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Capitolo 1 La legislazione Italiana nel campo dell’affidamento familiare

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Capitolo 1

La legislazione Italiana nel campo dell’affidamento familiare

1.1 Il termine affido

Fin dalle origini della lingua italiana “affidare” è sempre stato uno dei verbi più carichi da un punto di vista affettivo.

Il termine deriva dal latino medievale affidare, derivazione dal latino fidus (fidato), cioè lasciare con fiducia qualcosa o qualcuno alla cura di altri.1

Fulvio Scaparro,2 così conclude la prima Conferenza nazionale sull’affidamento

familiare organizzata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel dicembre 1997: “Quando non si raffredda entrando nell’uso burocratico, questo verbo indica una delle più antiche ed emotivamente ricche esperienze umane, quella di chi non potendo, per un tempo determinato o per sempre, provvedere a ciò che gli è caro, lo consegna alla cura, alla custodia, alla capacità di persona di fiducia. Quando il bene affidato è costituito da ciò che è, o dovrebbe essere, più prezioso, quando cioè si tratta di bambini, l’affidamento diventa un’esperienza che può segnare una vita. In positivo, se l’affidamento dimostra nei fatti, come spesso avviene, la possibilità di una efficace solidarietà tra esseri umani, è prova di responsabilità adulta, è occasione di crescita per bambini, genitori,

1 Sabatini Coletti, Dizionario di Italiano; e AA. VV., Dizionario Italiano, ed. Treccani, sub voce.

2 Psicologo e psicoterapeuta, giudice onorario fino al 1992 del Tribunale per i Minorenni e componente privato della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, Sezione Minori e Famiglia.

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affidatari. In negativo, se la fiducia che è alla base dell’affidamento viene tradita, per ignoranza o malafede di uomini e istituzioni. L’affidamento, infatti, è quasi sempre legato all'emergenza, a periodi di crisi nell’esistenza di chi affida, e sappiamo che nelle emergenze individuali, familiari e collettive, viene a galla il meglio e il peggio dell’essere umano.”3

Considerare il significato in sé del termine offre, a mio avviso, la strada maestra per poter garantire, al meglio, la realizzazione del progetto: immaginare da una parte l’adulto (o gli adulti) che consegnano “all’altrui cura” il loro figlio e avere chiaro che si tratta per loro di “materiale” prezioso, e che lo affidano perché, al momento, non hanno altre scelte ma starebbero meglio se potessero tenerlo con sé, chiarisce e orienta le azioni.

Nella mia esperienza personale non ho mai incontrato “cattivi genitori”4 la cui

inadeguatezza non sia il risultato, complesso, di sofferenze personali, insuccessi, trascuratezze, abusi, delusioni e dolori, sia su un piano psicologico, che affettivo e sociale. Le famiglie affidatarie talvolta leggono solo i comportamenti delle famiglie naturali, gli agiti, e questi, nella quasi totalità dei casi, evidenziano negligenza o opportunismo: interpretazioni che minano

3 Relazione tenuta alla prima Conferenza nazionale sull’affidamento familiare organizzata dalla Presidenza del consiglio dei ministri- Dipartimento Affari sociali a Reggio Calabria il 12/13 dicembre 1997.

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fortemente il clima dell’intervento, condizionando negativamente gli agiti in direzioni che scontentano tutti.

Lo sforzo costante degli operatori dovrà essere quello di ripensare, ogni volta, allo “scambio” insito nel significato etimologico del termine affido, e rimandarlo a tutti gli attori coinvolti: all’origine di ogni progetto di affido c’è un incontro tra chi dà e chi riceve; è un’interazione che, per sua natura, non viene soddisfatta da spiegazioni lineari di causa ed effetto, bensì, più facilmente, dalla complessità che contraddistingue le relazioni umane.

Riconoscere inoltre al bambino la “consegna”, consente una linearità, un continuum tra il prima e il dopo, permette allo stesso di mantenere la propria identità, di non vivere la devastante condizione di essere stato abbandonato, di avere le radici amputate.

Ho in mente, tra i tanti, una situazione specifica, conosciuta e presa in carico dal Centro Affidi di cui faccio parte, dove tali componenti si sono manifestate in modo piuttosto chiaro e, purtroppo, doloroso.

Claudia è una ragazza di diciannove anni, diplomata, iscritta al primo anno di università; bella, intelligente, serena. I suoi genitori l'hanno adottata quando aveva due anni, proviene dalla Russia: della sua identità non sa altro. I genitori, persone sensibili e benestanti, più volte le hanno offerto la disponibilità ad accompagnarla nel luogo in cui sono andati a prenderla, ma la ragazza ha sempre riferito di non sentirne il bisogno e di preferire altre mete, altri viaggi.

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I genitori, dopo averci tanto pensato, si avvicinano al percorso dell’affido: da lì a pochi mesi arriva nella loro casa Matteo. La conoscenza è graduale; il bambino, di otto anni, vive da mesi in una comunità educativa, dopo essere stato allontanato da casa per disposizione del giudice, in maniera coatta, “prelevato” da scuola. L'empatia tra Claudia e Matteo appare immediata; lui parla di lei chiamandola ”mia sorella”, lei ne apprezza le peculiarità, prova per lui grande tenerezza. Il bambino è amato, accudito, preso in grande considerazione dalla famiglia affidataria: dà e riceve molto.

Il piccolo incontra ogni quindici giorni i suoi genitori, persone non collaboranti ed oppositive, in un contesto protetto, alla presenza di un educatore. Quando torna dagli incontri è turbato, regredisce, dice che vuole tornare a casa, si rammarica che dovrà aspettare tanto prima di ridare dei baci alla mamma; porta i dolci che ha ricevuto dai genitori, durante la visita, e non vuole dividerli, li tratta come un tesoro; riferisce che il suo padre è molto più forte dell'affidatario. Ogni volta, per un paio di giorni, sembra un altro bambino: ostenta a Claudia, in maniera non intenzionale, la propria appartenenza, il suo contatto con le origini. La ragazza, pian piano, fa i conti con la propria storia; mai, prima di allora, la ferita si era fatta sentire. I genitori si ritrovano a dover gestire il cambiamento della figlia: esprime tristezza, fastidio nei confronti di Matteo, accusa i genitori per la scelta d'affido, vorrebbe solo tornare “al periodo in cui erano ancora in tre”.

L’esempio di questo caso, è solo uno dei tanti a dimostrazione del fatto che la costruzione di un’identità armoniosa passa attraverso il recupero della propria storia personale.5

Gli studi sullo sviluppo del mondo interno del bambino, affrontati dalle scienze sociali ed in particolare dalla psicologia, hanno infatti sfatato alcuni miti anche sull’adozione, fra cui l’illusione che fossero sufficienti l’amore e le cure di

5 G. O. Cesaro, Adozione “mite”: realtà e prospettive, in A. Giasanti, E. Rossi (a cura di), Affido forte e adozione mite: culture in trasformazione, ed. Franco Angeli, Milano 2007.

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adulti affettuosi per cancellare e riparare le ferite dell’abbandono e del maltrattamento subiti dai bambini abbandonati. E'stata così messa in discussione l’idea di concepire l’adozione come “seconda nascita”, come una sorta di “anno zero” da cui ripartire, lasciando alle spalle il passato e la propria storia. I dati provenienti dalla clinica hanno poi contribuito a confermare l’importanza di conoscere la propria vicenda pregressa e sfatare un altro tabù dell’adozione: quello relativo alla segretezza delle origini.

La normativa, nello specifico la L.149/01, all’articolo 24, comma 5, riconosce infatti la possibilità, per l’adottato che ha compiuto il venticinquesimo anno d’età, di conoscere la propria genesi; è consentito persino al compimento della maggiore età, ma devono esserci “gravi e comprovati motivi, attinenti alla sua salute psico-fisica”.6 Si riconosce così la rilevanza del passato, di trovare un

nuovo senso di appartenenza, quello biologico, che si affianca a quello adottivo, acquisito.

