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Academic year: 2021

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Capitolo 2

Gli enti locali in Toscana prima della riforma costituzionale.

Il presente capitolo ha la funzione di fornire una sommaria panoramica della disciplina regionale nei confronti degli enti locali. Nel primo paragrafo verrà illustrato il rapporto Regione-enti locali nella normativa statutaria del 1970, mentre nel secondo si parlerà del Consiglio delle Autonomie Locali, istituito in Toscana ben prima che ciò divenisse un obbligo costituzionale.

a) Lo Statuto della Regione Toscana del 1970: gli enti locali.

Lo Statuto regionale vigente dal 1970 al 2005 era caratterizzato da un’attenzione particolare al tema del decentramento, in armonia con gli auspici della classe dirigente nazionale, che temeva fenomeni di accentramento regionale. Già nel primo articolo leggiamo che la Regione «si colloca nell’ordinamento costituzionale della Repubblica italiana come strumento di decentramento del potere, di rafforzamento della democrazia e di promozione delle autonomie locali». Gli articoli 3 e 4, intitolati rispettivamente Principi Generali e Finalità principali (come nel testo attualmente in vigore), sottolineano la volontà di sostenere l’associazionismo e le comunità locali ove si svolge la «vita sociale» delle persone.

La formulazione dell’articolo 118 della Costituzione ha dato molti grattacapi agli interpreti, nella parte in cui parla di attribuzioni «alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali». La presenza di altri enti locali oltre a Province e a Comuni è prevista anche in varie parti dello Statuto: la dottrina ha dibattuto per anni sull’esatta interpretazione di questa previsione. La discussione verteva infatti sulla possibilità che per «altri enti locali» si intendessero solo le aggregazioni di comuni (come le Comunità montane), oppure nella definizione fossero compresi anche altri enti, come ad esempio le Camere di commercio. Dai lavori preparatori dello Statuto si ricavano indicazioni contrastanti: gran parte dei rappresentati

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premevano per l’inserimento nel testo di Province e Comuni, senza ulteriori riferimenti. La soluzione finale è stata invece di ricalcare il dettato costituzionale, comprendendo quindi la definizione di «altri enti locali»; il fatto che coloro che hanno spinto per questa soluzione siano gli stessi che intendevano questa locuzione nel senso più ampio possibile, contribuisce ad ingarbugliare la matassa. L’interpretazione dottrinale prevalente è comunque quella di tipo “restrittivo”. In un commento a queste norme1, Sorace spiega che gli unici enti che possono legittimamente rientrare in questa categoria «non possono essere enti pubblici semplicemente caratterizzati da un limitato ambito territoriale di attività. Si deve piuttosto dire che devono avere un rapporto con la comunità territoriale dello stesso tipo di quello che hanno i Comuni e le Province, ovvero debbono essere in un particolare rapporto con questi ultimi». In questo senso, sono classificabili come rientranti nella definizione in questione enti come le Comunità montane, i consorzi di bonifica e in generale le associazioni di Comuni. Non rientrano nella categoria in esame enti che non hanno un rapporto di rappresentatività “generalizzata” della popolazione, ossia che si occupano solamente di particolari categorie.2

Il titolo VI dello Statuto è dedicato agli enti locali: qui non si definisce solo il rapporto con la Regione in sede di organizzazione e svolgimento delle funzioni regionali, ma si vuole definire «l’atteggiamento che la Regione si propone di tenere nei confronti delle autonomie minori in generale».3 Infatti gli enti locali non sono visti solo come strumenti dell’attività regionale (come in effetti previsto dalle norme costituzionali allora vigenti) ma sono legittimati a sollecitare l’attività degli organi regionali, compartecipando a diversi procedimenti legislativi. Come vedremo però le forme di partecipazione previste non garantivano formalmente una reale e fattiva collaborazione comportando una cooperazione piuttosto saltuaria, dipendente spesso dalla realtà contingente.

