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Rosa, marroni, neri o gialli…ma non verdi

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Academic year: 2021

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JEANNE WILLIS — TONY ROSS

IL DOTT. X E I PICCOLI TERRESTRI. TRADOTTO IN LINGUA UMANA DA JEANNE WILLIS.

(Dr. Xargle’s book of Earthlets. Translated into human by Jeanne Willis.)

Buongiorno bambini.

Oggi parleremo dei Piccoli Terrestri.

I Piccoli Terrestri possono essere di quattro colori. Rosa, marroni, neri o gialli…ma non verdi.

Hanno una testa sola e soltanto due occhi, due tentacoli corti con dei senzori alle estremità e due tentacoli lunghi detti gambette.

Hanno degli artigli quadrati che utilizzano per mettere in fuga bestie feroci quali Micio e Puce.

I Piccoli Terrestri hanno la testa ricoperta di pelo, ma non abbastanza da tenerli caldi.

Devono essere infagottati nel pelame di pecora.

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I Terrestri molto vecchi (o “Nonnini”) srotolano le pecore e con due bastoncini appuntiti creano dei fagotti blu e bianchi e rosa per i Piccoli Terrestri.

I Piccoli Terrestri non hanno zanne alla nascita.

Per giorni e giorni bevono soltanto latte attraverso un buco nella faccia.

Quando hanno finito di bere il latte devono essere presi a pacche e spremuti per evitare che esplodano.

Non appena hanno una zanna, il genitore terrestre prende un uovo di gallina e lo sbatte con una forca.

Poi mette l’uovo sbattuto su una piccola pala e lo rovescia nella bocca, nel naso e nelle orecchie del Piccolo Terrestre.

Per fermare le fuoriuscite di fluidi, è necessario sollevare i Piccoli Terrestri per i tentacoli posteriori e piegarli a metà.

Poi devono essere avvolti in fretta in un triangolo soffice o sigillati con carta e colla.

Durante il giorno i Piccoli Terrestri raccolgono: peli di Micio e Puce, fango, uovo sbattuto e banana.

Vengono messi poi in un contenitore di plastica con dell’acqua tiepida e un uccellino giallo galleggiante.

Dopo l’immersione i Piccoli Terrestri devono essere asciugati con cura per evitare che si restringano.

Poi vengono cosparsi di polvere per evitare che rimangano appiccicati alle cose.

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I Piccoli Terrestri sono riconoscibili grazie al loro terribile grido:

«UEEEEEEE!»

Per farli smettere, il papà terrestre li prende e li lancia nell’atmosfera.

Poi tenta di riprenderli.

Se continuano a piangere, la mamma terrestre tira i loro senzori a uno a uno e dice: «Piazza mia bella piazza» fino a che il Piccolo Terrestre non fa il suono «hi hi.»

Se continuano a piangere, vengono mandati in un posto chiamato nanna.

Questa è una scatola oscillante con una morbida imbottitura in cui vive un orsacchiotto di nome Teddy.

La lezione di oggi è finita.

Se state tutti zitti e buoni ci metteremo la maschera e andremo a visitare il pianeta Terra per vedere dei Piccoli Terrestri veri.

La navicella spaziale parte tra cinque minuti.

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JEANNE WILLIS— TONY ROSS

IL DOTT. X E LE TIGRI TERRESTRI. TRADOTTO IN LINGUA UMANA DA JEANNE WILLIS.

(Dr. Xargle’s book of Earth Tiggers. Translated into human by Jeanne Willis.)

Buongiorno bambini.

Oggi parleremo delle Tigri Terrestri. Le Tigri Terrestri sono fatte di materiale peloso. Questo si aggancia sotto al pancino con dei bottoni rosa.

Sono disponibili in tinta unita o fantasia.

Schiacciatele al centro e trovate il bottone per farle squittire.

Le Tigri Terrestri hanno delle spine molto appuntite. Queste vengono usate per incidere oggetti di legno.

O per arrampicarsi su ripidi Terrestri.

Le Tigri Terrestri adorano il giardinaggio. Scavano una buca e piantano dei chicchi puzzolenti. Questi non crescono mai.

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Durante la stagione piovosa, i chicchi puzzolenti possono essere piantati in qualsiasi contenitore trovato nella terrestre dimora.

Le Tigri Terrestri amano fare colazione alle cinque del mattino. In punto. Fanno un massaggio al pigiama del Terrestre addormentato.

Poi si siedono sulle sue narici.

Le Tigri Terrestri mangiano una poltiglia di carne.

Questa poltiglia viene raccolta nelle loro numerose antenne e conservata per dopo.

Una Tigre Terrestre sana ha bisogno anche di succo di mucca, coccodé arrosto, vermi viscidi e vecchie schifezze verdi in salsa di pattumiera.

Le Tigri Terrestri riescono a sentire dei rotolini di maiale scartati a otto chilometri terrestri di distanza.

Non riescono a sentire un Terrestre che urla: «Micio!» nel giardino accanto.

Le Tigri Terrestri odiano il Cane da Caccia Terrestre. Si piegano a metà e soffiano aria nei loro oscillatori. Poi vanno in orbita con un fischio e uno scricchiolio.

In un contenitore di vetro pieno di pietre e vegetali vive lo scintillante bastoncino di pesce rosso.

La Tigre Terrestre lo adora. Infila il guantone nell’acqua e comincia a rimestare il bastoncino di pesce.

Alle Tigri Terrestri piace cantare a squarciagola con i loro amici al chiaro di luna. I Terrestri scaraventano calzature giù dalla finestra.

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Di tanto in tanto le Tigri Terrestri lasciano un budino peloso sulle scale. Il terrestre è solito calpestarlo senza calzini ai piedi.

Ripetete questa espressione dopo di me: «Ahia, sono scivolato su una palla di pelo e mi sono rotto tutte e due le gambe.»

«Iaia, sono sbarcato su una balla di pelo.»

«Gambe…sono atterrato su uno stelo di palla e sono scivolato su tutte e due le rotte.»

«Cacca, sono affondato in una palla di peso e ho detto tutto alle due gazze.»

«Ala, sono pelato su una palla di gamba e mi sono rotto tutte le gambe.»

«Aia, ho pelato tutte le mie ragazze.»

«Cacca, sono appellato su una palla di sciampagna e mi sono sgambato…»

«Asma, sono asciugato su una palla di calcio e mi sono lotto tutte le zampe.»

«Ah!»

Quando la Tigre Terrestre è a pezzi deve essere portata dal rappezzatore. Prima deve essere presa e chiusa in un cartone con dello spago. Il Terrestre si aggiusta incollandosi con della carta rosa.

Quando nascono le Tigri Terrestri, il Terrestre dà loro un letto fatto di ramoscelli intrecciati e di una sacca di piume di uccello. I Tigrottini lo odiano.

Vanno a dormire nel copricapo dei piccoli Terrestri.

Povero me, è già ora?

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Infilatevi la maschera e salite alla svelta sulla navicella spaziale.

Andremo sul pianeta Terra ad accarezzare i Tigrotti.

Atterreremo in India per l’ora di cena.

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W.C. FLUSHING

SUPERGABI. UNA TOILETTE A SPASSO NEL TEMPO. LA LATRINA DI ENRICO VIII.

(Superloo. Tales of a time- travelling toilet. HenryVIII’s Privy.)

CAPITOLO I

Supergabi, il bagno supergenio, stava mugolando la solita vecchia storia.

«Non è giuuusto!» si lamentava. «Sono dotato di un brillante cervello computerizzato. Posso turbinare indietro nel tempo e nello spazio. Ma resto bloccato dove atterro. Questo stupido corpo di bagno ha bisogno di gambe!»

Supergabi si trovava nel Museo delle Toilette insieme a Finn, un ragazzino di undici anni, e al signor Leo Scopetti, il custode del museo. Il Museo delle Toilette era un vecchio edificio fatiscente fatto di mattoni e nascosto da un’imponente fabbrica moderna, la Hi-Tech Toilets.

Finn bisbigliò al signor Scopetti: «Che cos’ha oggi Supergabi?»

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Di solito il bagno era allegro e vivace e sempre pronto a vantarsi di quanto fosse intelligente e di quanto gli uomini fossero stupidi al suo confronto. Oppure era tutto preso dal suo prossimo viaggio nel tempo.

Il signor Scopetti rispose: «Penso che sia un po’ giù di corda.

Prima che tu arrivassi non la finiva più di dire quanto si senta solo.

Vorrebbe che ci fosse un altro gabinetto super intelligente con cui poter parlare».

«Oh no, ancora!» disse Finn accigliato. «Lo sa che è un esemplare unico, il solo cesso al mondo dotato di cervello. E comunque ha noi, no? Siamo suoi amici. E i suoi cugini bagni?»

La grande passione di Supergabi era quella di andare indietro nel tempo per trovare dei bagni famosi e portarli nel ventunesimo secolo.

«Sono dei poveri bagni primitivi», diceva Supergabi. «Tra tutti non hanno neanche una cellula cerebrale. Ma almeno sono la mia famiglia.»

Ma Supergabi era schizzinoso in fatto di cugini bagni da salvare.

Era un tantino snob. Gli piaceva salvare i bagni con un legame reale, preferibilmente quelli sui quali si erano appoggiati dei sederi coronati.

Solo quella mattina aveva decantato una latrina di proprietà del re Enrico VIII che aveva bisogno di essere salvata. Ma ora si era incupito.

«Voglio delle gambe!» piagnucolava come un bambino capriccioso che impara a camminare.

