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La direttiva 2013/11/UE, sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori - Judicium

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FRANCESCO P.LUISO

La direttiva 2013/11/UE, sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori

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SOMMARIO: 1. Premessa; 2. La finalità e l’ambito di applicazione; 3. Le modalità di risoluzione delle controversie; 4. Il procedimento; 5. La terzietà, l’imparzialità e la competenza del soggetto incaricato; 6. L’esito negoziale; 7. Il regime giuridico della risoluzione consensuale; 8. L’esito vincolante; 9. L’efficacia e la validità dell’atto vincolante; 10. La soluzione imposta senza il consenso del professionista; 11. L’obbligatorietà del procedimento.

§ 1. Con la direttiva 2013/11, l’Unione va avanti nell’incentivare la risoluzione alternativa delle controversie: dopo la direttiva 52/2008 sulla mediazione ed il successivo regolamento 524/2013 sulla risoluzione delle controversie online dei consumatori (ODR), il testo che stiamo esaminando – lo vedremo subito – compie un notevole salto di qualità.

Per affrontare meglio l’esame della direttiva (che è assai più complessa della precedente sulla mediazione: ha ben 62 considerando e 28 articoli, a fronte dei 30 considerando e dei 14 articoli dell’altra) è bene procedere per ordine: dapprima vedremo l’ambito di applicazione della direttiva, e successivamente le modalità della risoluzione delle controversie, distinguendo fra le varie ipotesi previste dalla direttiva stessa, ed i loro rapporti con la giurisdizione. Non esamineremo, invece, la disciplina relativa ai soggetti (gli organismi ADR) abilitati a svolgere l’attività diretta a tal fine, in quanto ciò esige una separata indagine.

§ 2. La finalità della direttiva è espressa dall’art. 1: si tratta di offrire, ai consumatori, strumenti di risoluzione non giurisdizionale delle controversie nei confronti dei professionisti.

Questi strumenti sono costituiti da reclami, presentati ad organismi abilitati a compiere una tale attività1.

La nozione di consumatore e professionista è fornita dall’art. 4, comma 1, lettere a) e b), e non diverge da quella consueta: è consumatore la persona fisica che agisca per finalità che non rientrano nella sua attività commerciale, industriale, artigianale e professionale; è professionista qualsiasi soggetto (persona fisica o giuridica; privata o pubblica), che agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale e professionale. Dunque, la stessa persona fisica può essere consumatore o professionista, in relazione allo stesso rapporto, a seconda della finalità perseguita: così, l’avvocato che compra un computer per casa è un consumatore; se acquista lo stesso computer per il suo studio è un professionista.

1 Il considerando 15 riconosce che la diffusione dell’ADR può anche avere un effetto deflattivo sul carico giudiziario, ma non finalizza in alcuno modo la direttiva a tale risultato.

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Le controversie in questione debbono derivare da contratti di vendita o di servizi2 fra professionisti stabiliti nell’Unione3 e consumatori residenti nell’Unione.

La direttiva non trova applicazione (art. 2, comma 2) ad una disomogenea serie di casi, che possono così essere raggruppati:

a) talvolta rileva il contenuto della controversia: così la direttiva non si applica ai servizi non economici di interesse generale4 (lettera c); alle controversie fra professionisti (lettera d); ai servizi di assistenza sanitaria (lettera h); agli organismi pubblici di istruzione superiore o di formazione continua (lettera i);

b) altre volte rileva il soggetto che prende l’iniziativa: così la direttiva non si applica alle procedure avviate da un professionista nei confronti di un consumatore (lettera g);

c) altre volte ancora rileva il tipo di attività svolta per la risoluzione della controversia: così la direttiva non si applica alla negoziazione diretta fra consumatore e professionista (lettera e) ed ai tentativi di conciliazione posti in essere dal giudice (lettera f);

d) rileva, infine, il soggetto che compie l’attività: così la direttiva non si applica, in linea di principio, alle procedure svolte da organismi in cui le persone fisiche incaricate della risoluzione della controversia sono assunte o retribuite esclusivamente dal professionista (lettera a), sempre che il singolo Stato membro non stabilisca diversamente5.

Possiamo dunque mettere un primo punto fermo, utile nel prosieguo: gli strumenti di risoluzione delle controversie, previsti dalla direttiva, possono essere attivati solo dal consumatore nei confronti del professionista e non viceversa; e la direttiva si applica solo allorché del reclamo sia investito un organismo ADR ai sensi dell’art. 4, comma primo, lettera h) della direttiva6

§ 3. La questione centrale posta dalla direttiva, e che ne costituisce anche la novità più importante, riguarda le modalità di risoluzione delle controversie. L’art. 2, comma 1, individua tali modalità nei seguenti termini: <<procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie …....

attraverso l’intervento di un organismo ADR che propone o impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole [corsivi nostri]>>.