1 D. Sorace in E. Cheli – U. De Siervo – G. Stancanelli – D. Sorace – P. Caretti (a cura di ), Commento

allo Statuto della Regione Toscana, Giuffrè editore, Milano, 1972, pagina 327.

2 Nemmeno dai lavori preparatori della Costituzione si capisce cosa si intenda esattamente con «altri enti

locali». Tuttavia possiamo vedere come con la formula «enti locali» si intendessero Comuni e Province o

comunque enti rappresentativi dell’intera popolazione.

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Il primo articolo di questo titolo è una norma di principio, che riprende l’articolo 5 della Costituzione e lo “esplicita”, in modo da sottolineare l’importanza del decentramento: «La Regione adegua i principî e i metodi della propria attività alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Favorisce il potenziamento effettivo dell’autonomia dei Comuni e delle Province e la loro aggregazione in strutture comprensoriali». La seconda parte della norma, laddove usa il termine «potenziamento effettivo», sembra avere un intento polemico verso lo Stato centrale, storicamente molto diffidente rispetto al rafforzamento delle autonomie locali. La Costituente aveva affidato allo Stato il ruolo di garante di dette autonomie, ma la sua difficoltà nel garantirle “realmente” sembra voler invogliare le Regioni (e qui la Toscana) a diventare “paladine” dell’autonomia territoriale.

Un importante norma riguardante l’attività degli enti locali la troviamo nell’articolo 57, dedicato all’organizzazione delle funzioni regionali: oltre a ribadire l’importanza di Comuni e Province come «soggetti fondamentali dell’organizzazione amministrativa locale»,4 la disposizione si presta a fare da chiave di lettura a tutta la materia della distribuzione delle funzioni amministrative. Il secondo comma dice infatti che la Regione «esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole ai Comuni, alle Province o ad altri enti locali inclusi quelli di cui all’articolo 685 dello Statuto, o valendosi dei loro uffici». L’avverbio normalmente si pone subito al centro dell’attenzione della dottrina, che ha cercato di stabilirne l’esatta portata. Dobbiamo innanzitutto dire che alcune funzioni non sono per loro natura delegabili: il controllo, ad esempio, non può essere certo delegato ai controllati. All’infuori di casi come questo, dobbiamo fare attenzione alla reale possibilità di Comuni e Province di svolgere determinate funzioni, in quanto una eccessiva eterogeneità nelle funzioni delegate porterebbe al collasso questi enti. In effetti dobbiamo notare come l’elevata differenziazione tra enti anche dello stesso

4 In funzione anche delle disposizioni della Costituzione, che per loro prevedeva (anche) la funzione di

«circoscrizioni di decentramento statale e regionale» (articolo 129).

5 Quegli enti attraverso i quali i Comuni e/o le Province svolgono in maniera associata alcune funzioni:

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livello gerarchico6 renda indesiderabile una delega di funzioni che non tenga conto delle diversità territoriali, geografiche, demografiche, economiche. Lo Statuto in questione non contiene limiti alla scelta regionale riguardo gli enti a cui delegare: nel commento di Sorace7 si sottolinea come delegare a favore di tutti gli enti di egual livello istituzionale non sarebbe un’applicazione del principio di uguaglianza, ma ne sarebbe paradossalmente una violazione: trattando nel medesimo modo situazioni completamente diverse si arriverebbe a paralizzare l’attività di alcuni con compiti troppo gravosi per le loro caratteristiche (mentre altri potrebbero svolgere tranquillamente le medesime funzioni). L’idea dell’autore è che le deleghe vengano riferite a «pluralità omogenee di enti», con la possibilità che vi siano ricompresi enti di «diverso livello istituzionale».

