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Nota a Cass., sez. III, 24 maggio 2011, n. 11370 - Judicium

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Cass., sez. III, 24 maggio 2011, n. 11370- Pres. Preden- Rel. Frasca- Fracchia A. c/ Fastweb

Procedimento cautelare- Provvedimento ante causam-Pronuncia sulle spese- Impugnazione- Reclamo- Impugnazione della pronuncia sulle spese resa in sede di reclamo- Ricorso straordinario in cassazione-Inammissibilità- Riesame nel giudizio di merito o in sede di opposizione all’esecuzione

E’ inammissibile il ricorso straordinario in cassazione avverso il capo sulle spese del provvedimento reso in sede di reclamo avverso la pronuncia di rigetto ante causam dell’istanza cautelare “anticipatoria”, essendo la pronuncia suscettibile di riesame all’esito del giudizio di merito o contestabile in sede di opposizione all’esecuzione. (1)

Clarice Delle Donne

La contestazione delle spese del reclamo è rimessa, in tema di cautele “anticipatorie”, al giudizio di merito o di opposizione all’esecuzione e non al ricorso ex art. 111, c. 7, Cost:

un’inaccettabile conclusione della giurisprudenza di legittimità (1)

1.- La pronuncia

La pronuncia in commento si misura per la prima volta con l’art. 669 septies nel testo risultante dalla modifica del 2009 che, com’è noto, ne ha espunto l’originaria previsione della impugnabilità del capo sulle spese del provvedimento che respinge l’istanza cautelare ante causam con l’opposizione ex art. 645 cpc. La modifica ha avuto la virtù di eliminare le complicazioni derivanti dalla possibile interferenza tra il rimedio deputato al riesame della sola pronuncia sulle spese e quello generale, il reclamo, medio tempore esteso anche alle pronunce di rigetto. Al contempo ha però riportato il sistema a quando, prima dell’introduzione del rito cautelare uniforme, l’assenza di previsioni normative in merito all’impugnazione imponeva la ricerca di soluzioni ermeneutiche, alfine consolidatesi nel ritenere la (sola) pronuncia sulle spese impugnabile con il ricorso straordinario in cassazione in quanto incidente su diritti soggettivi ed al contempo non aliunde impugnabile o riesaminabile.

Il contesto in cui lo stesso problema ermeneutico si ripropone oggi è tuttavia profondamente mutato rispetto al passato.

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Ciò soprattutto, anche se non solo, in ragione del nuovo corso dei rapporti tra la tutela cautelare anticipatoria e quella di merito cui accede, che porta con sé l’esigenza, se si vuol rispettare la lettera e lo spirito della riforma che nel 2005 tale assetto ha disegnato, di trovare una sede idonea al riesame della pronuncia in expensis all’interno di quello stesso processo cautelare cui attiene.

La soluzione prescelta dalla sentenza, che come si vedrà esclude il ricorso straordinario in favore del riesame all’esito del giudizio di merito, risulta invece oggi insostenibile perché, oltre ad essere fondata su premesse errate, appare smentita da alcune tra le più significative linee evolutive impresse al sistema dal legislatore degli ultimi anni.

In medias res.

La sentenza chiude la vicenda processuale cautelare inaugurata da un ricorso ex art. 700 con cui, prima dell’inizio del giudizio di merito, era stata richiesto che una azienda telefonica si astenesse dalla sospensione, disconnessione e disattivazione delle linee oggetto del contratto di utenza telefonica. A seguito del rigetto del ricorso per carenza di periculum e condanna alle spese, la ricorrente proponeva reclamo, che a sua volta si concludeva con una pronuncia di cessazione della materia del contendere sull’istanza cautelare, di rigetto del motivo relativo alla quantificazione delle spese della prima fase e di condanna al pagamento di quelle dell’impugnazione.

Verso i capi di condanna alle spese di reclamo veniva quindi proposto ricorso straordinario in cassazione, che la Corte dichiarava però inammissibile per ritenuto difetto, nel capo impugnato, dei requisiti della cd. “sentenza in senso sostanziale”. La Corte ne escludeva, in particolare, la decisorietà su diritti nell’accezione da essa stessa plasmata, in quanto insuscettibile di consolidarsi per essere riesaminabile all’esito del giudizio sul diritto cautelato.

La logica della sentenza colloca la scelta nel più generale contesto della disciplina delle spese del giudizio applicata al procedimento cautelare, ove operano alcune disposizioni speciali direttamente rilevanti, in primis l’art. 669 septies come da ultimo modificato nel 2009, ma anche l’art. 669 octies nella versione risultante dalle modifiche apportatevi prima nel 2005 e poi proprio nel 2009.

Nel testo originario la prima disposizione prevedeva che la pronuncia di rigetto dell’istanza cautelare ante causam recasse la pronuncia sulle spese, rispetto alla quale era proponibile lo strumento ad hoc dell’opposizione ex art. 645 e che, nel mutato contesto della reclamabilità estesa ai provvedimenti di rigetto dalla Consulta, si poneva in conflitto almeno potenziale proprio con il reclamo. Ed era stata verosimilmente la difficoltà di coordinamento tra i due rimedi ad indotturre il legislatore del 2009 ad eliminare l’opposizione lasciando sul tappeto il solo riesame tipicamente cautelare del reclamo.

Sicchè il testo attuale della disposizione, che si limita a prevedere che il giudice che rigetta l’istanza cautelare ante causam decida definitivamente sulle spese, e che la (eventuale) condanna sia immediatamente esecutiva, va inteso nel senso che anche il capo condannatorio sulle spese è

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impugnabile, da solo o insieme alla pronuncia cautelare cui accede, proprio con il reclamo. La pronuncia sulle spese del reclamo resta invece inimpugnabile proprio come quella cautelare che però, lasciando comunque impregiudicato l’accertamento del diritto, resta suscettibile di riesame proprio nel giudizio di merito che, ai sensi degli artt. 669 octies e novies come modificati nel 2005, ciascuna delle parti può sempre iniziare.