2 La nozione di contratto di vendita e di servizi è fornita dall’art. 4, comma 1, lettere c) e d).

3 La nozione di professionista stabilito nell’Unione è fornita dall’art. 4, comma 2.

4 La nozione di servizi non economici di interesse generale è fornita dal considerando 13: si tratta dei servizi prestati dallo Stato, o per conto dello Stato, senza corrispettivo economico.

5 V. infra, § 5.

6 Organismo ADR è <<qualsiasi organismo, a prescindere dalla sua denominazione, istituito su base permanente, che offre la risoluzione di una controversia attraverso una procedura ADR ed è inserito in elenco ai sensi dell'articolo 20, paragrafo 2>>

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Per fare chiarezza sul significato di soluzione proposta, imposta o amichevole, e sui correlati problemi della volontarietà o della obbligatorietà della procedura, nonché sui rapporti fra questa attività e la tutela giurisdizionale dei diritti, è opportuno richiamare alcuni dati fondamentali. Ciò che si farà molto sinteticamente, in quanto si tratta di nozioni ben note.

Per risolvere una controversia occorre che venga ad esistenza un atto, che individui in modo vincolante le regole concrete di condotta che, con riferimento ad un certo bene della vita, in futuro disciplineranno le condotte degli interessati. La summa divisio in relazione alla genesi di tale atto corre fra i modi autonomi e quelli eteronomi.

La risoluzione autonoma della controversia è tale perché autori dell’atto e destinatari degli effetti dell’atto coincidono: l’atto in questione è dunque un contratto. Da ciò conseguono due importanti corollari: le regole concrete, contenute nell’atto, sono individuate dalle parti secondo una insindacabile loro valutazione di opportunità, e non secondo <<giustizia>> (nel senso che vedremo fra poco); non è rilevante come e chi abbia predisposto il testo contrattuale poiché le parti, prima di vincolarsi ad esso, ne conoscono il contenuto e sono in grado di valutare se risponde o meno ai loro interessi ed ai loro bisogni. Dunque non vi sono invalidità dell’atto che possano derivare dalla violazione di regole relative alla sua formazione, in quanto tali regole non vi sono (se non quelle, generali, attinenti ai vizi del volere).

La risoluzione eteronoma della controversia è tale perché autore dell’atto e destinatari degli effetti dell’atto non coincidono: è un soggetto terzo ad individuare le regole concrete contenute nell’atto. Quest’ultimo può essere vincolante o perché le parti hanno dato il loro assenso (così, ad es., nell’arbitrato) o perché proviene da un potere pubblicistico-autoritativo, in grado di imporsi anche senza il consenso degli interessati.

Dalla terzietà del soggetto, autore dell’atto, conseguono due importanti corollari: anzitutto il terzo deve individuare le regole in questione normalmente sulla base della verifica della realtà sostanziale esistente, e dunque secondo <<giustizia>>. In secondo luogo l’atto in questione in tanto è valido, in quanto siano state rispettate le norme dettate per la sua formazione. In particolare, deve sempre essere garantito agli interessati il principio del contraddittorio nella fase dedicata alla verifica di ciò che costituirà poi il metro di giudizio del terzo. È sempre possibile, dunque, contestare l’efficacia dell’atto denunziando la sua invalidità, qualora esso si sia formato senza il rispetto delle regole che appunto ne disciplinano la formazione.

§ 4. Orbene, alle modalità con le quali si svolge l’intervento dell’ organismo ADR, con il quale quest’ultimo <<propone o impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole>>, la direttiva dedica alcune disposizioni.

Le due disposizioni fondamentali sono contenute nell’art. 8, lettera d), secondo la quale

<<l'organismo ADR che ha ricevuto un reclamo dà alle parti notifica della controversia non appena

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riceve tutti i documenti contenenti le informazioni pertinenti riguardanti il reclamo>>; e nell’art. 9, comma primo, secondo il quale <<gli Stati membri garantiscono che nell'ambito delle procedure ADR: a) le parti abbiano la possibilità, entro un periodo di tempo ragionevole, di esprimere la loro opinione, di ottenere dall'organismo ADR le argomentazioni, le prove, i documenti e i fatti presentati dall'altra parte, le eventuali dichiarazioni rilasciate e opinioni espresse da esperti e di poter esprimere osservazioni in merito; ….. c) alle parti sia notificato l'esito della procedura ADR per iscritto o su un supporto durevole, e sia data comunicazione dei motivi sui quali è fondato>>. Il considerando 31, dal canto suo, afferma che le controversie debbono essere risolte << in modo equo, pratico e proporzionato sia nei confronti dei consumatori che dei professionisti, sulla base di una valutazione oggettiva delle circostanze nelle quali il reclamo è presentato e nel rispetto dei diritti delle parti>>.