Gli articoli 64, 65 e 66 si occupano della delega delle funzioni amministrative regionali agli enti locali. Seguendo il già sottolineato orientamento collaborativo e non impositivo, l’articolo 64 stabilisce l’obbligo della partecipazioni degli enti delegati alla formazione della legge. Questo obbligo di consultazione è relativo al «contenuto della delega, alle modalità del suo esercizio, agli aspetti organizzativi e finanziari»: difatti la stessa legge dovrà prevedere la fornitura ai delegati dei mezzi necessari all’adempimento dei compiti attribuiti. É prevista la possibilità che anche personale regionale, previo consenso, vada a prestare e propri servizi negli enti locali delegati: in questo caso, gli oneri relativi resteranno a carico della Regione. L’articolo 65 si occupa delle direttive riguardo alle funzioni delegate: esse dovranno essere specificate nella legge-delega, fatta salva la possibilità del Consiglio di impartirne successivamente altre. In questo senso, l’articolo sembra voler lasciare all’assemblea regionale la possibilità di impartire direttive anche in altre forme rispetto a quella della legge. Nel commento, Sorace distingue qualitativamente le direttive rispetto al loro contenuto, sostenendo che sarà questo che influenzerà la forma dell’atto. Le direttive assolutamente vincolanti per il ricevente, perché «attraverso la delega

6 In questo contesto, è possibile parlare di “livello gerarchico”. Non è completamente corretto farlo

rispetto all’ordinamento post-riforma.

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la funzione sia esercitata in modo da corrispondere all’indirizzo politico che ispira l’attività della regione», saranno emanate con legge; le direttive minori invece, potranno essere emanate grazie ad una semplice deliberazione. L’articolo 66 si occupa della possibilità che le funzioni delegate non vengano esercitate secondo le direttive regionali (la formula utilizzata è «gravi e reiterate violazioni»). In questo caso, la Regione ha la possibilità di revocare la delega tramite legge, dopo aver sentito gli enti delegati. Nel caso in cui un ente non proceda a compiere atti singoli nell’ambito delle funzioni conferite «la Giunta, sentita la commissione consiliare competente, può sostituirsi ad esso».

Queste norme non risolvono tutte le questioni sulla delega di funzioni agli enti locali: e questo perché la scelta che si è fatta è stata quella di “irrigidire” il meno possibile lo Statuto. L’uso di una “normativa di rinvio”, in molti casi, può dare molti vantaggi, specialmente in un campo che ha sicuramente molte difficoltà applicative e dove è comune la comparsa di problematiche difficilmente individuabili aprioristicamente.

L’articolo 67 prevede la stipulazione di accordi tra la Regione e gli enti locali per quanto riguarda la possibilità regionale di utilizzare gli uffici degli enti locali per svolgere le proprie funzioni.8 Innanzitutto dobbiamo cercare di capire le differenze applicative di questo istituto rispetto a quello della delega. Possiamo dire che in questo caso si viene a creare un rapporto direttamente tra Regione ed uffici dell’ente locale. In effetti in questo caso la Regione è legittimata ad utilizzare l’apparato tecnico e burocratico dell’ente locale, senza che gli organi politici possano intervenire, mentre la delega crea un rapporto con tutto l’ente locale, quindi anche con i suoi rappresentanti politici. In situazioni di questo tipo, l’apparato burocratico locale viene ad essere dipendente funzionalmente per alcuni aspetti dagli organi politici regionali, per altri continua ad esserlo rispetto agli organi locali. È proprio questa situazione conflittuale che rende gli accordi di cui all’articolo 67 una necessità più che una forma di “cortesia istituzionale”. Possiamo da ultimo osservare come eventuali potenziamenti degli uffici locali,

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resi necessari da questa forma di esercizio delle funzioni, devono ricadere finanziariamente sulla Regione (la quale è il vero fruitore del potenziamento). I casi in cui lo Statuto regionale del 1970 prevedeva un coinvolgimento degli enti locali non si fermano qui. L’articolo 48 contiene un rinvio alla legge regionale perché questa determini organi, procedure e strumenti della programmazione economica regionale. Lo stesso primo comma dell’articolo in questione ricorda come tale legge dovrà conformarsi ai «criteri della partecipazione di cui all’articolo 5»: tale articolo prevede che «la Regione, allo scopo di garantire il carattere democratico della programmazione nazionale e regionale in tutte le sue fasi assicura la partecipazione degli enti locali e l’autonomo apporto delle organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della cooperazione e delle organizzazioni di categoria».