Il termine affidamento sembra assolutamente rispettoso di tale bisogno e facilita la comprensione di un mondo interno non soltanto capace, ma anche bisognoso, di accogliere in sé più storie e più affetti, differenti rappresentazioni delle figure genitoriali e, più in generale, un concetto di famiglia ben più ampio rispetto a quello cui si era abituati.7

6 L.149/01 art.24, comma 5. 7 A. Giasanti, E. Rossi, Op. cit.

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Mi sembra significativo, a tal proposito il caso sotto riportato:

Aurora ha quattro anni, da poco meno di due anni è in affidamento familiare. Non ha alcun rapporto con suo padre, che non ha mai chiesto di poterla incontrare, vede invece, una volta al mese, la madre, in uno spazio protetto, alla presenza di operatori. Gli incontri, sia per l'età della bambina, che per le caratteristiche della madre, si caratterizzano solo nel gioco: la bambina fa “la pappa” alla mamma, insieme costruiscono puzzle, si fanno fotografie, consumano la merenda. L’educatore, durante gli incontri, non esita a favorire scambi tra le due: rivolta alla bambina propone sempre la donna come “mamma Federica”; quando la bambina fa riferimento alla mamma affidataria chiamandola “mamma”, l’educatrice la corregge aggiungendo “mamma Laura”, favorendo quindi in lei la possibilità di integrare i suoi due mondi interni. Tale percorso è condiviso, ovviamente, in équipe: la famiglia affidataria è coinvolta, così come la madre naturale, nonostante le scarse risorse evidenziate. A distanza di tempo la bambina, al termine di un incontro con la “mamma Federica”, aiutata dalle dita della mano, sentenzia:”io allora ho due mamme!” e, nei giorni successivi, con naturalezza, quella “scoperta” diventa la propria realtà acquisita: ne parla alla scuola materna, nei contesti che frequenta, con naturalezza, serenità.

Ovviamente tale esempio non vuol banalizzare la complessità di quanto si sta trattando. Il bambino in affido deve far fronte a processi molto complessi su un piano psichico: deve sopravvivere al cambiamento di persone molto significative per lui, deve fare esperienza di abitudini nuove, di intimità sconosciute; spesso, quasi sempre, vi arriva ferito, sprovvisto di mezzi, con

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gravi disturbi dell'attaccamento. Ciò che lascia sconcertati, rispetto alle potenzialità umane, è che la maggior parte di questi bambini riesce poi a trovare il modo di gestire la transizione tra i vecchi e i nuovi adulti, procedendo in qualche modo lungo il proprio sviluppo.8

1.2 Le origini dell'affidamento: evoluzione storica e legislativa

L’allevamento di un bambino da una famiglia diversa da quella di origine, è stato praticato fin dall’antichità: Edipo, Mosè, Paride, ne sono la dimostrazione.9

Le storie degli stessi sono la testimonianza di come, fin dal più remoto passato, tale esperienza metta in connessione diversi bisogni: quello di essere accudito da parte del piccolo, quello di accudire da parte dell’adulto. Sono altresì l’esempio dell’importanza per l’essere umano, già dagli albori, della propria identità e della necessità, per chi vive tale realtà, di ritrovare le origini della propria nascita, sebbene, nella stragrande maggioranza dei casi, la “famiglia accogliente” riesca a svolgere il proprio compito.

In “Edipo Re” si assiste alla tragedia di Edipo che, ignaro delle sue origini, ucciderà Laio, il suo vero padre, senza sapere che lo era. Egli appare, nel corso di tutta l’opera, determinato a conoscere la propria identità, e non arretra nemmeno di fronte alla possibilità che la scoperta delle proprie origini possa

8 N. P. Rygaard, Il bambino abbandonato. Guida al trattamento dei disturbi dell'attaccamento, Ed. Giovanni Fioriti, 2007.

9 AA. VV., Centro Nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza, Istituto degli Innocenti, n. s. Agosto 2002.

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apparire come qualcosa di terribile. Analoghe istanze interne sembrano trovarsi, secondo la tradizione, in Mosè che, sebbene allevato alla corte del faraone in mezzo agli agi e alle ricchezze, sapendo di essere ebreo non dimentica il suo popolo. Infine Paride che, affidato ad un pastore che lo custodì come se fosse suo figlio, quando per volere degli dei seppe la sua vera identità, rientrò a Troia, accolto con tutti gli onori dal padre Priamo. Gli esempi sembrano mettere in luce che già gli antichi riflettevano sull’impossibilità, per l'essere umano, di avere una “seconda nascita” che escluda la prima totalmente.

Ovviamente le forme in cui l’accoglienza di “figli nati da altri” si è espressa sono state diverse a seconda dei momenti storici e dell’organizzazione sociale e istituzionale del periodo.

A causa della frammentarietà della sua disciplina e della congerie di norme che variamente lo disciplinavano, in Italia l’affidamento familiare è stato concepito in maniera diversa ed attuato scarsamente nella pratica. L’istituto, in effetti, non ha avuto, prima della L.184 del 1983, una vasta applicazione.

Nel nostro paese la forma più conosciuta e più largamente applicata di affido familiare fu l’affido a baliatico, ossia la pratica di allattare al seno un figlio altrui, per carità o dietro compenso. Fu concepito, principalmente, come mezzo di terapia fisica nella lotta contro la mortalità infantile e fu attuato come rimedio per salvare bambini molto piccoli che avevano bisogno di nutrimento o che, per

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la malattia dalla quale erano affetti, non potevano essere allevati in comunità o ospedali.10 Fu una pratica a cui si rivolsero anche le famiglie aristocratiche e

altoborghesi: assumevano balie da latte, donne quasi sempre contadine, che avevano da poco partorito e che lasciavano il loro bambino per andare a nutrire al seno un figlio di estranei. Nell’Italia di quei tempi - tra i primi del Novecento e la seconda guerra mondiale - nelle campagne si moriva di fame: andare a far la balia era una risorsa.

Tale forma “prese corpo” infatti a partire dal novecento: nel 1918 uscì un decreto luogotenenziale (n.1395 del 4 agosto), del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, recante il regolamento legislativo sul baliatico, che emanava provvedimenti per la tutela igienica di tale attività, specialmente nei riguardi della profilassi della sifilide. In ogni Comune l’ufficiale sanitario era tenuto a compilare un registro con l’elenco delle donne residenti autorizzate ad esercitare il baliatico, da fornire anche ai privati che ne facessero richiesta, chi prendeva un bambino a balia, anche se dal brefotrofio, doveva comunicare, sempre all’ufficiale sanitario, le generalità del minore e doveva presentarsi con lui ogni quindici giorni per far constatare lo stato di salute proprio e del

10 G. Manera, L'adozione e l'affidamento familiare nella dottrina e nella giurisprudenza, ed. Franco Angeli, Milano 2004.

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bambino, in relazione alla sifilide ed altre malattie infettive; il permesso ad aprire agenzie di collocamento di balie era rilasciata dal prefetto.11

Nel T.U. delle leggi sanitarie del 1934, (Regio Decreto n. 1265), vennero rifuse le norme del regolamento del 1918, relativo al baliatico: la sola preoccupazione del legislatore era di tipo sanitario; ci si occupava di appurare l’assenza di malattie, su un piano prettamente fisico.

Giulietta Ascoli, giornalista e redattrice di programmi televisivi, in un delizioso libro che si intitola “Balie”, riporta le testimonianze di diversi personaggi, per lo più aristocratici o borghesi, ma anche studiosi, politici, uomini conosciuti per le loro notevoli doti professionali, che hanno fatto esperienza di baliatico. Tra questi spicca Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile in Italia. E' l’unico, in questa rassegna, a non aver avuto una balia in casa, ma a essere mandato a balia: un'esperienza durata quattro, cinque anni, prima per l’allattamento, poi proseguita. Racconta: “Mio padre, nel 1913, lavorava come operaio […]. Abitava in una baracca, con mia madre e mia sorella. […] io non potevo restare con loro perché, in quel paese dove abitavamo, d'inverno si arrivava anche a venti gradi sottozero. […] Quella della balia è stata la mia seconda famiglia. […] Tutto il mio amore per gli alberi, per la campagna, provengono da lì, da quella casa della balia, e sono i ricordi più belli della mia vita.”12

Oltre ad emozionare, gli spaccati di vita riportati, ben testimoniano quanto incida, nell’identità degli individui, fare esperienza di accudimento da parte di altre persone oltre i genitori. Tale conoscenza, a mio avviso, non può essere

11 C. Bellocchio Brambilla, Nascere senza venire alla luce, ed. Franco Angeli, Milano 2010. 12 G. Ascoli, Balie, ed. Sellerio, Palermo 1994, pag. 27.