La conclusione resta sostenibile anche in ipotesi che, come quella di specie, hanno visto terminare il giudizio di reclamo con una dichiarazione di cessazione della materia del contendere. Sostiene infatti la Corte che se l’interessato intenda contestare a monte la stessa ricorrenza della cessazione della materia del contendere “cautelare”, “poiché tale contestazione si risolve nella postulazione che la misura cautelare è ancora necessaria per preservare il diritto, ne segue che si assume esso sia insoddisfatto e quindi v’è interesse all’inizio del giudizio di merito”; lo stesso è a dirsi ove il disaccordo delle parti riguardi solo l’apprezzamento della soccombenza virtuale che ha fondato la pronuncia sulle spese, la sede per l’accertamento delle rispettive posizioni essendo ancora quella del giudizio di merito.

In entrambi i casi consegue perciò il riesame della pronuncia sulle spese e l’arretramento del ricorso straordinario in Cassazione.

La Corte esamina infine l’ipotesi in cui si voglia contestare non l’an, ma solo la liquidazione, e nella quale “la contestazione può provenire dall’attore in cautelare che ritenga eccessive le spese (…)oppure dal convenuto in sede cautelare che le ritenga troppo basse”. Si tratta, a dire della Corte, di un caso in cui nessuna delle parti mostri interesse al giudizio di merito (in caso contrario anche tali contestazioni dovendovi essere attratte).

Più in particolare, se tale mancanza di interesse riguardi l’attore convinto del suo torto ma insoddisfatto per la liquidazione eccessiva a favore della controparte, il rimedio per quest’ultimo esiste anche se non è da identificare con il ricorso straordinario in quanto il provvedimento sulle spese, pur nell’attitudine ad incidere su diritti, risente “della natura della tutela cautelare e, perciò, della sua inidoneità a dare luogo alla cosa giudicata sul diritto a cautela del quale venne esercitata”. Sicchè, “considerato che il provvedimento è emesso a seguito di cognizione sommaria, nonché che è espressamente definito titolo esecutivo, si deve ritenere che il mezzo di tutela sia quello esperibile contro ogni titolo esecutivo, cioè l’opposizione al precetto intimato sulla base del provvedimento o all’esecuzione iniziata in base ad esso, ma con la particolarità che, inerendo tale mezzo di tutela alla cognizione piena e, quindi, alla tutela dei diritti in funzione del giudicato, il provvedimento (…) risulta ridiscutibile, come se fosse un titolo esecutivo stragiudiziale e ciò perché si è formato sulla base di una cognizione sommaria senza che sia stato ridiscusso nell’ambito dell’ordinaria cognizione”.

La sede del riesame è dunque quella dell’opposizione all’esecuzione iniziata o anche solo minacciata, nell’ambito della quale si riespande in modo pieno quella cognizione che non si è avuto modo di dispiegare in sede cautelare.

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Quanto al convenuto vittorioso nel giudizio cautelare che intenda dolersi della quantificazione insufficiente a suo favore, egli può ancora una volta, instaurare il giudizio di merito (sic!).

2. Il teorema della Corte e la sua indimostrabilità alla luce del quadro normativo vigente

Sostiene dunque la Corte che la pronuncia in expensis resa dal giudice del reclamo cautelare non è suscettibile di riesame a mezzo del ricorso straordinario in cassazione, l’interessato avendo a disposizione a tale scopo la sede del giudizio di merito.

Perno dell’argomentazione è la non idoneità al giudicato del provvedimento (reso in sede) cautelare, intesa quale intrinseca instabilità che si trasmette al capo dipendente sulle spese. Anche quest’ultimo perciò, da solo o insieme alla decisione cautelare, è suscettibile come quest’ultima di riesame all’esito del giudizio dichiarativo che, deputato all’accertamento pieno del diritto, rimette in discussione l’assetto di interessi fissato in sede cautelare ed in modo naturale rialloca anche le spese della relativa fase.

Figlio della stessa logica (e perciò variazione sul tema della riesaminabilità a mezzo del giudizio di merito) è l’ulteriore asserto della contestabilità del (solo) quantum della condanna alle spese del giudizio di reclamo, dotata di efficacia esecutiva, in sede di opposizione all’esecuzione, aperta ad ogni contestazione sul diritto, capo principale da cui quello in expensis dipende, in virtù di quell’assenza di accertamento che ne consente addirittura l’equiparazione ad un titolo stragiudiziale.

Il teorema della Corte riposa sull’idea che l’inidoneità al giudicato del provvedimento reso in sede cautelare si identifichi con la sua assoluta instabilità/precarietà; e che tale instabilità sia a sua volta rimediabile in ogni momento attraverso la forza stabilizzatrice della pronuncia sul diritto (naturalmente proiettata al giudicato) a cui presidio fu avanzata l’istanza cautelare. Dal che il corollario che il capo sulle spese risente della medesima natura e segue il medesimo regime dei capi principali cui accede, in virtù della dipendenza da essi comunemente ascrittavi.

Ma si tratta di un teorema che non è possibile dimostrare nell’attuale quadro normativo: l’inidoneità al giudicato e la (in)stabilità processuale sono infatti caratteristiche del provvedimento (reso in sede) cautelare che si muovono su piani diversi ed in alcun modo confondibili.

La prima attiene al contenuto “di merito” del provvedimento che, non avendo fisiologicamente ad oggetto l’accertamento del diritto ma solo la valutazione del suo fumus, crea un assetto di interessi funzionale alla paralisi del periculum e per questo da un lato insuscettibile di stabilizzarsi se non in forza dell’operare di meccanismi di diritto sostanziale (usucapione, prescrizione); e dall’altro idoneo ad essere contraddetto dall’esito (e solo dall’esito!) del giudizio dichiarativo sul diritto, che per questo ne assorbe totalmente gli effetti.