Nell’ambito del rapporto che lo Statuto in questione vuole instaurare tra Regione ed enti locali, è di fondamentale importanza l’articolo 73: «La Regione consulta i Comuni, le Province e gli enti comprensoriali sulle principali questioni di rilievo generale e sui problemi di loro specifico interesse.

La Regione consulta periodicamente i Comuni, le Province, gli enti comprensoriali e gli enti locali delegati a norma dell’articolo 57 sui problemi che attengono alla attività della Regione.

I Comuni e le Province possono rivolgere interrogazioni al Consiglio regionale. L’Ufficio di presidenza provvede alla risposta entro i termini previsti dal Regolamento, acquisiti i pareri della Giunta e della competente commissione consiliare». Questa norma è stata oggetto di un acceso dibattito in sede di stesura: possiamo vedere dai lavori preparatori come le modalità di partecipazione degli enti locali all’attività regionale abbia dato luogo ad un confronto molto serrato. Da una parte (principalmente Partito Comunista e Partito Socialista) si voleva rafforzare la partecipazione in modo che non risultasse una mera (e vuota) dichiarazione d’intenti; dall’altra (Democrazia Cristiana) si temeva un “esproprio” di potere che potesse ledere l’autonomia del Consiglio regionale. La prima versione del secondo comma prevedeva una «conferenza annuale» dove rappresentanti locali e regionali si sarebbero

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incontrati per discutere della attività generale della Regione. Rinforzando in questo modo l’istituto della consultazione, i proponenti (i partiti di sinistra) compivano una scelta metodologica che rendeva gli enti locali partecipi dell’indirizzo dell’attività regionale. Gli oppositori a questa linea pensavano invece che una sorta di «superconsiglio» rappresentasse una potenziale lesione dell’autonomia consiliare. In effetti, la formulazione di questo articolo risente molto di questo scontro. È infatti sempre presente il principio di consultazione degli enti locali sulle linee generali dell’attività regionale, ma è scomparsa l’obbligatorietà della consultazione annuale, sostituita da una generica «consultazione periodica».

In questo modo manca anche il principale elemento di differenziazione tra i primi due commi: laddove il primo prevede una consultazione occasionale su problematiche sia generali che di specifico interesse locale, mentre il secondo la prevede periodicamente sulle linee generali dell’attività regionale.

Le norme in esame non sembrano voler configurare dei procedimenti di legge “rinforzati” dall’intervento locale, anche solo a causa della genericità riguardante il procedimento di consultazione. Solo in riferimento alla previsione del primo comma riguardante i «problemi di loro specifico interesse» è possibile pensare ad un obbligo di consultazione (anche in riferimento alle previsioni dell’articolo, vedi supra).

Il terzo comma prevede la possibilità, da parte degli enti locali, di richiedere al Consiglio regionale chiarimenti o notizie sul suo operato, o di sollecitarne l’attività. Anche in questo modo si cerca di favorire l’instaurazione di rapporti più stretti tra la Regione e gli enti locali. A garanzia dei richiedenti sta l’obbligo di risposta: questa responsabilizza sia Consiglio che Giunta, avendone recepito i pareri.

L’articolo 130 della Costituzione (ora abrogato) prevedeva che «Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge9 della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali.

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In casi determinati dalla legge può essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione». L’articolo 70 dello Statuto riprendeva questa norma, specificando solamente l’istituzione di sedi decentrate dell’organo di controllo nei capoluoghi di Provincia e rimandando ad una legge regionale l’organizzazione delle modalità di controllo e del rapporto con Consiglio e Giunta. I controlli di competenza del cosiddetto Comitato Regionale di Controllo (Co.Re.Co.), come già detto nel capitolo 1, sono gradualmente diminuiti col passare del tempo.