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«Ora, ora» diceva il signor Leo Scopetti cercando di calmarlo. «Per le gambe non lo so. Ma se vuoi muoverti un po’, c’è qualcosa che potrebbe funzionare…»

Alcune ore più tardi il signor Scopetti mise giù il trapano. Si alzò in piedi a fatica: le sue vecchie ginocchia scricchiolavano come un cancello arrugginito, ma i suoi occhi azzurri erano penetranti e attenti.

«Ecco», disse a Supergabi. «Le ruote sono a posto. Coraggio, provale. Va’ a farti un giro. Ma non uscire dal Museo», lo ammonì. «È troppo pericoloso.»

Supergabi era circondato da nemici. Non era che uno dei tanti servizi pubblici schizzati fuori dalla catena di montaggio della Hi- Tech Toilets, fino a quando un microchip da quattro bilioni di dollari, destinato a un razzo spaziale in America, non era finito al suo interno per errore. Quel microchip dava a Supergabi il suo bel cervello e il potere di viaggiare nel tempo. Ma un corpo speciale di soldati era stato mandato dagli USA per riprendere il chip. Gli ordini erano:

«Trovate quel bagno ed eliminatelo». Quei soldati erano lì fuori da qualche parte, a fare la ronda, ancora in cerca di Supergabi.

«Ricorda», lo ammonì il signor Scopetti per la centesima volta, «la prudenza non è mai troppa. C’è gente là fuori che vuole il tuo cervello.»

Ma Supergabi non stava ascoltando. Era affascinato dalle nuove ruote poste alla base della cabina. Si udì il gracchio della sua voce metallica attraverso le grate del suo soffitto. «Mi sto muovendo!»

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Volteggiava come una ballerina. «Guardatemi! Sto facendo una piroetta!»

La carta nel grosso portarotoli sventolò come una bandiera.

L’acqua schizzò fuori dai bordi della scintillante tazza di acciaio inossidabile. Supergabi chiuse la porta della cabina per assumere una forma aerodinamica e iniziò a volteggiare ancora più velocemente. Le scritte OCCUPATO, LIBERO, LAVAGGIO lampeggiarono tutte insieme sulla parete esterna per esprimere il suo entusiasmo. Per un breve momento il suo cervello alato non era costretto dal peso di un ingombrante corpo di bagno. Si sentiva leggero e libero come l’aria.

«Uaaa! Sto volando!» urlava sfrecciando per il Museo delle Toilette come un ragazzo su uno slittino.

«Attento ai miei reperti!» gridò il signor Leo Scopetti mentre Supergabi faceva volare la sua collezione di spugne grattaculo.

«Che succede?» disse Finn. «Non dovrebbe andare a sbattere contro le cose!» Supergabi non ci vedeva, ma aveva dei sensori all’interno del corpo che erano meglio degli occhi. Lo informavano di tutto ciò che aveva intorno, fino al più piccolo dettaglio.

«Oh no!» disse il signor Leo Scopetti.

Adesso Supergabi stava andando dritto verso i suoi preziosi bagni vittoriani, proprio lì dove si trovava l’orgoglio della sua collezione: il Diluvio, disegnato dal grande Thomas Crapper, l’inventore dello sciacquone.

Un grido strozzato uscì dall’interno della cabina. «Aiuto! Ho perso il controllo!»

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Quelle ruote avevano una vita propria. All’improvviso si bloccarono. Finn trattenne il respiro. Sembrava che la super cabina argentata, grande come quella di un telefono pubblico, potesse ribaltarsi. Ma no, all’improvviso sterzò a sinistra e andò a tutto gas in un'altra direzione.

«Dove ha preso quelle ruote?» chiese Finn sospettoso al signor Leo Scopetti.

«Le ho tolte da un vecchio carrello della spesa che ho pescato nel canale. È stata una dura scelta tra quello e un bidone con le ruote.»

«Beh, sono inutili!» urlò Finn mentre davano la caccia al bagno in fuga. Supergabi sterzò e tornò indietro, mancando per un pelo il famoso cesso di Thomas Crapper. «Fiuu!» disse il signor Leo Scopetti. «C’è mancato poco.»

Ma poi successe una cosa terribile: Supergabi mandò in frantumi l’esposizione di antichi sedili da bagno del signor Scopetti, attraversò una porta e andò a schiantarsi nel retro del Museo delle Toilette.

«A-A-A-Aiuto!» invocò con voce tremolante mentre rimbalzava sul ghiaino. «T-T-T-Toglietemi queste o-o-o-orribili ruote!»

Rombo, il decrepito segugio del signor Scopetti, era fuori in cortile.

«Attento Rombo!» urlò il signor Scopetti.

La povera bestia lo fissò, confusa. Un secondo prima stava dando una tranquilla annusata in giro. Un secondo dopo stava per essere schiacciato da un bagno volante. Non poteva farcela. Era troppo vecchio per degli shock simili. Fece ciò che faceva sempre quando si

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trovava in una situazione stressante: tuonò grossi rombi d’aria dal posteriore.

«Oh no, Supergabi ha infastidito Rombo!» boccheggiò Finn mentre disperdeva il tanfo lontano dal suo naso.

All’improvviso dal cielo venne un rumore assordante che coprì anche i tuoni di Rombo.

FLAP FLAP FLAP FLAP!

Finn alzò la testa di scatto. Una mini tromba d’aria gli scompigliò i capelli. Un elicottero era sospeso sopra di loro, proprio come quello che aveva portato dall’America le Unità Speciali in cerca di Supergabi. Erano venuti dei nuovi soldati a dare loro manforte?

«Al riparo!» urlò il signor Scopetti a Supergabi.

Per fortuna le ruote lo avevano appena fatto scivolare sotto il vecchio ripostiglio per gli attrezzi. Ma era già stato visto dall’elicottero?

«Sta atterrando!» gridò Finn.

Mentre le spade rotanti giravano, l’elicottero planò sul Museo delle Toilette e toccò terra nel parcheggio della Hi-Tech Toilets, come una gigantesca libellula gialla.

Il signor Scopetti disse: «È finita». Come Finn, si aspettava che venisse fuori una squadra di soldati armati fino ai denti. Dedusse che avrebbero circondato il ripostiglio per gli attrezzi, puntato le mitragliatrici e urlato: «Vieni fuori Supergabi, sei circondato».

Ma, «Aspetta un attimo!» disse Finn con gli occhi scintillanti di speranza. I soldati non stavano uscendo dall’elicottero. Quelli che

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c’erano già e che avevano dato la caccia a Supergabi ci stavano entrando uno dopo l’altro. La porta si chiuse scivolando dietro di loro.

L’elicottero decollò; rimase sospeso un attimo, alto nel cielo, come un’unica lacrima gialla. Poi sparì nel blu.

«Se ne sono andati!» urlò Finn incredulo. «Hanno abbandonato le ricerche! Supergabi è salvo!»

Ma un dubbio annuvolava i vecchi occhi saggi del signor Scopetti.

«Non ci scommetterei.»

Il microchip all’interno di Supergabi era di proprietà dell’Istituto di Ricerca Spedizioni Spaziali USA. Il Primo Errore era stato quello di metterlo dentro Supergabi. Il Secondo Errore era stato quello di posizionarlo alla rovescia. Questo significava che il bagno supergenio poteva viaggiare solo indietro nel tempo. Ma in origine il chip era stato inventato affinché le navicelle spaziali potessero viaggiare in avanti, in modo da raggiungere le galassie più remote a una velocità umanamente accessibile, in minuti invece che in anni luce. Chiunque lo avesse posseduto avrebbe potuto esplorare i pianeti più lontani, diventare il Padrone dell’Universo.

«Non è possibile che abbiano rinunciato così facilmente», disse il signor Leo Scopetti. «Quel microchip è fin troppo importante. La domanda è, quale sarà la loro prossima mossa?»

Finn scosse la testa: «Non lo so».

«Neanche io», ammise il signor Scopetti con un’espressione preoccupata stampata sul volto.

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Tornato sano e salvo al Museo delle Toilette, Rombo si stava riprendendo dallo spavento. L’anziano cane si trascinò verso il suo caro padrone e gli sbavò sulla mano. Ma Supergabi era ancora indispettito. «Queste ruote da carrello della spesa mi hanno fatto fare una figura meschina», rinfacciò con tono altezzoso e snob al signor Scopetti. «E a me, SUPERGABI, non piace fare figure meschine!»

«Beh, adesso te le ho tolte», disse conciliante il signor Scopetti.

«Dammi solo un po’ di tempo. Penserò a un modo migliore per renderti mobile. Nel frattempo, raccontaci della tua prossima missione. Non dovevi tornare in epoca Tudor? Per salvare la latrina del re Enrico VIII?» Sapeva che Supergabi amava parlare del suo lignaggio e degli antichi gabinetti che progettava di salvare. Ma stavolta Supergabi non si lasciò adulare così facilmente.

«A che serve?» bofonchiò scontroso.

«Finn ha detto che non verrà più con me. Dopo la nostra ultima missione di salvataggio ha detto: “ Non ci penso proprio!”»

Finn arrossì. Si sentiva un po’ in colpa. Il bagno aveva ragione.

Non aveva detto soltanto: «Non ci penso proprio». Quando era uscito barcollante dalla cabina di Supergabi dopo l’ultimo viaggio nel tempo, si era detto che non sarebbe mai e poi MAI andato di nuovo con Supergabi e che piuttosto si sarebbe incollato la testa al sedere di un dinosauro.

Il tono di Supergabi cambiò in un attimo e da pomposo diventò di autocommiserazione. Si lasciò sfuggire un piccolissimo singhiozzo

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strozzato. Percepiva che Finn stava cedendo? Era incredibile come quel bagno potesse leggere le menti umane.