Altro è invece la stabilità processuale del provvedimento, che dipende unicamente dalle regole che ne disegnano il regime di impugnazione/riesame e che, nel sistema costruito dagli artt. 669 bis- terdecies,

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apprestano un corredo di controlli ad hoc che applica integralmente la disciplina generale della conversione dei vizi (e delle ragioni di ingiustizia) in motivi di impugnazione (art. 161 cpc). Qui infatti l’ingiustizia/invalidità della pronuncia è appannaggio esclusivo del rimedio impugnatorio (art. 669 terdecies), precluso il quale la cautela acquista una stabilità1 (o “autorità” secondo l’art. 669 octies u.c.) consistente nell’essere modificabile/revocabile solo in base a sopravvenienze ex art. 669 decies e quindi con efficacia normalmente ex nunc. Specularmente, il rigetto dell’istanza (in entrambi i gradi di giudizio) chiude la litispendenza cautelare e crea una preclusione superabile solo in base ai nova indicati dall’art.

669 septies.

Tra le sedi deputate alla denuncia della ingiustizia o invalidità del provvedimento (positivo o negativo) non rientra invece, né è mai rientrato in passato quando pure un processo cautelare uniforme difettava, il giudizio di merito2sicché, esaurita la fase di reclamo o spirati inutilmente i relativi termini (ed in assenza dei nova richiesti dagli artt. 669 septies e decies), alla pronuncia può ascriversi il requisito della definitività nella duplice accezione di idoneità a chiudere definitivamente il processo cautelare e non ulteriore impugnabilità.

L’inidoneità al giudicato si mostra dunque solo come l’altra faccia della diversità di oggetto e di ambito delle tutele ordinaria e cautelare ed anzi, lungi dal giustificare una presunta precarietà/instabilità di quest’ultima, si rivela sintomatica proprio della ratio più profonda della sua stabilità perché, proiettata all’elisione del periculum, la sua funzione può assolvere, nella logica dell’ordinamento, solo nella misura in cui non può essere condizionata, durante il suo ciclo vitale, dalla semplice allegazione dell’inesistenza del diritto cautelato3.

La sostanza di questo rilievo mi pare tutta già racchiusa nell’art. 669 septies nella misura in cui applica al provvedimento di diniego ante causam della cautela il paradigma che l’art. 91 disegna per ogni provvedimento che chiude il processo davanti al giudice adito4, vale a dire la pronuncia sulle spese del giudizio.

Ed è per questa ragione che all’introduzione nel 2005 del regime di strumentalità cd. attenuata per le cautele “anticipatorie”, si è accompagnata la previsione, da parte del riformato art. 669 octies, della necessità della pronuncia sulle spese nel provvedimento reso ante causam, essendo anch’esso, come quello di rigetto, oramai potenzialmente idoneo a chiudere definitivamente la vicenda processuale, non solo cautelare, tra le parti5.

1 Che induce la dottrina a discorrere di “giudicato cautelare”, concetto per la cui compiuta illustrazioni sufficit qui rinviare a Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2011, 208 e passim; e Tiscini, I provvedimenti decisori senza accertamento., Torino, 2009, 165 ss.

2 Come accadeva nella passata esperienza del giudizio di convalida dei sequestri, previsto dagli abrogati artt. 680 ss cpc, abrogati dalla L. n. 353/1990 che ha sostituito anche questa parte della disciplina con l’introduzione del procedimento cautelare uniforme. Occorre peraltro precisare come il giudizio di convalida non avesse nulla a che vedere con il giudizio sul diritto cautelato, il quale pendeva autonomamente (sia pure) davanti allo stesso giudice della convalida.

3 Discorso speculare va fatto, ovviamente, per il provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare che, sancendo l’assenza del fumus e/o del periculum, crea una preclusione superabile solo in base ai nova indicati dall’art. 669 septies.

4 Secondo la lettura generale datane da Corte cost. 7 ottobre 2005, n. 379, in www.giurcost.it.

5 V. Saletti, sub art. 669 septies, in Commentario alla Riforma del codice di procedura civile, a cura di Saletti, e Sassani, 224 ss, nonché, per tutti, Luiso, Diritto, cit., IV, 197 ss. Significativa applicazione di questo paradigma si rinviene in quella giurisprudenza di merito (T. Novara 27 maggio 2009, decr. N. 4272, in www.altalex.it, con Nota di Verga) pronunciatasi in tema di accertamento tecnico preventivo nella duplice declinazione offerta dagli artt. 696 e 696 bis a seguito dei nova

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Le stesse conclusioni valgono tuttavia anche per le cautele conservative, la cui perdurante efficacia è collegata all’instaurazione del giudizio sul diritto ed al perseguimento della sentenza. Anche qui infatti ciò che deriva dalla cd. strumentalità forte è la mera impossibilità che la cautela resti in vita in assenza di un parallelo giudizio sul diritto, ma è inibita comunque ogni difesa che, al di fuori delle sedi impugnatorie, si limiti ad agitare lo spettro dell’inesistenza del diritto cautelato quale causa di paralisi degli effetti prodotti in sede cautelare.

Inferire dall’inidoneità della cautela al giudicato la sua riesaminabilità/contestabilità al di fuori dei canali predisposti dal processo cautelare, ed in particolare attraverso il giudizio di merito sia in sede autonoma che di opposizione all’esecuzione, come fa la Corte, è dunque solo il risultato della indebita sovrapposizione tra il livello della tutela dichiarativa e quello della tutela cautelare che invece, benché funzionalmente collegate, sono e restano a maggior ragione oggi strumenti diversi e non confondibili di tutela6.

3.- L’indipendenza strutturale del procedimento cautelare da quello di merito come via obbligata per la realizzazione degli obiettivi della cd. strumentalità attenuata ed il ruolo centrale dell’autonoma impugnativa della pronuncia inexpensis

Sono perciò due le coordinate in cui collocare il discorso sul riesame del capo in expensis della pronuncia resa in sede di reclamo cautelare: la stabilità del provvedimento che lo contiene nella duplice accezione appena evocata; e la inidoneità del giudizio di merito a fungere da strumento di riesame/convalida del provvedimento stesso, e dunque anche del capo sulle spese, a maggior ragione alla luce dell’attuale art.