Da ultimo parliamo dell’articolo 75 del vecchio Statuto, che si occupava dell’iniziativa legislativa popolare. Esso ci interessa perché attribuiva la possibilità di proposta a «tre Consigli comunali, a ciascun Consiglio provinciale, a ciascun Consiglio di valle o Comunità montana e a ciascuno degli enti di cui all’articolo 6810». L’allargamento a questi enti della possibilità di proporre testi normativi all’attenzione degli organi regionali risponde pienamente a quella idea di “partecipazione” che permea tutto lo Statuto. Altre normative regionali includevano in analoghi elenchi le organizzazioni sindacali: il rischio di iniziative eccessivamente settoriali e le problematiche di rappresentatività devono aver giocato a favore della loro esclusione. Interessante è anche l’estensione del potere di iniziativa: infatti le proposte possono riguardare non solo le leggi, ma anche i regolamenti e gli atti amministrativi, con i limiti stabiliti dalla legge regionale.

b) Il Consiglio delle Autonomie Locali in Toscana.

L’esigenza di un maggiore coordinamento tra gli enti locali e le Regioni era molto sentita negli ambienti istituzionali: dopo anni di discussioni, nel quadro del rafforzamento delle autonomie locali, la legge n. 142/90 aveva previsto che ogni Regione definisse (articolo 3, comma 6) «forme e modi della partecipazione

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degli enti locali alla formazione dei piani e programmi regionali e degli altri provvedimenti della Regione»11. In molte Regioni la risposta a questa richiesta è stata la costituzione di istituzioni modellate sulla Conferenza Stato-Regioni: ossia si sono create strutture di raccordo tra la Giunta e gli enti locali, composte sia da assessori regionali che da rappresentanti del territorio. In questo modo l’autonomia di questi organi era abbastanza scarsa, essendo inoltre presieduti dal Presidente della Regione: il rapporto con gli enti locali veniva ad essere incentrato sulla Giunta, emarginando di fatto i Consigli. In altre Regioni si è optato per soluzioni leggermente diverse, limitando la composizione delle conferenze ai soli rappresentanti delle autonomie locali, a volte integrati da quelli delle autonomie funzionali. Abbastanza originale è stata la soluzione toscana, che con la legge regionale n. 22/9812 ha istituito, presso il Consiglio regionale, un Consiglio delle autonomie locali (C.A.L.), composto di soli rappresentanti degli enti locali territoriali13. La particolarità della normativa toscana risiede nell’importanza che tale organo riveste nell’iter legislativo, distinguendosi nettamente dal ruolo meramente consultivo degli omologhi delle altre Regioni: la legge regionale n. 22/98 prevede infatti che a fronte di un parere negativo del C.A.L., l’atto “bocciato” possa essere approvato dal Consiglio Regionale senza modifiche solo con il voto favorevole della maggioranza dei consiglieri; ossia con maggioranza assoluta. Questa importante previsione è rimasta tuttavia inattuata, in attesa di una modifica dello Statuto che la legittimasse: come vedremo nei capitoli successivi, questa variazione non è stata mai introdotta, rendendo così una disciplina potenzialmente molto innovativa solo un’occasione mancata.

Per la verità il riconoscimento statutario di questa previsione era presente nel progetto di revisione statutaria presentato dalla Regione Toscana al Parlamento nel 1997, mai discusso ed entrato in vigore per la sopravvenuta modifica della

11 La tendenza all’interazione dei livelli di governo era comunque già in atto da anni, specialmente nel

campo degli atti di programmazione e pianificazione territoriale.

12 L’attuale disciplina del C.A.L. è data dalla legge regionale n. 36/2000, di cui ci si occuperà

maggiormente nel capitolo 4.