L’altra rilevante disposizione è contenuta nell’art. 7, comma primo, lettera i), secondo il quale gli organismi ADR debbono fornire informazioni chiare e facilmente comprensibili riguardanti <<i tipi di regole sulle quali l'organismo ADR può basarsi per risolvere le controversie (ad esempio disposizioni giuridiche, considerazioni di equità, codici di condotta)>>.

Come si vede, la direttiva delinea un procedimento improntato al principio del contraddittorio, di struttura tendenzialmente contenzioso-decisoria, che porta ad un atto finale motivato, in perfetta simmetria con quanto accade nel processo giurisdizionale dichiarativo e nell’arbitrato. Del resto, per le ragioni già dette – e cioè l’inaccessibilità dei terzi al piano dei bisogni e degli interessi, piano che resta dominio esclusivo delle parti, e nel quale pone le sue radici il contratto – il terzo non può che individuare il contenuto del proprio atto (e, cioè, le regole concrete che in futuro vincoleranno le parti, sostituendosi così alle norme generali ed astratte) con riferimento ad un quid esterno oggettivo. E tale quid, ai sensi dell’art. 7, comma primo, lettera i), deve essere reso noto e conoscibile.

§ 5. La somiglianza del procedimento ADR, delineato dalla direttiva, con la giurisdizione dichiarativa e con l’arbitrato è rafforzata dalla pluralità di previsioni volte a garantire la imparzialità del soggetto/persona fisica incaricato di <<proporre o imporre>>. È questa, come sappiamo, una caratteristica essenziale del soggetto, cui sia affidata la risoluzione della controversia7: terzietà ed imparzialità che vengono garantite con strumenti diversi, e che ovviamente riguardano non solo e non tanto il profilo soggettivo (i rapporti personali fra la persona fisica dell’incaricato e le parti e/o i loro difensori) quanto e soprattutto il profilo oggettivo (cioè l’indifferenza rispetto agli interessi in conflitto).

7 Corte di giustizia 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson c. Ordre des avocats du barreau de Luxembourg.

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Ebbene, la direttiva contiene una serie di disposizioni volte ad assicurare quanto sopra indicato. Anzitutto l’art. 2 comma secondo lettera a), secondo il quale in linea di principio non rispondono ai requisiti richiesti le procedure dinanzi ad organismi in cui le persone fisiche incaricate della risoluzione delle controversie sono assunte o retribuite esclusivamente dal professionista. Gli Stati membri possono derogare a tale norma, ma allora devono essere rispettati i requisiti specifici di cui all’art. 6, comma terzo8.

Inoltre, ai sensi dell’art. 6, comma primo, le persone fisiche incaricate dell’ADR debbono essere nominate per un mandato di durata sufficiente a garantire l'indipendenza della loro azione e non possono essere rimosse dalla loro mansione senza giusta causa; non debbono essere soggette a istruzioni dell'una o dell'altra delle parti o dei loro rappresentanti; e debbono essere retribuite secondo modalità non legate all'esito della procedura.

Per ciò che attiene alla competenza della persona fisica, incaricata dall’organismo ADR, la direttiva stabilisce che esse debbano possedere le capacità specifiche proprie della risoluzione alternativa delle controversie nonché una comprensione generale del diritto (art. 6, comma primo, lettera a). Il considerando 36 precisa che <<tali persone dovrebbero possedere conoscenze giuridiche generali sufficienti per comprendere le implicazioni giuridiche della controversia, senza dover necessariamente essere professionisti legali qualificati>>.

§ 6. A questo punto possiamo entrare nel merito della questione che abbiamo posto all’inizio del paragrafo 3: e, cioè, cosa significa che l’organismo ADR propone o impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole.