669 octies, c. 6 che emancipa la perdurante efficacia del provvedimento cautelare “anticipatorio”dalla instaurazione del giudizio di merito e dal perseguimento del provvedimento finale dichiarativo.

Oggetto di esame è dunque una pronuncia che, in quanto avente ad oggetto le spese del giudizio di reclamo, è emessa per la prima volta ma contenuta in un provvedimento non ulteriormente impugnabile/riesaminabile.

normativi del 2005. L’interpretazione evolutiva affranca progressivamente anche questo procedimento dalla regola, olim applicata dalla giurisprudenza di legittimità, che le spese vanno sempre e comunque poste a carico della parte richiedente per essere poi riprese in considerazione nel giudizio di merito. Ciò in ossequio alla ratio oramai riconnessa a questi provvedimenti, che assumono oggi la finalità primaria di favorire la composizione della lite in fase antecedente a quella dichiarativa, per questo imponendosi al giudice di allocare le spese stesse a carico della parte che sia risultata soccombente in quella fase, a prescindere dalla circostanza che abbia richiesto o solo resistito alla domanda di cautela.

6 Concetto, questo, talmente consolidato da trovarsi comunemente espresso nella manualistica attraverso la tripartizione delle forme di tutela giurisdizionale in dichiarativa, esecutiva e cautelare: v., per tutti, Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2011, 10 ss.

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E posto che tale non impugnabilità /riesaminabilità è risultato che l’ordinamento non tollera rispetto a provvedimenti che, come questo, sono indubitabilmente idonei ad incidere direttamente su diritti, occorre individuare la sede deputata al loro riesame in presenza di un art. 669 septies che, a seguito delle riforme del 2009, non reca più lo strumento ad hoc dell’opposizione ex art. 645; e di un art. 669 octies, c.

7 che, ispirato per comune sentire alla stessa logica del primo quanto alla necessità del capo in expensis, tace sul relativo regime.

E la risposta non può che essere, anche oggi, quella fornita dalla stessa Cassazione prima dell’introduzione del rito cautelare uniforme7, cioè quella del ricorso straordinario ex art. 111, c. 7 Cost.

per contestare non solo i profili legati all’an, ma anche quelli legati al quantum della pronuncia.

Ciò vale anche per il caso deciso, quello cioè del provvedimento che in sede di reclamo confermi il rigetto in prime cure e decida sulle spese del secondo grado di giudizio basandosi sul criterio della cd.

soccombenza virtuale in virtù della sopravvenuta cessazione della materia cautelare del contendere.

Sostiene invece la Corte nella pronuncia in commento che ove l’interessato (nell’ipotesi il reclamante) intenda contestare a monte la ricorrenza della cessazione della materia del contendere “cautelare”,

“poiché tale contestazione si risolve nella postulazione che la misura cautelare è ancora necessaria per preservare il diritto, ne segue che si assume esso sia insoddisfatto e quindi v’è interesse all’inizio del giudizio di merito”; e la stessa impostazione mantiene ove il disaccordo delle parti riguardi solo l’apprezzamento della soccombenza virtuale che ha fondato la pronuncia sulle spese, la sede per l’accertamento delle rispettive posizioni restando sempre quella del giudizio di merito.

Ma l’impostazione si mostra chiaramente fallace. Un conto è infatti sostenere che il reclamante soccombente, ritenendo il proprio diritto insoddisfatto, possa sempre intraprendere il giudizio di merito nel corso del quale, eventualmente, proporre una nuova istanza cautelare; altro è sostenere invece che la contestazione della cessazione della materia “cautelare” del contendere, risolvendosi nella “postulazione che la misura cautelare è ancora necessaria per preservare il diritto” equivalga ad assumere che il diritto stesso è insoddisfatto e quindi che esista l’ “(…) interesse all’inizio del giudizio di merito”, vale a dire confondere l’interesse alla tutela cautelare con quello alla tutela ordinaria.

La contestazione della cessazione della materia del contendere non è infatti diversa da qualsiasi altra rivolta verso la decisione resa in sede di reclamo. Si può anzi sostenere che sia la più “classica” tra le contestazioni possibili perchè la “postulazione che la misura è ancora necessaria per preservare il diritto” altro non è che l’affermazione della persistenza del periculum (e ovviamente del fumus) cautelare e dunque dell’interesse alla relativa tutela. E poiché il sistema non consente a tale interesse di trovare sbocco in ulteriori impugnazioni, ma solo nella proposizione di una nuova istanza fondata su mutamenti nelle circostanze, si spiega perché l’art. 669 septies assurga a paradigma della chiusura del processo cautelare senza una appendice di merito e ad archetipo della disciplina delle spese oggi contenuta nel c. 7 dell’art.

669 octies, che quello stesso giudizio di merito rimette alla scelta delle parti.

Opinare come la sentenza in commento vale allora quanto dire che ogni qualvolta si postula “che la misura cautelare è ancora necessaria per preservare il diritto”, cioè in pratica in ogni ipotesi in cui si chieda una cautela o se ne impugni il rigetto, si mostri automaticamente interesse anche al giudizio di merito; e che, per riesaminare la questione relativa alla sussistenza della cessazione della materia del contendere cautelare, o la soccombenza virtuale, sia necessario il giudizio di accertamento sul diritto cautelato!

Ma se la sussistenza dell’interesse a quest’ultimo non può certo automaticamente dedursi dal solo interesse alla tutela cautelare, ancora più insostenibile appare l’idea che le strettoie dell’accertamento in

7V. Cass. 6 novembre 1992, n. 12026; Cass. 3 febbraio 1993, n. 1313; Cass. 9 febbraio 1994, n. 1272.

