumento utilizzato è il modello

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OES Optima 4300 FV, con nebulizzatore ad ultrasuoni, anche questo in dotazione dell’ARPA Alessandria. La taratura è ottenuta partendo da una soluzione madre di 10 ppm e poi si procede ad una progressiva diluizione dello standard, vengono utilizzati matracci da 50 ml in vetro classe A ed acidificati con 0,02 ml di acido nitrico. I criteri di accettabilità prevedono un coefficiente r2 > 0,99 e il controllo della curva che rientri al 5 % del valore medio del controllo, con eventuale ripetizione della curva di taratura.

I limiti di rivelabilità e le incertezze dei vari analiti sono mostrati in tabella 3.3.

Tab. 3.3 – Cationi: Limite di detezione delle misure ed incertezza

Elemento Limite di detenzione (µg/l) Incertezza

Al 25 5.97 % a 101.2 µg/l; 5.06 % a 210.5 µg/l; 1.96 % a 247.3 µg/l Fe 50 1.35 % a 101.3 µg/l; 1.23 % a 205.0 µg/l; 1.74 % a 303.2 µg/l Zn 50 3.49 % a 109.7 µg/l; 1.35 % a 202.7 µg/l; 1.48 % a 305.8 µg/l Cd 0.5 3.76 % a 2.5 µg/l; 3.13 % a 5.3 µg/l; 2.54 % a 8.2 µg/l Cu 5 5.61 % a 9.1 µg/l; 2.79 % a 54.3 µg/l; 3.81 % a 87.3 µg/l Mn 5 3.01 % a 10.98 µg/l; 3.53 % a 52.7 µg/l; 2.77 % a 84.3 µg/l Cr 5 1.81 % a 10.7 µg/l; 2.39 % a 53.3 µg/l; 3.45 % a 83.5 µg/l Ni 5 2.34 % a 11.9 µg/l; 2.53 % a 53.3 µg/l; 2.55 % a 84.7 µg/l Pb 2.5 1.50 % a 10.7 µg/l; 1.96 % a 25.9 µg/l; 3.23 % a 44.4 µg/l

3.6.2. Determinazione della silice

La misura della silice è eseguita presso i laboratori dell’IGG di Pisa mediante lo spettrofotometro di assorbimento UV VIS PERKIN-ELMER e con l’utilizzo del kit Visocolor ECO SiO2 (MACHERY-NAGEL). Le concentrazioni rilevabili sono dell’ordine di 0,1 ppm.

3.6.3. Determinazione del boro

Le concentrazioni di boro sono state determinate, anch’esse presso l’IGG di Pisa, tramite assorbimento in spettrofotometria (UV VIS PERKIN-ELMER) attraverso l’azometine-H (Trujillo et

al., 1982). Le concentrazioni rilevabili sono dell’ordine di 0,1 ppm e l’incertezza pari al 3%.

3.6.4. Determinazione dei valori di δδδδ18O

Per determinare i rapporti di abbondanza isotopica 18O/16O dei campioni d’acqua prelevati, e quindi il loro δ18O, si utilizza una tecnica di preparazione manuale connessa ad uno spettrometro di massa. Le misure di composizione isotopica dell’ossigeno delle acque si basano sul raggiungimento dell’equilibrio isotopico tra l’ossigeno della molecola d’acqua e quella dell’anidride carbonica, secondo la seguente reazione:

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100

C16O2 + H218O  C16O18O + H16O

Infatti il rapporto 18O/16O della CO2 che ha raggiunto l’equilibrio isotopico con l’H2O può essere messo in relazione allo stesso rapporto nell’H2O attraverso un fattore di frazionamento α definito come segue:

α = (18O/16O)CO2/(18O/16O)H2Oliq

Nei metodi di preparazione manuale è necessario conoscere l’esatto valore del fattore di frazionamento che a 25°C è 1.0142. Pertanto, dalla misura della composizione isotopica dell’ossigeno della CO2 si risale alla composizione isotopica dell’ossigeno nell’acqua in equilibrio con questa.

La preparazione avviene sistemando 3 cc di campione in contenitori in vetro connessi ad una linea avente ad un capo un sistema di aspirazione e dall’altro una bombola di CO2. Grazie al sistema di aspirazione e all’utilizzo di alcool ed azoto liquido che congela i campioni, si crea il vuoto in tutta la linea comprendendo l’interno dei contenitori. In seguito si introduce un flusso di CO2 che per diffusione si diffonderà anche all’interno dei campioni dove convoglieranno circa 16-18cc di CO2. Al fine di ottenere l’equilibrio isotopico, i contenitori stazionano almeno 12 ore in un bagno termostatico ad acqua a 25°C; un volta raggiunto l’equilibrio si passa alla linea di estrazione in cui si condensa la CO2 equilibrata con l’acqua che si analizza successivamente allo spettrometro di massa (modello MAT 252, marca Finningan Mat) in dotazione presso l’IGG di Pisa.