La direttiva con queste espressioni richiama indubbiamente sia un meccanismo eteronomo (impone) sia un meccanismo autonomo (propone; riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole). È chiaro infatti che la proposta dell’organismo, per concretare la soluzione della controversia, dovrà essere accettata da tutte le parti: onde si formerà un contratto finalizzato alla risoluzione della controversia, rispetto al quale la proposta svolge il ruolo di testo contrattuale, recepito dalle parti con la propria volontà negoziale. Sostanzialmente siamo dunque in presenza di una fattispecie di mediazione9.

Poiché ambedue le espressioni richiamano uno stesso istituto, occorre stabilire qual è la differenza fra le due ipotesi. Come abbiamo visto, il procedimento delineato dagli artt. 8 e 9 è tipicamente contenzioso-decisorio, e pur tuttavia l’esito di questo procedimento non è una decisione, ma una proposta destinata, se le parti l’accettano, a trasformarsi in un contratto. Si deve dunque concludere che sono diverse le metodologie utilizzate dall’organismo nell’una (proposta) e

8 Il quale individua delle regole che, sostanzialmente, vogliono garantire che alla dipendenza economica non si accompagni anche una dipendenza funzionale.

9 Così come definita dall’art. 3, lettera a) della direttiva 52/2008: << per "mediazione" si intende un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l'assistenza di un mediatore>>.

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nell’altra (soluzione amichevole) fattispecie. In particolare, mentre nella proposta siano in presenza di una mediazione aggiudicativa, nell’altra siamo in presenza di una mediazione facilitativa10.

La tecnica aggiudicativa, infatti, si caratterizza proprio per la ricerca, da parte del mediatore, di una soluzione (presumibilmente) coincidente con quella che darà il giudice (o l’arbitro): onde l’attività con cui il mediatore ricerca gli elementi sulla base dei quali dare un contenuto alla propria proposta sostanzialmente coincide con quella che il giudice o l’arbitro svolgono per dare un contenuto alla loro decisione.

È vero che, come abbiamo visto, la risoluzione contrattuale delle controversie non è condizionata, nella sua validità ed efficacia, da regole attinenti alle modalità di formazione del testo contrattuale, e pertanto garantire contraddittorio e motivazione, come visto nel § 4, sembrerebbe apparentemente non avere senso. Invece, è evidente che tanto più le parti si convinceranno che la proposta è da accettare, quanto più questa parrà loro <<giusta>>. Sicché ha senso che le stesse regole si applichino sia alla proposta che alla decisione.

Ove, invece, si tratta di agevolare una soluzione amichevole, è chiaro che l’interesse del mediatore e delle parti si rivolgerà all’intreccio di bisogni ed interessi sottostanti le rispettive pretese giuridiche.

§ 7. Abbiamo già detto che di regola l’accordo, che raggiungono le parti, non è condizionato nella sua validità dal rispetto delle regole che disciplinano la formazione della proposta, ed abbiamo visto che la ragione pratica di ciò sta nel fatto che l’assenso delle parti è posteriore alla conoscenza che hanno del testo contrattuale: sicché, se il mancato rispetto delle eventuali regole esistenti ha inciso sulla <<bontà>> del testo, le parti possono sempre rifiutare il loro consenso; se non ha inciso, perché nonostante tale mancato rispetto il mediatore è riuscito comunque a sottoporre alle parti un testo contrattuale confacente ai loro bisogni ed ai loro interessi, non avrebbe senso invalidare l’accordo.

Occorre tuttavia verificare se il legislatore non abbia per caso posto una regola diversa.

Orbene, l’art. 9, comma secondo, lettere b), c) e d) della direttiva contiene la seguente disposizione, in base alla quale, nell'ambito delle procedure ADR volte a risolvere la controversia proponendo una soluzione, gli Stati membri garantiscono che:

<< b) le parti, prima di accettare o meno o di dare seguito a una soluzione proposta, siano informate del fatto che:

i) hanno la scelta se accettare o seguire la soluzione proposta o meno;

ii) la partecipazione alla procedura non preclude la possibilità di chiedere un risarcimento attraverso un normale procedimento giudiziario;

10 In relazione a tale distinzione, v. CUOMO ULLOA, La conciliazione, Padova 2008, 416 ss.; SANTI, in La mediazione, a cura di BOVE, Padova 2011, 56 ss. e, se vuoi, LUISO, Diritto processuale civile, Milano 2013, V, 28 ss.

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iii) che la soluzione proposta potrebbe essere diversa dal risultato che potrebbe essere ottenuto con la decisione di un organo giurisdizionale che applichi norme giuridiche;

c) le parti, prima di accettare o meno o di dare seguito a una soluzione proposta, siano informate dell'effetto giuridico che da ciò consegue;

d) le parti, prima di accogliere una soluzione proposta o acconsentire a una soluzione amichevole, dispongano di un periodo di riflessione ragionevole>>.