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prospettiva del giudicato si impongano al solo scopo di ottenere un riesame della pronuncia sulle spese del reclamo! Oggi l’art. 669 octies c. 6 valorizza l’indipendenza (beninteso, non funzionale ma solo) strutturale tra cautela e merito fornendo al beneficiario (solo della cautela “anticipatoria”) una scelta8: accontentarsi del bene della vita ottenuto in via celere, ma provvisoria (utilitas cautelare); o percorrere la strada dell’accertamento che ne produrrà, (solo) se positivo, la definitiva acquisizione (utilitas

“ordinaria”).9 Lo stesso vale per il soccombente, che può iniziare in ogni momento il giudizio di merito per ottenere l’accertamento con efficacia di giudicato di ogni situazione incompatibile con l’esistenza di quella cautelata. Ratio della previsione è evitare, in ossequio all’economia processuale, il giudizio dichiarativo sul diritto quando il risultato ottenuto con la cautela è già pienamente satisfattivo dell’interesse delle parti, secondo una valutazione di opportunità ad esse solo rimessa10.

La scelta è evidentemente tra esiti di tutela profondamente diversi11 e non alternativi, a ciascuno dei quali è tuttavia riconnessa una specifica e non confondibile area di operatività,12 sicchè occorre prendere

8La scelta tecnica del 2005 coglie, traendone coerenti conseguenze sul piano processuale, una precisa tendenza evolutiva della tutela cautelare nel nostro tempo. La giurisprudenza di merito accorda infatti la tutela urgente “anticipatoria” valutando il periculum come relazione tra eventi, e quindi per la sua concreta capacità di incisione sul bene della vita oggetto del diritto, a prescindere dal profilo formale della durata del giudizio di merito, sicchè facoltizzarne l’instaurazione solleva finalmente il sottile velo che ha storicamente avvinto il pericolo al dato formale della durata del giudizio principale. Essa ha munito cioè di base anche testuale l’intuizione pretoria che non è la durata (fisiologica o meno) del processo il fatto generatore del periculum, ma l’evento del mondo reale che spezza la relazione dell’istante con un bene della vita rendendone necessaria la ricostituzione attraverso la cautela. Se dunque tale ricostituzione avviene in sede cautelare e nulla aggiungerebbe a questo risultato pratico la tutela di merito, la vicenda processuale può ben concludersi già in tale fase perché “satisfattiva”

dell’interesse ad agire del beneficiario.

9 V., amplius, Tiscini, Op. loco ult. cit., la quale condivisibilmente osserva che nulla è mutato anche in ordine al tipo di cognizione richiesta in sede cautelare.

10 Si tratta di scelta tecnica da tempo auspicata da una parte della dottrina, e già presente, ad esempio, nel Progetto di riforma della Cd. Commissione Liebman nel 1980, e poi nel Progetto della Commissione Tarzia nel 1996. Più di recente, la soluzione era stata adottata nel Progetto di riforma redatto dalla Commissione Vaccarella nel 2003, ed è successivamente confluita nel testo di legge introduttivo del processo societario (d. lgs. n. 5/2003). Solo successivamente la soluzione è stata generalizzata, attraverso la modifica dell’art. 669 octies.

11 L’elisione del rapporto di sequenzialità necessaria con il giudizio di merito ha invero indotto ( sia pure con diverse modulazioni: v., ad esempio, Olivieri, Riforma del procedimento cautelare, reclamabilità dell’inibitoria e opposizione all’esecuzione, in Giusto proc. civ., 2007, 23 ss, per il quale proprio l’elisione del nesso di strumentalità al giudizio di merito avrebbe reso estremamente labile la distinzione tra tutela sommaria cautelare e non; Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 322 ss; Querzola, La tutela anticipatoria tra provvedimento cautelare e giudizio di merito, Bologna, 2006, 118, per la quale il provvedimento, in presenza di certe condizioni, acquisirebbe senz’altro la stabilità tipica della cosa giudicata sostanziale) a chiedersi se la cautela non sia stata privata del suo carattere tipicamente strumentale al merito stesso, virandone irreversibilmente la natura verso una stabilità in buona sostanza assimilabile al giudicato. Il dubbio sembra tuttavia giustificarsi solo nell’ottica di una sopravvalutazione del dato positivo che costruisce la strumentalità come sequenzialità necessaria tra cautela e giudizio di merito.

Le cose appaiono invece in una diversa luce se si guarda alla strumentalità stessa esclusivamente come funzione della cautela.

La tutela dichiarativa continua infatti ad essere destinata, ove sopravvenga, a sostituirsi alla regula iuris posta dalla cautela:

altro è la qualità degli effetti, cioè la loro attitudine a stabilizzarsi sul piano giuridico; altro il regime cronologico della loro efficacia, cioè il tempo durante il quale hanno modo di dispiegarsi. Tale tempo può essere più o meno lungo senza che gli effetti cessino, solo per questo, di essere provvisori perché destinati comunque a cadere di fronte alla tutela dichiarativa.

La conclusione ha anche oggi precisi riscontri testuali nell’immutata disciplina dell’inefficacia della misura in caso di accertamento dell’inesistenza del diritto cautelato, da un lato; e nella prescrizione ( di nuovo conio, ma da tale punto di vista superflua) che l’autorità della misura cautelare non è invocabile in un diverso processo, dall’altro.

Il regime dei rapporti tra cautela e giudizio di merito introdotto nel 1990 ed oggi ancora applicabile alle misure conservative, non incarna dunque l’essenza della strumentalità. Si tratta, al contrario, di una scelta di tecnica processuale che, in quanto tale, è rimessa alla ragionevole discrezionalità del legislatore ordinario e non è in grado di incidere sui profili ricostruttivi della cautela. V. amplius, per l’esame di questi profili, ancora Tiscini, I provvedimenti decisori,124 ss.