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tralasciata dagli addetti ai lavori: è una preziosa eredità a cui dobbiamo attingere per lavorare efficacemente con i bambini e le loro famiglie, sia nell’operatività professionale che nella riflessione teorica.

Proseguendo in questo breve excursus storico, si può constatare che qualcosa che si avvicina all’affidamento familiare, si trovava già nel regio decreto 15 aprile 1926 n. 718, regolamento di esecuzione della legge 10 dicembre del 1925 n. 2277, istitutiva dell’Opera nazionale maternità e infanzia: l’articolo 176 di tale disposizione, prevedeva infatti, tra le forme di assistenza dei fanciulli minori dei dodici anni compiuti, il collocamento “presso famiglie, possibilmente abitanti in campagna, che offrano serie garanzie di onestà, laboriosità, attitudini educative e amorevolezza verso i bambini e dispongano inoltre di una abitazione conveniente e di mezzi economici sufficienti per provvedere al mantenimento dei fanciulli ricevuti in consegna”.13

Dal canto suo, il codice civile del 1942, che dedicava un apposito titolo del libro primo ai minori affidati alla pubblica assistenza, stabiliva, nell’articolo 404, che l’istituto di pubblica assistenza aveva il potere di affidare i minori “a persone di fiducia”.

In base a quella normativa, gli affidatari dovevano considerare e trattare il minore affidato “come proprio figlio”, curarne l’educazione, l’istruzione e il

13 Per i fanciulli superiori ai 12 anni era prevista la collocazione come apprendisti presso un’azienda agricola o laboratorio industriale.

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mantenimento; era previsto, su richiesta, un assegno mensile in loro favore. Solo in via subordinata era ammesso il ricovero in strutture assistenziali, pensate comunque come “istituzioni rurali” distribuite in “piccoli gruppi organizzati sul tipo della famiglia”, e solo in estremo subordine e in loro mancanza era consentito il ricovero dei minori in istituto (già presente nell'art. 177 RD 718/1926). Dopo tre anni di affidamento gli affidatari potevano chiedere al giudice tutelare l’affiliazione del minore in base alle norme del codice civile (articoli 404-413). L’affiliazione attribuiva all’affiliante la potestà genitoriale sul minore stesso e, a quest’ultimo, il cognome dell’affiliante.

Si trattava insomma di una specie di piccola adozione, che dava veste e stabilità giuridica ai legami affettivi insorti con l’affidamento.14

Con l’affiliazione il minore non acquistava però lo status di figlio adottivo, né otteneva diritti successori o il diritto agli alimenti e neppure la certezza di una continuità ed irreversibilità del rapporto affettivo instaurato; infatti la possibilità che l’affiliazione venisse revocata per il solo fatto di una “sopravvenuta impossibilità di continuare a provvedere all’allevamento del minore” o per “traviamento del minore” era sempre incombente. Con questo istituto, nonostante si riconosca che il miglior ambiente di vita di un minore è la famiglia, vi è, in primis, una tutela degli interessi della famiglia dell’affiliante, in

14 L. Fadiga, L'affidamento familiare, in “Rassegna bibliografica Infanzia e Adolescenza”, A.6, n.2, aprile-giugno 2005, Istituto degli Innocenti, pag.5.

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particolare dei figli legittimi, che non avrebbero perso, ad esempio, la loro piena eredità.15

La Costituzione repubblicana poi, in vigore dal 1948, a differenza dello Statuto Albertino, che ignorava la posizione del minore e le sue esigenze, individua quelle situazioni che meritano una particolare tutela, riconoscendo attenzione al minore, alla sua famiglia e dando impulso ad un sistema di promozione e protezione della sua personalità.16 Ed è in questo senso che devono essere letti

gli articoli 2 e 3 della Costituzione: il primo che afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, ed il secondo che sancisce il compito della Repubblica di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, comprendendo quindi anche il minore. Di particolare interesse per la trattazione è la disposizione dell’articolo 30, comma 1, della Costituzione, che sottolinea che i genitori hanno prima un dovere e poi un diritto nell’educazione della prole; inoltre i diritti dei genitori non sono sui figli, ma per i figli, quindi funzionali allo sviluppo della loro personalità. La norma riconosce un autentico diritto al minore e non una mera aspettativa allo svolgimento di una funzione essenziale per la sua crescita. Il dovere dei genitori invece viene esteso ugualmente anche ai figli nati fuori dal

15www.altrodirittto.unifi.it/minori/dibari/cap1.htm.

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matrimonio, affermando quindi il principio di non discriminazione tra figli legittimi e figli naturali.

Il secondo comma è quello che riguarda più strettamente l’impegno dei servizi preposti alla tutela dell’infanzia: impone infatti allo Stato di intervenire in quelle situazioni in cui le carenze dei genitori sono tali da non corrispondere ad una adeguata crescita del minore. Le forme prospettate sono diverse: dagli interventi più contenuti, di supporto o integrativi alla funzione genitoriale, a quelli più gravosi, di sostituzione temporanea o permanente.

Si può quindi affermare che l’articolo 30 della Costituzione, si ricollega ai già citati articoli 2 e 3 della stessa norma, cioè al riconoscimento dei diritti inviolabili di tutti gli uomini, della loro pari dignità, del rispetto del pieno sviluppo della personalità e dei doveri di solidarietà.17

Dovranno comunque passare svariati anni prima che tali concetti vengano assorbiti dalla cultura dominante: la legge 431 del 1967, che introduce l’adozione speciale con effetti legittimanti, sembra andare in quella direzione e rispondere alle istanze di una società più sensibile ai diritti dei minori, soprattutto di quelli, ben numerosi, che erano rinchiusi negli istituti. Grande ruolo deve essere senz’altro attribuito alle convenzioni internazionali a tutela dell’infanzia: i giudici dei tribunali per i minorenni e gli operatori dei servizi

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sociali, ciascuno per la propria competenza, sviluppano un’attenzione agli interessi dei minori, così l’adozione a coppie del ceto medio con figli, e la conseguente rottura dei legami con la famiglia naturale considerata inadeguata, è la logica conseguente all’applicazione del nuovo istituto.18

Alfredo Carlo Moro, commentando tale legge a distanza di alcuni anni dalla sua promulgazione, osserva: “è stata una grande conquista di civiltà, nel senso che, per la prima volta, si è riconosciuto in concreto, e non solo in astratto, il diritto del minore ad avere una famiglia che possa educarlo nell’affetto”.19

Si comincia allora, per la prima volta, a parlare di volontà di dare ad un minore una famiglia, non a una famiglia un minore. Importante è sottolineare una grandissima novità: l’adozione, a partire da tale normativa, pone fine ad ogni rapporto giuridico con la famiglia d’origine e inserisce il minore a pieno titolo nella nuova famiglia in qualità di figlio legittimo, assumendone quindi il cognome. Con questa disciplina lo Stato sancisce per la prima volta l’adozione come genitorialità piena e annulla ogni preminenza del vincolo di sangue sul vincolo d’affetto creatosi con l’adozione.

18 A. Giasanti, E. Rossi (a cura di) Affido forte e adozione mite:culture in trasformazione, Franco Angeli, Milano 2007. 19 A. C. Moro, L'adozione internazionale, in “Il Foro Italiano”, Roma 1974, fasc. V.

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1.3 L’affidamento familiare nella legge del 4 maggio 1983, n.184

L’istituto giuridico dell'affidamento familiare è regolamentato dalla legge 184/83, Diritto del minore ad una famiglia.