La disposizione non è di facile interpretazione. L’opzione più semplice sarebbe di ritenere che quanto previsto dalle disposizioni sopra trascritte costituisca condizione di validità dell’accordo, nel senso che ciascuna parte possa contestare l’efficacia dell’atto, adducendo che sia carente una o più delle condizioni previste.

Tuttavia, ciò porterebbe a dare all’accordo raggiunto in questa sede un regime più restrittivo di quello proprio del diritto comune, in base al quale lo stesso accordo, raggiunto al di fuori del procedimento ADR, è valido ed efficace anche senza che quelle condizioni siano rispettate. In altri termini, se le parti raggiungono comunque l’accordo nonostante il mancato rispetto delle regole contenute nella direttiva, esso sarebbe valido ed efficace secondo il diritto comune, ma non secondo la direttiva.

Se, dunque, il solo accordo delle parti è sufficiente secondo il diritto comune, qualora si accettasse l’opzione sopra indicata si verificherebbe la seguente situazione: detto A l’accordo, B le ulteriori condizioni previste dalla direttiva ed X il contratto, avremmo A → X secondo il diritto comune, ed A + B → X secondo la direttiva. Il che lascia abbastanza perplessi, ed avrebbe il paradossale effetto di ostacolare, anziché favorire la risoluzione negoziale della controversia. Ciò che è perfettamente valido se compiuto solitariamente fra le parti (negoziazione diretta: art. 2, comma secondo, lettera e) o comunque nell’ambito di altri meccanismi di mediazione (ad es., nell’ambito della mediazione prevista dalla direttiva 52/2008, ove non è previsto alcunché di quanto sopra riportato) diverrebbe invalido se collocato nell’ambito della direttiva in esame.

In relazione all’efficacia dell’accordo raggiunto a seguito dell’accettazione della proposta, la direttiva non contiene alcuna disposizione, se si eccettua l’art. 7, comma primo, lettera n), ove – al fine di realizzare il principio di trasparenza – si prevede che gli organismi ADR rendano disponibili al pubblico informazioni chiare e facilmente comprensibili relative, fra l’altro, all’effetto giuridico dell’esito della procedura. La risoluzione della controversia, mediante una proposta, ha dunque l’efficacia del normale contratto finalizzato appunto alla risoluzione di una controversia.

Lo stesso art. 7, comma primo, lettera o), stabilisce che le informazioni fornite dall’organismo ADR debbano riguardare <<l’esecutività della decisione ADR, se del caso>>. La scelta in merito all’attribuzione dell’efficacia esecutiva all’accordo raggiunto spetta ovviamente a ciascuno Stato membro, essendo essa consentita ma non imposta dalla direttiva.

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Infine, l’art. 12 prevede che, nelle ipotesi in cui la procedura ADR sia finalizzata al raggiungimento di un accordo fra le parti, il mancato esito positivo del procedimento non deve pregiudicare il successivo accesso alla giurisdizione a causa del verificarsi della prescrizione o della decadenza nel corso della procedura. Si tratta di una regola già presente nella direttiva 52/2008 (art.

8).

§ 8. La novità principale della direttiva, come già detto, è costituita dalla previsione di strumenti che portano ad una decisione vincolante. In questo caso l’atto dell’organismo – rectius, della persona fisica incaricata – è strutturalmente (per le ragioni viste nel §§ 4 e 5) e funzionalmente simile a quello del giudice e dell’arbitro.

La direttiva stabilisce in più disposizioni la possibilità che la soluzione della controversia si imponga alle parti: così il considerando 20; così l’art. 2, comma quarto, che lascia liberi i singoli Stati membri di prevedere che gli organismi abbiano la facoltà di imporre una soluzione; così soprattutto l’art. 10, comma secondo, in base al quale <<gli Stati membri provvedono affinché nelle procedure ADR volte a comporre la controversia mediante l'imposizione di una soluzione, sia possibile rendere tale soluzione vincolante per le parti soltanto a condizione che queste siano state preventivamente informate del suo carattere vincolante e abbiano specificatamente dato il loro assenso>>.

Dunque, anche qui come nell’arbitrato la soluzione eteronoma trova il suo fondamento nella volontà delle parti, e ciò in linea di principio rende lo strumento in questione compatibile con l’art.