3.6.5. Determinazione dei valori di δδδδ2H

L’acqua è convertita quantitativamente a idrogeno tramite la reazione con il magnesio a 440°C: Mg + H2O → H2 + MgO

Si pesano sei porzioni di Mg da 1,6 g e si introducono in altrettanti portacampioni. Il magnesio implica una fase di pre-reazione al fine di eliminare tutta l’umidità che le piccole sfoglie di magnesio attraggono per loro natura. Per questo motivo si fanno degassare, per riscaldamento sottovuoto, i portacampioni mediante generatore di aria calda (70-80°C) per 15 minuti.

Si utilizza un portacampione che consente, tramite rimozione del tappo, l’introduzione del magnesio e quella successiva dell’acqua, costituendo in questo modo il reattore della riduzione dell’acqua a idrogeno. Per evitare che durante l’introduzione dell’acqua vi possano essere contaminazioni da parte dell’umidità atmosferica si utilizza un gas inerte (argon) esente da umidità. Dopo aver introdotto 10µl di campione d’acqua in ciascun portacampione (in genere 6), si congela l’acqua a -196°C con l’uso di tre vasi Dewar riempiti con azoto liquido, in modo da poter evacuare i portacampioni senza pericolo di evaporazione. La reazione viene fatta avvenire introducendo i portacampioni in un blocco di alluminio con sei fori da 12cm di profondità, riscaldato da una piastra

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elettrica di 200 Watt di potenza regolata da un termostato a 440°C per 30 minuti. Il blocco di reazione è progettato in modo che l’o-ring di tenuta del portacampione non venga termicamente sollecitato oltre il necessario, senza però consentire che l’acqua possa permanere condensata. Dopo 30 minuti la reazione è completa, e dopo circa un’ora, tempo necessario per permettere il raffreddamento dei portacampioni (temperatura ambiente), i campioni possono essere analizzati allo spettrometro di massa (marca Europa Scientific, modello GEO 2020), strumento in dotazione presso l’IGG di Pisa.

3.6.6. Determinazione dei valori di δδδδ13C

La determinazione della composizione isotopica del 13C disciolto in acqua (TDIC) prevede una preparazione del campione in modo da ottenere un’aliquota di CO2 gassosa analizzabile allo spettrometro di massa (Dual Inlet Mass Spectrometer; modello Thermo MAT 252). La quantità minima analizzabile è data dall’alcalinità del campione, solitamente maggiore di 1,4 meq/l di HCO3-.

Il campione acquoso viene introdotto in una ampolla di vetro da 200 cc che contiene 2 ml di acido ortofosforico al 90% opportunamente degassata mediante linea a vuoto.

L’acidificazione del campione d’acqua produce la CO2 che verrà successivamente estratta e purificata, attraverso una idonea linea a vuoto che conduce ad una trappola in cui avviene espansione del gas prodotto che può essere successivamente congelato alla temperatura dell’azoto liquido (-196.5°C); il processo permette di allontanare gli eventuali gas incondensabili.

In una seconda fase si sostituisce all’azoto liquido una miscela refrigerata a -80°C che permette la sublimazione della CO2 mantenendo l’acqua allo stato solido.

Il gas può essere fatto espandere nei relativi portacampioni e lì condensato ad opera dell’azoto liquido; al termine della condensazione il portacampione viene chiuso e portato alla successiva fase di misura della composizione isotopica. L’analisi del campione prevede quattro cicli di misura che alternano i flussi di gas del campione ad uno standard di riferimento (standard interno) per un totale di15 minuti; il dato così ottenuto viene conformato allo standard internazionale PDB.

L’incertezza media è valutabile intorno a ± 0,20 ‰.

3.6.7. Determinazione del trizio (3H)

Per la determinazione del trizio è necessario effettuare prima un arricchimento attraverso un processo elettrolitico. Esso consiste in una prima fase di distillazione a cui segue l’elettrolisi di 250 ml di campione con 2,5 g di perossido di sodio (Na2O2). Si collocano 12 celle (9 campioni e 3

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standard di riferimento) in un banco frigorifero collegate in serie ad un alimentatore a corrente costante; dopo circa 700 Ah il volume si riduce a circa 8 ml.

Le misure di trizio dei campioni arricchiti vengono poi effettuate mediante la tecnica della scintillazione liquida, utilizzando il Quantulus 1220 della Perkin Elmer (IGG di Pisa) come spettrometro a basso fondo. Le fiale di conteggio in polietilene vengono preparate aggiungendo 8 ml di campione a 12 ml di liquido scintillante e lasciate per 24 ore al buio, e successivamente contate per un tempo di conteggio pari a 240 minuti. La MAR tipica di queste misure è generalmente inferiore a 0,1 Bq/kg.

3.6.8. Determinazione delle attività Alfa e beta totale e 226Ra

Le misure di attività alfa e beta totale sono state eseguite tramite uno scintillatore liquido modello Quantulus della Perkin Elmer. Dopo aver concentrato 1:10 per evaporazione 200 ml di acqua precedentemente acidificata a pH 2,7, ne sono stati prelevati 8 ml e miscelati con 12 ml di liquido scintillante in fiale di polietilene teflonato a bassa diffusione da 20 ml. Il cocktail così ottenuto è stato conteggiato per 6 ore, lasciando trascorrere almeno un’ora dalla preparazione. Le Minime Attività Rivelabili (MAR) dell’ordine di 0,005 – 0,010 Bq/kg per l’attività alfa e di 0,036 – 0,050 Bq/kg per l’attività beta.