E’ la prima legge organica sull’affidamento familiare in Italia; ha il grande merito di mettere ordine in una materia che, fino ad allora, era frammentata e confusa e, non di meno, sancisce l’importanza per il bambino di essere educato nell’ambito della propria famiglia.

È altamente significativo che la disciplina dell’affidamento sia stata anteposta “graficamente”, a livello espositivo, a quella dell’adozione; probabilmente, ad un iniziale entusiasmo nei confronti dell’adozione speciale, era subentrato un periodo di riflessione. La coscienza sociale aveva nel corso degli anni maturato il convincimento che i problemi del minore dovevano, se possibile, essere risolti nell’ambito della famiglia di sangue, anche e soprattutto con il sostegno dei servizi sociali, ed era opinione comune che l’adozione non costituiva più una risposta esauriente al problema del disagio giovanile.

Si assisteva inoltre anche alla pratica dei servizi locali ad avere una scarsa attitudine a segnalare situazioni di abbandono; questi non accettavano culturalmente l’ipotesi dell’irrimediabilità della situazione e, quindi, la necessità di un intervento drastico e senza via di ritorno. Inoltre, la procedura di adottabilità si rivelava sempre più lunga e gli innumerevoli istituti sparsi per il

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territorio erano colmi di migliaia di minori in stato di semiabbandono, quindi meno tutelati di quelli in abbandono pieno.

La soluzione di questi problemi parve essere quella di una famiglia aperta, da affiancarsi a quella di sangue temporaneamente inadeguata, animata da vocazione solidaristica e disposta ad operare senza alcuna pretesa di impossessamento.

In precedenza, l’istituto dell’affidamento era stato trascurato anche per la lacunosità e la dispersione delle fonti legislative, disseminate in varie leggi speciali.

Si trattava di dare una regolamentazione organica ad una pratica assistenziale abbastanza diffusa, quella di garantire il sostentamento e l’educazione di un minore, temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo.20

Il legislatore della legge 184/83 ha certamente recepito tale clima culturale e, in particolare, le risultanze degli studi sull’attaccamento di John Bowlby (1907-1990), che mettono in luce gli aspetti che caratterizzano il legame madre-bambino e quelli legati alla realizzazione dei legami affettivi all’interno della famiglia.21 Profonda influenza l’hanno certamente avuta anche hanno i lavori

precedenti di Renè Spitz (1887-1974), che valorizzò il ruolo della madre tramite

20 http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/dibari/cap1.htm. 21 J. Bowlby, Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano 1999.

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l’osservazione diretta dell’interazione madre-bambino22 e il pensiero di Melanie

Klein (1882-1960), nel quale la relazione con la madre riveste un ruolo centrale e determinante per lo sviluppo psichico del bambino e, quindi, dell’adulto.23

Senza dubbio, un peso, nella formulazione della normativa, l’ha avuta anche l’economia degli anni '80 che assiste, in quel periodo, ad una ripresa: è arrivata a compimento la fase di industrializzazione ed è cominciata la terziarizzazione dell’economia italiana, con lo sviluppo dei servizi bancari, assicurativi, commerciali, finanziari e della comunicazione; il reddito medio pro capite degli italiani non è distante da quello degli altri paesi europei.

E' quello un periodo fiorente anche per l’organizzazione dei servizi. Probabilmente tale prospettiva ha alimentato la costruzione di un modello di protezione dell’infanzia basato su un lavoro ad ampio raggio, multidisciplinare, organizzato con servizi ad hoc, ad oggi ancora auspicabile, da plaudire.

Stefano Cirillo infatti, nel suo testo Famiglie in crisi e affido familiare. Guida per gli operatori,24 elaborato a pochi anni di distanza dalla promulgazione della

legge 184, delinea la necessità, nel progetto d’affido, di una molteplicità di operatori. Indica quindi come indispensabile, per i servizi che si occupano di affidamento familiare, una esplicita “spartizione di campi”,25 così distinti: da una

22 R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti Editore, Firenze 2008. 23 M. Klein, Il mondo interno del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

24 S. Cirillo, Famiglie in crisi e affido familiare. Guida per gli operatori, NIS, La Nuova Italia Scientifica, Roma1986. 25 S. Cirillo, Famiglie cit., pag.122.

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parte i servizi che si occupano della famiglia naturale e che operano per il suo recupero (territoriali e specialistici) e dall’altra il servizio che si cura delle famiglie affidatarie, reperendole, informandole, sostenendole.

Gli operatori del primo “gruppo” fanno parte di servizi diversi: il Servizio Sociale Territoriale, quale servizio a cui compete la tutela giuridica del minore, il Dipartimento di Salute Mentale, il Servizio Territoriale per le Dipendenze, il Servizio di Neuropsichiatria Infantile e, all’occorrenza, anche servizi del terzo settore, come il personale di comunità educative o di centri di aggregazione; ovviamente anche la scuola riveste un ruolo preminente. Gli operatori del secondo gruppo sono invece, prevalentemente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore: tali risorse professionali costituiscono il Centro Affidi. Di questo argomento, comunque, tratterò poi in maniera più esaustiva in seguito, riportando anche ciò che prevede la legge sui profili professionali da impiegare nell’organizzazione dei servizi di affidamento familiare, qui mi preme sottolineare lo slancio ottimista, esortativo, che viene dedicato alla progettazione di servizi che si dedicheranno al recupero della “famiglia in crisi”. L’intervento, in tutto il testo, assume la connotazione di un progetto di recupero e, nel rispetto della normativa, è pensato come temporaneo, transitorio.

L’autore, che attribuisce gran parte dei fallimenti all’operatore che agisce in solitudine e senza confronto di fronte a decisioni enormemente difficili da

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assumere, sembra trasmettere fiducia, linfa vitale ai servizi, quando afferma: “Adesso molte cose stanno cambiando, sia nella cultura e nella prassi dei servizi socio-sanitari, sia nell’integrazione tra i servizi e la magistratura, grazie anche alla cornice chiarificatrice fornita dalla nuova legge.” 26

Già nell’introduzione l’autore chiarisce la finalità del suo elaborato; precisa infatti: “Questo lavoro è destinato agli operatori psicosociali che intendono utilizzare l’affidamento familiare come uno degli strumenti di aiuto ad un minore in difficoltà e alla sua famiglia, conformemente alle recenti disposizioni legislative in materia (legge n.184 del 4 maggio 1983).”27 Il punto focale di tutto

il manuale è l’impegno professionale volto al recupero della famiglia socialmente problematica a cui viene allontanato il minore.

L’entusiasmo che trasmette agli operatori, come già accennato, è consistente e permea tutto il testo; egli si espone in maniera chiara e propositiva, arrivando a riferire che è sua convinzione che i tempi siano maturi per considerare come un reale punto di partenza il lavoro con la famiglia d’origine. L’alternativa, a suo avviso, è un intervento assistenzialistico e cronico, che snaturerebbe l’affido come è stato previsto dalla legge 184/83.

Le campagne pubblicitarie, i depliant e tutti i lavori successivi, messi in atto dai servizi a partire da quegli anni e fino ai giorni nostri, in parte incuranti dei

26 S. Cirillo, Famiglie cit., pag.69. 27 S. Cirillo, Famiglie cit., pag. 9.

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risultati quantitativi a livello nazionale, che hanno sempre messo in luce che la gran parte degli affidi proseguiva oltre i due anni e che, probabilmente, il “mito” della temporaneità era da rivedere, sottolineano che l’affidamento familiare è un progetto a termine e che il minore deve far rientro nella propria famiglia naturale.

Viene infatti prevista, con la legge 184, una possibile data di scadenza, dell’affido, che rappresenta il periodo ipotizzato come necessario alla famiglia naturale per il superamento delle sue problematiche oppure “qualora la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al minore”.28

Accanto a tali visioni più ottimistiche, non sono comunque mancate, anche a poca distanza dall’emanazione della legge sull’affido, osservazioni critiche e riflessioni comunque molto condivisibili ed ancora attuali.