12 Amplius ancora Tiscini, Op. loco ult. cit. E’ certamente vero che gli effetti materiali della cautela, stabilizzandosi per l’operare dei meccanismi di diritto sostanziale, divengono irreversibili anche giuridicamente, e quindi acquistano una stabilità

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atto che il legislatore del 2005 applica, potenziandola, la regola della naturale (e mai messa in discussione) separazione tra litispendenza cautelare e litispendenza di merito, concepite come processualmente parallele ed insuscettibili di reciproche contaminazioni.13 La funzionalità di questo meccanismo è dunque assicurata proprio dalla sua capacità di emancipare la tutela cautelare da quella che conduce al giudicato sostanziale, che a sua volta passa attraverso l’indipendenza strutturale tra i due procedimenti. La previsione dell’art. 669 octies, c. 7 rappresenta dunque il vero baluardo della cd.

“strumentalità attenuata”, perché evita che il beneficiario della cautela, disposto a rinunciare al giudizio sul diritto perché soddisfatto dalla utilitas cautelare, sia indotto a ricorrervi solo per ottenere una pronuncia sulle spese del procedimento!!

Ma proprio per questo il discorso non può certo esaurirsi qui. A nulla serve imporre la pronuncia in expensis in sede cautelare se non se ne assicura anche la riesaminabilità al di fuori del giudizio di merito, altrimenti riproponendosi lo stesso problema che si era inteso aggirare.

Sicchè, in definitiva, la scelta di imporre la pronuncia sulle spese a corredo del provvedimento che chiude il processo davanti al giudice cautelare non può che contenere in sé, quale componente necessaria, la scelta di assicurarne anche il riesame in una sede indipendente, altrimenti venendone meno la ratio.

Opinare dunque nel senso della Corte non solo misconosce una tra le più significative scelte di economia processuale degli ultimi anni, quella della cd. strumentalità attenuata appunto, ma addirittura finisce con l’imporre il giudizio di merito persino nel caso paradigmatico in cui se ne è sempre data per scontata l’assenza, cioè quello del provvedimento di rigetto!

assimilabile a quella del giudicato. Ciò tuttavia accade anche se le parti si accordano in via negoziale, o se in assenza di accordo la protrazione del comportamento di una di esse comporta il consolidarsi della situazione soggettiva per usucapione.

D’altra parte, a fronte di una situazione materiale di un certo tipo, anche il processo di merito e la sentenza nulla possono se la posizione soggettiva vantata dalla controparte si è già consolidata per l’operare proprio di meccanismi di consolidamento previsti dal diritto sostanziale.

13Diverso discorso è quello che ancora oggi interessa le cautele cd. “conservative”, per le quali la stringente sequenzialità con il giudizio dichiarativo giustifica, almeno secondo alcuni, la diversa opzione di rimettere al giudice del merito la pronuncia sulle spese. In verità neppure questa conclusione era, prima della modifica del 2009 all’art. 669 octies, del tutto pacifica, atteso che taluna dottrina riteneva applicabile lo stesso regime previsto per le cautele anticipatorie (così, ad esempio, Tiscini, I provvedimenti, cit., 140). Dopo la riforma del 2009, la soluzione sembra invece attagliarsi solo alle cautele anticipatorie rese ante causam, sicchè per quelle conservative resta in auge il criterio della liquidazione finale all’esito del giudizio di merito:

così Saletti, sub art. 669 octies, in Commentario alla riforma del codice di procedura civile, Torino, 2009, 226. Ciò non toglie, tuttavia, che la distinzione tra processo cautelare e processo di merito renda difficile adottare la massima generalmente accettata in giurisprudenza, (e nota come “principio di globalità”), che la pronuncia in expensis appartiene alla competenza esclusiva del giudice che “chiude il processo dinanzi a sé” e non può essere fatta oggetto di separato processo inaugurato da autonoma domanda. Più plausibile è invece immaginare che è solo la scelta di tecnica processuale che subordina la perdurante efficacia della cautela all’instaurazione e continuazione del giudizio di merito fino alla sentenza a dare ragione del fatto che sia la soccombenza finale in quest’ultimo a dettare la direzione anche della pronuncia sulle spese del procedimento cautelare.

La riprova è fornita da una duplice circostanza. La prima è quella della competenza a rendere la pronuncia sulle spese della medesima cautela anticipatoria se resa in corso di causa, che il tenore letterale del c. 7 dell’art. 669 octies autorizza a radicare nel giudice del merito e non quello della cautela. La seconda è quella della ricostruzione dell’ambito della anticipatorietà evocata dall’art. 669 octies, c. 6, ed in particolare se essa riguardi i soli provvedimenti ex art. 700 di tipo anticipatorio, o anche i sequestri atipici noti all’esperienza applicativa e per l’appunto resi ai sensi dell’art. 700 cpc. La risposta in quest’ultimo senso, a cui favore militano ragioni di funzionalità del meccanismo della strumentalità attenuata (e per la quale v. oggi Tiscini, Op.

loco ult. cit), ed il fatto che nessuna differenza intrinseca sia riscontrabile tra cautele anticipatorie a seconda che siano rese prima o in corso di causa, rendono ragione di una conclusione. E cioè che alla tutela cautelare ben può attagliarsi, ed in modo molto più plausibile, la opposta soluzione di rimettere al giudice cautelare la pronuncia in expensis di quello che è e resta ad ogni effetto un autonomo procedimento, il giudizio di merito non avendo mai (avuto) lo scopo di riesame/convalida della pronuncia cautelare, che restano rimessi esclusivamente a sedi cautelari ad hoc (reclamo ex art. 669 terdecies e modifica/revoca ex art. 669 decies).

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4.- Segue. Una variazione sul tema: l’esperibilità dell’opposizione ex art. 615 e la asserita prevalenza della cognizione “piena” su quella “sommaria”

Ma i motivi di biasimo indotti dalla sentenza non finiscono qui. Altrettanto indifendibile appare infatti l’asserto che la contestazione della sola quantificazione delle spese possa restare affidata all’opposizione al precetto o all’esecuzione, intrapresa dalla controparte in virtù del titolo esecutivo rappresentato dalla condanna in expensis.