47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e con le previsioni costituzionali (come il nostro art. 24) che garantiscono il diritto di accesso agli organi giurisdizionali. Vi è da sottolineare che la necessità che le parti diano il loro assenso <<specificamente>> fa sì che sia insufficiente la sola proposizione del reclamo e la sola partecipazione al procedimento per considerare acquisita la volontà di essere vincolate dall’atto.

Resta da vedere se questo specifico assenso può essere dato anche preventivamente al sorgere della controversia. Poiché, come vedremo (infra, § 11), l’art. 10, comma primo, non consente al consumatore di impegnarsi a svolgere un procedimento ADR prima che la controversia sia sorta, ragionando a majori si deve concludere che tanto più il consenso necessario ad una soluzione vincolante non può essere preventivo rispetto al sorgere della lite. Lo stesso limite non vale per il professionista, e dunque ben è possibile che questi, fin dal momento della stipulazione del contratto, dia il proprio assenso.

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La novità della direttiva non sta peraltro, in sé, nella previsione di atti eteronomi, aventi funzione decisoria, e diversi dalla sentenza o dal lodo. Questi atti sono ben conosciuti nel nostro ordinamento, ed anche a livello europeo11.

Nel nostro sistema, la fattispecie sicuramente più importante è data dagli artt. 145-151 del d.

lgs. 30 giugno 2003 n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali, i quali prevedono che i diritti, conferiti all’interessato dall’art. 7 del codice possono essere fatti valere, in via alternativa, o dinanzi al garante oppure in sede giurisdizionale12.

Identico meccanismo, a livello europeo, è previsto dall’art. 32 del regolamento comunitario 45/200113.

Ulteriori fattispecie sono individuabili nelle attribuzioni dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) e dell’autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico (AEEGSI)14.

Infine, sempre a livello europeo, gli artt. 19, comma terzo, dei reg. 1093, 1094 e 1095 / 2010 (rispettivamente sull’autorità bancaria europea; sull’autorità europea delle assicurazioni;

sull’autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati), tutti di identico tenore, forniscono all’autorità europea il potere di decidere le controversie fra le singole autorità nazionali15.

11 Per un inquadramento generale v., se vuoi, LUISO, Diritto processuale civile, Milano 2013, V, 217 ss., ove, peraltro, lo strumento in esame è riduttivamente limitato alla risoluzione delle controversie in via amministrativa: e ciò per le ragioni che vedremo fra poco nel testo.

12 BUONCRISTIANI, in La protezione dei dati personali, a cura di Bianca e Busnelli, Padova 2007, 1792 ss.

13 L'art. 32 del regolamento, rubricato « mezzi di ricorso », prevede quanto segue:

« 1. La Corte di giustizia delle Comunità europee è competente a conoscere delle controversie relative alle disposizioni del presente regolamento, incluse le azioni per risarcimento del danno.

2. Fatta salva la possibilità di ricorso giurisdizionale, qualunque interessato può presentare un reclamo al garante europeo della protezione dei dati se ritiene che i diritti riconosciutigli a norma dell'articolo 286 del trattato siano stati violati in seguito a un trattamento di dati personali che lo riguardano effettuato da un'istituzione o da un organismo comunitario. La mancata risposta del garante europeo della protezione dei dati entro sei mesi equivale a una decisione di rigetto del reclamo.

3. Avverso le decisioni del garante europeo della protezione dei dati può essere proposto ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee ».

14 In ordine al concreto funzionamento di questi e di altri strumenti v. il settimo rapporto sulla diffusione della giustizia alternativa in Italia, a cura dell’ISDACI, in corso di pubblicazione, § 9. Per gli anni precedenti v. sesto rapporto sulla giustizia alternativa in Italia, Milano 2013, 89 ss., e quinto rapporto sulla giustizia alternativa in Italia, Milano 2012, 114 ss.

15Articolo 19. Risoluzione delle controversie tra autorità competenti in situazioni transfrontaliere

1. Fatti salvi i poteri di cui all’articolo 17, se un’autorità competente è in disaccordo con la procedura seguita o il contenuto di una misura adottata da un’autorità competente di un altro Stato membro o con l’assenza di intervento da parte di quest’ultima in casi specificati negli atti di cui all’articolo 1, paragrafo 2, l’Autorità può, su richiesta di una o più autorità competenti interessate, prestare assistenza alle autorità per trovare un accordo conformemente alla procedura di cui ai paragrafi da 2 a 4 del presente articolo.