Fulvio Uccella, magistrato della Procura generale della Corte Suprema di Cassazione, nell'anno 1984, in un testo di commento alla normativa qui in esame, già metteva in guardia su quanto poi, in definitiva, si è avverato, e cioè che tale legge non avrebbe sviluppato il suo potenziale senza un’adeguata legislazione assistenziale e sui servizi socio-assistenziali;29 aggiungerei:

soprattutto in termini di risorse attribuite.

28 L.184/83, art.4, comma 4.

29 F. Uccella, Il minore tra affidamento familiare e adozione. Commento alla Legge 4 maggio 1983 n.184, Editrice Ianua, Roma 1984.

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Sembra infatti che, invece di aprire al minore le speranze per una famiglia di affetti, incentivi ogni strumento giuridico per lasciarlo nella famiglia “di sangue”.

Il magistrato precisa infatti: ”Si è avuta una diversa prospettazione dell’interesse del minore: non più il diritto del minore ad avere una famiglia in cui sia capace di estrinsecare tutta la sua personalità, ma il diritto del minore ad essere educato nel gruppo di origine, senza però apprestare a questo il sostegno necessario e, direbbesi, fisiologico dal punto cosiddetto assistenziale e sociale. Questa mancata correlazione con la normativa comunitario-assistenziale fa si che la nuova legge, più che rappresentare una apertura solidaristica alle esigenze dei minori, possa essere gestita come l’apprestamento da parte dello stato di strumenti surrogatori alla famiglia biologica […]. In effetti, con questa normativa, sembra che, più che al diritto del minore, si è pensato al diritto dei genitori sul minore e si è stati attenti a limitarne l’espropriazione da parte della comunità, ponendo strumenti ed ostacoli giuridici tali da scoraggiare le istanze di adozione, di realizzazione di quel complesso di interessi di cui il minore è portatore. […] L’indirizzo ispiratore della legge attuale sembra maggiormente accentuare la sussidiarietà e la surrogazione dell’affidamento familiare, dell’adozione sia legittimante che, per così dire, ordinaria, con un intenzione che non risulta esplicitata, ma che sembra aleggiare, quasi in sottofondo, e cioè con

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la necessità improcrastinabile di un congruo appoggio extragiudiziario alla famiglia, onde consentire effettivamente al minore di restare nel suo nucleo d’origine.”30

In effetti, l’esaltazione del gruppo biologico appare retorico e mistificante, in assenza di valide e sostanziali politiche del lavoro, della casa, di inclusione sociale e di potenziamento dei servizi deputati al sostegno e alla cura.

La famiglia naturale, sostiene il giudice nel suo interessante elaborato, dovrebbe infatti trovare tutela, promozione e sostegno, qualora “il carattere di società necessaria coincida con quello funzionale di formazione sociale.”31 Nel

momento invece che i genitori non adempiono a questo compito e scelgono, magari senza una precisa volontà, ma in conseguenza a vissuti personali o per situazioni sociali conseguenti, stili di vita che non collimano con il soddisfacimento dei diritti della persona-minore, insistere sul recupero a tutti i costi di tale organismo, assume il significato di una deresponsabilizzazione dell’intera comunità e, a livello giuridico, si disconosce l’opportunità di altri interventi, più coraggiosi e capaci “di non lasciare in solitudine colui che già si trova a vivere solo.”32

30 F. Uccella, Op. cit., pag.16. 31 F. Uccella, Op. cit., pag.17. 32 F. Uccella, Op. cit., pag.17.

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1.4 La modifica alla legge 184/83: legge 28 marzo 2001 n.149 e successive disposizioni normative nazionali.

La legge 149, che modifica la legge precedente sull’affido e l’adozione, all’articolo 1, comma 4, chiarisce ciò che già è implicito nel dettame legislativo del 1983: solo quando la famiglia biologica non è in grado di assolvere le sue funzioni si applicano gli istituti dell’affido e dell’adozione. L'articolo 2 sottolinea che, l’inadeguatezza dell’ambiente familiare, tale da determinare il collocamento del bambino in ambiente diverso dal proprio, dovrà essere valutata e presente dopo aver attivato quegli interventi di sostegno ed aiuto previsti all’articolo precedente. Il comma 3, dello stesso articolo, prevede che, in caso di necessità ed urgenza, l’affidamento possa essere disposto anche senza porre in essere tali azioni di supporto, ma è chiaro che dovranno esserci chiare e oggettive motivazioni che determinano l'impellenza.

La normativa del 2001 sancisce anche la chiusura degli istituti minorili, che ha avuto come data ultima la fine del 2006; in sintesi, per i minori la cui famiglia versa in difficoltà temporanea, il legislatore prevede, principalmente, un “lavoro” di sostegno al nucleo, qualora questo risulti insufficiente, l’affidamento presso una famiglia e solo in terz’ordine, quando non si possa fare altrimenti, l'inserimento in una comunità di tipo familiare.

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E' il servizio sociale locale, cioè l’ente gestore degli interventi assistenziali (Comune, consorzio di Comuni, Comunità Montane, Province, Aziende Usl, ecc.), che dispone l'affidamento.

Laddove vi è il consenso dei genitori o del tutore, l’affidamento è consensuale ed è reso esecutivo dal giudice tutelare; non può durare più di due anni ma è prorogabile dal Tribunale per i Minorenni qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore. Già in questo articolo si intravede un cambiamento di tendenza importante: dal prevedere che l’affido termini “qualora la prosecuzione dello stesso rechi pregiudizio al minore”, all’ipotesi che terminare l’affido potrebbe essere negativo per il bambino. Probabilmente, dal 1984 al 2001, il legislatore ha avuto la possibilità di “vedere” la realizzazione di un cospicuo numero di affidamenti familiari e di acquisire così maggiori informazioni circa la reale esperienza che vivono i bambini in affidamento familiare.

Quando manca l’assenso dei genitori o del tutore, si ha un affido di tipo giudiziale: provvede infatti il Tribunale per i Minorenni applicando gli articoli 330 e seguenti del Codice Civile.

Il servizio sociale detiene la responsabilità del progetto assistenziale nei confronti della famiglia d’origine e la vigilanza durante l’affidamento; deve inoltre presentare una relazione semestrale che contenga notizie su tutti i

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soggetti coinvolti: il bambino in primis, la famiglia affidataria nonché la famiglia d'origine.

La normativa del 2001 richiama, così come la legge 184, il concetto di temporaneità, di progetto “a termine”: l'articolo 4, comma 5, dispone che l'affidamento cessi, con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto, quando siano state superate le temporanee difficoltà della famiglia d'origine. L’accezione di “temporaneità”, va dunque intesa nel senso di tutto il tempo necessario affinché la condizione di rischio del minore cessi e deve essere funzionale all'esercizio del diritto fondamentale del bambino di avere accanto figure di riferimento stabili e capaci di realizzare nei suoi confronti un ruolo genitoriale ed educativo corretto e che soddisfi i suoi bisogni.33

Il principio secondo cui la legge prevede, come già ricordato in precedenza, che l’affidamento possa essere disposto in caso di necessità e urgenza anche senza porre in essere gli interventi di aiuto e sostegno alla famiglia d’origine, considera la fattispecie, purtroppo piuttosto consistente, in cui questi siano ritenuti inutili o, peggio, dannosi, vista la gravità della situazione della famiglia d’origine; analogo concetto sembra riproporsi nel momento in cui, pur prevedendo il termine massimo di ventiquattro mesi, considera anche la

33 Quaderni del Centro Nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza, Ogni bambino ha diritto ad una famiglia. Lo stato di attuazione della legge 149/2001, Firenze, Istituto degli Innocenti 2006.

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possibilità di una deroga, all’interno di una cornice ben delimitata, che è quella della magistratura minorile.

La vera forza della legge, quella a mio avviso forse non ancora compresa in maniera piena, consiste proprio nella possibilità di dare spazio a sperimentazioni innovative, in grado di rendere effettivo il diritto di ogni bambino ad una famiglia adeguata e protettiva.