«Come faccio ad andare tutto solo?» disse piagnucolando come un bambino spaventato.

«Ho da fare un mucchio di cose veramente importanti», insistette Finn, cercando disperatamente di pensarne una. «Tanto per cominciare devo tagliarmi i capelli; sono troppo lunghi e…»

«Ma io ho bisogno di qualcuno che mi aiuti», singhiozzò il bagno.

«E tu sei il mio migliore amico.»

Finn sapeva benissimo che Supergabi avrebbe fatto di tutto per raggiungere il suo scopo. E allora perché si ritrovò a dire: «Va bene, ma solo se torniamo prima di merenda»? Avrebbe potuto mordersi la lingua.

Ma ormai era troppo tardi. In un istante Supergabi era tornato a essere allegro e solare, come se qualcuno avesse agitato una bacchetta magica. «Torneremo nella Londra Tudor. Atterreremo proprio all’interno di uno dei palazzi di Enrico!» si vantò. «E gli fregheremo quella latrina proprio sotto il naso. Ora, signor Scopetti, ci dica la sua opinione. Che tipo di costume dovrebbe indossare Finn?»

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CAPITOLO II

Il signor Scopetti aveva ragione: la caccia non era finita. Chi voleva Supergabi morto e il microchip nelle proprie mani aveva già programmato la prossima mossa.

Il signor Fred Von Menten atterrò all’aereoporto di Heathrow. Era un tipo piccolo e magro, stranamente smunto e insignificante. Aveva un vestito grigio, la pelle beige, i capelli e le sopracciglia color sabbia.

Nessuno lo degnava di un secondo sguardo. Tutto in lui era scialbo.

Era impossibile dargli un’età. Aveva una faccia che scivolava via dalla memoria come l’acqua. Avrebbe potuto essere l’Uomo Invisibile.

Ma era proprio questo che piaceva al signor Fred Von Menten, non attirare l’attenzione. Camminava a passo svelto attraverso la folla. Se gli altri non lo notavano, lui non notava gli altri. Non avevano la benché minima importanza per lui. Era totalmente concentrato sulla sua missione: trovare ed eliminare quello sporco bagno.

Altri avevano fallito. Ma Fred Von Menten non falliva mai. Questa parola non faceva parte del suo vocabolario. Anche se non ne aveva

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l’aria, era il nemico più spietato che Supergabi e i suoi amici avessero incontrato finora.

Uscito da Heathrow salì su un taxi. Non aveva nessun bagaglio con sé, soltanto una sottile ventiquattrore nera. La appoggiò con delicatezza accanto a sé sul sedile, come se contenesse qualcosa di prezioso.

«Stazione ferroviaria di King’s Cross», disse all’autista con una voce immemorabile come tutto il resto, senza espressione, senza accento, senza traccia di calore umano. Una volta arrivato alla stazione di King’s Cross avrebbe preso il treno che andava a nord, verso la città in cui si trovava la fabbrica Hi-Tech Toilets. Da lì avrebbe cominciato le sue ricerche.

Per un attimo gli occhi del signor Fred Von Menten scintillarono al pensiero della battaglia a venire. Poi tornarono di nuovo freddi e morti.

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CAPITOLO III

«Devo fare il contadino un’altra volta?» mugugnò Finn.

Il signor Scopetti, che era un mago con ago e filo, gli aveva fatto un costume da contadino Tudor con due sacchi di iuta.

«Perché non posso fare l’elegante, tanto per cambiare?» bofonchiò Finn.

«Il ragazzo Tudor elegante indossava sempre un bel paio di calze», gli fece notare Supergabi. «E a volte erano a strisce.»

«Ehm, forse continuerò a fare il contadino», si affrettò a dire Finn.

«È solo che questa tunica e questi calzoncini mi prudono.»

«Ma sono realistici!» gracchiò Supergabi. «In epoca Tudor tutti avevano le pulci. Perfino il re Enrico. Per essere davvero realistico dovresti averne qualcuna anche tu.»

«Potresti fartene prestare un paio da Rombo», disse il signor Scopetti pieno di buoni propositi. «Vieni qui, bello.»

Il muso triste e cadente del segugio fece capolino da sotto un tavolo.

«No», disse Finn indietreggiando. «Grazie, ma no, grazie. Non è ora di andare?» Si era già pentito di avere accettato l’invito.

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«Sì, andiamo!» urlò Supergabi. Non vedeva l’ora di liberare il suo cugino Tudor. Dall’eccitazione gli gorgogliava l’acqua nella tazza.

«Quella latrina è un pezzo così importante della nostra tradizione di bagni!» esagerò. «A essere precisi, dovremmo chiamarla comoda.»

«Eh, lo so!» disse il signor Scopetti. «Una specie di scatola su cui ti sedevi, al cui interno c’era un vaso.»

«Ma questa era la comoda personale del re Enrico», disse il bagno con aria saccente. «Aveva molte caratteristiche particolari, tra le quali un sedile imbottito in velluto nero per il posteriore reale.»

«Ed Enrico aveva un culo davvero enorme, no?» interruppe Finn per far bella mostra delle sue conoscenze storiche. «Cioè, era terrificante! Era una montagna di lardo.»

Supergabi e il signor Scopetti lo ignorarono. Quando loro due iniziavano a parlare di bagni, non esisteva più nessun altro al mondo.

«Aveva 2000 borchie d’oro e dei bellissimi bordi d’argento come decorazione. Era meravigliosa!» stava decantando Supergabi. «E aveva un coperchio che poteva essere chiuso con una chiave che veniva custodita da un servitore speciale.»

«Non ce n’era anche un altro, il Servitore della Comoda?» chiese il signor Scopetti.

«Certo», disse Supergabi con il tono più pignolo e saputello che avesse.

«E i professori di storia discutono ancora su ciò che facesse realmente. Che attendesse al re quando era in bagno, tutti d’accordo.

Ma alcuni sostengono addirittura che pulisse il sedere reale.»

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«Bleah!» disse Finn, disgustato. «Scommetto che nessuno voleva quel lavoro!»

«Al contrario», gracchiò Supergabi. «Facevano la fila per farlo. Era considerato il massimo. E solo i gentiluomini potevano farne richiesta.»

«Scarpe!» urlò all’improvviso il signor Scopetti.

«Come?» dissero Finn e Supergabi all’unisono.

«A Finn mancano le scarpe e io ho qualcosa che fa proprio al caso suo!» esclamò il signor Scopetti correndo via.

«Mmmm», ponderava Supergabi. «Ho paura che sia poco realistico.

Molti contadini non potevano permettersi le scarpe. D’altro canto, non vorrai certo calpestare qualche schifezza. In epoca Tudor le strade erano discariche puzzolenti di spazzatura. Anche la paglia sui pavimenti di casa era sudicia, con gli escrementi di cane e la gente che sputava dappertutto.»

«Non dirmi altro!» sbottò Finn. «Comunque pensavo che saremmo andati a Londra, in uno dei palazzi reali di Enrico.»

«Non erano molto meglio», disse Supergabi. «I cortigiani venivano sgridati perché facevano pipì nei camini.»

Quando il signor Scopetti tornò, portò a Finn un paio di scarpe a punta, malridotte e legate con lo spago. «Trattale molto bene. Sono l’orgoglio della mia collezione “Cose Cadute nel Water in Epoca Tudor”.»

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«Cosa?» disse Finn mentre le respingeva. «Non ho intenzione di mettermele. Ma comunque, come facevano a perdere le scarpe nel water?»

«Facile» spiegò Supergabi, come se fosse una domanda stupida.

«La maggior parte dei bagni in epoca Tudor erano dei tavolacci sopra un pozzo nero. Un sacco di cose ci cadevano dentro e sono state ritrovate in seguito dagli archeologi: monete, pugnali, anche le persone ci finivano dentro abbastanza spesso.»

«Sì, i pozzi neri sono una ricca fonte di tesori», confermò il signor Scopetti. «Nel mio museo ci sono molte cose provenienti dai pozzi neri. L’unica cosa che mi manca», disse malinconico, «è una pillola di antimonio. Toccherei il cielo con un dito», disse a Finn, «se tu riuscissi a portarmene una.»

«OK, OK», disse Finn mentre stringeva i denti e si provava le scarpe stile Tudor. Qualsiasi cosa pur di farli smettere di cicalare di bagni. Non aveva idea di che cosa fosse una pillola di antimonio. Ma non suonava troppo ripugnante. Sempre meglio della spugna pulisciculo che il signor Scopetti aveva voluto dal tempo dei Romani.

«Oh, e avrai bisogno di un berretto», disse il signor Scopetti mentre pigiava qualcosa di floscio, simile a un escremento di mucca, sulla testa di Finn. «In epoca Tudor tutti portavano il cappello e il berretto.»

«Dove lo ha preso?» chiese Finn mentre annusava il cappello con sospetto. «Non era mica cascato nel water anche questo, vero?»

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«Certo che no», gli assicurò Supergabi con il tono più vellutato che avesse.

«Bene, allora sono pronto», disse Finn. «Andiamo.» Prima finiva questa gita, meglio era. Sperava di poter fregare la comoda senza doversi trovare faccia a faccia con il re Enrico.

«A scuola ho studiato Enrico VIII», disse Finn mentre entrava nella cabina di Supergabi. «E non ho nessunissima intenzione di incontrarlo. Cioè, era sempre pronto a tagliare la testa a qualcuno.

Comprese due delle sue mogli!»

«Beh, in effetti», ammise Supergabi, «era un tiranno crudele — un mostro per certi aspetti. Ma non preoccuparti. Andremo nell’inverno 1546, quando era vecchio e malato, e quindi debole. Secondo il mio piano non lo vedrai neanche.»