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Come si può facilmente evincere dagli esempi sopra riportati, finora le fattispecie di risoluzione eteronoma delle controversie, diverse dalla giurisdizione e dall’arbitrato, si collocavano tutte nell’alveo dei poteri delle autorità indipendenti, e più in generale nell’ambito dell’attività lato sensu amministrativa16. Con la direttiva, per la prima volta il potere di risolvere controversie viene attribuito a soggetti privati.

§ 9. Dobbiamo ora esaminare alcune questioni relative all’efficacia ed alla validità dell’atto vincolante.

Con riferimento all’efficacia, ancorché l’affermazione possa sembrare eversiva, dobbiamo concludere che l’atto ha, e deve avere, gli stessi effetti della sentenza, del lodo e del contratto finalizzato alla risoluzione della controversia. Se, infatti, per risolvere una controversia occorre sostituire, con riferimento ad un bene della vita protetto, le norme generali ed astratte con regole concrete di condotta, il risultato dev’essere uguale qualunque sia l’atto in questione.

Ciò che l’art. 2909 c.c. predica per la sentenza vale dunque anche per il lodo, la transazione, ed anche per l’atto decisorio che stiamo esaminando. Infatti, << l'accertamento (contenuto nella sentenza passata in giudicato) [che] fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa>>

altro non è che l’effetto sostitutivo di cui abbiamo parlato, e che è, e deve essere, comune a tutti gli atti finalizzati alla risoluzione di una controversia.

Si può discutere dei presupposti, delle condizioni e dei limiti degli atti in questione: ma una volta appurato che un atto del genere è previsto dall’ordinamento – e nel nostro caso non vi è dubbio che esso è previsto dalla direttiva – non si può restringerne l’efficacia (ed in che termini, poi?) allegando che non è un atto giurisdizionale.

Per ciò che attiene alla validità dell’atto, deve essere sempre possibile verificare in sede giurisdizionale la sussistenza di tutti gli elementi che ne determinano la (in)validità: come accade per il contratto, per il lodo ed anche per la stessa sentenza (ancorché in questo caso ciò accada normalmente attraverso i mezzi di impugnazione della stessa).

In casi specificati nella normativa di cui all’articolo 1, paragrafo 2, e ove in base a criteri obiettivi sia possibile constatare una controversia tra autorità competenti di Stati membri diversi, l’Autorità può, di sua iniziativa, prestare assistenza alle autorità per trovare un accordo conformemente alla procedura di cui ai paragrafi da 2 a 4.

2. L’Autorità fissa un termine per la conciliazione tra le autorità competenti tenendo conto dei termini eventuali previsti in materia negli atti di cui all’articolo 1, paragrafo 2, nonché della complessità e dell’urgenza della questione.

In tale fase l’Autorità funge da Mediatore.

3. Se le autorità competenti interessate non riescono a trovare un accordo entro la fase di conciliazione di cui al paragrafo 2, l’Autorità può, in conformità della procedura di cui all’articolo 44, paragrafo 1, terzo e quarto comma, adottare una decisione per imporre loro di adottare misure specifiche o di astenersi dall’agire al fine di risolvere la questione, con valore vincolante per le autorità competenti interessate, e assicurare il rispetto del diritto dell’Unione.

16 In argomento esiste una vasta letteratura, di genesi quasi esclusivamente amministrativistica. Fra i lavori più recenti, si v. LUCATTINI, Modelli di giustizia per i mercati, Torino 2013, 83 ss.; CALABRÓ, La funzione giustiziale nella pubblica amministrazione, Torino 2012, 266 ss.

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Fra gli elementi che condizionano la validità dell’atto in questione in linea di principio non rientra la sua <<giustizia>>, cioè la conformità del suo contenuto al metro di giudizio che il soggetto decidente deve utilizzare (ad esempio, disposizioni giuridiche, considerazioni di equità, codici di condotta: art. 7, comma primo, lettera d). Come è stato efficacemente dimostrato17, ove non sia diversamente previsto, un atto di accertamento non è contestabile nel suo contenuto.

La direttiva, tuttavia, pone una eccezione (art. 11, comma primo, lettera a): che <<la soluzione imposta non abbia l'effetto di privare il consumatore della protezione garantitagli dalle disposizioni cui non è permesso derogare convenzionalmente in base alla legge dello Stato membro in cui il consumatore e il professionista risiedono abitualmente18>>. In questo caso è possibile chiedere al giudice di dichiarare l’invalidità dell’atto in ragione del suo contenuto.