Pur trattandosi di mera variazione sul tema della sovrapposizione tra tutela dichiarativa in prospettiva del giudicato e tutela cautelare, che è alla base della visione d’insieme della sentenza e dunque della soluzione del caso, essa merita un esame separato perché affronta da punti di vista e con l’uso di concetti parzialmente diversi i rapporti tra queste due forme di tutela.

Sostiene la Corte: “considerato che il provvedimento è emesso a seguito di cognizione sommaria, nonché che è espressamente definito titolo esecutivo, si deve ritenere che il mezzo di tutela sia quello esperibile contro ogni titolo esecutivo, cioè l’opposizione al precetto intimato sulla base del provvedimento o all’esecuzione iniziata in base ad esso, ma con la particolarità che, inerendo tale mezzo di tutela alla cognizione piena e, quindi, alla tutela dei diritti in funzione del giudicato, il provvedimento (…) risulta ridiscutibile, come se fosse un titolo esecutivo stragiudiziale e ciò perché si è formato sulla base di una cognizione sommaria senza che sia stato ridiscusso nell’ambito dell’ordinaria cognizione”.

Ebbene, qui emerge una visione della prevalenza automatica e direi fisiologica della cognizione piena su quella sommaria, quest’ultima destinata ad essere fagocitata dalla prima: poiché il capo in expensis non si aggancia ad una cognizione “piena”, il provvedimento che lo reca è da considerare alla stregua di titolo stragiudiziale; il che da un lato degrada la cognizione sommaria ad …assenza di cognizione; e dall’altro legittima la riespansione di quella pienezza della cognizione (sul diritto), che prima è mancata, nella fase successiva dell’opposizione all’esecuzione.

Torna dunque a palesarsi la originaria fallacia, stavolta non sotto le spoglie della inidoneità al giudicato della cautela, che ne giustifica in ogni momento il riesame nel giudizio di merito, ma della prevalenza della cognizione “piena” su quella “sommaria” 14.

14Anche a voler prescindere dal fatto che quello di “sommarietà” è concetto dai contorni frastagliati, occorre rilevare che, a quadro normativo vigente, l’ambito dei motivi spendibili in sede di opposizione all’esecuzione non è certo determinato dall’essere la cognizione sommaria piuttosto che “ordinaria”, ma dall’applicabilità o meno della regola dell’art. 161, cioè dall’essere il titolo giudiziale piuttosto che stragiudiziale. Ed in effetti, l’unico caso conosciuto all’ordinamento in cui l’applicabilità di questa regola ad un titolo giudiziale risultava mitigata era quello previsto dall’olim vigente art. 19 del D. Lgs.

n. 5/2003 che prevedeva un’ordinanza resa a cognizione sommaria ma non idonea al giudicato sostanziale se non appellata.

Qui invero l’inidoneità a formare giudicato sostanziale da un lato; e la possibilità di appello in via esclusiva dall’altra;

altera(va)no i tradizionali rapporti esistenti, per i titoli giudiziali, tra motivi di gravame e motivi di opposizione all’esecuzione (v. amplius Tiscini, I provvedimenti, cit., 150 ss). In particolare, non essendo più necessariamente prevista una sede ad hoc per ottenere l’accertamento negativo del diritto cautelato; ed essendo comunque il provvedimento privo di stabilità; qualsiasi sua ragione di ingiustizia, compresa quella derivante dall’inesistenza della posizione soggettiva cautelata, può essere fatta valere in qualunque sede, compresa quella dell’art. 615 cpc.

I due rimedi si pongono infatti, per scelta dell’art. 19 cit. che opta per una operatività limitata del principio di conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione (art. 161, comma 1), in posizione di sequenzialità: finchè sono pendenti i termini per l’appello, tutti i vizi e le ragioni di ingiustizia del provvedimento-titolo esecutivo sono ivi denunciabili; scaduti i termini, l’ingiustizia (non l’invalidità) resta ancora sine die denunciabile in ogni sede, compresa quella dell’opposizione all’esecuzione, appunto.

La confluenza dei profili di ingiustizia del dictum da eseguire nell’alveo del giudizio di opposizione all’esecuzione appare dunque conclusione sostenibile nel contesto dei provvedimenti condannatori assisiti dall’esecuzione forzata del Libro III del cpc (id est qualificati titoli esecutivi) se una scelta del legislatore ordinario, come quella consacrata nell’art. 19 cit., ridisegna i confini tra motivi spendibili solo nelle sedi impugnatorie (ingiustizia/invalidità del provvedimento) e motivi spendibili in sede di opposizione all’esecuzione. Lo stesso schema concettuale non si attaglia invece, come si è chiarito nel testo, alle

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L’argomento della prevalenza/subordinazione tra cognizione piena e sommaria, così come quella tra cautela inidonea al giudicato e giudizio dichiarativo sul diritto che invece tale giudicato produce, nei termini in cui è utilizzato dalla Corte, non appare tuttavia in alcun modo sostenibile.

Se infatti la tutela cautelare, in quanto volta a scongiurare il periculum, ha ad oggetto il solo fumus (oltre che lo stesso periculum), mentre quella ordinaria verte invece sul bonum ius, è abbastanza evidente che anche la cognizione debba esibire una diversa intensità, esercitandosi su diversi oggetti ma restando, rispetto a ciascuno di essi, sempre “piena” perché ne comprende ogni profilo.

“Sommarietà” e “pienezza” si mostrano dunque, se correttamente intese nel nostro contesto, anch’esse quale semplice risvolto della diversità di oggetto e di ambito di operatività delle tutele ordinaria e cautelare, sicchè nessuna subordinazione può istituirsi tra l’una e l’altra.