«Quindi hai un piano?» chiese Finn.

«Ma certo», si compiacque Supergabi. «Come sempre.»

Finn non sapeva se esserne contento oppure no. A volte i piani di Supergabi funzionavano a meraviglia, ma altre volte erano dei disastri colossali.

«Basta parlare», disse Supergabi. «Diamoci una mossa!»

Finn mise un braccio attorno alla tazza del bagno. Odiava questo momento. Nonostante lo facesse spesso, non si era mai abituato a viaggiare nel tempo.

«Si parte!» strillò Supergabi. «Londra dei Tudor, stiamo arrivando!»

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Da fuori venne la voce spezzata del signor Scopetti. «Buona fortuna! E non dimenticarti della mia pillola di antimonio.»

Finn aveva altro per la testa in quel momento. Le luci della cabina si illuminarono. I numeri sull’orologio digitale scorrevano indietro — 2007, 2006, 2004 — finché non diventarono una macchia indistinta.

Finn si teneva il berretto di sterco di mucca fermo sulla testa.

Ora la cabina roteava, piano all’inizio, poi sempre più veloce, più agile, come una lavatrice che fa la centrifuga. Il mondo di Finn divenne un vorticante ciclone d’argento. Aveva la nausea. «Arrrggh!»

gridò mentre la potente forza centrifuga lo strappava dalla tazza del bagno e lo appiccicava alla parete della cabina, come un foglio di giornale.

Svenne questa volta? Non poteva esserne sicuro perché — tunc! — all’improvviso il bagno atterrò. Finn scivolò giù dal muro, a pezzi.

«Andiamo, andiamo», disse Supergabi con impazienza mentre Finn si alzava barcollando. Stava già aprendo la porta scorrevole.

«Aspetta!» disse Finn. «Non so dove siamo! Non so che cosa devo fare.» Gli sembrava che un milione di farfalle gli stessero volando nella pancia. Si sentiva sempre così quando arrivava in un secolo nuovo, come un astronauta che scende dalla navicella e mette piede su un pianeta alieno. Non sapevi mai che cosa c’era là fuori ad aspettarti.

«Secondo i miei calcoli», blaterava Supergabi, «ci troviamo in uno dei tanti palazzi di Enrico, il Whitehall per la precisione, nascosti dietro un arazzo nelle camere private del re. La nuova comoda è

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appena stata consegnata. Trovala, portala nella mia cabina e abbiamo finito. Sarà un giochetto!» Come al solito, Supergabi la faceva facile.

«Sì, ma com’è fatta questa comoda?» chiese Finn.

«Beh, quando è chiusa», disse Supergabi, «sembra una grossa scatola di legno.»

«E che succede se mi vede qualcuno?» domandò Finn, ansioso.

«È molto improbabile», lo rassicurò Supergabi. «Nell’inverno del 1546 Enrico si chiuse nelle sue stanze. Allora era un ciccione putrido e maleodorante, con non molto da vivere. Quasi nessuno aveva il permesso di entrare; solo il suo dottore e alcuni servitori. Comunque basta che tu strisci lungo il muro, dietro l’arazzo. Se c’è qualcuno là fuori, sarai nascosto. Non corri praticamente alcun rischio.»

«E allora perché non lo fai tu?» chiese Finn. «A te non possono mica tagliarti la testa se ti prendono.»

In un istante la voce di Supergabi si fece tremante di autocommiserazione. «Se quelle ruote avessero funzionato lo avrei fatto io», piagnucolava. «Avrei strisciato lungo il muro dietro l’arazzo e avrei liberato il mio povero cugino bagno. Ma sono bloccato qui, impotente.»

Ci risiamo, pensò Finn. Tra un secondo sarebbe stato in un mare di lacrime. «OK, OK», sospirò. «Non sbracare. Ci vado io.»

«Grazie Finn», disse Supergabi. «Non so cosa farei senza di te.»

Per una volta Supergabi sembrava sinceramente grato. Finn si sentì scaldare il cuore. Era bello sentirsi utile a qualcuno, anche a un bagno.

Scivolò fuori dalla cabina.

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«A proposito», bisbigliò Supergabi, «gli appartamenti privati di Enrico sono sfarzosissimi. Con delle fantastiche vetrate colorate e i soffitti in oro. C’è perfino una fontana di marmo!»

Sfarzosissimi? Pensò Finn. Allora cos’è questa roba che ho sotto i piedi? Guardò in basso. Era sprofondato nel fango putrido fino alle caviglie. E dov’era l’arazzo dietro al quale avrebbe dovuto strisciare?

L’unica cosa che gli ostruiva il passaggio era una specie di grosso carro lasciato lì, abbandonato, con le ruote di legno sprofondate nel fango.

«Non c’è nessun arazzo», sibilò Finn a Supergabi, «e nessuna fontana di marmo! Solo un vecchio carretto rotto.»

Vide degli occhi rossi: topi, in fuga nell’oscurità. In alto, sospesi sopra di lui, gli ultimi piani delle case sgangherate, fatte di legno e di mattoni, coprivano il cielo. Con il piede urtò un mucchietto di stracci.

«Aaargh!» Si mosse. Un mendicante si trascinò via come un ragno nelle tenebre.

L’urlo di un ubriaco uscì da una locanda. Dalla finestra proveniva una luce flebile. L’insegna de Il Maiale Pezzato dondolava all’esterno.

Finn vide qualcuno barcollare con un boccale di birra in mano. Si lanciò di corsa dentro la cabina di Supergabi.

«Questo non è decisamente un palazzo», riferì. «È più una specie di vicolo puzzolente e infestato dai topi in una zona malfamata della città.»

«Oh Cielo», disse il bagno più intelligente del mondo. «Devo aver fatto un piccolo errore di calcolo.»

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CAPITOLO IV

A Whitehall Palace, nel luogo in cui voleva atterrare Supergabi, gli spaniel della regina stavano dormendo tutti ammucchiati. Nel mezzo, accoccolato in cerca di calore, c’era un ragazzo. Era Toby, il Custode della Chiave della Comoda del re, che cercava di strappare cinque minuti di pausa. All’improvviso fu svegliato da una violenta scossa.

«Affrettati, briccone scansafatiche!» disse un cortigiano dandogli una pappina sulla testa. «Il re sta reclamando a gran voce la sua nuova comoda!»

Toby balzò in piedi, facendo scappare gli spaniel in ogni direzione.

Stava già tremando di paura. Non si doveva mai e poi mai fare aspettare il re, specialmente se aveva uno dei suoi accessi d’ira.

Alcuni si erano giocati la testa per molto meno.

Cercò a tastoni la chiave d’oro che portava legata al collo. Grazie a Dio c’era ancora. Era stato incaricato di difenderla con la vita. Il suo incubo peggiore era che qualcuno gliela rubasse mentre stava dormendo. Il palazzo era pieno di ladri e di cospiratori — persone che volevano farti del male. Dovevi guardarti le spalle ogni secondo.

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Corse agli appartamenti privati del re. Senza fiato, bussò alla porta dell’anticamera. Il Servitore della Comoda, Sir Percival Sploffing, aprì.

«Dio ti salvi, piccolo Toby!» La sua voce riecheggiò mentre lo lasciava entrare.

Vedere la faccia schietta e onesta di Sir Percival e sentire la sua voce spontanea lo calmava sempre. Sir Percival era il suo eroe, l’unica persona nel palazzo di cui si fidasse.

«Hai la chiave, ragazzo mio?» chiese Sir Percival.

Toby sfilò la chiave dalla pesante catena d’oro e aprì il coperchio della comoda personale del re: una nuova, magnifica sedia appena consegnata, con i bordi d’argento e 2000 borchie d’oro. Il re non l’aveva ancora usata. Oggi sarebbe stata la prima volta.

«Sir Percival!» si udì un sibilo carezzevole.

Una figura sinistra in un lungo mantello nero di pelliccia sgusciò fuori dalle tenebre. Era il Dott. Septimus Sfuggente, il protomedico del re. Toby tremò. Tra tutti i cospiratori del palazzo, il Dott.

Sfuggente era quello che gli faceva più paura. Era sempre intento a spiare, mormorare, tramare. Si diceva che praticasse l’alchimia e la magia nera. E di sicuro sembrava tenere in suo potere il re vecchio e malato. Spesso era l’unico che il re ricevesse nella sua camera da letto.

A parte Sir Percival Sploffing, è chiaro. Il Servitore della Comoda poteva entrare sempre. Ma non più, a quanto pareva. Il Dott.

Sfuggente tirò fuori una mano scheletrica. «Prenderòe io la chiave»,

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disse. «Occuperommi personalmente de lo sire sulla sua nuova comoda.»

«Sparisci scarafaggio, lurido verme, creatura de la notte!» tuonò Sir Percival mentre si legava la chiave al collo per metterla al sicuro.

Poi spalancò gli occhi. «Avete l’anello de lo sire al dito!» ruggì.

«Sìe, lo re volle darlo a me», disse il Dott. Sfuggente mentre ostentava l’anello d’argento con il suo enorme rubino. «Un regalo al suo più fedele, umile servitore.»

Il viso di Sir Percival si infuocò di rabbia. «Che ’l diavolo ti porti!»

ringhiò.

Il viscido protomedico poteva far fare al re tutto ciò che voleva. E poteva vedere il re ogni qualvolta lo desiderasse. Il Dott. Sfuggente viveva negli alloggi proprio in cima al palazzo e le sue stanze avevano una scala privata, usata solo da lui, che portava direttamente alla camera da letto del re.