Sono moltissime infatti, ed è questo il concetto su cui mi soffermerò più e più volte, perché è il “cuore” di tutta la trattazione, le situazioni familiari in cui le problematiche che hanno portato all’affidamento del figlio non si risolvono in breve tempo né, d’altra parte, vi sono le condizioni per aprire una procedura di adottabilità.

E' in questo contesto che concepire in termini dicotomici l’affido e l’adozione può assumere significati preoccupanti e non “sintonizzarsi con il bisogno di appartenenza e stabilità che caratterizza quei minori che, destinati all’affido, non potranno far ritorno nelle loro famiglie d’origine.”34 Forse è importante ricordare

che ciò che caratterizza l’affido, rispetto all’adozione, non è tanto la temporaneità quanto il mantenimento dei rapporti minore-famiglia d’origine.

34 M. Chistolini, Il percorso di conoscenza della famiglia candidata all’affido, in Nuove sfide per l'affido. Teorie e prassi, a cura del CAM, Franco Angeli, Milano 2012, pag.127.

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Francesca Ichino Pellizzi35, in una riflessione in merito alla legge 149/01,

relativamente all’affidamento familiare, fa notare che tale normativa “non ha corretto con sufficiente vigore e nei punti nevralgici, gli errori e le lacune; l’impressione è che la nuova legge sia stata scritta e promulgata da persone fornite di notizie teoriche, che non hanno mai fatto un affido in vita loro”.36

Analizza infatti una serie di punti nevralgici della normativa: il ruolo dei giudici tutelari, lo scarso impegno di alcune (ancora molte) amministrazioni locali circa la promozione e la valorizzazione dell’affidamento familiare, l’insufficiente investimento in tema di recupero delle famiglie d'origine. Partendo dal primo punto, e cioè dal ruolo del giudice tutelare, fa riflettere sul fatto che il legislatore non sembra essersi domandato perché la stragrande maggioranza degli affidamenti in corso sia di tipo giudiziario, perciò disposti dal Tribunale per i Minorenni e che gli affidi consensuali, ratificati da giudici tutelari, che da svariate ricerche risultano disinteressati alla tematica dell’affido, siano pochissimi. Rispetto invece ai punti successivi, Ichino Pellizzi, parla proprio di scarso rispetto della legge da parte di alcune amministrazioni locali, che effettuano ricoveri in strutture educative in una quantità di situazioni in cui sarebbe stato possibile, anzi per legge obbligatorio, l’inserimento in affido, ed

35 Avvocato, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano, membro del comitato scientifico del CAM (Centro Ausiliario Minorile).

36 F. Ichino Pellizzi, Alcune riflessioni in merito alla Legge 149/01 sull’affidamento familiare, in I bambini e gli adolescenti in affidamento familiare. Rassegna tematica e riscontri empirici, Firenze, Istituto degli Innocenti, Agosto 2002, pag.9.

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inoltre ben poco si impegnano a garantire che il lavoro con la famiglia, in termini di risorse professionali da investire sulla cura dei genitori, sia garantito. E' pur vero che la legge non prevede un finanziamento economico ed anche rispetto al contributo assegnato agli affidatari dalle singole amministrazioni locali, “espressione più vaga e meno impegnativa di così davvero il legislatore non poteva trovare”;37 in effetti, all’articolo 5, comma 4, recita: “lo Stato, le

Regioni, gli enti locali, nell'ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci, intervengono con misure di sostegno e di aiuto economico in favore della famiglia affidataria”.38

Oltre ai punti di debolezza, la legge 149/01 contiene elementi positivi ed introduce componenti innovative. L’articolo 5, primo comma, prevede, ad esempio, che l’affidatario eserciti i poteri connessi con l’istituzione scolastica e con le autorità sanitarie: è una questione tutt’ora aperta, su cui si discute nonostante la normativa, sebbene dovrebbe essere chiaro che se gli affidatari “fanno le veci dei genitori”; non si comprende come potrebbero farle se si escludessero dai rapporti con la scuola e/o con il pediatra ed altre realtà di cura per il minore.

Rispetto al ruolo degli affidatari, la legge 149/01 offre un importante contributo innovativo allorché prevede, sempre all’articolo 5, comma 1, che “l’affidatario

37 F. Ichino Pellizzi, Op. cit., pag.11. 38 L.149/01 art.5 comma 4.

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deve essere sentito nei provvedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità, relativi al minore affidato”. Purtroppo molti tribunali ancora sembrano non aver recepito tale norma e continuano a considerare gli affidatari come “gente senza diritti e con molti doveri”.39

E' questo presumibilmente il risultato di una richiesta assoluta di disponibilità totale verso l’altro, senza aspettarsi nulla in cambio, che la società tutta e i servizi in particolare richiedono agli affidatari.

Fortunatamente, il lavoro che da molti anni ormai viene condotto con gli affidatari e l’ascolto che agli stessi dedicano in particolare i centri affidi, nonché le numerose ricerche empiriche che mettono in luce la qualità di vita del bambino in famiglia affidataria, hanno modificato la cultura comune e introdotto sostanziali novità, affermando alcuni diritti ai genitori affidatari, oltre a quelli già previsti dalla legge 149/01: ad esempio, il decreto legislativo 151/2001 ha riconosciuto ai lavoratori affidatari il congedo di maternità/paternità (all’articolo 26, comma 6 stabilisce infatti che nel caso di affidamento di minore, il congedo può essere fruito entro cinque mesi dall’affidamento, per un periodo massimo di tre mesi) e il congedo parentale (all’art.36 del medesimo decreto si precisa che può essere fruito anche dai genitori affidatari); tale decisioni sono poi chiarite e ribadite dalla circolare Inps n.16 del 4.02.2008.

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Rispetto a tale disposizione, fino ad alcuni mesi fa non era chiaro se gli stessi diritti potevano essere esigibili anche dai genitori “collocatari”: i Tribunali per i Minorenni, in materia di affidamento giudiziale, seguono infatti da tempo una prassi ormai consolidata: quella di affidare i minori allontanati dalla famiglia ai servizi sociali del comune di residenza, demandando a questi ultimi il compito di individuare una famiglia presso la quale collocare il minore, che resta tuttavia affidato al servizio sociale. In tale situazione, diversi datori di lavoro ed alcune sedi Inps, in assenza del decreto di affido, si rifiutavano di riconoscere ai genitori “collocatari” il congedo parentale, con ciò vanificando la finalità dell’istituto, che ha cura anche di agevolare la delicata fase di inserimento del minore all’interno della famiglia affidataria. Al fine di chiarire la delicata controversia, il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Toscana, M. Grazia Sestini, nel mese di gennaio 2014, ha richiesto un parere specifico al Direttore Generale delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali. Il Dott. Paolo Onelli ha formalmente chiarito che riconoscere il congedo parentale soltanto agli affidatari individuati direttamente dal decreto emesso dall’autorità giudiziaria minorile, e non anche a quelli individuati dai servizi sociali su preciso mandato dell’autorità giudiziaria, si debba considerare violativo dell'art.36 D. Lgs. n.151/2001. I servizi sociali agiscono infatti in virtù di un preciso mandato del Tribunale per i minorenni,

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avente ad oggetto proprio l’individuazione di una famiglia che presenti le caratteristiche di idoneità in relazione al progetto socio-educativo attivato dagli stessi servizi sociali e alle prescrizioni del tribunale. Il rappresentante del ministero ritiene pertanto che l’attestazione rilasciata dai servizi sociali alla famiglia che ha accolto il minore, con l’indicazione degli estremi del decreto dell’autorità minorile che ha dato inizio alla procedura, e della data di ingresso del minore in famiglia, contenga già tutti gli elementi per legittimare i lavoratori-genitori affidatari alla presentazione della domanda di congedo parentale.

Il 25 ottobre 2012, sono state poi approvate, dalla Conferenza unificata Governo-Regioni/Province autonome, le Linee d’indirizzo per l’Affidamento familiare: si inseriscono nel progetto nazionale “Un percorso nell’affido” attivato nel 2008 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in collaborazione con il Coordinamento Nazionale Servizi Affido, il Dipartimento per le Politiche della famiglia, la Conferenza delle Regioni e Province autonome, l’UPI, l’ANCI e il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza.