Un ricorso al giudice limitato alla validità della decisione è il minimo che deve essere assicurato: niente osta, peraltro, a che la normativa interna consenta che possa essere contestata in sede giurisdizionale anche la giustizia della decisione. È ciò che accade con riferimento alla tutela dei dati personali, ove l’art. 151 stabilisce che avverso il provvedimento del garante può essere proposta opposizione al giudice, il quale <<provvede nei modi di cui all’art. 152>>: poiché l’art.

152 disciplina il ricorso al giudice alternativo al ricorso al garante, ciò significa che la controversia, già risolta dal garante, viene ex novo sottoposta al giudice.

§ 10. Abbiamo visto che, in linea di principio, l’art. 10, comma secondo esige che tutte le parti diano il proprio esplicito consenso alla pronuncia di un atto contenente una soluzione vincolante. Tuttavia, la direttiva – oltre a consentire ai singoli Stati membri di prevedere una soluzione <<imposta>> – consente loro anche di prescindere dal consenso del professionista.

Infatti, sia l’art. 9, comma terzo, sia soprattutto l’art. 10, comma secondo, ultima frase, stabiliscono senza dubbio che è facoltà dello Stato membro vincolare il professionista alla decisione, purché, ovviamente, vi sia stato il consenso del consumatore.

Ciò pone delicati problemi di conformità di una tale previsione agli stessi principi comunitari. Infatti, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce l’accesso alla giurisdizione: e non vi è dubbio che questo diritto appartiene ad ambedue le parti, sicché il consenso di una non può surrogare il consenso dell’altra.

Poiché gli Stati membri hanno la facoltà, e non l’obbligo, di vincolare il professionista alla decisione anche senza il suo consenso, è possibile che una scelta in tale direzione del singolo Stato membro possa trovarsi in contrasto con il diritto interno: ciò senz’altro accadrebbe nel nostro sistema, in virtù dell’art. 24 Costituzione.

17 FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino 2002, 93.

18 Ciò quando non si verifichi un conflitto di leggi: quando ciò invece accada, trovano applicazione le lettere b) e c) dello stesso comma.

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Tuttavia, anche con riferimento al diritto comunitario il vincolo, senza il proprio consenso, di una delle parti alla decisione dell’organismo non è ammissibile: la stessa direttiva, del resto, all’art. 1, ultima frase, consente alla legislazione nazionale di prevedere l’obbligatorietà della procedura, <<a condizione che tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario>>.

Ora, la stessa Corte di giustizia afferma che il diritto di adire il giudice comporta che quest’ultimo abbia una piena giurisdizione, non limitata, cioè, a particolari contestazioni19. Occorre, dunque, concludere che il professionista può essere vincolato alla decisione dell’organismo anche senza il suo consenso a condizione che possa contestare in modo pieno e senza limiti il merito di tale decisione dinanzi al giudice, <<trasferendo>> in sede giurisdizionale la controversia già decisa dall’organismo.

In altri termini, ove vi sia il consenso, il legislatore può concedere o meno, o modulare l’impugnazione dell’atto per ingiustizia; ove il consenso non vi sia, deve essere possibile la contestazione piena e senza limiti dell’ingiustizia dell’atto

§ 11. L’ultima questione da affrontare riguarda la obbligatorietà o meno del procedimento, che ovviamente è cosa diversa dalla vincolatività o meno della decisione. Questa obbligatorietà può riguardare sia il consumatore che il professionista. Ricordiamo, infatti, che l’iniziativa di proporre reclamo può essere presa solo dal consumatore, e dunque l’obbligatorietà può verificarsi sia quando il legislatore impone al consumatore di esperire il procedimento prima di accedere alla giurisdizione; sia quando il professionista ha l’obbligo di partecipare al procedimento, una volta che il consumatore abbia proposto reclamo.

La direttiva consente al legislatore nazionale di prevedere l’obbligatorietà del reclamo per il consumatore: art. 1, ultima frase. Prevede altresì che il professionista possa essere obbligato a partecipare al procedimento instaurato dal consumatore: art. 9, comma secondo, lettera a).

Non è invece efficace un accordo fra consumatore e professionista, che sia concluso prima dell’insorgere della controversia, e con il quale il consumatore si impegni a rivolgersi ad un organismo: art. 10, comma primo. Poiché il limite riguarda solo il consumatore, niente impedisce invece che il professionista si impegni preventivamente (ad es., in sede di stipulazione del contratto) a partecipare al procedimento di reclamo instaurato dal consumatore.

19 V. per tutte ancora Corte di giustizia (grande sezione), 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson c. Ordre des avocats du barreau de Luxembourg.

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