«Datemi la chiave», insistette ancora il Dott. Sfuggente.

«Andatevene o vi spacco la testa!» fu la risposta di Sir Percival.

Il Dott. Sfuggente si accartocciò in un angolo, con gli occhi che sbattevano come quelli di una lucertola.

«Guarda, Toby» vociò Sir Percival. «Guarda come rotea li occhi.

Come è possibile fidarsi di uno così?» E con una sbuffata di disgusto

— «Puah!» varcò a passi lunghi un’altra porta dell’anticamera. Era una magnifica porta di quercia, intarsiata con dei leoni, e portava agli appartamenti reali.

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Dopo pochi istanti tornò indietro. «Ho dimenticato le pastiglie di liquirizia.» Quando il re era di cattivo umore, dargli da mangiare dei dolcetti poteva calmarlo. Sir Percival afferrò una scatola dal tavolo e corse via di nuovo.

Adesso Toby era solo con il Dott. Sfuggente. Al Custode della Chiave della Comoda del re tremavano le gambe. Sir Percival era un cavaliere onesto e coraggioso; non c’era un briciolo di falsità in lui.

Ma Toby avrebbe voluto che non avesse parlato a quel modo al protomedico del re. Sembrava non rendersi conto di quanto potesse essere pericoloso il Dott. Sfuggente. Sir Percival faceva quel lavoro da poche settimane. L’ultimo Servitore della Comoda, Sir Thomas Heneage, era stato licenziato in circostanze misteriose e le voci intorno al palazzo dicevano che era stata opera del Dott. Sfuggente.

Il vecchio protomedico si accarezzò la lunga barba bianca e biforcuta. Lanciò un’occhiata piena di odio alla porta attraverso la quale era sparito Sir Percival, poi rivolse il suo sguardo da cobra a Toby. Il ragazzo si sentì contrarre dentro, la testa gli girava. Doveva essere vero che quell’uomo aveva dei poteri magici.

«Sir Percival si diverte a trattarmi con disprezzo», disse il dottore in un sussurro minaccioso. «Ma è un pagliaccio, uno sciocco senza cervello, una testa di rapa. Non può competere con lo Dott. Septimus Sfuggente. E, ricorda bene queste parole, rimpiangerà il giorno in cui si è fatto beffe di me.»

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Scivolò via attraverso la porta di quercia intarsiata ed entrò negli appartamenti privati del re. Ma la sua presenza malefica sembrava aleggiare nella stanza come una nuvola nera.

Toby aspettò, solo nell’anticamera. Dal labirinto di stanze segrete oltre la porta udì una vocina stizzosa. Era re Enrico che faceva i capricci. Toby lo aveva sentito spesso strillare e strepitare; aveva visto passare dei pasti abbondanti tutti per lui: passeri in umido, gelatine e la sua torta di arance preferita. Ma non aveva mai visto il re in persona. Non aveva mai avuto il permesso di oltrepassare la grande porta di quercia.

A volte domandava a Sir Percival: «Com’è di là, oltre la porta?»

Ma Sir Percival non era bravo nelle descrizioni. Ogni tanto diceva:

«A Sua Maestà oggi duole la gamba malata». Ma questo era tutto.

Una faccina baffuta sbucò dal giubbetto di Toby. Era il suo animaletto, Roger, un topo di fogna. Non era grigio come gli altri, lui era speciale: era un rarissimo topo albino, con il pelo bianco e gli occhi rossi che scintillavano come rubini. Toby lo aveva trovato nelle fognature e lo aveva salvato dai feroci topi di fogna grigi, che lo attaccavano perché era diverso.

E che cosa stava facendo Toby nelle fognature con i topi? Stava raschiando la popò dai muri. Raschiare i muri fu il primo lavoro di Toby dopo che i suoi genitori morirono di peste. Con una banda di ragazzini come lui andava intorno al palazzo reale e, a turno, puliva le fognature, che andavano dalle latrine fino al Tamigi. Era un lavoro schifoso e disgustoso.

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Ma Sir Percival gli aveva cambiato la vita, per questo era il suo eroe. Appena poche settimane prima, mentre Toby stava pulendo le fognature sotto Whitehall Palace, Roger era scappato. Zampettando, era risalito fino a una latrina del palazzo, e Toby dietro di lui.

Sfortunatamente in quel momento Sir Percival si trovava seduto proprio lì. Balzò in piedi come un razzo e Toby pensò, sono finito. Gli altri gentiluomini lo avrebbero fatto fustigare o addirittura giustiziare come spia.

Ma poteva arrabbiarsi il buon cavaliere quando un topo e un raschia-fogne uscivano dal suo bagno? Non Sir Percival. Scoppiò a ridere e mentre sbatteva le suole degli stivaloni di pelle esclamò: «Per la miseria, ragazzo! Mi cagionasti uno accidente. Ma cos’è codesta puzza nauseabonda? Sei tu? Pensomi che tu abbisogni di un poco di profumo dolce!»

E, con grande stupore di Toby, Sir Percival non lo rimandò giù nelle fognature e non lo punì. Invece, il buon cavaliere fu gentile con lui, gli portò degli abiti eleganti, gli trovò un lavoro come Custode della Chiave della Comoda del re. Toby amava già come un padre quel vecchio, schietto cavaliere.

Oltre la porta si udì un rinnovato fracasso. Toby fu strappato dal suo sogno a occhi aperti.

Il Dott. Sfuggente stava strillando: «Aiuto! Tradimento!

Omicidio!»

All’improvviso Sir Percival si precipitò fuori dalle stanze private del monarca, inseguito da due delle guardie del corpo del re armate di

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azze. «Lo Dott. Sfuggente dice che ho avvenenato il re!» ruggì a Toby.

Dall’altra porta gli si parò davanti il Sergente delle Armi con un’intera squadra di uomini armati. Sir Percival era circondato.

Poi, dalle stanze del re sgattaiolò fuori il Dott. Sfuggente con in mano due ampolle di vetro. Ci armeggiava spesso: le usava per studiare la pipì del re e per diagnosticare che cosa non andasse in lui.

Ma oggi la pipì reale aveva un aspetto davvero spaventoso. In un’ampolla era blu acceso, nell’altra era verde e ribolliva.

«Guardate!» urlò il Dott. Sfuggente innalzando trionfalmente le ampolle. «La pipì de lo re mostra chiari segni di avvenenamento!» La indicò con un dito che aveva un’unghia così lunga che si attorcigliava su se stessa come la coda di un maiale. «E sospetto che lo veneno si trovi nelle pastiglie di liquirizia che gli dà Sir Percival! Grazie al Cielo ho scoperto questo intrigo in tempo. Ho dato a lo sire un contravveneno.»

Sir Percival si dimenava nelle mani dei suoi sequestratori. «Mente!

Villano traditore! È lui che vuole fare del male a lo re!»

E Toby, con il cuore che scoppiava, cercava di aiutarlo.

«Sir Percival non è uno avvenenatore!» protestò. Ma il Dott.

Sfuggente si voltò verso di lui, con quegli occhi da cobra che scintillavano. «Sento odore di stregoneria qui!» disse con quel sibilo minaccioso.

«Che volete dire?» chiese il Sergente delle Armi. Ma i suoi soldati stavano già bofonchiando di paura.

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«Guardate voi stessi», disse il Dott. Sfuggente. Puntò contro Toby una lunga unghia gialla e adunca. «Lo ragazzo ha un aiutante magico.»

I soldati bofonchiavano ancora di più. Lo sapevano tutti che le streghe avevano degli aiutanti magici: creature che li assistevano, come lepri o gatti — o topi. E proprio in quell’istante il naso di Roger fece capolino dal giubbetto di Toby, come se anche lui fosse stato ipnotizzato dallo sguardo del Dott. Sfuggente.

«Fa parte del complotto anche lui! Portateli entrambi nella Torre!»

ululò il Dott. Sfuggente. «Metteteli sotto tortura!»

I soldati lottavano con Sir Percival. Alcuni balzarono in avanti per acchiappare Toby. Dalla mischia si udì il grido disperato di Sir Percival: «Corri Toby. Metti in salvo la tua vita!»

Toby corse. Attraversò le ampie sale, i cortili e le lunghe gallerie del palazzo. Volò su e giù per le scale, attraverso cucine calde e unte, attraverso passaggi bui, senza mai osare voltarsi indietro. Inciampò nell’arengo della giostra dove il re un tempo aveva duellato e che adesso era invaso dalla vegetazione.

Senza fiato, si riposò dietro dell’erbaccia alta color viola. In ogni momento si aspettava una mano sulla spalla: «Dichiaroti in arresto per aver tramato l’omicidio de lo re!» Ma nessun uomo armato venne a prenderlo sferragliando. Forse non lo avevano neanche rincorso.

Toby avrebbe dovuto seguire il consiglio del buon cavaliere, avrebbe dovuto scappare via lontano da Whitehall. Ma non lo fece. Al contrario, scivolò verso il fiume; nascosto nell’ombra vide Sir Percival

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che veniva trascinato fuori dal palazzo dagli uomini armati, urlando a ogni passo la sua innocenza.

«Sono stato accusato ingiustevolmente! Lo Dott. Sfuggente dice menzogne! Fate irruzione nei suoi alloggi. Lì troverete la prova contro di lui!» Nessuno ascoltava. Nessuno diceva qualcosa per difenderlo.

Avevano tutti troppa paura del Dott. Sfuggente.

Toby guardò in alto gli alloggi del dottore, proprio in cima al palazzo. Nessuno sapeva che cosa facesse lassù. A volte lo si vedeva sul tetto, specialmente durante i temporali, come un enorme pipistrello, con il mantello che gli si gonfiava intorno.