Per tali Linee guida, è stata individuata una struttura di indice suddivisa per tre macroaree: 1. i soggetti e il contesto; 2. le caratteristiche e le condizioni per l’affidamento familiare; 3. il percorso di affido.

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I temi affrontati trattano in maniera trasversale l’organizzazione dei servizi, gli strumenti e i rapporti con l’autorità giudiziaria.

Il primo capitolo pone particolare attenzione alla definizione di affidamento familiare e all’individuazione dei soggetti coinvolti, in quanto ogni affido nasce ed è reso possibile dal coinvolgimento di più attori, ciascuno dei quali svolge un ruolo preciso all’interno del progetto: il bambino e la sua famiglia di origine, la famiglia affidataria, le associazioni e le reti di famiglie, il territorio.

Il secondo capitolo descrive le caratteristiche dell’istituto dell’affidamento familiare e le diverse tipologie di affido, in quanto le differenti condizioni e situazioni dei minori e delle loro famiglie in gravi difficoltà rendono non solo opportuno ma anche necessario prevedere una pluralità di forme di affidamento al fine di rispondere in modo eterogeneo, flessibile e modulare ai bisogni diversi e in evoluzione.

Il terzo capitolo focalizza l’attenzione sul percorso di affido a partire dalla promozione e dall’informazione che hanno l’obiettivo di stimolare e far maturare nuove risorse familiari disponibili a realizzare progetti di affidamento familiare e di ampliare la consapevolezza e la conoscenza rispetto a cosa sia esattamente questo istituto e su come funzioni.40

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Nell’introduzione di questo importante lavoro viene sintetizzato il concetto cardine di tutto il documento: “A distanza di quasi trent’anni dall’approvazione della L.4 maggio 1983, n.184 “Diritto del minore ad una famiglia”, così come novellato dalla L.28 marzo 2001, n.149, è utile approvare un documento che, raccogliendo i saperi e le esperienze dei territori, dia indicazioni unitarie che permettano di qualificare l’importante istituto dell’affidamento familiare su tutto il territorio nazionale.”41

Le Linee di indirizzo non si sostituiscono alle legislazioni regionali che hanno regolamentato l’applicazione dell’affidamento familiare sui territori, ma offrono un quadro di riferimento complessivo rispetto a principi, contenuti e metodologie di attuazione organizzato nella forma delle “raccomandazioni”, che rappresentano un punto d’incontro tra esperienze e letteratura, tale da costituire un riferimento unitario per gli amministratori regionali e locali, per gli operatori e per i cittadini, così da qualificare l’affidamento familiare in tutto il territorio nazionale.

Da pochi giorni, precisamente in data 11.03.2015, è stato approvato all’unanimità, in Senato, il Disegno di Legge n.1209 sulla “Adozione dei minori da parte di famiglie affidatarie”. Il documento, che deve ancora passare all’esame della Camera, contiene elementi che evidenziano un grande

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cambiamento culturale: viene istituita una sorta di “corsia preferenziale” per le famiglie affidatarie che si dichiarino disponibili ad adottare il bambino che è già loro affidato. Si sancisce così l’importanza della continuità affettiva: vengono infatti prese in considerazione quelle situazioni in cui tra minore e famiglia affidataria si è creato un rapporto stabile e duraturo, da salvaguardare.42

1.5 L’affidamento familiare nella Regione Toscana

L’interesse della Regione Toscana ai diritti dei minori, trova la sua rappresentazione nella cospicua produzione legislativa che, in talune occasioni, è stata antesignana della normativa nazionale, come nel caso della legge regionale 72/97, che anticipa i concetti chiave della legge quadro nazionale n.328 del 2000. Tale normativa risulta infatti in piena sintonia con la citata legge della Regione Toscana e ne condivide i principi ispiratori, quali ad esempio l’integrazione delle politiche socio-assistenziali con quelle sanitarie e con l’insieme di tutte le politiche che incidono sulla qualità della vita dei cittadini (abitazione, lavoro, formazione ecc.). Rispetto ai percorsi istituzionali, entrambe le normative sono tese a valorizzare il ruolo degli Enti Locali e in particolare dei Comuni, titolari delle competenze in materia socio-assistenziale.

In tale analisi non può certo mancare il riferimento alla riforma dell'articolo V della Costituzione, che ha recepito le istanze sottese ai principi di sussidiarietà

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verticale, individuando nelle regioni i soggetti idonei a normare alcuni ambiti settoriali, tra cui il settore dei servizi alla persona.

Ritornando all’argomento d’interesse, l’affidamento familiare, la prima direttiva della Regione Toscana in materia, emanata dopo l’entrata in vigore della legge 184/83, è la deliberazione 348/1994, che ancor oggi, a distanza di anni, “rimane nella sua originaria articolazione, uno strumento operativo e metodologico di ampia applicazione”.43 In tale delibera si precisano l’organizzazione e l’attività

del centro affidi così come le figure professionali che devono operare al suo interno: viene indicato infatti come un polo di riferimento sovracomunale che ha funzioni di promozione, di gestione e di attività di supporto per i servizi sociali di base; rispetto invece al personale indica come profili professionali “fondamentali” del Centro Affidi l’assistente sociale, lo psicologo e l’operatore pedagogico (pedagogista, educatore): non sono indicate precisamente i tempi di lavoro da dedicare a tale servizio ma si precisa che la presenza di tali professionisti dovrà essere tale da assicurare continuità allo stesso. Si prevede inoltre che, secondo le esigenze, potranno essere richieste le prestazioni del neuropsichiatra infantile e del pediatra. E' una norma molto puntuale, precisa, articolata, che affronta tutti gli ambiti del percorso di affidamento familiare. Si delineano le strategie d’intervento, la metodologia, la codifica dei bisogni del

43 E. Musetti (a cura di), L'affidamento familiare in Versilia. Indagine su 20 anni di attività (1985-2005), Ed. La Torre di Legno, Viareggio 2006.

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minore, il lavoro dei servizi territoriali nonché l’analisi e la valutazione degli aspiranti all'affidamento.

In questa legge sembra recepito il modello suggerito da Stefano Cirillo, già riportato in precedenza, che sottolinea l’importanza di costituire un servizio specifico per l’affidamento familiare, interdisciplinare e operante su un ambito territoriale di ampiezza significativa. Riporta infatti: “Un intervento così complesso come l’affidamento familiare non può essere gestito in modo efficace senza disporre di una struttura di riferimento, sia pure minima, che promuova lo sviluppo dei diversi fattori costitutivi del servizio: culturali, scientifici, professionali, organizzativi, di contatto e sensibilizzazione dell’opinione pubblica.”44

Un altro documento importante della Regione Toscana è la deliberazione emanata l’anno precedente a quella presa sin ora in esame: “Direttiva su criteri e modalità di sostegno economico per l’affidamento familiare”; la n.364 del 21 settembre 1993.

In essa la Regione si impegna a superare la disomogeneità e la discrezionalità delle condizioni e delle modalità di sostegno economico alle famiglie e alle persone che hanno minori in affidamento e stabilisce che alle stesse deve essere corrisposto un assegno di base. Tale contributo, che è a carico

44 Delibera del Consiglio della Regione Toscana 25 luglio 1994 n.338 ”Direttive ai Comuni e alle Unità sanitarie locali per la costituzione e il funzionamento del servizio per l'affidamento familiare”, Allegato A.

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dell'amministrazione competente, deve avere periodicità mensile ed il suo importo è determinato in relazione alla pensione minima INPS dei lavoratori dipendenti: è un dodicesimo dell’importo annuo. Può essere aumentato fino ad un massimo del 30% allorché si tratti di situazioni complesse che richiedono spese consistenti e viene abbattuto del 30% per ogni minore affidato oltre il primo. Nell’atto vengono poi affrontate varie fattispecie, sempre in relazione al sostegno economico per le famiglie affidatarie. Un aspetto interessante è che tale “argomento”, lungi dall’essere considerato residuale, si prevede sia incluso esplicitamente nel progetto educativo individuale.