Vero è che la Cassazione continua inspiegabilmente a misconoscere la natura giudiziale della cautela (significativa l’equazione: cognizione sommaria= assenza di cognizione=stragiudizialità del titolo esecutivo) e la piena applicabilità della regola della conversione dei vizi in motivi di impugnazione da un lato; e la assoluta estraneità del giudizio dichiarativo al novero delle sedi deputate al riesame dell’ingiustizia/invalidità del provvedimento che reca il capo in expensis azionato in sede esecutiva, dall’altro. E, di conseguenza, misconosce anche il dato fondamentale che non potrebbe efficacemente allegarsi l’inesistenza del diritto cautelato quale ragione idonea a sospendere o addirittura porre nel nulla l’esecuzione forzata del capo di condanna alle spese ai sensi dell’art. 615 cpc. Tale allegazione è infatti del tutto irrilevante in quella sede, così come lo sarebbe stata in sede di cognizione dell’istanza cautelare.

Il capo in expensis è infatti ancorato, giova ripeterlo, ad una pronuncia, quella resa in sede cautelare, la cui stabilità non è più suscettibile di essere intaccata in sede impugnatoria e dunque neppure in sede di opposizione all’esecuzione, a meno che non si alleghi la sopravvenuta revoca/modifica/inefficacia (solo se dichiarata) intervenuta nelle sedi ad hoc, potendosi solo in base a tali nova anche chiedere la sospensione ex artt. 615 e 624 cpc.

5.- Conclusioni: la Cassazione contraddice il legislatore del 2005 e favorisce il moltiplicarsi del contenzioso

Tirando le fila del discorso, occorre dunque ribadire la linea di netta demarcazione tra tutela dichiarativa e tutela cautelare che, se espressa da un provvedimento reso in sede di reclamo o non impugnato, appare dotata di una forza di resistenza (“autorità”) capace di infrangersi solo ai sensi dell’art. 669 decies o se ne sopravvenga l’inefficacia dichiarata ex art. 669 novies. Specularmente, anche il provvedimento negativo confermato in sede di reclamo chiude la vicenda cautelare, che si apre ex novo solo nei casi previsti dall’art. 669 septies.

Ne consegue che il capo sulle spese, se relativo ad un provvedimento reso in sede di reclamo e perciò inimpugnabile, non può più essere contestato in base alla semplice allegazione che i capi principali sono inidonei al giudicato, perché essi sono comunque intangibili nei termini ampiamente riferiti,

misure cautelari anticipatorie per le quali l’art. 669 octies, c. 6, rende il giudizio di merito solo facoltativo e non condizionante la perdurante efficacia della cautela stessa. Il giudizio di merito risponde infatti, a differenza che nel caso dell’art. 19 cit. ove si è in presenza di un’unica litispendenza, ad un diverso interesse ad agire e punta ad un diverso risultato, e vi è estranea ogni funzione di convalida/riesame della cautela stessa, riservate alla sede del reclamo e, in caso di sopravvenienze, a quelle della riproposizione ex art. 669 septies e della modifica/revoca ex art. 669 decies.

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indipendentemente da questo profilo (e sempre che non si alleghi il provvedimento dichiarativo dell’inesistenza del diritto cautelato o altra sopravvenuta causa di inefficacia).

Tale capo può però essere ancora contestato per ragioni sue proprie (che cioè non trovino causa nella contestazione del “merito” cautelare, non più consentita) sia nell’an che nel quantum perché si tratta di pronuncia suscettibile di incidere su diritti e non altrimenti riesaminabile, risultato che l’ordinamento, allo stato, non tollera.

Mezzo al fine torna perciò ad essere, dopo la recente modifica dell’art. 669 septies, quello di chiusura dell’art. 111, c. 7 Cost., in assenza del quale il capo in expensis si consolida (sicchè, se anche sia iniziato il giudizio di merito la pronuncia resta comunque intangibile). La stessa soluzione deve privilegiarsi, ed a maggior ragione, per i provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata resi ante causam ed a cui corredo l’art. 669 octies, c. 7 impone oggi la pronuncia sulle spese. Se si ritiene, come a me pare e secondo comune esegesi, che ratio di quest’ultima previsione, figlia dell’art. 669 septies, sia quella di evitare appendici di merito per il solo regolamento delle spese cautelari, occorre immaginare che anche il relativo riesame ne resti indipendente, altrimenti ritornando lo spettro di quel giudizio di merito che l’impianto generale della riforma del 2005 ha inteso allontanare quando possibile.

Al contrario, la soluzione della Cassazione finisce col cancellare quell’impianto, ponendo su ogni domanda di cautela, persino se respinta, la pesante ipoteca di un giudizio di merito per la parte che, pur disposta a rinunciare al giudicato, non sia soddisfatta del regolamento delle spese cautelari e non si rassegni a sopportarne l’onere a scatola chiusa! Con l’inaccettabile risultato di moltiplicare un contenzioso che, in ultima analisi, finirebbe, sia pure con anni di ritardo, per approdare comunque davanti alla Corte. Con buona pace, oltre che della deflazione del suo carico di lavoro, anche di quella ragionevole durata del processo che tanta parte riveste, quale via aurea dell’interpretazione delle norme processuali, nella giurisprudenza di legittimità di questi ultimi anni.

Perché, in effetti, il vero nodo è proprio questo, l’apertura al ricorso straordinario facendo incombere su una Corte già sovraccarica una fetta non indifferente di contenzioso, la strenua difesa dal quale è probabilmente l’unica vera ratio di questa sentenza, ed anch’essa costante preoccupazione del patrio legislatore.

Il correttivo a questa intima contraddizione non può però certo essere quello oggi imposto dalla Corte, ma deve imboccare la terza via di uno strumento impugnatorio ad hoc, diverso dal ricorso straordinario, secondo la logica della originaria previsione dell’art. 669 septies. La parola deve dunque tornare al legislatore, anche se l’auspicio maggiore resta, nell’attesa, l’abiura da parte della Corte di una soluzione che, ignorando il quadro normativo vigente, allontana irrimediabilmente il sistema da ogni parametro accettabile di effettività della tutela giurisdizionale.

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