«È un mago», erano soliti bisbigliare i servi.

«Ordina ai tuoni. Comanda i lampi.» Alle spalle lo chiamavano Signore del Temporale.

Mentre Toby guardava su, il suo cuore quasi si fermò. Era il vecchio Signore del Temporale in persona quello che guardava giù?

«Devi andartene, ADESSO», si disse. Non poteva far niente per aiutare Sir Percival. Lo stavano trasportando alla Torre in una barca a remi stipata di uomini armati. Molte persone che entravano lì dentro non ne uscivano più, se non per farsi tagliare la testa. Sir Percival avrebbe visto alcune di quelle teste impalate passando sotto il London Bridge.

Toby stringeva i pugni dalla rabbia davanti alla sua impotenza.

Allo stesso tempo, le lacrime gli facevano bruciare gli occhi. «Proverò la sua innocenza», sussurrò. «Troverò la prova di cui parlava Sir Percival.» Anche se ciò significava tornare di nascosto a Whitehall e

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frugare negli alloggi del Dott. Sfuggente. Ma come avrebbe fatto a raggiungerli? L’unica via era attraverso la camera da letto del re. Il solo pensiero di una spedizione così rischiosa lo faceva tremare. E anche se avesse trovato la prova, che cosa avrebbe fatto?

«Devo mostrarla a Sua Maestà in persona!» Toby decise disperatamente. «Dovrò chiedere la grazia per Sir Percival!» Questo pensiero lo faceva tremare ancora di più. Toby non aveva mai neanche visto il re, lo aveva solo sentito ruggire nelle sue stanze come un grosso orso arrabbiato nella caverna.

«Ohilà, sei qui!»

Toby si girò. Oh no, uomini armati! Il Dott. Sfuggente doveva averlo visto da quell’alta finestra e doveva aver chiamato le guardie.

Scappò, e questa volta stava davvero correndo per mettere in salvo la sua vita.

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CAPITOLO V

«Dovrò fare qualche riconsiderazione», gracchiò Supergabi, che non era certo il meno demoralizzato per l’atterraggio sbagliato. Non aveva dubbi che il suo gigantesco cervello computerizzato avrebbe programmato un altro piano. «Ma ho bisogno di sapere dove siamo.

Esci e fai un giro di ricognizione.»

«Te l’ho detto, fa paura là fuori», replicò Finn. «Non è il genere di quartiere dove potrebbe vivere un re.»

«Al contrario», disse Supergabi, che sapeva sempre tutto. «Nella Londra Tudor i quartieri poveri si trovavano spesso accanto alle mura del palazzo. Basta che tu arrivi fino alla fine del vicolo», lo convinse.

«Sono sicuro che i miei calcoli non sono troppo sbagliati. Scommetto che Whitehall è a soli pochi passi di distanza.»

Finn sospirò. Come al solito il bagno la faceva facile. Ma non era lui a correre rischi. D’altro canto Finn sapeva di non avere molta scelta: adesso che Supergabi era tornato in epoca Tudor, non sarebbe mai andato a casa senza il suo cugino bagno.

«Va bene, diamoci un taglio» disse Finn. «Ma non andrò lontano.»

Si guardò allo specchio di Supergabi e si aggiustò il cappello floscio

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di escremento di mucca. «Sembro un coglione. Sei sicuro che tutti portassero questi aggeggi?»

«Ma certo!» disse il bagno. «Erano molto trendy al tempo dei Tudor. Ma non dimenticarti, sei un contadino. Togliti il cappello e inchinati davanti a tutti quelli più eleganti di te; cioè quasi tutti»

aggiunse. «E ricorda che ci sono tante regole in epoca Tudor, specialmente per i poveracci: non potevano giocare a birilli, a carte o a dadi. Non potevano vestirsi di pelliccia, di seta, d’oro o di rosso scarlatto. Non potevano dire niente di volgare sul re…»

«Sì, sì, lo so», disse Finn. «O gli tagliavano la testa.»

«In realtà», disse il bagno a cuor leggero, «quello era riservato ai nobiluomini e alle nobildonne. I poveri avevano una morte molto più crudele chiamata impiccagione, tiramento e squartamento.»

«Risparmiami i dettagli!» lo pregò Finn, il cui stomaco era già agitato. «Vado, OK?»

«Sii prudente là fuori», disse Supergabi mentre Finn metteva il naso fuori dalla cabina. E Finn sapeva che, nonostante tutte le sue colpe — il suo egoismo, il suo opportunismo e il suo gigantesco ego

— il bagno teneva molto a lui. Ormai avevano lavorato in squadra a diverse missioni di salvataggio.

«Starò attento», rispose Finn serio mentre usciva.

Corse dietro il carro ed esaminò da una parte e dall’altra il vicolo scuro e maleodorante, con i piedi che sguazzavano in qualcosa di molliccio. Che cos’era quella zuffa nelle tenebre? Il cuore di Finn iniziò a battere più forte. «Non c’è nessuno qui», si rassicurò.

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Probabilmente era soltanto un topo. Respirò profondamente e cominciò a scivolare lungo il vicolo.

Non appena Finn se ne fu andato, due ragazzi uscirono da dietro un ammasso di letame. Erano dei ladri, furfanti astuti e svegli sempre in cerca di guadagnare un centesimo disonesto.

Lavoravano insieme: Jago faceva il solletico, Zac tagliava i borsellini. Sceglievano la loro preda, magari un ricco e giovane signore con un borsellino bello gonfio che pendeva dalla cintura. Ma la gente a Londra ci teneva una mano sul borsellino— c’erano i ladri in giro! Allora Jago scivolava dietro il giovane signore e gli solleticava un orecchio con un filo di paglia; questi alzava la mano per grattarsi e, come un fulmine, Zac era lì con il suo coltellino affilato a tagliare il borsellino. Il giovane signore continuava a camminare tutto impettito senza rendersi conto di essere stato derubato, almeno fino a quando non controllava di nuovo dov’era il suo borsellino. Allora chiamava a gran voce una guardia: «Aiuto! Ohilà! Tagliaborse!»

Sguainava la spada per infilzare i farabutti. Ma per allora Zac e Jago si erano già confusi tra la folla.

«Zac, vecchia canaglia, cosa c’abbiamo qui?» domandò Jago.

Erano intorno alle pareti scintillanti di Supergabi. La porta della cabina era ancora socchiusa. Zac guardò attraverso la fessura.

«Per ir mi’ stiletto da sporta!» gridò, barcollando indietro dallo stupore. «Questa è ’na latrina! ’Na latrina d’argento. Degna d’uno re!»

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Supergabi sapeva perfettamente che erano lì. Li aveva sentiti arrivare e stava spiando la loro conversazione. Non pensava di essere in pericolo. D’altronde era troppo occupato a fare il sapientone, a cercare tra i dati nel suo gigantesco cervello computerizzato.

Ahhh, stiletto da sporta, stava pensando. Credo che sia gergo di epoca Tudor. Stiletto significa coltello. Sporta significa borsa.

Dunque stiletto da sporta significa coltello da tagliaborse! Molto realistico e colorito.

Avrebbe dovuto insegnare a Finn qualche parola dell’epoca. Lo avrebbe aiutato a integrarsi meglio. «Non importa», si consolò il bagno supergenio. Organizzare quelle missioni di salvataggio era una grossa responsabilità, non poteva pensare a ogni minima cosa.

«Pensomi che appartiene al re», disse Jago. «Chi lo abbandonò qui, mi chiedo?»

«Codesto non è affar mio», disse Zac. «Noi siamo due taccheggiatori, no? Taccheggiamolo.» Stava già issando il carro di fieno, lottando per liberarne le ruote dal fango. «Abbisognamo d’una cavalcatura o due», borbottò mentre soffiava e sbuffava.

«Cavalcatura», meditò il bagno con il cervello che gli frullava.

«Vediamo. È l’espressione gergale di epoca Tudor per cavalli. E taccheggiatori? È ovvio. I taccheggiatori sono i ladri, dunque taccheggiare significa…Aaaargh!»

Il bagno si sentì mettere su un lato. Jago lo alzò mentre Zac, usando tutte le sue forze, spingeva sotto il carro. Bump! Supergabi si

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schiantò sul carro. Dall’interno uscì un gracchio soffocato, coperto per metà dal canto di un ubriaco proveniente da Il Maiale Pezzato.

«Udisti quarcuno urlare qui vicino?» disse Zac guardandosi intorno nervosamente.

«None.» Jago scosse la testa. «Udii sortanto ir baccano de la taverna.»

«Allora andiamocene in fretta con ’sta latrina», disse Zac.

«Indove?» chiese Jago.

«C’ho un piano», disse Zac con gli occhietti furbi che brillavano nell’oscurità.

Presero ciascuno una stanga del vecchio carro. Mentre maledicevano quel duro lavoro trascinarono Supergabi tra le case pericolanti e mezze cadenti, nella direzione opposta a quella presa da Finn.

Finn non poteva immaginare che in quel momento stessero portando via Supergabi. Aveva già dei seri problemi di suo. Voleva soltanto arrivare in fondo al vicolo per vedere se Whitehall Palace fosse vicino. Ma la strada era più lunga e tortuosa di quanto pensasse.

Alla fine vide un barlume di luce.

La fine del vicolo, pensò. Finalmente. Era giorno là fuori! Era talmente buio laggiù che aveva pensato di essere atterrato di notte.

Uscì sulla strada, strizzando gli occhi nel sole invernale.