L’attività del 226Ra è stata determinata attraverso un metodo speditivo proposto da Salonen (1993) e Sanchez-Cabeza & Pujol (1998) che consiste nella misura del picco del 214Po prodotto dallo stesso radio dopo circa 25 giorni, cioè dopo che si è raggiunto l’equilibrio secolare tra i vari isotopi radiogenici prodotti dal decadimento del radio stesso e utilizzando il campione della fiale preparata per la determinazione alfa e beta totale. Le MAR in questo caso sono dell’ordine di 0,002 - 0,004 Bq/kg.

3.6.9. Determinazione del 222Rn

Il metodo si basa sull’estrazione del radon presente in un campione d’acqua attraverso la sua diffusione in un cocktail scintillante immiscibile all’acqua e sulla successiva misura delle emissioni alfa e beta del radon e dei suoi prodotti di decadimento a vita breve in condizioni di equilibrio con il progenitore 222Rn (UNI 11261); le misure sono effettuate mediante scintillatore liquido. Il prelievo del campione è effettuato sul posto attraverso una siringa a tenuta di gas, immergendo per alcuni centimetri l’ago nell’acqua raccolta in un contenitore di vetro dove l’erogazione dell’acqua avviene a flusso moderato, evitando turbolenze, e lasciando tracimare il liquido per qualche minuto.

Dopo il prelievo il campione è iniettato sul fondo della fiala precedentemente già contenente il liquido scintillante in modo che il campione risulti sempre coperto da almeno 1 cm di liquido

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scintillante. La misura è effettuata nell’arco di pochissimo tempo (poche ore) con uno scintillatore il cui modello è TRICARB 2900/TR Packard; lo strumento utilizzato è di proprietà di dell’ARPA di Alessandria. Il tempo di misura è di 60 minuti e la MAR è circa 1 Bq/kg.

3.6.10. Determinazione degli isotopi dell’uranio234U e 238U

Il metodo determina le attività di uranio e il loro rapporto 234U/238U o, analogamente, la concentrazione dei due isotopi 234U e 238U. Il contributo di 235U all’attività totale non è distinguibile, ma è comunque inferiore al 2,5% in condizioni di composizione naturale e al 5% in condizioni di arricchimento massimo consentito per usi civili (pari al 5% in peso).

La concentrazione totale di uranio viene determinata sulla base dei conteggi netti registrati nel canale di conteggio alfa dalla lettura di un campione, preparato estraendo l’uranio presente in acqua in fase organica, mediante scintillazione liquida a basso fondo; le misure sono eseguite tramite uno strumento modello Quantulus della Perkin Elmer dell’ARPA Piemonte. I campioni con residuo fisso inferiore a 0,5 g/l sono preconcentrati (1/10) per lenta evaporazione per aumentare la sensibilità del metodo. Lo scintillatore viene impostato nel punto di lavoro ottimale del circuito di separazione alfa/beta e l’efficienza del metodo (estrazione più rivelazione) viene determinata mediante la lettura di campioni standard. Il rapporto 234U/238U viene ricavato dalla separazione dei contributi dei due isotopi allo spettro alfa effettuata mediante l’ausilio di un programma di analisi spettrale; in particolare si utilizza una piattaforma software denominata Physical Analysis Workstation (PAW), sviluppato dal CERN di Ginevra (http://wwwasd.web.cern.ch/wwwasd/paw). I picchi degli isotopi 234U e 238U, sono interpolati mediante funzioni gaussiane definite in una routine fortran (ru.f) elaborata dal Dipartimento di Scienze a Tecnologia Avanzate dell’Università del Piemonte Orientale, con alcuni parametri liberi tra cui il rapporto 234U/238U che vengono determinati mediante la minimizzazione del χ2, utilizzando la routine Minuit. Il tempo di conteggio è di 1000 minuti, la minima attività rilevabile è dell’ordine di 10-3 Bq/kg.

3.6.11. Determinazione di 238U, 232Th e 40K nei campioni solidi (rocce e sedimenti)

Le concentrazioni di 238U, 232Th e 40K sono state effettuate mediante analisi in spettrometria a raggi

γ (GRS); lo strumento utilizzato, in dotazione nel laboratorio dell’Università del Piemonte Orientale

di Alessandria, è stato uno spettrometro gamma Ortec (Fig. 3.7). Le misurazioni si basano sul rilevamento della radiazione γ emessa nel decadimento del 214Bi (238U serie), 228Ac (232Th serie) e 40

K. I campioni di roccia e i sedimenti, del peso di 0,5-1 kg, dopo essere stati essiccati in stufa, sono stati pressati e sigillati in beaker di Marinelli.

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