13 Anche la Regione Umbria istituì una struttura simile, ma le sue pronunce erano rivolte alla Giunta, non

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normativa costituzionale in materia. L’articolo 66 ultimo comma prevedeva che «nel caso di parere contrario sulle leggi attinenti alla determinazione o modifica del riparto delle competenze tra Regione ed enti locali, ovvero tra enti locali, il Consiglio regionale può procedere alla relativa approvazione con la maggioranza dei consiglieri assegnati alla Regione»14.

Nella disciplina del 1998, i rappresentanti delle autonomie locali provenivano (anche) dai Consigli comunali e provinciali, mentre la disciplina attuale (data dalla legge regionale n. 36/2000) prevede una rappresentanza di tipo istituzionale nella figura dei sindaci; anche i Consigli sono comunque presenti con i propri presidenti. L’attuale composizione del Consiglio delle autonomie locali è riportata al comma 1 del primo articolo della suddetta legge: i presidenti delle Province, 2 presidenti dei Consigli provinciali, i sindaci dei Comuni capoluogo di provincia, 23 sindaci di Comuni non capoluogo, 2 presidenti di Consigli comunali e 3 presidenti di Comunità montane. La durata in carica dei consiglieri era, nel ’98, collegata alla durata del Consiglio regionale; con la normativa del 2000 si prevede invece il rinnovo dei componenti (quelli elettivi, ovviamente) «entro 80 giorni dalle elezioni per il rinnovo delle cariche amministrative concernenti più della metà dell’insieme dei Comuni e delle Province della Regione». Questa previsione, di cui all’articolo 9 comma 2, sottolinea il tipo di rappresentanza proprio del C.A.L., che è quello del livello locale: naturale quindi che il rinnovo dei rappresentanti avvenga in sintonia con quello degli organi da rappresentare. Il C.A.L., a norma dell’articolo 14, esprime obbligatoriamente il proprio parere sugli atti all’esame del Consiglio Regionale che riguardano: la determinazione o la modifica delle competenze degli enti locali; il riparto delle competenze tra Regione ed enti locali; l’istituzione di agenzie ed enti regionali; il bilancio regionale; la programmazione. Questo organo può inoltre esprimere pareri e osservazioni su qualsiasi materia all’esame del Consiglio Regionale. Al Consiglio delle autonomie locali sono assicurati i mezzi e le risorse per la propria attività; una volta all’anno è prevista una riunione del C.A.L. e del Consiglio

14 Questo interessante documento è disponibile sul sito internet del Consiglio regionale toscano,

all’indirizzo http://www.consiglio.regione.toscana.it/istituzione/lavori-preparatori-statuto/default.asp, assieme ad altri documenti riguardanti i lavori preparatori dello Statuto attualmente in vigore.

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Regionale per la valutazione dello stato del sistema delle autonomie (articoli 16 e 15).

L’articolo 14 della legge n. 36/2000 contiene, come la normativa del ’98, l’aggravamento dell’iter legislativo per quegli atti che il Consiglio regionale vuole approvare disattendendo i pareri obbligatori del C.A.L.: ossia l’obbligo di approvare queste normative a maggioranza assoluta per vederle promosse. Come già detto, questa norma è rimasta solo su carta.

Nei primi cinque anni di vita, il Consiglio delle autonomie locali ha ottenuto un tasso di accoglimento dei propri rilievi pari circa il 50%: ciò vuol dire che il Consiglio regionale, nonostante non ci fossero strumenti normativi che gli imponessero di tenere realmente conto di quei pareri, nella metà dei casi ha modificato gli atti che stava discutendo seguendo le indicazioni del C.A.L.15

15 Fonte: Bilancio di legislatura. L’attività del Consiglio delle autonomie locali dalla sua istituzione al

termine della VI legislatura regionale, pubblicazione a cura del servizio di supporto del C.A.L. della

Toscana, Firenze, 2000. Tale documento è citato nell’articolo di A. Chellini, Il Consiglio delle autonomie

locali nel dibattito nazionale e nell’esperienza della Regione Toscana, in Le Regioni, n. 3, Bologna,

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