Subito Finn si ritrovò in mezzo a una folla di persone. Il rumore gli feriva le orecchie. Dappertutto provenivano grida: «Spazzacamino,

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signora!» «Comprate le mie belle ostriche!» Una carrozza tirata da dei cavalli fumanti sbandò, Finn la schivò, poi inciampò su un cane che rovistava tra i rifiuti. I passanti frettolosi gli sbattevano contro, lo spingevano.

«Attenzione laggiù!»

Finn alzò lo sguardo, a bocca aperta. Una donna era affacciata alla finestra, immobile, con in mano un vaso da notte pieno fino all’orlo.

Oh no! Pensò Finn balzando all’indietro, mentre il contenuto si abbatteva giù.

«Fammi passare, miserabile!» Un uomo in un raffinato abito scarlatto rifinito di pelliccia gli dette un calcio per toglierlo di mezzo, come si fa con un cane randagio.

Finn recuperò il suo cappello dal fango e si guardò intorno, nel panico. Dove si trovava? Dov’era Whitehall? Ma non ebbe il tempo di scoprirlo.

«All’attacco!» si udì un grido furioso. «I garzoni, da me!

All’attacco! All’attacco!»

Che cosa sta succedendo? Pensò Finn, perplesso. Gli abitanti si disperdevano. Le donne tiravano su le loro gonnelle Tudor e fuggivano. Le madri spingevano i bambini in salvo. Poi Finn vide una folla di ragazzi che si riversava per strada in massa: rovesciarono un banco del mercato e le mele rotolarono dappertutto; i polli svolazzarono via starnazzando.

Finn avrebbe dovuto muoversi più in fretta. Un attimo prima era lì, stordito e confuso. Un attimo dopo era coinvolto in una battaglia

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urbana. Finn non poteva saperlo, ma i Carpentieri si stavano azzuffando con i Pescivendoli. Il garzone di un Pescivendolo aveva schiaffeggiato un ragazzo del Carpentiere con un rombo bagnato. Il grido «All’attacco» si era levato e adesso era in corso una rivolta in piena regola.

Ma poi si levò un altro grido: «Gendarmi!» La strada si svuotò per la seconda volta: i garzoni si dispersero, veloci come scarafaggi, e scomparvero schizzando via per le stradine.

Alcuni uomini robusti in giacche di pelle e armati di bastoni vennero di corsa nella strada. La polizia! Pensò Finn.

«C’è uno di que’ miserabili garzoni!» esclamò sulla porta un barbiere-chirurgo che stava osservando la scena nel suo grembiule macchiato di sangue.

«Era coinvorto anche lui, quant’è vero che sono una onesta cittadina», aggiunse una casalinga affacciata alla finestra dell’ultimo piano.

Il cervello disse a Finn: «Scappa!»

«Indove vai con cotanta fretta?» ringhiò una voce proprio vicino al suo orecchio. Un braccione muscoloso lo prese per la collottola e lo scosse come fa un cane con un coniglio. Si ritrovò davanti una faccia setolosa con l’alito caldo e puzzolente.

«Non ero con loro», iniziò a balbettare Finn. «Stavo solo passeggiando, mi facevo gli affari miei…»

«Chetati!» sbottò la guardia. «I tuoi capelli ti tradiscono. Tu sei un garzone di bottega, o io sono olandese!»

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I miei capelli? Pensò Finn. Che cosa c’entrano i miei capelli? E dove lo stavano portando? Lo stavano trascinando a faccia in giù e con le mani legate verso la bottega del barbiere-chirurgo.

«Lasciatemi andare!» strillava Finn lottando come un pazzo.

Aveva sentito parlare dei barbieri-chirurghi: toglievano i denti cariati e tagliavano le gambe senza anestesia.

Lo costrinsero a sedersi su un barile rovesciato. Il barbiere- chirurgo prese un paio di cesoie di ferro dall’aspetto minaccioso.

«Aiuto!» strillò Finn mentre l’uomo con il grembiule insanguinato si avvicinava. Quale terribile condanna Tudor era mai questa? Ma Finn non riusciva a muoversi. I gendarmi lo avevano immobilizzato.

Poi gli lasciarono cadere qualcosa di pesante sulla testa. Era una qualche infernale macchina di tortura? No. Era una pentola. Ma Finn stava ancora tremando; sentiva il rumore delle cesoie che tagliavano.

Ma non vedeva un tubo — la pentola gli copriva gli occhi.

All’improvviso gliela tolsero e Finn si guardò intorno, nel panico. Poi vide i suoi capelli sul pavimento e si portò una mano tremante alla testa.

Mi hanno tagliato i capelli, pensò perplesso. Gli avevano scorciato i capelli fin sopra le orecchie, fin dove era arrivata la pentola.

«Posso andare adesso, per favore?» supplicò Finn. Il vicolo in cui lo stava aspettando Supergabi non era lontano. Riusciva praticamente a vederlo dal posto in cui era seduto. Moriva dalla voglia di correre al sicuro nella cabina d’argento. Ma non avevano ancora finito con lui. I gendarmi lo acciuffarono di nuovo e lo spinsero fuori dalla bottega.

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Un altro gruppo di garzoni attaccabrighe stava venendo giù dalla strada facendo un gran baccano. Volavano calci, pugni e randellate sulla testa! Ma stavolta i gendarmi non li arrestarono; al contrario, sorridevano benevoli.

«I garzoni amano così tanto ir vivace giuoco de la palla ar piede», disse uno di loro.

Poi Finn vide volare in aria una palla fatta con la vescica di un maiale. Qualcuno gli aveva dato un calcio davvero potente. Questa è una ragazza! pensò Finn.

Una ragazza con dei lunghi ricci pel di carota si stava facendo largo nella mischia e correva dietro alla palla che aveva appena calciato. La prese e si mise a correre come una furia. Stava cercando di raggiungere la porta, che era un po’ distante. Gli altri la seguivano urlando.

«Vedesti quella piccola canaglia dai capelli rossi che ha corpito la palla con cotanta forza?» chiese una guardia. «Non è l’apprendista de la signora Harris? Non le è proibito di giuocare a palla ar piede?»

«Sìe», rispose l’altro sorridendo. «E la signora Harris sarà più inferocita di un orso da combattimento quando lo scoprirà.»

Finn aveva molte domande che gli ronzavano in testa. Una ragazza apprendista? Non pensava che fosse loro concesso. E brava a giocare a calcio? Finn credeva che le ragazze di epoca Tudor stessero in casa a ricamare arazzi e a suonare il liuto. E il calcio di allora aveva delle regole? A Finn non sembrava molto diverso dalla guerriglia urbana che aveva visto prima. Ma non c’era tempo per occuparsi di queste

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cose. Adesso che il gioco si era spostato avanti, i gendarmi lo trascinarono di nuovo.

«Dove stiamo andando?» urlò Finn. Non molto lontano a quanto pareva. Lungo la strada c’era una piazzetta del mercato e nel mezzo c’erano dei — ceppi! Pensò Finn, facendosi prendere di nuovo dal panico. Avrebbe dovuto immaginarsi che non se la sarebbe cavata con un semplice taglio di capelli.

Erano dei ceppi doppi, per due criminali. E c’era già qualcuno dentro: era un ragazzo, più o meno della stessa età di Finn. Una folla beffarda di bambini lo circondava; una ragazzina prese una manata di sterco di cavallo e gliela lanciò a raffica così che gli si spiaccicò tutta sul viso. I bambini gridavano e ridevano di gioia.

«Bel colpo, Bess!» urlò uno di loro.

Finn lottava scatenato. «Io lì non ci vado! Non ho fatto niente!»

Ma era tutto inutile; la corpulenta guardia lo teneva stretto.

Qualcuno grugnì: «Stai fermo ragazzo, o verrai bastonato».

Dispersero la folla derisoria e costrinsero Finn a sedersi su della paglia sudicia. Sollevarono la barra superiore, gli ci infilarono dentro le gambe, poi la bloccarono di nuovo.

Finn guardò le sue gambe chiuse nei ceppi come un hamburger in un panino e si chiese: «Come cavolo ho fatto a cacciarmi in questo casino?»

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CAPITOLO VI

Sprofondato nella sua disgrazia, Finn aveva a malapena notato il ragazzo tutto schizzato di sterco che era nei ceppi vicino a lui. Finché non parlò.

«Mi chiamo Toby», disse. «Come sei finito qui?»

Finn aggrottò le sopracciglia. Non ne aveva la minima idea. E con la coda dell’occhio vide tornare furtivamente quei ragazzini armati di foglie di cavolo marce e maleodoranti.

«Hanno detto che ero un garzone o qualcosa del genere», disse.

«Hanno detto lo stesso di me», esclamò Toby. «È stata sfortuna.

Ma è stato un giorno sfortunato per me.»

E raccontò al suo vicino di ceppi che cosa era accaduto, come Sir Percival era stato accusato ingiustamente e arrestato. Come, ricercato da uomini armati, aveva corso per le strade in preda a una paura matta, senza neanche sapere dove stesse andando. Alla fine li aveva seminati.

Ma poi, come Finn, era rimasto coinvolto in quella folla selvaggia di garzoni in lotta tra loro. I gendarmi lo avevano acciuffato, gli avevano detto: «Miserabile, dove hai rubato codesto giubbetto di seta? È fin

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troppo raffinato per il garzone di un pescivendolo!» Lo avevano imprigionato nei ceppi fino a quando non avesse confessato la verità.

Ma come poteva dire loro: «Sono il Custode de la Chiave de la Comoda del re. Questo giubbetto me lo ha dato Sir Percival?» Così facendo avrebbe rivelato chi era realmente e sarebbe stato trascinato anche lui nella Torre, sbattuto in catene in una segreta puzzolente.