Strumento di lavoro importante è poi il Piano d’Azione Diritti dei Minori, del Consiglio Regionale Toscano n.238/2003; tale delibera definisce un modello operativo e organizzativo che impegna istituzioni, servizi, operatori e comunità locale. In esso è contenuto uno spazio ad hoc per l’affidamento familiare: le linee guida per l’affidamento dei minori, nelle quali viene ribadito quanto previsto dalla normativa nazionale e regionale in materia di politiche per i minori ed in particolare di affidamento familiare. Tale documento contiene anche indicazioni operative specifiche, troppo spesso non affrontate dai teorici e dal legislatore perché sottovalutate o considerate meno rilevanti degli assunti concettuali. Chi si occupa quotidianamente, “in campo”, di progetti di tutela minorile conosce invece molto bene i rischi che si celano nella mancanza di

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chiarezza circa le competenze, i ruoli, l’ente preposto ad intervenire, nonché nell'assenza di comprensibili, precise indicazioni che riguardano scelte o azioni, che potrebbero apparire banali ma che assumono un peso significativo. In particolare si definiscono la presa in carico e gli oneri economici, in relazione alla residenza; si chiarisce che un minore, allontanato dalla propria famiglia e accolto in un comune diverso da quello dove abitava con i suoi genitori, potrà prendere il domicilio nel Comune dove si trova il nucleo affidatario o il servizio residenziale, ma gli oneri economici spettano al Comune nel quale il suo nucleo familiare ha la residenza in quanto per la presa in carico del minore e per i relativi oneri economici vale la potestà genitoriale o la tutela giuridica.

L’intensa attività della Regione Toscana, a sostegno delle politiche d’intervento nel settore dell’affidamento di bambini e ragazzi, trova poi una sintesi efficace e un aggiornato strumento di orientamento negli “Indirizzi di affidamento di minori a famiglia e a servizi residenziali socio-educativi”, approvati dalla Giunta Regionale con deliberazione n.139 del 27 febbraio 2006. In tale documento, suddiviso in sette articoli, titolati per argomento, oltre a chiarire la funzione e gli obiettivi dell’affidamento, sono riportate le varie tipologie di affidamento nonché precise indicazioni operative ed organizzative. Viene inoltre delineato il percorso assistenziale dell’affidamento di minori. Fra le condizioni indicate affinché vi sia un idoneo sviluppo del percorso si sottolinea in

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particolare: la necessità di costituire un'équipe stabile di assistenti sociali e psicologi che sia impegnata in forma continuativa su tutto il percorso dell’affidamento, in modo da rendere affettiva la continuità assistenziale; l’esigenza di avere l’apporto collaborativo di tutti i servizi; il dovere di elaborare un progetto con obiettivi, durata e risultati attesi ben chiariti e formalizzati; la partecipazione della famiglia naturale al progetto di affidamento; l’informazione del minore in tutte le fasi del progetto; la verifica costante, tale da consentire correzioni in linea con la tutela e il benessere del minore. La deliberazione contiene inoltre indicazioni sull’attività del centro affidi che, in particolare, deve assicurare: la conoscenza approfondita delle famiglie che si candidano all'affido e la loro accurata preparazione all’accoglienza.

Uno spazio è dedicato anche agli impegni che si assume la Regione; questi vanno dal livello organizzativo, che comprende anche la previsione di protocolli operativi, a quello formativo e promozionale, con implementazione del sistema di monitoraggio e costituzione di una banca dati sulle famiglie disponibili o già impegnate nell'affidamento eterofamiliare. L’ultima parte prevede i risultati da perseguire, che sono così sintetizzati: riduzione dei casi di allontanamento, incremento degli affidi consensuali, abbreviazione del periodo di durata dell’affidamento, aumento dei rientri in famiglia. Se si escludono i primi due punti, sui quali certamente l’impegno dei professionisti dovrà concentrarsi

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prioritariamente, e per i quali un grosso contributo potrà giungere anche dalla formazione post-laurea continua, rispetto ai successivi, laddove non ci sia un impegno delle istituzioni anche di carattere economico e non si prevedano, parallelamente, interventi di politica abitativa, lavorativa e di formazione professionale, nonché un incremento di risorse destinate alla cura e alla riabilitazione, questi, a mio avviso, rischiano di rimanere “inevasi” o, peggio, se rispettati ”tout court”, di non costituire elemento di benessere e tutela proprio per quei minori più svantaggiati che provengono da situazioni familiari gravemente compromesse.

Una prospettiva interessante, nel campo dell’investimento di risorse, è rappresentato dall’attualissima delibera di giunta della Regione Toscana, n.904 del 27.10.2014, denominata: “Intesa Fondi Famiglia 2014. Progetto regionale Affido per l’utilizzo delle risorse destinate alle Regioni e Province Autonome. Approvazione.”, in cui la giunta decide di procedere all’approvazione del Progetto regionale Affido, (allegato sub “A” - che costituisce parte integrante e sostanziale dell'atto) e di inoltrare al Dipartimento per le Politiche della Famiglia, la richiesta di finanziamento di euro 328.000,00 derivanti dal Fondo delle Politiche per la Famiglia per l’anno 2014, ai fini della realizzazione delle azioni declinate nel documento citato e cioè l’adozione delle azioni necessarie a sviluppare, attraverso la collaborazione con le diverse realtà territoriali ed

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istituzionali, un sistema regionale per la promozione ed il sostegno dell’affidamento familiare caratterizzato da un modello organizzativo e procedurale omogeneo.

L’obiettivo primario, definito, è quello di sostenere la visione positiva implicita nell’affidamento familiare, basata sulle potenzialità dei genitori e dei bambini, sui fattori che possono agire sul cambiamento e la trasformazione.

Gli obiettivi correlati sono, di conseguenza: realizzare una campagna di sensibilizzazione e informazione, mantenere i livelli di intervento espressi dai servizi sociali dei comuni e dai servizi integrati; sostenere l’operatività dei servizi e l’approccio multiprofessionale, diffondere prassi comuni, sperimentare livelli di coordinamento tra i centri affidi e tra questi ed i servizi territoriali. In questo momento di crisi sociale ed economica, tale iniziativa della giunta regionale, la cui espressione e realizzazione si vedrà in futuro, ha davvero una portata notevole ed assume il valore di una possibilità davvero cospicua che i tecnici, gli specialisti, gli operatori dei servizi, dovranno dimostrare di essere in grado di cogliere, valutando che in questa iniziativa è racchiuso, forse, il destino dell’affidamento familiare in Toscana.

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1.6 Riflessioni e sintesi

Al termine di questo excursus, seppur certamente limitato, della legislazione in materia di affidamento familiare, diverse riflessioni si presentano, notevoli ragionamenti si sommano l’uno all’altro, in un percorso che ha la pretesa di arrivare ad un punto d'unione.

Nella mia esperienza lavorativa ho “toccato” con mano i rischi insiti in una visione prevalentemente concentrata sul dettame legislativo e troppo ottimistica del progetto d’affido, se la stessa non è supportata da una chiara visione del “gioco familiare” agito sia dalla famiglia naturale ma anche dalla famiglia affidataria e persino dal bambino: è sempre molto importante domandarci ”quale gioco più grande di loro li sta giocando”, come suggerisce Cirillo.45

Oltre a ciò, seppur chiaramente lontana dall’idea di proporre modalità non in linea con la normativa vigente, mi preme sottolineare anche come, talvolta, l’applicazione pedissequa della legge, in maniera dogmatica e inflessibile, indifferente alle varie possibilità individuali e specifiche che sempre il legislatore contempla, può diventare fonte dell’ennesima ingiustizia perpetrata a danno dei più fragili.

I primi anni dell’esercizio della mia professione, non di rado, nei progetti di affidamento familiare, ho “vissuto” la famiglia affidataria quasi esclusivamente

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