Finn ascoltava mentre Toby srotolava la sua storia. Aveva capito che quel ragazzo era spaventato e angosciato quanto lui. Ma a parte questo, non riusciva ad afferrare molto. Toby parlava inglese? Come con i gendarmi, alcune parole avevano senso: qualcosa a proposito di Sir Percival Sploffing in pericolo di vita. Ma altre suonavano solo come un borbottio.

«Ascolta», disse Finn quando Toby ebbe finito. «Non ci ho capito molto. Ma mi chiamo Finn, OK? E devo uscire di qui!» Una foglia marcia di cavolo lo colpì sulla bocca; la sputò sconsolato. Adesso stava tremando nel suo costume fatto con un sacco di iuta. Quel sole invernale non riscaldava per niente e il freddo gli stava entrando nelle ossa.

Toby si stava pulendo il viso dal viscidume di un uovo marcio.

Anche lui capiva a malapena Finn. Pensò che fosse uno straniero che non parlava inglese correttamente. Ma non c’era dubbio che fossero d’accordo su una cosa. «Anch’io devo scappare», disse Toby. «E alla svelta!»

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Ma come facevano? Un gendarme era rimasto a fare la guardia, perciò non potevano andare via. E c’erano degli onesti cittadini tutt’intorno che li avrebbero presi se avessero provato a fuggire.

«Vaffa’!» urlò Finn mentre una vecchia signora dall’aria rispettabile gli tirava una zolla di sterco di cavallo.

«Criminali!» strillò. «Dovreste essere impiccati, tirati e squartati!»

Poi il musino baffuto di Roger fece capolino dal giubbetto di Toby.

Il fedele topolino era rimasto aggrappato al suo padrone mentre correva come un matto per le strade di Londra. In quel momento uscì e si appollaiò sulla spalla di Toby.

«È il tuo topo quello?» disse Finn ritraendosi. Ma aveva poco da obiettare: il topo era molto più pulito di lui. Stava pulendo al sole il suo soffice manto bianco.

La guardia, che aveva osservato annoiata per tutto il tempo, continuò a passeggiare.

«Cos’è quella strana bestia?» domandò. Come la maggior parte della gente di epoca Tudor, non aveva mai visto un topo completamente bianco come Roger.

All’improvviso Toby ebbe un lampo di genio. «Se non vi dispiace, agente, è il topo de la regina», disse.

Il gendarme aggrottò le sopracciglia; era un po’ tardo di comprendonio, ma alla fine afferrò. «La nostra regina?» chiese eccitato. Dovette pensare un attimo chi era la regina in quel momento

— era dura stare dietro alle mogli di Enrico. «Sòllo, è Caterina Parr!

Dicesi che abbia uno spaniel, Rig. Ha un collare d’oro! Ma non ho

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mai sentito parlare di un topo.» D’altro canto si rendeva conto che quello non era un topo normale: era raffinato, nobile, adatto a una regina.

«Come sei entrato in possesso del topo de la regina?» domandò.

Toby abbassò lo sguardo con un’espressione colpevole. «Lo ho rubato», mormorò. «E ne chiedo umilmente perdono. Vorrei tanto che ci fosse un modo per restituirlo.»

«Ci sarebbe una buona ricompensa per chi restituisce il topo de la regina?» chiese il gendarme.

«Si dice che la regina lo adori», disse Toby tenendo la testa bassa, in modo che il gendarme non potesse vedere la scintilla di speranza nei suoi occhi. «Anche più del suo spaniel, Rig. Offrirebbe volentieri una borsa di argento.»

«Dici davvero?» si meravigliò il gendarme.

«O addirittura di oro», suggerì Toby.

Gli occhi del gendarme scintillarono di avidità. «Sfollare!» ordinò alla calca di lanciatori di letame. Voleva quella ricompensa tutta per sé. Balzò pesantemente in avanti per strappare Roger dalla spalla di Toby. Ma Roger si fiondò di nuovo nel giubbetto del suo padrone. Il gendarme fece un’altro scatto quando vide il nasino rosa di Roger sbucare dal collo, dai polsini e attraverso gli spacchi alla moda della calzamaglia di Toby.

«Maledetto topo!» urlò il gendarme. «Vi supplico, signor agente», disse Toby umilmente. «Liberatemi per un attimo e lo prenderò io per

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voi.» Finn era stato a guardare, confuso. Non riusciva a comprendere quell’affare del topo. Che cosa diavolo stava architettando Toby?

Il gendarme esitò, ma solo per un attimo — quella ricompensa lo tentava troppo. E Toby sembrava un tipo onesto, che si era pentito del crimine commesso. Perciò aprì i ceppi. Toby si alzò con una smorfia di dolore a causa dei crampi alle gambe. Cercò all’interno del giubbetto e tirò fuori Roger, seduto sulla sua mano.

Il gendarme mise giù l’azza. Cercò di acchiappare Roger con entrambe le mani. Non voleva in nessun modo lasciarselo scappare:

significava ricchezze per lui, più oro di quanto avesse mai desiderato.

Toby urlò: «Scappa, Finn!»

Finn aveva realizzato solo allora: alzare quella barra aveva liberato anche le sue gambe. E non aveva bisogno di farselo dire due volte.

Scappò via. Dietro di lui sentì un grido: Roger aveva morso il gendarme con i suoi dentini appuntiti come aghi. Volò via con un balzo e atterrò sulla spalla di Toby.

«Prendeteli!» strepitò il gendarme. Finn si fermò di botto e guardò indietro. Toby stava barcollando, aveva le gambe molli come gelatina:

era stato imprigionato in quei ceppi molto più a lungo di lui. Finn tornò indietro di corsa e lo afferrò, trascinandolo con sé. Tutto quello che dovevano fare era raggiungere la cabina di Supergabi.

Insieme, si infilarono nello stretto corridoio tra le case e camminarono attraverso la melma maleodorante. Tremando, si nascosero nell’oscurità. Ma la cagnara passò oltre. Il gendarme e la

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sua banda di cittadini mancarono completamente l’ingresso del vicolo e filarono a dritto.

Finn se la svignò nel vicolo, mentre Toby incespicava dietro di lui.

All’improvviso Finn si fermò e si guardò intorno. Aveva preso la strada sbagliata? No, laggiù c’era Il Maiale Pezzato. E quello era il luogo dove era atterrato Supergabi, accanto al muro di argilla con la tinta blu che si sfaldava. Mancava solo Supergabi.

Nel panico, Finn correva su e giù, anche se sapeva che Supergabi non poteva muoversi senza l’aiuto di qualcuno. A meno che, certo, non fosse tornato nel ventunesimo secolo. In quel momento Finn era davvero in preda al panico. Stava per vomitare.

Non lo farebbe mai, pensò. Non lo abbandonerebbe mai a quel modo in epoca Tudor. O no? Non si poteva mai sapere come funzionava il cervello di quel bagno. Aveva i suoi impegni, lui. Aveva giurato spesso che non avrebbe mai lasciato Finn nel passato. Ma c’era da credergli?

«Quel bagno bugiardo», sputò fuori Finn, quasi in lacrime, mentre Toby gli stava accanto perplesso. «Perché mai gli ho creduto? È andato a casa senza di me!»

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CAPITOLO VII

Intanto nel ventunesimo secolo Fred Von Menten era giunto a destinazione nella piccola cittadina del nord dove viveva Finn e dove si trovava la Hi-Tech Toilets. In quel preciso istante era seduto nella sua piccola stanza di albergo che somigliava a una cella: era beige, squallida e dimenticabile all’istante. Proprio come lui.

Ma giudicare il signor Fred Von Menten solo dall’aspetto esteriore sarebbe stato un grave errore. Nella tasca interna del suo vestito grigio c’era un biglietto da visita che diceva semplicemente:

CACCIATORI DI ROBOT Spa Problemi con il robot?

Dacci un colpo di telefono!

Lo localizziamo. Lo eliminiamo.

Il signor Fred Von Menten era un sicario e avrebbe lavorato per qualsiasi governo, per qualsiasi organizzazione. Bastava pagare abbastanza i suoi capi. Ma non eliminava persone, uccideva macchine, presuntuosi robot sfuggiti al controllo degli umani. E non aveva

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bisogno di pistole o di qualche altra sofisticata attrezzatura militare, la sua unica arma era il computer portatile che teneva in quella sottile ventiquattrore nera.

Fred Von Menten aprì il portatile e lo accese. Aveva avuto a che fare con parecchi robot ribelli: in giro ce ne erano molti di più di quanto la gente pensasse. Ma le notizie che li riguardavano venivano sempre insabbiate, per paura di scatenare il panico. C’era da immaginarsi i titoli:

“PERSO CONTROLLO DI ROBOT AMMATTITI!”

“MACCHINE IMPAZZITE SI IMPADRONISCONO DEL MONDO!”

Il robot-badante che aveva preso il controllo della casa di quegli anziani? Era stato chiamato il signor Fred Von Menten. E le robot- pattumiere che dovevano trasportarsi fuori da sole senza bisogno dei netturbini, ma che finirono con il cacciarli dalle strade, sbattendo i coperchi come coccodrilli affamati? Il signor Fred Von Menten aveva avuto a che fare con loro, senza problemi.

Presto sarebbe stato addirittura inviato nello spazio. Tutto era stato tenuto segreto, ma c’erano dei robot ribelli sulla luna. Erano sbarcati da un razzo senza equipaggio con il compito di andare in giro a raccogliere dei campioni di rocce lunari, ma erano scappati e avevano insediato una piccola colonia all’interno di un cratere.

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